Il regno di Siddhārtha - Dialogo Interreligioso

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Il regno di Siddhārtha - Dialogo Interreligioso
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Il regno di Siddhārtha
A cura di
Laura Lettere
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Indice
1. Il giovane Siddhartha Gautama
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2. I quattro incontri
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3. Il percorso verso l'illuminazione
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4. Le quattro nobili verità
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5. Saṃsāra
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6. Karma
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7. La via per l'illuminazione: una strada a otto corsie
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8. I tre gioielli
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9. La morte di Siddhartha
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10. Il segreto del successo
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11. L'immagine di Buddha
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12. Il Buddha non era grasso
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13. Le lingue, i testi
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14. Il vinaya, ovvero le regole dei monaci (e delle monache)
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15. La scuola Theravada
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16. Il Buddhismo in Sri Lanka
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17. Il Buddhismo sulla Via della Seta
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18. Il buddhismo arriva in Cina
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19. Alla ricerca dei testi mancanti: i viaggi ad occidente
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20. Piccolo Veicolo/Grande Veicolo
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21. La meditazione
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22. Il culto dei bodhisattva e dei Buddha
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23. Il buddhismo tantrico e la tradizione tibetana
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24. Le tradizioni buddhiste in Giappone
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25. Il Buddhismo Zen
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26. Buddhismo e arti marziali
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27. La fine del buddhismo in India
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28. Buddhismo nella Repubblica Popolare Cinese
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29. Buddhismo in Italia
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1. Il giovane Siddhartha Gautama
Non abbiamo molte notizie storiche certe sulla vita di Siddhārtha Gautama, colui
che sarà poi conosciuto come il Buddha.
I poemi e le leggende su di lui ci dicono che egli apparteneva alla famiglia degli
Śākya: era il figlio di un uomo piuttosto ricco e potente, forse un re, che viveva in
un grande palazzo ai confini tra l'India e il Nepal, circa duemila e cinquecento anni
fa.
La madre di Siddhārtha, Māyādevī, fece un sogno molto particolare: un grande
elefante bianco con sei zanne entrava nel suo corpo dal fianco destro. Scoprì poi
di essere incinta. La tradizione indiana prevedeva che la donna partorisse presso
la casa dei genitori, così, nove mesi dopo, Māyādevī si preparava a recarsi nella
casa di suo padre. Non fece in tempo ad arrivare: lungo il viaggio, durante una
sosta in un grande parco, sotto un albero di Sal, Māyādevī diede alla luce il piccolo
Siddhārtha Gautama. Sfortunatamente, Māyādevī morì sette giorni dopo la
nascita di suo figlio; Siddhārtha Gautama fu cresciuto dalla sorella di sua madre,
Mahāpajāpatī.
La nascita di questo figlio molto atteso riempì di gioia il padre Śuddhodana. Gli
strani eventi che avevano accompagnato la nascita, tuttavia, lo avevano mandato
in ansia: curioso di conoscere il destino di suo figlio, Śuddhodana invitò a corte
degli esperti che esaminassero il bambindo, e degli indovini per fargli l'oroscopo.
In quei giorni arrivò a corte il saggio Asita. Il saggio capì l'ansia provata del padre e
si affrettò a tranquillizzarlo: Siddhārtha Gautama sarebbe diventato il re della
legge, e avrebbe liberato il mondo dalle catene dell'ignoranza.
Il padre di Siddhārtha Gautama fu felice di udire queste parole, ma in cuor suo
rimase perplesso. Di quale legge parlava il saggio Asita? Di quali catene?
Śuddhodana desiderava in primo luogo un figlio forte, che ereditasse e sapesse
gestire le sue proprietà.
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Nel subcontinente Indiano, tra il V e il IV secolo avanti Cristo, erano nate molte
correnti filosofiche e religiose diverse, e la loro influenza si diffondeva molto
rapidamente, anche in regioni di confine e periferiche come i territori della
famiglia Śākya. Śuddhodana ne era consapevole, e prese presto la decisione di
tenere lontano suo figlio da queste nuove idee. Fece in modo che Siddhārtha
Gautama trascorresse la sua adolescenza a palazzo, a condurre una vita di agi, tra
musica, belle cortigiane e buon cibo, lontano dalla sofferenza, senza avere in testa
strane idee o cattivi pensieri.
A sedici anni Siddhārtha Gautama sposò la cugina Yaśodharā in un matrimonio
combinato. Ebbero un figlio, Rāhula - un nome curioso, che vuol dire "legame",
"catena".
A ventinove anni, Siddhārtha Gautama iniziò a sentirsi stanco della vita di palazzo.
Decise quindi di uscire a vedere il mondo, su un carro guidato dal suo fido auriga e
stalliere, Chandaka. Una folla di sudditi era accorsa a salutarlo. Durante questa
passeggiata Siddhārtha Gautama fece i quattro incontri che gli cambiarono la vita.
