l`approccio naturalistico alla psichiatria

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l`approccio naturalistico alla psichiatria
Erica Citterio 5^Cs
• L’approccio naturalistico alla
psichiatria.
• Psicoanalisi: scienza naturale o
ermeneutica?
• La mente e il corpo.
L’APPROCCIO NATURALISTICO
ALLA PSICHIATRIA
La psichiatria rappresenta l’unica che si è dovuta
rapportare con un vero e proprio movimento di
protesta. Questo movimento è noto con il nome di
antipsichiatria; i critici che ve ne fanno parte
sostengono che le malattie mentali non sono malattie
nel senso ordinario del termine, e che la psichiatria si
sia rivelata un ottimo mezzo per la soppressione di
persone ritenute scomode e le cui idee andassero a
costituire una minaccia all’ordine sociale (i dissidenti
venivano chiamati “malati” ed erano resi innocui
tramite l’uso di farmaci e di terapie elettroconvulsive).
Alcuni membri di questo movimento sono Laing e
Szasz.
Le posizioni di Szasz e Laing.
•
•
Szasz ritiene priva di valore e fuorviante la definizione di psichiatria come
“specializzazione medica che si occupa dello studio, della diagnosi e del
trattamento di malattie mentali”; inoltre secondo lui gli psichiatri non hanno a
che fare con vere e proprie malattie, bensì con “difficoltà di carattere
personale,sociale ed etico”.
Secondo Laing, invece, la schizofrenia non è una “condizione”, bensì “una
etichetta che costituisce un fatto sociale” e l’individuo etichettato come
schizofrenico “è privato dei pieni diritti umani e civili, non è più padrone delle
sue azioni e non ne ha la responsabilità […]”.
Il movimento antipsichiatrico ha trovato molti sostenitori fra
gli psicologi, i sociologi e gli scrittori, mentre molti psichiatri
hanno giudicato tali critiche troppo radicali e grezze.
In ogni caso il dibattito ha avuto un effetto benefico, in quanto
gli psichiatri sono stati obbligati a riflettere sulle basi
filosofiche della loro disciplina.
Hanno dovuto affrontare due livelli del discorso filosofico che
per definizione sono difficilmente discriminabili:
• la questione epistemologica;
• la questione ontologica.
Questione epistemologica: come si riconosce la malattia
mentale?
Secondo Boorse, la malattia rappresenta una deviazione dal
progetto della specie: si dice che una persona è malata
quando le funzioni del suo corpo sono al di sotto dei livelli
tipici della specie.
Alf Ross, filosofo danese del diritto, è arrivato alle stesse
conclusioni di Boorse per quanto riguarda le malattie
somatiche, ed ha tentato di estendere il discorso in modo
analogo anche alle malattie mentali.
La malattia mentale è una condizione che interferisce con la
comunicazione.
Ross presuppone un livello tipico della specie riguardante
l’abilità umana di comunicare con gli altri, e considera
“mentalmente malata” una persona nella quale codesta
abilità risulta essere al di sotto del livello tipico della specie.
Egli distingue due generi di disturbi della comunicazione:
• disturbi cognitivi, quali allucinazioni o fissazioni;
• disturbi emotivo-conativi, quali ansia, depressione o
impulsività.
Le persone portatrici di questi disturbi sono malate
mentalmente in quanto la loro incapacità di comunicare le
porta all’isolamento e all’alienazione; in casi gravi esse
possono anche soccombere se non ricevono l’aiuto
necessario.
Tuttavia, molti psichiatri dissentirebbero da Ross quando
afferma di aver stabilito un criterio oggettivo per la distinzione
tra malattia mentale e salute mentale: il fatto che il criterio di
Ross possa essere usato in pratica rimane dubbio. Sembra
improbabile che si riesca ad ottenere un sufficiente consenso
tra gli psichiatri sulla presenza e sull’assenza di un’abilità a
comunicare nei singoli casi presi; si può addirittura arrivare a
dire che la stessa idea di un’abilità specifica di comunicare
con gli altri è un’illusione.
La normalità delle funzioni biologiche dipende anche dalle
norme personali e culturali, e il comportamento normale
differisce da cultura a cultura.
Alcuni psichiatri si dicono convenzionalisti, ovvero
sostengono che la distinzione tra malattia mentale e salute
mentale dipenda dalle convenzioni che caratterizzano una
certa cultura.
Esempio: l’omosessualità, vista ora come una variante sessuale, una volta era
considerata una malattia mentale.
Altri, come Ross, non ritengono che la pratica psichiatrica
rifletta l’aspetto culturale della società e sostengono che in
teoria non c’è alcuna differenza tra una diagnosi di malattia
mentale e una diagnosi di malattia somatica.
Emil Kraepelin, uno dei fondatori della psichiatria
contemporanea, affermava che le malattie mentali sono
caratterizzate da una causa specifica, una particolare
patologia cerebrale, un particolare quadro clinico e una
specifica terapia; tuttavia, questa visione semplicistica non è
applicabile nemmeno alla medicina somatica.
Quattro concezioni attuali della malattia mentale.
1.
visione empiristica;
2.
Malattia mentale come funzione biologica anormale;
3.
Malattia mentale come comportamento inadeguato;
4.
Malattia mentale come problema sociale.
1. Concezione empiristica.
I seguaci della scuola clinica critica, strettamente collegata
all’empirismo, sostengono la necessità di valutare l’efficacia
delle differenti terapie per mezzo di esperimenti controllati ed
evidenziano come l’applicazione dei risultati di tali
esperimenti richieda che i medici formulino le loro diagnosi
seguendo regole ben precise. I clinici critici non si occupano
di questioni metafisiche come il significato dei termini salute
e malattia, ma sottolineano l’importanza di definizioni precise
delle singole entità patologiche.
