Nella rete delle reti: positività e paradossi dei social network

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Nella rete delle reti: positività e paradossi dei social network
Nella rete delle reti: positività e
paradossi dei social network
“Collage of (digital) social networks”, foto di Tanja Cappell, licenza CC BYSA 2.0, www.flickr.com
Pochi giorni orsono i media d’informazione hanno diffuso una notizia inattesa
e quantomeno sorprendente per gli internauti, specificamente per coloro che
frequentano i social network: Twitter potrebbe essere venduto a breve, e il
compratore più quotato pare essere Walt Disney. Le ragioni che potrebbero far
optare il CdA dell’“uccellino” per questa soluzione sono di natura
prettamente economica: le quotazioni della società sulla borsa di New York
stanno seguendo un trend pericolosamente discendente, con una perdita del 70%
dell’investimento per coloro che avevano comprato le azioni del social
network al loro valore massimo di 65 dollari.
Il motivo principale per cui la notizia desta scalpore, al di là della
notevole inclinazione allo shopping che la Disney sta manifestando dopo
l’acquisizione del brand Star Wars, è data soprattutto dal fatto che non si
parla in questo caso dell’ennesima startup o dell’ultimo social network che
abbandonano prematuramente le luci della ribalta tecnologica: qui si parla di
quello che è unanimemente visto come il principale concorrente di Facebook,
nonchè l’unico social network ad aver sfidato ad armi quasi pari il colosso
di Menlo Park, con un valore societario che ha raggiunto gli 8 miliardi di
dollari e un fatturato di un miliardo nel 2013.
Numeri importanti fanno sorgere domande impegnative: tralasciando le
disavventure economiche dell’ultimo periodo, come ha fatto un’impresa il cui
unico prodotto, se si guarda dal punto di vista dell’utente medio, è uno
spazio comunicativo in cui interagire con altri utenti, peraltro ad accesso
gratuito, a raggiungere delle cifre così ragguardevoli? Spostandosi a un
livello d’astrazione superiore, come hanno fatto i social network ad assumere
un ruolo così penetrante nella società 2.0 (ormai da tempo 3.0)? Qual è la
dinamica che ha portato queste piattaforme a divenire un fenomeno di massa
apparentemente imprescindibile nelle nostre vite?
La risposta è ottenibile muovendo il discorso in due direzioni, una di
carattere tecnico informatico e l’altra di carattere sociologico.
Affrontando il primo aspetto con un approccio volutamente semplicistico, i
social network hanno avuto uno sviluppo macroscopico con il passaggio dal Web
1.0 al 2.0.
La differenza fondamentale sta nel livello di partecipazione dei non addetti
ai lavoratori e nell’implementazione di contenuti multimediali sulle pagine
web. Nella versione 1.0, con cui si indica sostanzialmente il periodo di vita
del Web che va dal 1990 al 2002, il popolo connesso in rete è suddiviso in
due categorie: creatori di contenuti e fruitori di contenuti. I primi sono i
proprietari dei server che ospitano i siti, e di questi ultimi essi sono
gestori indiscussi e monopolistici, aggiornandone in maniera esclusiva i
contenuti e controllandone il corretto funzionamento. I secondi sono semplici
utenti che hanno solamente la possibilità di acquisire in modo passivo i
prodotti diffusi dai primi. La ragione di questa dicotomia sta nell’allora
insufficiente diffusione di sistemi di creazione e modifica di semplici
documenti HTML, cioè i documenti sviluppati sulla base del protocollo di
collegamento ipertestuale tra le pagine web su cui tutt’ora si basa gran
parte della navigazione in Internet. Questa situazione cambia radicalmente
nei primi anni del ventunesimo secolo: nel 2004 viene così coniato il termine
“Web 2.0”, a indicare una mutata prospettiva per lo sviluppo economico sulla
rete così come una maggiore interazione e iniziativa dei singoli utenti.
Nel primo senso si passa da un sistema economico imperniato sullo sviluppo di
software e programmi a uno basato sulla fornitura di servizi: punto focale
dell’attività economica sul web diventa la gestione dei dati e
conseguentemente i servizi che sono a ciò preposti.