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2. I quattro incontri
La leggenda tramande che Siddhārtha Gautama durante la sua prima uscita dalla
corte del padre, incontrò per starda un uomo anziano.
Siddhārtha Gautama chiese informazioni al suo auriga e stalliere Chandaka: voleva
sapere chi fosse quell'uomo, e perché fosse così deperito e caminasse in modo
così curioso. Chandaka rispose che si trattava di una persona che era invecchiata.
Siddhārtha Gautama chiese allora se nella vita tutti invecchiano. Chandaka gli
rispose di si, e anzi: raggiungere la vecchiaia è considerata da molti una fortuna.
Subito dopo, Siddhārtha Gautama incrociò per strada un uomo malato. Di nuovo
chiese a Chandaka se nella vita la sofferenza è una cosa comune. Chandaka
rispose che sì, tutte le creature soffrono.
Incontrò quindi il corteo di un funerale. Chiese ancora a Chandaka delle
spiegazioni, e di nuovo il carrettiere dovette confermare che la morte giunge per
tutti, rendendo le persone inerti e immobili, proprio come quella salma. Chandaka
era un po' preoccupato all'idea di dover dare a Siddhārtha tutte quelle
informazioni: possibile che il giovane non sapesse queste cose ovvie? Comunque il
padre di lui era stato chiaro: non bisognava turbare la mente di suo figlio.
Ormai il danno era stato fatto: Siddhārtha non faceva che vedere intorno a sé la
sofferenza degli uomini e di tutti gli esseri viventi, ed era torturato dall'angoscia.
Proprio in questa situazione, fece un quarto incontro, questa volta con un
mendicante. Siddhārtha lo interrogò su chi fosse, e l'uomo rispose di essere un
asceta, ovvero una persona che ha abbandonato la vita mondana e la sua famiglia,
per vivere ai piedi di un albero, senza fissa dimora, per meditare e distaccarsi dalla
sofferenza del mondo.
Tornato a palazzo, Siddhārtha prese la sua decisione: di notte svegliò Chandaka,
prese il suo destriero Kanthaka, e in loro compagnia si allontanò dalla corte del
padre. Giunto nella foresta, salutò con commozione i suoi due amici, prese la
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spada e si tagliò i lunghi capelli. Si dispose a ricercare la verità sulla vita, la "legge"
delle cose del mondo, come il saggio Asita aveva predetto.
La storia di Siddhārtha è raccontata in un poema epico, il Buddhacarita o "Le gesta
del Buddha" scritto dal poeta Aśvaghoṣa intorno al secondo secolo avanti Cristo.
Questo poema è stato scritto circa trecento anni dopo la vita di Siddhārtha
Gautama, colui che sarà conosciuto come il Buddha Storico.
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3. Il percorso verso l'illuminazione
Siddhārtha non aveva un'idea precisa su come giungere alla verità,
all'illuminazione: dapprima dovette cercarsi un metodo, procedendo per tentativi.
Andò a vivere in un āśrama, un luogo di ritiro dove degli altri asceti cercavano di
distaccarsi dalla sofferenza del mondo mortificando il proprio corpo con diete
durissime o digiuni forzati, dormendo all'aperto e meditando.
Dopo aver tentato questa via, Siddhārtha capì che non poteva essere la strada
giusta: gli altri asceti facevano queste pratiche con il desiderio del paradiso, di una
vita migliore nell'aldilà, ma lui pensava che fosse senza senso costringersi a
soffrire in questa vita per il desiderio del piacere fisico in una vita futura.
Nel frattempo, i suoi familiari, sconvolti per questa sua decisione, lo mandarono a
chiamare tramite messi e ministri. Ma Siddhārtha era molto deciso: non sarebbe
tornato al palazzo del padre. In molti cercarono di convincerlo a svolgere il proprio
ruolo di figlio e di padre, ma egli rifiutava: non avrebbe potuto compiere questi
doveri con coerenza; aveva capito che non avrebbe potuto ottenere quello che
cercava conducendo la vita delle persone comuni.
Durante il suo percorso di meditazione incontrò molti ostacoli, delusioni, persino
l'abbandono dei cinque compagni di meditazione che avevano condiviso con lui
lunghi anni di digiuno. Dopo aver capito che il digiuno non portava a niente, ma
era solo una cattiva pratica per il corpo, Siddhārtha accettò una ciotola di riso
cotto nel latte offertogli da una giovane, Sujātā. I cinque asceti, sdegnati da
questo comportamento, se ne andarono.
Egli cercò delle spiegazioni anche nello studio della filosofia, ma anche in questo
caso rimase deluso: le varie scuole filosofiche sembravano contraddirsi a vicenda,
e avevano come obiettivo quello di imporsi le une sulle altre, invece di fornire una
soluzione alle sofferenze della vita.