Per raffinare gli studi empirici della malattia mentale, gli
psichiatri hanno tentato di quantificare la gravità dei sintomi
attraverso scale graduate.
L’approccio empiristico ha contribuito inoltre a chiarire alcuni
punti del dibattito antipsichiatrico.
La definizione delle entità patologiche ai fini della ricerca
terapeutica controllata è una questione importante, ma la
convinzione degli empiristi secondo la quale sarebbe
possibile risolvere tutti i problemi della critica psichiatrica per
mezzo della ricerca empirica sganciata dalla teoria è
ingiustificata. È necessario controllare criticamente le nuove
terapie, ma la scelta fra le diverse tipologie (terapia
farmacologica, terapia comportamentale, e psicoanalisi)
riflette non solo un fatto di efficacia dei metodi, ma anche la
concezione che lo psichiatra in questione ha della malattia
mentale.
2. Malattia mentale come funzione biologica anormale.
La psichiatria è considerata una disciplina medica.
Per giustificare ciò, si afferma che le malattie mentali
possono essere analizzate secondo il concetto biologico
(ossia il modello meccanico) di malattia: si assume che i
sintomi delle malattie mentali siano scatenati da anomalie
fisiologiche o biochimiche a livello del sistema nervoso
centrale.
La dipendenza dei fenomeni mentali dalla struttura e dalle
funzioni cerebrali è un fatto talmente noto da rendere
superflua una discussione dettagliata in questa sede.
Il modello biologico non è sostenuto solo dagli studi clinici
empirici, ma anche dalla nuova conoscenza teorica
neurobiologica sulla trasmissione sinaptica e sull’azione dei
farmaci a livello molecolare.
Attualmente il concetto biologico di malattia risulta meglio
fondato nelle condizioni psicotiche che nelle nevrosi e nei
disturbi della personalità.
Molti psichiatri concordano sul considerare le psicosi malattie
in senso medico e nel ritenere che i pazienti psicotici
debbano essere curati dai medici, ma alcuni ammettono che
le nevrosi e i disturbi della personalità vengono forse trattati
in modo più adeguato dagli psicologi.
3. Malattia mentale come comportamento inadeguato.
Questa visione della malattia mentale è basata sulla teoria
filosofica del comportamentismo logico, controparte del
comportamentismo in psicologia.
Gilbert Ryle, filosofo britannico, sostenne la tesi radicale che
tutti gli asserti riguardanti fenomeni mentali possono essere
analizzati in termini di asserti su disposizioni a differenti
generi di comportamento.
Esempio: la sensazione di fame non è altro che “comportamento da fame” e la
sensazione di ansia non è altro che “comportamento ansioso”.
Ivan Pavlov, psicologo, mostrò l’importanza del processo ora
noto come condizionamento classico. Di solito, i cani
reagiscono alla vista o all’odore del cibo con un aumento di
salivazione; nei suoi esperimenti, egli stabilì un riflesso
condizionato associando l’offerta di cibo al suono di un
campanello.
B.F. Skinner, psicologo, studiò il comportamento degli
animali e lo estese poi a quello umano. Egli riteneva che i
meccanisimi osservati in laboratorio avessero un ruolo
importante anche nello sviluppo dei patterns (modelli) di
comportamento complesso negli esseri umani. Un particolare
tipo di comportamento può subire un rinforzo positivo se
viene associato ad un premio, oppure un rinforzo negativo se
viene associato ad un avvenimento spiacevole.
Queste sono le teorie filosofiche e psicologiche che
costituiscono lo sfondo dell’attuale psichiatria
comportamentale.
È difficile immaginare che uno psichiatra concordi sul fatto
che la vita mentale degli esseri umani possa essere ignorata,
ma ci sono alcuni psichiatri comportamentisti che sostengono
che in teoria non vi sono alcune differenze tra le varie forme
di comportamento acquisito e le patologie mentali. Sia i
modelli di comportamento adeguati sia quelli inadeguati sono
il risultato di un processo di apprendimento e la terapia
comportamentale (ovvero il trattamento dei comportamenti
inadeguati) deve essere basata sulle attuali teorie
dell’apprendimento.
La terapia comportamentale ha guadagnato terreno in psichiatria in
questi ultimi anni particolarmente per il trattamento delle condizioni
non psicotiche come le nevrosi, i problemi sessuali, l’alcolismo e la
tossicodipendenza. Una persona con nevrosi ansiosa, per esempio,
può essere curata con la desensibilizzazione sistematica: la persona
è esposta a una serie di situazioni ansiogene adeguatamente
graduate; in questo modo l’ansia condizionata si esaurisce e il
paziente “guarisce”. Si possono usare altri principi terapeutici come
la terapia aversiva (cioè l’estinzione di un comportamento
indesiderabile mediante associazione dello stimolo che lo provoca a
uno stimolo spiacevole), l’economia del gettone (il rinforzo positivo
dei comportamenti desiderabili per mezzo di ricompense), il training
sociale e il rilassamento muscolare progressivo.
La terapia comportamentale viene usata dai comportamentisti
convinti; ci sono anche coloro che affermano che essa serva solo a
confondere le cose quando condizioni come la nevrosi o l’alcolismo
sono considerate malattie in senso medico, ma gli stessi principi
terapeutici posso essere usati anche dagli psichiatri che hanno
fiducia nella loro efficacia pure non credendo nella teoria sottostante.