D’altro canto, l’azione degli utenti contribuisce in maniera decisiva al
valore di un servizio: la capacità di radunare una base attiva di soggetti
che agiscono su di esso in maniera autonoma e spontanea, implementandone i
contenuti e le funzionalità, costituisce un punto di forza di molte attività
basate sul Web 2.0, di cui Wikipedia è forse l’esempio più riuscito.
La dinamica partecipativa ed espressiva che si instaura grazie al Web 2.0
trova la sua naturale valvola di sfogo nei social network: non è un caso se
Myspace, cioè quello che può essere considerato il primo social network “di
massa”, ha basato le sue fortune principalmente sulla diffusione dei prodotti
creativi degli utenti, capaci di pubblicare le proprie tracce musicali,
immagini o video sulla propria pagina personale grazie alle tecniche di
implementazione HTML tipiche del Web 2.0, secondo un modello che sarà ripreso
e ampliato successivamente anche da Facebook.
L’aspetto di condivisione ed espressione di contenuti che abbiamo visto
caratterizzare Myspace appartiene in generale a tutti i social network, se
banalmente si considera che non può esserci socialità senza condivisione o
quantomeno esternazione di contenuti o, per essere più “radicali”,
d’informazione. Questa riflessione ci permette di introdurre il secondo
motivo di successo delle piattaforme sociali, afferente a dinamiche
sociologiche più che informatiche.
Un buon punto di partenza per comprendere la questione è la definizione di
identità che lo psicologo Henri Tajfel ha elaborato nella sua teoria
dell’identità sociale del 1981. Secondo quest’ultimo, l’identità di ciascun
soggetto è costituita dall’interazione tra identità personale, cioè i
caratteri di personalità tipici e innati dell’individuo, e identità sociale,
ovvero la coscienza di appartenere a un dato gruppo (o rete) sociale e il
valore che si attribuisce a tale appartenenza. Inoltre Tajfel postula una
stretta relazione tra identità sociale e rete sociale, sottolineando in
particolare che la presa di coscienza di appartenere a un determinato gruppo
avviene in tre momenti:
1. Cognitivo: la consapevolezza di appartenere a un gruppo;
2. Valutativo: la percezione del valore del gruppo, le qualità che si
attribuiscono al gruppo a cui si appartiene;
3. Emotivo: le emozioni che la consapevolezza di appartenere a quel gruppo
generano nell’individuo.
Come si comprende, rete sociale e identità sociale sono concetti differenti
seppur strettamente correlati: l’identità sociale presuppone una rete sociale
e l’appartenenza a una rete sociale modifica la propria identità sociale.
Le implicazioni, in materia di social network, di questa costruzione
dell’identità possono essere comprese alla luce delle caratteristiche che,
secondo le studiose Ellison e Boyd, identificano queste piattaforme:
a) Presenza di uno spazio virtuale in cui costruire una rappresentazione di
sé, comunemente detta profilo;
b) Possibilità di creare una rete di altri utenti con cui interagire;
c) Possibilità di analizzare le caratteristiche della propria rete, come le
interazioni tra gli altri utenti.
Accostando questa caratteristica alla definizione di identità sociale secondo
Tajfel i social network divengono concepibili come luoghi digitali in cui è
possibile gestire sia la propria rete sociale che la propria identità
sociale. Proprio questa duplice possibilità permette di illustrare la chiave
di successo delle piattaforme sociali, ovvero la capacità di rispondere a due
bisogni innati nella natura
umana: necessità di supporto sociale da una parte e bisogno di costruzione e
coltivazione della propria persona dall’altra. Grazie al social network posso
parlare di me ed esprimere la mia personalità o, al contrario, conoscere
quella degli altri soggetti che appartengono alla mia rete. D’altro canto
posso offrire supporto agli altri o chiederne per me, andando a creare una
comunità con il comune interesse del benessere degli altri componenti del
gruppo.