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Seduto sotto un grande albero di pipal, oggi conosciuto come Ficus religiosa, nella
piccola città di Bodh Gaya (nell'odierna regione del Bihar, in India), Siddhārtha si
sentiva ormai vicino alla meta, quando un ultimo attacco è stato sferrato alla sua
concentrazione: il demone Mara voleva assolutamente fermare Siddhārtha,
interrompendo il suo percorso verso l'illuminazione. Per questo dapprima
materializzò le sue tre bellissime figlie, che cercarono invano di distrarre
Siddhārtha dalla meditazione. Frustrato da questo tentativo non riuscito, Māra
materializzò un'armata di demoni orribili, dalla testa di animali feroci e dal corpo
umano. I mostri attaccarono Siddhārtha, ma egli rimase tranquillissimo e senza
paura. Il demone Māra fu ridotto al silenzio.
A questo punto, si dice che Siddhārtha abbia toccato la terra con la mano destra,
volendola chiamare a testimone della sua nuova consapevolezza: aveva
finalmente raggiunto l'illuminazione.
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4. Le quattro nobili verità
Siddhārtha ha raggiunto l'illuminazione, in sanscrito bodhi, nel momento in cui,
grazie a lunghe sedute di meditazione, è riuscito a vedere in un solo momento
tutte le sue vite precedenti e quelle future.
Siddhārtha è riuscito a vedere le catene che legano tutte le creature ad un ciclo di
continue rinascite (saṃsāra). Da questo momento, egli è conosciuto come il
Buddha storico. La parola Buddha è un participio passato in sanscrito e significa,
letteralmente, "risvegliato".
Egli volle condividere subito la sua scoperta, e iniziò così la sua predicazione. I suoi
primi discepoli furono i cinque asceti che lo avevano abbandonato a Bodh Gaya.
Durante il suo discorso presso il Parco delle Gazzelle di Sarnath, vicino alla città di
Varanasi, nel Nord dell'India, il Buddha elencò le quattro nobili verità.
Esse sono:
1) la vita è sofferenza;
2) la sofferenza è causata dal desiderio;
3) per smettere di soffrire, bisogna abbandonare il desiderio;
4) la strada per abbandonare il desiderio è l'ottuplice sentiero.
Perché la vita è sofferenza? Nei testi buddhisti più antichi, che dichiarano di
raccogliere le spiegazioni che diede lo stesso Buddha, si dice che la vita è
sofferenza perché tutto cambia, tutto è destinato a finire.
Tutte le cose belle finiscono; diventeremo vecchi; siamo tutti destinati a morire.
Il Buddha ha però voluto suggerire una via, un sentiero, per mettere fine a questo
stato di sofferenza.
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5. Saṃsāra
Cos'ha capito, esattamente, il Buddha, quando si è risvegliato? In che senso egli ha
raggiunto l'illuminazione?
Al giorno d'oggi è difficile conoscerlo con precisione: quando il Buddha iniziò a
spiegare le sue teorie, in India non si era ancora diffusa la pratica di produrre testi
scritti. Gli insegnamenti che il Buddha impartì furono trasmessi oralmente dai
discepoli, di generazione in generazione, e furono messi per iscritto solo molti
secoli dopo.
Sembra che il Buddha abbia compreso che la nostra vita è incastrata in un ciclo
continuo di morte e rinascita, il saṃsāra: dopo la morte, la nostra anima si
reincarna e viviamo di nuovo come un altro essere vivente.
Il Buddha capì che bisogna spezzare questo ciclo continuo ed ottenere la
liberazione dalla sofferenza.
Il saṃsāra è il ciclo delle rinascite, ed è per questo rappresentato come un cerchio.
La tradizione buddhista ci dice che esso è suddiviso in sei reami, sei diversi stati in
cui è possibile reincarnarsi. Essi sono:
- reame degli dei (deva)
- reame dei semi-dei (asura)
- reame di esseri umani (manuṣya)
- reame degli animali (tiryagyoni)
- reame degli spiriti affamati (preta)
- creature dell'inferno (naraka)
L'obiettivo del credente buddhista non è quello di diventare un dio, un deva.
Sarebbe un obiettivo sbagliato: gli dei raggiungono lo stadio di estrema
beatitudine grazie al loro karma positivo, ma questo effetto, con il passare del
tempo, si esaurisce. In un certo senso, gli dei stanno "troppo" bene, non fanno più
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nulla per purificare la propria coscienza, e finiscono per reincarnarsi negli stadi
inferiori.
I semi-dei, sebbene si trovino in uno stadio che gli conferisce molti poteri, sono in
continua lotta tra loro e soffrono di gelosia ed invidia. Il demone Mara, che tentò
di scoraggiare Siddhārtha nel suo percorso verso l'illuminazione, fa parte di questo
gruppo.
Chi compie azioni non ragionate finisce per reincarnarsi nel mondo animale. Gli
animali, sebbene concepiti come in uno stadio inferiore, sono molto rispettati
nell'ambito delle tradizioni religiose buddhiste, proprio perché non possiamo mai
sapere chi sono stati nella loro vita precedente, o cosa diventeranno. Il Buddha ha
sempre invitato i suoi seguaci a percorrere la via della benevolenza e della
compassione, in questo senso, e anche per non accumulare karma negativo,
bisogna rispettare tutti gli esseri viventi.