4. La malattia mentale come problema sociale.
Gli antipsichiatri si spingono troppo avanti quando
definiscono la malattia mentale come una reazione sana a
una società malata, ma nella loro critica alla psichiatria
biologica c’è un nucleo di verità, poiché non si può negare
che i fattori sociali svolgano un ruolo importante nello
sviluppo anche della malattia mentale. Alcuni psichiatri che
insistono su questo punto studiano scientificamente
l’influenza dell’ambiente sociale e considerano determinate
condizioni mentali come veri e propri problemi sociali.
Le tre tradizioni (biologica, psicologica o comportamentale e
sociale) riflettono tre diverse concezioni della natura mentale,
e la scelta tra esse ha differenti conseguenze pratiche: i
seguaci delle prime due sosterranno la terapia farmacologica
o comportamentale, mentre i seguaci dell’ultima preferiranno
misure preventive.
La scelta del concetto di malattia determina anche lo status
della psichiatria stessa: se si accetta il modello biologico, la
psichiatria è una disciplina medica, mentre se si accetta uno
degli altri due modelli, essa può essere considerata una
branca della psicologia o della sociologia.
Tre problemi filosofici.
Il dibattito in corso sullo status della psicologia è assai
variegato: alcuni critici (come gli antipsichiatri) sostengono
che la concezione biologica della malattia mentale è soltanto
un’illusione, in quanto induce al trattamento con farmaci
problemi esistenziali e maschera le disuguaglianze sociali e i
problemi culturali; altri critici dicono che qualsiasi paziente
psichiatrico è vittima di discriminazioni perché alle malattie
mentali non è data la stessa importanza della malattie
somatiche, e del resto molte persone pretenodono che il
medico fornisca loro una prescrizione quando soffrono di
sintomi nervosi.
Il paradigma della psichiatria è molto meno definito di quello
di molte altre parti della medicina e ciò comporta tre problemi
filosofici.
Primo problema filosofico.
Riguarda la distinzione tra malattia mentale e salute mentale.
Gli psichiatri influenzati dall’empirismo non si preoccupano
della natura delle malattie mentali, ma ritengono la malattia
mentale come quella cosa che viene curata dallo psichiatra,
mentre gli psichiatri orientati in senso biologico ribattono che
l’essere un paziente mentalmente malato oppure no è una
verità oggettiva.
Secondo problema filosofico.
Concerne l’ambito teorico di riferimento. Molti psichiatri
giudicano artificiale la distinzione tra i concetti biologico,
psicologico o comportamentistico e sociale di malattia
mentale; diranno che le tre “concezioni della malattia” sono
solo tre aspetti di un unico concetto olistico di malattia
mentale. Negli ultimi anni si dice che è necessario usare un
modello bio-psico-sociale di malattia mentale, perché è
necessario dare la stessa importanza a tutti e tre i fattori per
arrivare a una caratterizzazione complessiva del caso.
Molti psichiatri si sono però votati a una delle scuole di
pensiero, e di conseguenza la psichiatria contemporanea è
caratterizzata da tendenza sia riduzionistiche che eclettiche.
•
•
I riduzionisti sono coloro che riducono la malattia mentale ad anomalie
biologiche, disturbi del comportamento o problemi sociali; tengono conto
soltanto di un aspetto del meccanismo della malattia, ma così facendo si
garantiscono un quadro teorico di riferimento che consente loro di formulare
teorie utili e indagini scientifiche che possono produrre un miglioramento
nella cura dei pazienti psichiatrici;
Gli eclettici adottano il modello bio-psico-sociale; possono avere successi
pratici, ma il oro approccio non soddisfa dal punto di vista filosofico e
scientifico.
Terzo problema filosofico.
La psichiatria è una scienza naturale o appartiene alle
scienze umane?
I seguaci degli orientamenti finora discussi danno per
scontato che le malattie mentali possano essere osservate,
descritte e classificate con metodi empirici.
La malattia mentale può essere spiegata mostrandone le
cause. Tutti i modelli di malattia mentale discussi
rappresentano varianti della psichiatria naturalistica, cioè
della psichiatria intesa come scienza naturale.
PSICOANALISI: SCIENZA
NATURALE O ERMENEUTICA?
La psicoanalisi venne introdotta come metodo scientifico, ma
suscitò in seguito aspre critiche sia da parte degli psichiatri
orientati alla biologia sia da parte dei filosofi della scienza
inseriti nella tradizione dell’empirismo.
La psicoanalisi freudiana.
La teoria psicoanalitica sviluppata da Sigmund Freud ha
avuto un’influenza tale da essere ancora oggi parte della
nostra cultura.
Lo psicoanalista considera “sintomi” il risultato di una
interazione complessa tra le funzioni mentali chiamate da
Freud Super-Io, Es e Io.
• il Super-Io è quella parte della personalità che riguarda il
giudizio morale, rappresenta la coscienza della persona e
contiene un sistema di norme, valori e ideali assorbiti dalla
famiglia e dalla società;
• l’Es rappresenta gli istinti primitivi innati nell’uomo,
specialmente quelli legati alla sessualità e all’aggressività,
ovvero quelli legati al conseguimento del piacere e alla
riduzione del dolore;
• l’Io è la parte direttiva della personalità, quella che regola
sia gli impulsi dell’Es sia i vincoli del Super-Io.
Freud introdusse molti altri concetti astratti nel tentativo di
definire la struttura della personalità e spiegarne lo sviluppo,
e lo psicoanalista usa questo insieme di concetti quando
cerca di interpretare ciò che il paziente gli dice.