In sostanza, quindi, la chiave di successo dei vari Facebook, Twitter e
simili è data dalla capacità di rispondere a bisogni sociali innati nella
natura umana, e di farlo su scala esponenzialmente maggiore di qualunque
altro mezzo, grazie all’ubiquità della rete e alla continuità del flusso
informativo che la permea, indipendentemente da frontiere od orari. Tuttavia
ogni moneta ha due facce, e anche il fenomeno dei social network presenta
delle controindicazioni: è possibile quindi definire quelli che sono i tre
paradossi delle piattaforme sociali digitali.
In primis, se i social network mi permettono di presentare la mia persona in
certo modo, evidenziando certe caratteristiche e nascondendone altre,
ritraendomi in certe situazioni piuttosto che altre, andando quindi a
influenzare la percezione che gli altri hanno di me (impression management),
lo stesso può essere fatto dagli altri utenti nei miei confronti: basti
pensare alla facilità con cui su Facebook è possibile taggare un soggetto in
una situazione che questi ritiene scomoda anche senza che egli possa
accorgersene, andando quindi a intaccare l’immagine che egli si era creato
nella sua rete sociale (l’amorevole maestra d’asilo ritratta ubriaca in
discoteca può esserne un esempio eloquente).
In secondo luogo, la condivisione di contenuti su vasta scala che è resa
possibile dai social network permette di rendere noto a diversi soggetti un
tratto peculiare della nostra persona o una nostra abilità che riteniamo
spendibile in ambito professionale o relazionale (personal branding).D’altro
canto spesso i social network hanno delle politiche di accesso ai dati dei
propri utenti piuttosto morbide, permettendo spesso al miglior pagante di
ottenere informazioni con cui delineare una precisa identità del soggetto
(profiling), spesso estremamente vicina all’identità reale dell’utente.
Questo non solo vanifica i tentativi di evidenziare certe caratteristiche
vincenti della propria persona, ma pone altresì rilevanti problemi di privacy
e furto d’identità.
Infine, se è vero che le piattaforme sociali permettono di ampliare le nostre
conoscenze, la loro frequentazione assidua porta l’utente a costruire una
“interrealtà”, ovvero uno spazio sociale in cui reale e virtuale si
confondono e risulta difficile distinguere i legami forti, cioè le persone
con cui più intimamente si interagisce nella vita reale, dai legami deboli,
cioè quei contatti con cui nella realtà quotidiana poco si ha a che spartire.
Questo può portare a comportarsi allo stesso modo con legami forti (amici) e
deboli (conoscenti), perdendo di vista la divisione tra i ruoli sociali che
generalmente caratterizza un ambiente sociale. Si pensi a cosa accadrebbe se
un insegnante, agendo da tifoso di una squadra calcistica, insultasse su
Facebook un tifoso della squadra rivale e uno suo studente se ne accorgesse:
sicuramente il suo ruolo di educatore ne risentirebbe. Sui social network i
propri contatti sono tutti sullo stesso piano e ciò rende difficile modulare
i propri comportamenti in base al contesto in cui si agisce.
In conclusione, pare a chi scrive che anche i social network possano godere
di quel carattere di neutralità che in genere permea le nuove tecnologie e i
fenomeni a esse correlate. Non si può postulare a priori una bontà o una
negatività del fenomeno delle reti sociali virtuali, poiché queste dipendono
esclusivamente dall’utilizzo che ne viene fatto, dagli utenti come dai
gestori e proprietari dei servizi. Per i primi risulta auspicabile una
maggior consapevolezza dei pro e dei contro che certi sistemi portano in
dote, in modo da poter sfruttare quelli a proprio vantaggio e non rimanere
intrappolati in questi altri. Per i secondi sarebbe desiderabile un utilizzo
dello strumento più
trasparente e incline alla salvaguardia dell’utente, anche in modo da
smentire la zuckerberghiana attestazione di decesso della privacy.
Bibliografia
RIVA, I social network, in Durante – Pagallo, Manuale d’informatica giuridica
e diritto delle nuove tecnologie, Milano, 2012
MAZZEI, Il world-wide web, in Durante – Pagallo, Manuale d’informatica
giuridica e diritto delle nuove tecnologie, Milano, 2012
DARIO DITARANTO