Nei reami più bassi ci sono gli esseri che nelle vite precedenti si sono comportati
seguendo cattive intenzioni. E ora sono costretti a pagarne le conseguenze con
eoni di atroci sofferenze negli inferni, oppure rinascono come demoni
perennemente affamati, i preta (conosciuti come èguǐ in cinese e gaki in
giapponese) sono rappresentati con grandi pance vuote che non riescono mai a
soddisfare, perché hanno una bocca minuscola quanto il foro di uno spillo.
Non si sa se il Buddha credesse davvero nell'esistenza di fantasmi, di dei o degli
inferni.
Sicuramente
insisteva
molto
sull'importanza
di
dimostrarsi
compassionevoli nei confronti di tutti gli esseri. Anche per questo motivo, egli
concesse solo un tipo di rituale, quello dei funerali, per consolare i defunti che si
reincarnano in preta. I parenti dei defunti sono autorizzati a fare offerte ai propri
cari: in questo modo possono fornire loro un qualche supporto, una consolazione,
nell'eventualità che i defunti siano divenuti demoni affamati. Se i demoni esistono
davvero, Buddha non ce lo dice: dopo tutto quello che importa è che il rituale
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venga compiuto con una buona intenzione, perché le buone intenzioni producono
karma positivo.
L'ultimo stadio di cui parliamo è quello degli uomini. Gli uomini vivono una vita
che non è completa beatitudine (come quella degli dei) ma nemmeno assoluta
sofferenza (come quella delle creature che rinascono all'inferno).
Gli esseri umani hanno una posizione di vantaggio: possono raggiungere la
consapevolezza dell'esistenza del saṃsāra, del ciclo delle rinascite, e
intraprendere il percorso verso l'illuminazione.
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6. Karma
Ma cos'è che ci costringe a rinascere in continuazione? Che cosa determina le
nostre vite future?
La risposta giace nelle nostre azioni, in sanscrito karma. Le nostre azioni hanno
sempre delle conseguenze, e possono determinare il nostro futuro. Così come da
un seme si genera una pianta, e quindi dei nuovi frutti. Il Buddha spiegò che
soltanto chi raggiunge l'illuminazione può capire a fondo come funziona il karma:
chi intraprende il percorso verso l'illuminazione deve crederci, come a una verità
di fede.
Il karma può essere buono o cattivo. In che senso le nostre azioni possono essere
buone o cattive? Dipende dalle intenzioni con cui le compiamo. Le buone azioni,
compiute con buone intenzioni, contribuiscono a purificare la nostra mente.
Per questo motivo si ritiene che la religione buddhista dia poca importanza ai
rituali e alle cerimonie: le buone azioni e la meditazione contribuiscono a
purificare la nostra mente.
Le buone azioni, inoltre, producono buone abitudini: la nostra mente diventa
progressivamente più pura e più incline a compiere altre buone azioni.
Le nostre future rinascite sono determinate dai nostri meriti personali. Se
abbiamo compiuto delle azioni dettate da intenzioni positive, il nostro karma è
positivo e la nostra rinascita ci vedrà trasformati in un essere o in una creatura
migliore.
Il numero delle vite che abbiamo vissuto è infinito, nel senso che non ha un inizio,
ma può avere una fine. Anche il Buddha, prima di giungere all'illuminazione, ha
vissuto infinite vite. Alcune di queste vite sono raccontate nei Jātaka, dei racconti
delle precedenti vite del Buddha.
Quando capì il senso del saṃsāra e le conseguenze del nostro karma, il Buddha
raggiunse il nirvana, ovvero la liberazione dalla sofferenza. Egli sapeva che dopo la
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morte, non sarebbe più rinato. Egli provò compassione per tutti gli esseri viventi e
si dispose a insegnare quanto aveva capito.
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7. La via per l'illuminazione: una strada a otto corsie
Riunitosi con i suoi primi discepoli presso il Parco delle Gazzelle di Sarnath, vicino
Varanasi, nell'India Settentrionale, il Buddha spiegò come il percorso per giungere
alla bodhi (illuminazione) fosse un percorso composto da otto aspetti differenti,
ed è per questo tradizionalmente chiamato "ottuplice sentiero".
Gli otto aspetti di questo sentiero sono:
1. giusta visione: la consapevolezza che ogni nostra azione produce delle
conseguenze;
2. giusta intenzione: l'assenza di violenza e malevolenza;
3. giusta parola: non dire bugie, non fare discorsi malevoli o frivoli;
4. giusta azione: non uccidere, rubare e commettere atti impuri;
5. giusti mezzi: non portare avanti lavori o affari immorali;
6. giusto sforzo: impegnarsi al fine di liberare la mente;
7. giusta consapevolezza: sapersi distaccare dal piacere e dalla sofferenza;
8. giusta concentrazione: saper liberare e tranquillizzare la mente, bloccando il
flusso dei pensieri.