Uno dei compiti dello psicoanalista consiste nello scoprire la
struttura e il funzionamento della personalità del paziente in
modo tale che alla fine i sintomi possano essere inseriti in un
contesto significativo; a tale scopo può essere necessario
analizzare non solo l’interazione tra analista e paziente, ma
anche i sogni e i lapsus del secondo.
Si ritiene che il processo di elaborazione dei conflitti inconsci
e la comprensione che ne consegue possano indurre un
durevole mutamento nella personalità del paziente, e ciò
costituirebbe la guarigione.
La psicoanalisi come scienza.
La psicoanalisi differisce enormemente dal complesso di
teorie scientifiche che caratterizzano la medicina biologica,
ma non c’è dubbio che Freud si considerasse alla pari di uno
scienziato.
La psicoanalisi è una teoria scientifica riguardante i fenomeni
mentali e gli analisti vanno alla ricerca delle spiegazioni
causali: la teoria psicoanalitica è stata vista quindi come una
teoria in cui la mente viene identificata come un modello
funzionante secondo “principi idraulici” influenzati dall’Io,
dall’Es e dal Super-Io.
Coloro che considerano la psicoanalisi una scienza naturale
si offrono però in pasto alla critica, che sostiene
l’impossibilità di controllare se la teoria è vera o meno.
È impossibile anche solo immaginare un esperimento che sia
in grado di verificare o falsificare l’esistenza di una delle tre
funzioni mentali o di una pulsione inconscia: è quindi
impossibile verificare la validità delle interpretazioni
psicoanalitiche dei singoli casi.
Freud non ha riflettuto sul problema della controllabilità; ciò
evidenzia la convinzione degli psicoanalisti che le loro teorie
siano vere semplicemente perché confermate dai loro
pazienti.
La critica di Popper.
Karl Popper sostiene che la semplice accumulazione di
esempi confermanti non serve a dimostrare la verità di una
teoria scientifica. Egli cita la psicoanalisi come un esempio
particolarmente lampante di questo modo di pensare;
sostiene che le teorie psicoanalitiche non soddisfino il criterio
dello status scientifico di una teoria ovvero “la falsificabilità, o
confutabilità, o controllabilità”. Secondo Popper, esse sono
solo una pseudoscienza. La sua critica è particolarmente
dura.
La psicoanalisi come disciplina ermeneutica.
Dall’inizio degli anni ’60 il collegamento tra psicoanalisi e
filosofia ermeneutica ha attirato l’attenzione di filosofi e di
psicoanalisti.
Essi rifiutano il punto di vista naturalistico; l’oggetto della
ricerca psicoanalitica non è “l’idraulica della mente” bensì le
associazioni di significati formulate con il linguaggio, e il suo
metodo non è l’esperimento scientifico, ma la comprensione,
l’interpretazione e la riflessione.
La parola “comprensione” ha vari significati.
Consideriamo l’operazione mentale che viene chiamata
“comprensione empatica”.
Esempio: immaginiamo di vedere un uomo che cammina per la strada. Si
ferma, si mette la pipa in bocca, cerca qualcosa nelle tasche, attraversa la
strada, entra in una tabaccheria, esce con una scatola di tabacco in mano,
accende la pipa e prosegue.
Chiunque capirebbe il comportamento di quest’uomo. Aveva voglia di fumare
e, poiché non aveva tabacco, ha deciso di comprarlo.
L’interprete che arriva a questa conclusione ha interiorizzato
il comportamento di quella persona mettendosi al suo posto
ed è riuscito a collegare la sequenza degli eventi in modo
razionale.
Anche un non fumatore capisce il comportamento dell’uomo:
lui stesso ha provato altri tipi di “fame” e riconoscerà la
massima comportamentale secondo cui chi ha fame cerca di
placare questa sensazione con un’azione appropriata.
Il problema cruciale è l’impossibilità di dimostrare con
certezza assoluta che un’interpretazione è corretta.
1)
2)
3)
Si potrebbe chiedere agli altri passanti che cosa pensano del
comportamento del fumatore di pipa e, se questi arrivano alla stessa
conclusione, l’interpretazione ha almeno ottenuto lo status di “verità
intersoggettiva”, ma non si può escludere che tutti gli osservatori si
siano sbagliati.
Il test definitivo consiste nel chiedere al fumatore stesso perché ha
agito in quel modo e, se egli conferma la nostra interpretazione,
possiamo essere sicuri di aver avuto ragione.
Tuttavia, è ancora possibile che il fumatore non abbia detto la verità e
che sia invece entrato nel negozio per evitare un incontro spiacevole
per strada.
Malgrado tutto questo, la comprensione empatica è una
componente indispensabile della comunicazione quotidiana
fra esseri umani e ha un ruolo importante anche nella
comunicazione fra i medici e i loro pazienti.
Questo esempio mostra che comprendere significa
semplicemente “mettersi nei panni di un altro” e “condividere
i sentimenti di una persona”, ma i filosofi dell’ermeneutica
vanno oltre.
Così si spiega il punto di vista di Heidegger e di Gadamer.
• per Heidegger il processo di comprensione non è solo un
tipo di attività mentale tra gli altri; la comprensione è
l’interpretazione sono caratteri costituenti della natura
umana.
• un essere umano conscio stabilisce necessariamente un
orizzonte di comprensione e, secondo Gadamer, due
persone si comprendono pienamente soltanto se i loro
orizzonti di comprensione si sono fusi.
Queste idee sono importanti, ma non sono però applicabili in
tutti i casi psichiatrici.
Lo psichiatra non può comprendere direttamente il
comportamento del paziente nevrotico o psicotico, ma ha
bisogno di una chiave che gli consenta di vedere una logica
e un significato al di là dei sintomi.
Lorenzer, psicoanalista tedesco, dice che questa è la chiave
fornita dalla psicoanalisi. Egli sostiene che la psicoanalisi sia
una teoria critica sulla formazione della personalità
dell’individuo, che serve a ricostruire la storia del paziente.
La psicoanalisi si occupa di significati formulati con il
linguaggio, perciò appartiene più alle scienze umanistiche
che a quelle naturali. Per Lorenzer l’obiettivo della
psicoanalisi non è liberare il paziente dai suoi sintomi, ma
accrescere la sua autocomprensione e la sua competenza
sociale, sviluppando così un atteggiamento critico rispetto le
condizioni sociali che contribuiscono allo sviluppo della
malattia mentale.
Carl Lesche, psichiatra svedese, ha spiegato come la
psicoanalisi contribuisca al processo ermeneutico:
un’indagine psicoanalitica che tenti di esplorare la parte
inconscia della mente è sempre ostacolata da lacune sia
nell’intercomprensione, sia nell’autocomprensione; secondo
Lesche la psicoanalisi serve a riempire queste lacune per
mezzo di spiegazioni quasi-naturalistiche. Il prefisso “quasi”
è usato perché esse non possono rappresentare il fine
dell’indagine, ma solo mediarne la comprensione.
Lesche descrive il processo psicoanalitico come
un’alternanza di fasi ermeneutiche e fasi quasi-naturalistiche.
All’inizio del dialogo l’analista e il paziente si capiscono direttamente e sulla
base di tale precomprensione si tenta di tracciare a grandi linee la storia della
vita del paziente. Prima o poi, però, scoppia una crisi: l’analista si impegna in
un ragionamento quasi-naturalistico, considerando il comportamento del
paziente come un “fenomeno naturale” del quale bisogna scoprire le cause; se
il paziente accetta le cause suggerite dall’analista come vere, l’ipotesi viene
considerata verità soggettiva e si conclude la fase quasi-naturalistica. Si
riprende la comunicazione a livello ermeneutico fino all’instaurarsi della crisi
successiva.
In questa prospettiva, l’Es e il Super-Io non sono entità
empiricamente date, ma sono le categorie per mezzo delle
quali l’analista interpreta la personalità del paziente.
Per usare la terminologia di Lorenzer e Lesche, i concetti
psicoanalitici costituiscono un linguaggio meta-ermeneutico.
Le interpretazioni che se ne danno risultano vere se il
paziente le accetta come tali, ma eludono qualsiasi
dimostrazione oggettiva.
Una visione equilibrata.
I filosofi empiristi del Circolo di Vienna miravano alla
formulazione di un criterio di demarcazione che permettesse
di distinguere gli asserti dotati di significato e gli asserti privi
di significato.
Essi scelsero il criterio di verificabilità.
Ovviamente, è impossibile immaginare un’osservazione che
possa verificare la verità oggettiva di un’interpretazione
psicoanalitica e per questo motivo la psicoanalisi dovrebbe
essere giudicata priva di significato.
Analisti come Freud e Adler non avrebbero sicuramente
accettato una conclusione simile, poiché sostenevano che le
loro teorie erano costantemente verificate dalle loro
osservazioni cliniche.
Un’empirista avrebbe criticato l’uso che gli analisti facevano
di tale osservazione.
È vero che le teorie analitiche non possono essere verificate
per mezzo dei nostri sensi, ma non è altrettanto vero che gli
asserti non verificabili siano sempre privi di significato.
Gli asserti riguardanti motivazioni, intenzioni, desideri e valori
non sono verificabili con l’osservazione, ma non sono
neppure destituiti di significato.
Anche Popper ha proposto un criterio di demarcazione, ma
Tra il suo modo di pensare e quello degli empiristi ci sono
Due differenze:
1.
Popper ha scelto il criterio di falsificabilità;
2.
Egli non lo usa per distinguere tra asserti significanti e
asserti non significanti, ma per separare gli asserti
scientifici da quelli non scientifici.
Prima critica alla psicoanalisi contemporanea.
Le teorie psicoanalitiche sembrano formulate in modo da non
essere logicamente confutabili.
La teoria dei sogni di Freud ne è un esempio.
Secondo questa teoria, tutti i sogni rappresentano tentativi di
realizzazione dei desideri; ciò significa che noi sogniamo le
cose che desideriamo. Sfortunatamente, la maggior parte di
noi ricorda anche gli incubi, sogni estremamente spiacevoli:
essi potrebbero essere considerati come una confutazione
dell’ipotesi precedente, ma gli psicoanalisti sostengono che
essi riflettano invece la nostra componente masochistica.
Seconda critica alla psicoanalisi contemporanea.
Gli psicoanalisti convalidano le loro teorie tramite la
pubblicazione di alcuni casi clinici: la validità di queste
generalizzazioni tratte da casi singoli sembra molto dubbia;
sono necessari studi sistematici su gruppi di pazienti per
esaminare nel modo più critico possibile la giustificazione
delle teorie.
Terza critica alla psicoanalisi contemporanea.
Gli psicoanalisti respingono i tentativi di controllo empirico
sugli effetti della psicoanalisi; essi, però, sostengono non
solo che i loro pazienti imparino a conoscere se stessi, ma
anche che guariscano dai loro sintomi.
In altre parole, sostengono che il paziente cambi, e ciò
implica un controllo empirico per confrontare l’efficacia della
psicoanalisi con altre forme di psicoterapia e magari con la
somministrazione di farmaci.
Conclusioni.