Con questo discorso, si dice che il Buddha abbia messo in moto la "ruota della
legge". Per questo l'ottuplice sentiero è rappresentato come una ruota con otto
raggi. Insieme alla dottrina dell'ottuplice pensiero, Buddha ha enunciato anche le
quattro nobili verità.
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8. I tre gioielli
Con la sua prima predicazione, oltre a mettere in moto la ruota della legge, il
dharma, il Buddha ha anche fondato il sangha, ovvero la comunità dei suoi
seguaci.
La persona del Buddha, la legge del Buddha (dharma) e la comunità dei seguaci (il
sangha) sono stati poi conosciuti come "i tre gioielli", in cui cercare "rifugio"
durante il cammino verso l'illuminazione. Da questa concezione deriva la
preghiera che viene recitata durante le festività e le riunioni di fedeli. Questa
formula viene ripetuta tre volte anche da coloro che decidono di entrare a far
parte della comunità dei monaci, nella cerimonia della loro ordinazione a novizi.
La versione in sanscrito con la traduzione italiana è così:
Buddham saranam gacchāmi
vado al rifugio del Buddha
Dhammam saranam gacchāmi
vado al rifugio del Dharma
Sangham saranam gacchāmi
vado al rifugio del Sangha.
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9. La morte di Siddhārtha
Alcune leggende narrano che mentre il Buddha era ancora in vita, tutta la sua
famiglia, il clan degli Śākya, fu sterminata nel corso di una guerra di conquista.
Il Buddha però non si lasciò scomporre da questi eventi. Sapeva che l'ora della sua
morte, e della sua completa estinzione, era vicina: egli non sarebbe più rinato, e
quindi doveva usare il tempo che gli era rimasto per guidare la sua comunità, il
sangha, continuando il suo insegnamento.
Il Buddha continuò la sua predicazione in molte città dell'India del Nord, con al
seguito un piccolo gruppo di monaci. Era accolto con gioia dalla popolazione locale,
ed ebbe la possibilità di formulare insegnamenti approfonditi.
Durante questi continui spostamenti, egli cadde malato: aveva ormai ottant'anni,
doveva essere molto faticoso spostarsi per lunghi tragitti nel clima umido
dell'India del nord. Pare che in una di queste occasioni il demone Mara si mostrò
nuovamente al Buddha, invitandolo a lasciarsi andare e morire, uscendo così
finalmente dal ciclo delle rinascite. Ma il Buddha sapeva che questa era solo una
tentazione che mirava a distoglierlo dal compiere il suo lavoro di predicazione.
I seguaci laici di Buddha, sapendo che egli era ormai vecchio e stava per
abbandonare il mondo, erano disperati. Ma il Buddha ricordava loro le Quattro
Nobili Verità: tutto è impermanente in questo mondo, anche lo stesso Buddha:
niente è destinato a durare.
Durante il viaggio verso la città di Kushinagar, verso l'attuale confine tra India e
Nepal, il Buddha ed il suo piccolo seguito di monaci si fermarono in un villaggio di
capanne. Qui il Buddha fu ospite di un mastro ferraio. Presso la casa di
quest'uomo, egli consumò un pasto che forse era avariato: durante la notte fu
colto da malore. Non diede mai nessuna colpa all'artigiano che lo aveva ospitato,
anzi: aggiunse che poiché aveva offerto l'ultima cena al Buddha, egli aveva
acquisito un grande merito positivo.
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Il giorno dopo egli riprese comunque il cammino verso Kushinagar, nella piana
umida e lussureggiante ai piedi dell'Himalaya dove aveva trascorso la sua infanzia.
Il cammino è lento e faticoso. Quando fu ormai nei pressi della città, il Buddha
decide di riposarsi in un boschetto di alberi di Sal, come quello in cui aveva visto la
luce.
Il monaco Ananda preparò per lui un giaciglio, dove il Buddha si distese,
circondato dai monaci vestiti di giallo. Nelle sue ultime ore, molti laici e religiosi
locali si recarono presso di lui per chiedergli dei consigli, degli insegnamenti.
Il Buddha quella sera si addormentò e non si risvegliò più: aveva raggiunto il
mahāparinirvāṇa, la grande e definitiva liberazione dal ciclo delle rinascite. La
liberazione dal ciclo delle rinascite, il nirvana, si può comprendere da vivi e
realizzare pienamente con la morte.
Quando il Buddha esalò l'ultimo respiro, la terra tremò, e gli alberi di Sal fecero
cadere una pioggia di fiori fuori stagione.
Il corpo di Buddha fu cremato seguendo le indicazioni del discepolo Ananda, che
gli era stato accanto fino alla fine. Ci sono molte leggende che raccontano della
spartizione dei suoi resti, che vennero conservati come delle reliquie.