È necessario sforzarsi per cambiare l’attuale stato di cose.
Bisogna raggiungere un accordo sullo status teorico della
teoria psicoanalitica, e al momento l’approccio più
promettente sembra quello di Lorenzer e di Lesche.
LA MENTE E IL CORPO
Le persone ammalate non sono soltanto organismi biologico
con un “guasto meccanico”, ma esseri umani che pensano,
agiscono, sperano e soffrono.
La relazione tra corpo e mente è un problema filosofico che
ha impegnato i maggiori pensatori, ma ha grande rilevanza
anche dal punto di vista medico.
I clinici usano la loro conoscenza biologica per alleviare le
sofferenze dei loro pazienti, suddividono le malattie in
mentali, somatiche e psicosomatiche, riconoscono di dover
rispettare la dignità e l’autonomia dei pazienti.
L’attività medica comprende sia la sfera fisica sia la sfera
mentale e una filosofia della medicina che ignori la relazione
tra le due sfere è di fatto incompleta.
Anche una conoscenza ristretta degli argomenti pro e contro
le varie teorie mente-corpo consente di inserire i problemi
della pratica clinica in una prospettiva più ampia.
Il dilemma fondamentale è stato formulato da Immanuel Kant
nella sua Critica della ragion pura.
La questione è se la libertà umana sia un’illusione, e Kant
formula questo problema per mezzo di un’antinomia, cioè di
una tesi e di un’antitesi entrambe difendibili e criticabili al
tempo stesso.
• secondo la tesi di Kant, gli esseri umani sono liberi e le loro
attività mentali non sono causate allo stesso modo dei
fenomeni naturali. Questa affermazione rispecchia in pieno la
concezione che noi abbiamo di essere liberi di prendere le
nostre decisioni; i processi mentali non sono soggetti alla
casualità della natura.
• tuttavia noi riteniamo anche che ogni cosa abbia una causa
naturale, e dobbiamo quindi considerare seriamente anche
l’antitesi di Kant, che dice “non vi è alcuna libertà, e piuttosto,
nel mondo tutto accade unicamente secondo le leggi della
natura”.
Uno dei problemi che ci troviamo ad affrontare è il carattere
della parola “mentale”.
Ci sono molti tipi di stati ed eventi mentali, ma è difficile
definire chiaramente ciò che essi hanno in comune. Alcuni
filosofi hanno insistito che gli stati mentali sono intenzionali,
cioè sono sempre diretti a qualcosa; l’intenzionalità è un
concetto chiave.
Noi non speriamo in senso generico, bensì speriamo in qualcosa; non
pensiamo, pensiamo a qualcosa; vediamo sempre qualcosa; decidiamo su
qualcosa.
Donald Davidson scrive: “La caratteristica distintiva del
mentale non è l’essere privato, soggettivo o immateriale,
bensì il fatto di esibire quel che Brentano chiamava
intenzionalità”.
La sua opinione può essere messa in discussione:
• alcuni processi che sono di solito ritenuti mentali sono
intenzionali;
• alcuni stati che sono chiaramente mentali sono
incontrovertibilmente intenzionali.
Le sensazioni come il dolore o il prurito, che i filosofi
chiamano “sensazioni primarie”, possono essere localizzate
e descritte, ma non sono dirette verso qualcosa allo stesso
modo in cui lo sono una speranza o un desiderio.
Non siamo quindi d’accordo con Davidson quando dice che
l’intenzionalità è la “caratteristica distintiva” del mentale.
Gli stati mentali hanno proprietà fenomeniche ossia hanno
qualità caratteristiche che sono soggettive e private.
Esempio: io so che cosa intendo con la parola “rosso”, ma non riesco a
spiegare che cosa sia questa qualità, così come non posso essere sicuri che
altri concepiscano il “rosso” nello stesso identico modo in cui lo concepisco io.
La mia esperienza soggettiva non può essere resa oggettiva,
ma il fatto che essa esista per me è una prova del fatto che
io sia un essere consapevole.
Gli altri possono chiedermi che cosa significa per me ciò, e,
nonostante io non possa rispondere in modo oggettivo,
ponendomi questa domanda essi confermano che io sia un
essere consapevole.
•
Thomas Nagel non arriva a dire che le verità soggettive sono la sola cosa
che conta, ma ritiene che si debba essere realisti nei confronti del dominio
del soggettivo, poiché è impossibile stabilire una teoria soddisfacente dei
fenomeni mentali se non si tiene conto delle qualità soggettive
dell’esperienza privata.
•
Kierkegaard esprime quest’idea con la frase seguente: “La via della
riflessione oggettiva trasforma il soggetto in qualcosa di accidentale, e
quindi riduce l’esistenza a qualcosa di indifferente, di evanescente.” Le
verità soggettive non possono essere rese oggettive; ogni tentativo di
renderle tali è destinato a farle scomparire.
La relazione fra mente e corpo.
La relazione fra mente e corpo era considerata un problema
filosofico centrale nel XVII secolo.
Si riteneva che qualsiasi movimento fosse determinato da
forze naturali; la natura nel suo complesso era considerata
una macchina gigantesca composta da meccanismi
descrivibili in termini quantitativi tramite espressioni
matematiche, mentre l’esperienza qualitativa era riferita alla
mente o all’anima.
Il pensiero di Cartesio.
Cartesio fu il primo scienziato e filosofo che analizzò il
problema mente-corpo.
Egli distingue tra due sostanze separate:
• sostanza corporea, ovvero il corpo;
• sostanza mentale, ovvero il res cogitans (la cosa pensante).