Secondo una leggenda, queste reliquie furono conservate in otto diversi stupa, dei
monumenti diffusi nell'India del nord che avevano appunto la funzione di
conservare e proteggere le reliquie di Buddha. Gli stupa sono meta di
pellegrinaggio e di venerazione da parte dei fedeli buddhisti, e sono diffusi in tutta
l'Asia. Non sono dei templi, ma dei monumenti e delle rappresentazioni
dell'universo: non si può entrare al loro interno, ma i fedeli ci girano intorno in
processione.
Non dobbiamo pensare alle reliquie di Buddha come delle vere e proprie parti
della salma, perché questa fu cremata: ne rimasero delle perline, fuse dal fuoco
della pira funebre.
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Nei secoli si è diffusa l'idea, comune anche nelle tradizioni religiose europee, che i
monasteri fossero particolarmente venerabili se conservavano almeno una
reliquia del corpo del Buddha. Così il numero delle reliquie, vere o finte, crebbe a
dismisura, raggiungendo varie decine di migliaia; esse si sono diffuse come
oggetto di venerazione anche fuori dall'Asia, fino a raggiungere gli Stati Uniti.
Poco dopo la morte del Buddha, si tenne una riunione dei discepoli che gli erano
stati vicini fino all'ultimo. Questa assemblea è tradizionalmente nota come "Primo
Concilio", o più letteralmente "prima recitazione". Furono infatti recitati sotto
forma di dialoghi tutti gli insegnamenti del Buddha, che vennero poi tramandati
oralmente.
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10. Il segreto del successo
L'obiettivo finale dell'essere umano che sceglie di seguire le teorie buddhiste è
risvegliare la propria coscienza. Risvegliarsi vuol dire raggiungere una nuova
consapevolezza, capire il senso dell'esistenza: la vita è sofferenza, e per liberarsi
dalla sofferenza, bisogna interrompere il ciclo delle rinascite.
Solo spezzando la catena che ci lega al saṃsāra possiamo morire con la
consapevolezza che non rinasceremo più, che raggiungiamo la pacificazione
(nirvana) definitiva.
La vita è sofferenza: la vera liberazione avviene quando non si rinasce più. Come
mai una teoria filosofica e religiosa che promuove un'idea così triste della vita ha
avuto tanto successo?
Il successo delle teorie del Buddha ha più motivazioni. Tra le più importanti vi è
sicuramente il fatto che le teorie di Buddha si rivolgevano a tutti, senza distinzione
di gruppo sociale. Non aveva importanza se si era nati in una famiglia di sacerdoti
che avevano il diritto esclusivo di officiare i rituali, in una famiglia di ricchi
proprietari terrieri o in una famiglia di artigiani o di contadini: tutti potevano
raggiungere il nirvana, se decidevano di seguire l'ottuplice sentiero che porta alla
liberazione dal ciclo delle rinascite.
Sembra che l'imperatore Aśoka, un sovrano che unificò gran parte del nord
dell'India nel corso del III secolo a. C., scelse il buddhismo come religione del
proprio impero proprio perché pensava che avrebbe potuto favorire l'armonia tra
i suoi sudditi. Egli introdusse un nuovo simbolo che rappresentava il suo potere e
il sostegno alla religione buddhista: una ruota a ventiquattro raggi, che
rappresenta la ruota del dharma buddhista, ed è tuttora il simbolo della nazione
indiana (riportato sulla bandiera nazionale).
Il periodo in cui il Buddha visse e produsse le sue nuove teorie era un periodo di
forte crescita economica nel nord dell'India. I raccolti erano stati buoni, le città
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crescevano, si svilupparono i commerci. Ed è proprio grazie alla classe dei
commercianti che il buddhismo si diffuse rapidamente.
Buddha non disse niente sull'esistenza di un dio o di divinità da venerare con
cerimonie o riti. Disse semplicemente che per liberarsi dalla sofferenza bisognava
seguire l'ottuplice sentiero, e purificare la propria mente, attraverso karma
positivo e meditazione. Una teoria così formulata è economica e semplice da
seguire, soprattutto se per mestiere si deve viaggiare e non si può stare sempre
nello stesso posto, e bisogna adattarsi a vivere anche a contatto con persone di
culture diverse.
Per queste ragioni, molti commercianti scelsero le teorie di Buddha e vi
adattarono il proprio stile di vita. Non a caso, le prime rappresentazioni di Buddha
che conosciamo sono forgiate su delle monete.
Seguendo le carovane dei mercanti, un po' come un passaparola, le teorie di
Buddha si spostarono verso nord, attraverso i passi e le valli dell'Himalaya, e si
diffusero in tutta l'Asia.
Nuovi seguaci cambiarono il proprio stile di vita adattandolo alle teorie del
Buddha; per converso, le teorie buddhiste si adattarono a nuovi contesti e diverse
culture: nacquero così molte scuole filosofiche buddhiste diverse.
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11. L'immagine di Buddha
Le prime rappresentazioni del Buddha furono solo simboliche. Si rappresentavano
soprattutto le impronte dei suoi piedi, scolpite su pietra, con sulla pianta il segno
della ruota del dharma. Un'altra immagine rappresentativa del buddhismo è il
fiore di loto, simbolo di purezza che nasce da acque fangose.
Il mandala è invece una rappresentazione simbolica dell'universo, che viene usata
anche come strumento per aiutare la concentrazione nella meditazione.
Le prime rappresentazioni più dettagliate della figura di Buddha furono sculture
prodotte fuori dai confini del subcontinente indiano, nella valle del Gandhāra.
Il Gandhāra si trova al confine tra il Pakistan e l'Afghanistan. Questa regione era
stata raggiunta dagli eserciti di Alessandro Magno nel IV secolo avanti Cristo, e ha
conservato a lungo una forte influenza ellenica, soprattutto nell'arte.
Nei primi secoli dopo Cristo, questa regione fu dominata dai Kushana, una dinastia
di origine centro asiatica, che si convertì al buddhismo anche per motivi politici.
Nella stessa regione convivevano quindi artisti di scuola ellenica, teorie filosofiche
indiane e dominatori centro-asiatici. Da questo ambiente culturale nacquero le
prime rappresentazioni del Buddha storico sotto forma di sculture di forte
influenza greca. Lo stile di queste statue è noto come arte greco-buddhista: il
Buddha è spesso rappresentato vestito come un filosofo greco.
Nei secoli successivi, alcune caratteristiche di queste statue sono state
riconosciute come lakṣaṇa, cioè i "segni particolari" che distinguono un Buddha
dalle persone comuni.
Si dice che il Buddha avesse 32 lakṣaṇa, tutti derivati da azioni positive e meriti
delle sue vite precedenti. Tra questi, i lobi delle orecchie allungati, che
simboleggiano il fatto che nella sua vita precedente il Buddha aveva indossato
gioielli e orecchini preziosi, ed ha poi deciso di rinunciare alle ricchezze.
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Alcuni dei tradizionali segni di riconoscimento del Buddha nascono in maniera
particolare. Gli scultori rappresentavano le dita del Buddha unite insieme perché
in questo modo erano più stabili e non si sarebbero spezzate. Da questa
caratteristica delle sculture è derivata l'idea che il Buddha avesse le dita dei piedi
e delle mani "palmate", unite insieme da una membrana. Sembra quindi che non
siano stati i racconti ad influenzare le statue, ma viceversa.
Le sculture della valle del Gandhāra hanno un carattere narrativo: raccontano
scene della vita del Buddha storico e delle sue vite precedenti.
Le splendide sculture della valle del Gandhāra sono state ritrovate anche grazie al
contributo di diverse missioni di archeologi italiani in Pakistan, a partire dal 1957.
Alcuni importanti esemplari sono conservati nel Museo Nazionale d'Arte Orientale.
27
12. Il Buddha non era grasso
Siddhārtha Gautama degli Śākya era il figlio di un ricco possidente, probabilmente
il capo di una confederazione di villaggi o cittadine al confine tra India e Nepal.
Sappiamo che il periodo in cui visse, intorno al V secolo avanti Cristo, fu un
periodo di grande crescita economica e urbana nel nord dell'India.
La famiglia di Siddhārtha era una famiglia ricca, e il futuro Buddha trascorse
un'infanzia molto agiata. Sappiamo che era un giovane bellissimo che tutte le
donne della corte del padre si affannavano anche solo per vederlo da lontano. Era
abile negli sport ed un ottimo poeta.
Dopo aver deciso di abbandonare la casa dei genitori, la moglie e il figlio,
Siddhārtha Gautama intraprese lunghi e strazianti digiuni per cercare una via di
salvezza dalla sofferenza.
Possiamo immaginare, quindi che fosse veramente magro, quasi da sembrare
malato. Perché allora spesso viene rappresentato come un monaco grasso e
sorridente? Nel corso degli anni, molte nuove figure sono entrate a far parte della
tradizione buddhista. In Cina è molto famoso Budai, letteralmente "sacca di
stoffa", che fu probabilmente un monaco vissuto intorno al decimo secolo dopo
Cristo. Questa figura divenne molto popolare e venerata, e a volte viene
identificato anche come una reincarnazione del "Buddha del futuro". Spesso, per
errore, questo monaco cinese sorridente viene confuso con il Buddha storico,
Siddhārtha Gautama.
Budai era grasso e sorridente: finì per essere considerato un portafortuna, e in
particolare un augurio di prosperità e felicità.