Nell’uomo queste due sostanze sono unite e interagiscono
tra di loro in modo estremamente complesso.
Questa teoria costituisce una sorta di dualismo; il problema
principale di ogni dualista è quello di spiegare come due
sostanze di natura diversa possano interagire tra loro:
Cartesio è molto vago su questo punto.
Il pensiero di Spinoza.
Spinoza respinse l’idea di Cartesio e sviluppò una teoria
monistica.
Egli non credeva possibile l’interazione tra mente e corpo
proprio perché si tratta di sostanze di natura differente;
concluse che esiste solo una sostanza, che chiamava Dio o
Natura, e che il mondo fisico e quello mentale non fossero
altro che due diversi aspetti o attribuiti di questa sostanza.
I pensieri sono pensieri di certi oggetti; gli oggetti sono
oggetti di certi pensieri,
Egli deve però affrontare un problema: la sua teoria è
incompatibile con l’idea di libertà umana.
Comportamentismo logico.
La soluzione degli empiristi al problema mente-corpo è facile
da capire, ma non così facile da accettare.
L’esponente di maggior rilievo fu Gilbert Ryle, filosofo
britannico, che denuncia il dogma del “fantasma della
macchina”.
Egli crede che il problema mente-corpo derivi da
fraintendimenti concettuali.
Si assume che certi concetti mentali siano proprietà dello
spirito di una persona, così come alcune caratteristiche
fisiche lo sono del suo corpo.
Per esempio: intelligenza, timidezza, ira, gelosia, ecc sono proprietà dello
spirito; il colore azzurro è una proprietà degli occhi; l’obesità è una proprietà
del corpo.
Tuttavia, secondo Ryle, non vi è alcun oggetto caratterizzato
dall’essere intelligente, in quanto intelligenza non è altro che
una parola che indica certi tipi di comportamento.
Una persona intelligente è colui/colei che riesce a risolvere problemi
intellettuali più rapidamente di altri.
Analogamente, non esiste alcun oggetto caratterizzato dalla
qualità della timidezza.
La timidezza può essere considerata una parola che indica la disposizione ad
arrossire facilmente o a comportarsi in modo goffo.
Ryle sottolinea che i termini mentalistici possono essere
eliminati in blocco, in quanto ridondanti.
Il comportamentismo di Ryle simboleggia un tentativo di
allontanarsi dalle teorie precedenti, ma non è del tutto
convincente.
È vero che esiste una correlazione tra esperienza soggettiva
e comportamento, ma i comportamenti si spingono troppo in
là nel momento in cui trascurano l’esperienza soggettiva.
La teoria comportamentista non lascia spazio all’idea che gli
stati mentali possano essere causalmente attivi.
La teoria causale della mente.
Il punto di vista empiristico secondo il quale le teorie
scientifiche devono essere basate sui fatti osservabili è
gravemente insoddisfacente quando ci si occupa di fenomeni
mentali, e la soluzione comportamentista era destinata al
fallimento. Persino le attuali teorie scientifiche relative al solo
mondo fisico si servono di entità teoriche che non sono
direttamente osservabili.
Esempio: energia, campo magnetico, particelle elementari, ecc.
Dal punto di vista realistico ciò ha esattamente lo stesso
senso dell’accettare l’esistenza di stati e processi mentali
consci e inconsci, se questi concetti fanno parte di una teoria
coerente del funzionamento mentale.
Il punto di partenza è la nostra comprensione del modo in cui
fenomeni mentali quali sentimenti, stati d’animo e desideri
determinano le nostre azioni.
Dobbiamo sostenere che i sentimenti svolgano un ruolo
causale; analogamente, gli stati d’animo non sono solamente
tipi di comportamento, ma stati mentali che causano
modificazioni del nostro comportamento.
Questa descrizione del funzionamento mentale non è però
esaustiva.
I fenomeni mentali non solo causano o cambiano le nostre
azioni immediate; ma posso anche causare a loro volta
ulteriori fenomeni mentali, oppure essere immagazzinati e
andare a determinare il nostro comportamento in situazioni
future.
I fenomeni mentali costituiscono spesso le cause nascoste
delle nostre azioni, ma quegli stati ed eventi mentali che
hanno proprietà fenomeniche sono direttamente accessibili
all’introspezione.
I sentimenti non sono puramente teorici, ma possono essere
sperimentati direttamente, ed è quindi assurdo escluderli
dalle teorie sul funzionamento mentale.
La teoria causale della mente non dipende da monismo o
dualismo.
Gli stati mentali svolgono un ruolo causale nelle nostre azioni
e non possono essere ridotti al semplice comportamento; la
loro vera natura deve essere ancora stabilita.
Tre teorie compatibili con la teoria causale della mente.
•
La teoria dell’identità;
•
Il funzionalismo;
•
Il dualismo interazionistico.
La teoria dell’identità.
Detta anche monismo fisicalistico o materialismo dello stato
centrale; è radicale alla pari del comportamentismo.
Si assume che gli stati e i processi mentali siano identici agli
stati e ai processi neurofisiologici del sistema nervoso
centrale.
Questa teoria solleva però tre gravi problemi.
Primo problema della teoria dell’identità.
Coloro che accettano la teoria dell’identità devono accettare
anche l’antitesi di Kant.
È ragionevole assumere che la natura sia un sistema
causale chiuso in cui i fenomeni naturali sono
completamente determinati dagli eventi antecedenti.
Per questo motivo, la teoria dell’identità implica l’idea della
predeterminazione delle nostre azioni.
Si può salvare l’idea di libertà umana se si ridefinisce la
libertà in modo da vedere l’uomo come “agente libero”.
Secondo problema della teoria dell’identità.
La teoria dell’identità si presta alla critica di Nagel in quanto
non riesce a dare conto della nozione di esperienza
soggettiva.
Una teoria che riduce i fenomeni mentali alla neurofisiologia
non coglie un problema di questo tipo.
La teoria dell’identità rappresenta un buon esempio
dell’affermazione di Kierkegaard secondo la quale le verità
soggettive non possono essere rese oggettive, perché ogni
tentativo in questo senso le fa scomparire.
Terzo problema della teoria dell’identità.
L’affermazione di un’identità fra stati mentali e stati
neurofisiologici pone alcuni problemi logici.
La legge di Leibniz dice che oggetti identici hanno proprietà
identiche e, se la teoria dell’identità è vera, gli stati mentali e
gli stati neurofisiologici con i quali essi si identificano devono
soddisfare questa richiesta. Non sembra però che ciò
accada.
Per evitare questi problemi si è postulato che alcuni stati
mentali abbiano la caratteristica di essere esperiti in un
determinato modo.
Questa teoria chiamata epifenomenismo è una sorta di
dualismo, nel senso che si ammette che alcuni stati mentali
abbiano proprietà sia materiali sia non materiali, ma si
ammette anche che solo i processi neurofisiologici abbiano
un ruolo causale.
I fenomeni non materiali sono visti come prodotti collaterali
(epifenomeni) del funzionamento cerebrale.
Questa teoria tiene conto dell’esperienza soggettiva, ma non
ci dice niente sulla natura degli epifenomeni.
Il funzionalismo.
Hilary Putnam ha sviluppato una teoria della relazione
mente-corpo molto più sviluppata.
Secondo questa teoria il sistema nervoso centrale possiede
proprietà fisiche, ma ha anche altre proprietà di natura non
fisica, definibili e specificabili senza fare riferimento
all’anatomia e alla fisiologia del cervello.
Quest’idea è ben semplificata dalle proprietà di un computer.
Il computer è una macchina dotata di proprietà fisiche, in quanto composto di
una quantità di circuiti elettronici, ma ha anche proprietà funzionali. Per
esempio, può essere programmato per eseguire un test del ‘chi quadrato’, e
questo programma può essere descritto in termini logici e matematici senza
fare riferimento alla struttura fisica del computer. Altri computer, seppur
costruiti fisicamente in modo differente, possono essere programmati per
eseguire lo stesso test.
L’esempio illustra l’approccio funzionalista al problema
mente-corpo.
Gli stati mentali non possono essere ridotti a stati fisici e la
loro relazione con il cervello è identica a quella tra software e
hardware in un computer.
Il funzionalismo rappresenta la teoria mente-corpo più
avanzata nella tradizione dell’empirismo.
È molto più accettabile delle teorie monistiche e ha fornito un
valido schema concettuale per la ricerca empirica nelle
scienze cognitive.
Esempio: psicologia cognitiva, psicolinguistica, teoria della percezione,
cibernetica, intelligenza artificiale.
Il funzionalismo è superiore al comportamentismo in quanto
coglie il carattere intenzionale di alcuni stati mentali; tuttavia,
come le teorie monistiche, non coglie la nozione di
esperienza soggettiva.
Alcuni funzionalisti riconoscono che l’autoriflessione è una
caratteristica umana essenziale, ma i loro tentativi di dare
una spiegazione alla sua natura non sono soddisfacenti.
Il dualismo interazionistico.
Karl Popper e J.C. Eccles scrissero un libro chiamato L’io e il
suo cervello, nel quale presentarono una nuova versione del
dualismo.
La loro teoria va inclusa nella filosofia dei “tre mondi” di
Popper.
•
Il Mondo 1 è il mondo materiale: esso contiene vari oggetti e strutture come
metalli, alberi, cellule cerebrali, sedie e computer; secondo molti scienziati è
l’unico mondo esistente.
•
Il Mondo 2 è il mondo dell’esperienza conscia, che comprende percezioni,
pensieri, sentimenti, stati d’animo, memoria e autoconsapevolezza; è il
mondo privato della mente e dell’io; i comportamenti e i teorici dell’identità
negano l’esistenza di questo mondo.
•
Il Mondo 3 è il mondo di tutti i prodotti culturali, come i linguaggi, le opere
d’arte e le teorie scientifiche.
Molti oggetti del Mondo 3 sono incarnati in oggetti del Mondo 1 ma sono, in se
stessi, oggetti reali.
Esempio: le teorie scientifiche sono stampate sotto forma di libri e le sculture sono scolpite nella
pietra.
Secondo Popper il Mondo 2 (la mente) interagisce sia con il
Mondo 1 (il mondo materiale) che con il Mondo 3 (il mondo
dei prodotti culturali), mentre il Mondo 1 e il Mondo 3
interagiscono solo tramite la mediazione del Mondo 2.
Esempio: gli esseri umani percepiscono i colori degli oggetti che li circondano
(Mondo 1 Mondo 2), imparano a leggere e a scrivere (Mondo 3 Mondo
2), decidono di spostare gli oggetti da un luogo all’altro (Mondo 2 Mondo 1),
producono opere d’arte (Mondo 2 Mondo 3).
Popper ed Eccles hanno sviluppato una teoria che si concilia
bene con l’idea di libertà umana, ma il problema
fondamentale rimane insoluto. Essi reintroducono il
“fantasma nella macchina” di Ryle; scrivono che gli esseri
umani “leggono”, “scelgono” e “agiscono”, ma non ha molto
senso attribuire queste facoltà a una mitica entità chiamata
mente.