28
13. Le lingue, i testi
Non sappiamo con certezza in che lingua il Buddha espresse i suoi primi
insegnamenti. Nel IV-V secolo a. C. in India non esisteva ancora una scrittura, e
quindi le teorie buddhiste furono a lungo tramandate oralmente, e messe per
iscritto solo molti secoli dopo. Probabilmente egli si espresse in uno dei dialetti
dell'India settentrionale, che prendono il nome di prakriti. Le più antiche iscrizioni
indiane, databili intorno al III sec. a. C., sono state fatte incidere nelle lingue
prakriti dall'imperatore Aśoka.
Il sanscrito è una lingua originaria dell'India, che fa parte delle lingue indoeuropee,
quindi è imparentata con il greco antico e il latino. Rispetto ai prakriti, fu
codificata in una grammatica, ed era considerata la lingua dei rituali, della poesia e
della filosofia. In sanscrito è stato scritto il maggiore poema che racconta la storia
di Siddhārtha Gautama, il Buddhacarita o "Le gesta del Buddha".
Poco tempo dopo la morte del Buddha si tenne una riunione di tutti i suoi
discepoli nota come "Primo Concilio"; durante questa riunione vennero recitati i
suoi insegnamenti sotto forma di dialoghi.
I monaci imparavano questi dialoghi a memoria: la loro ordinazione era completa
solo quando avevano memorizzato le conoscenze necessarie. Gli insegnamenti del
Buddha vennero trasmessi oralmente, a memoria, da monaco a novizio, per
quattro o cinque secoli, prima di essere annotati per iscritto.
Tra le lingue prakriti bisogna menzionare il pāli; in lingua pāli sono stati scritti per
la prima volta i testi buddhisti più antichi, nel I secolo avanti Cristo.
Questi testi sono detti della tradizione Theravāda, ovvero della tradizione degli
antichi, e furono redatti nell'India meridionale e in Sri Lanka. In seguito sono stati
copiati e tramandati fino ai giorni nostri e sono conosciuti con il nome di "canone
pāli". Un canone è un elenco di opere considerate fondamentali in un certo
ambito.
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In sanscrito, questo canone viene chiamato Tripiṭaka, ovvero "i tre canestri", cioè i
tre cesti. La suddivisione si può riassumere così (i nomi sono riportati in pāli):
- vinaya piṭaka, ovvero le regole di condotta dei monaci;
- sutta piṭaka, la raccolta degli insegnamenti del Buddha;
- abhidhamma piṭaka, una riorganizzazione del complesso di tutti gli insegnamenti.
Questi testi, così organizzati, costituiscono il nucleo di base più antico del
buddhismo.
I testi del canone pāli vengono tradizionalmente fatti risalire al primo concilio che
si tenne poco tempo dopo la morte di Buddha, anche se sono stati scritti molti
secoli dopo.
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14. Il vinaya, ovvero le regole dei monaci (e delle monache)
Coloro che intraprendono il sentiero per la liberazione e decidono di entrare a far
parte della comunità dei monaci di fatto devono rinunciare al loro stile di vita
precedente.
Si vestiranno di giallo, e dedicheranno la loro vita allo studio dei testi sacri e alla
preghiera. Non possono mettere su famiglia, né dedicarsi a qualsiasi tipo di
attività commerciale: possono vivere solo chiedendo l'elemosina.
D'altronde, nell'India antica il loro compito era fondamentale: dovevano imparare
a memoria e tramandare l'insegnamento del Buddha, perché ancora non era in
uso la scrittura.
Se gli insegnamenti del Buddha sono sopravvissuti, lo dobbiamo solo al fatto che
questi monaci si dedicarono ad impararli a memoria.
Secondo la tradizione buddhista, fu lo stesso Buddha storico ad elaborare le
regole di condotta dei monaci. Il processo andò avanti per tentativi: quando i
monaci compivano atti che potevano essere considerati immorali (che potevano
produrre karma negativo, perché dettati da cattive intenzioni) il Buddha
interveniva per rettificare quanto accaduto.
Il Buddha aveva un modo di pensare molto orientato alla pratica, e interveniva
nelle situazioni sempre con l'obiettivo di proteggere la sua comunità, di orientarla
sul sentiero della purezza e della moralità.
Le sue regole, inoltre, erano dettate al fine di aumentare il numero dei fedeli, e
sempre nell'idea di tutelare anche coloro che non erano ancora credenti.
Il suo metodo procedeva quindi da specifiche esigenze, o necessità, formulando
delle soluzioni.
Vi erano, essenzialmente, due tipi di regole: quelle definite per i singoli individui e
quelle formulate per il bene dell'intera comunità.
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Vediamo alcuni esempi.
Quando il Buddha tornò nella sua città natale, Kapilavastu, suo figlio Rahula gli
andò incontro, chiedendogli la sua eredità. Il Buddha allora disse ai suoi seguaci di
prepararlo per la cerimonia di iniziazione al noviziato, attraverso la quale Rahula
sarebbe entrato a far parte della comunità dei monaci.
Il Buddha ci spiega anche le fasi di questa cerimonia: il novizio viene rasato e viene
fatto vestire di giallo; egli deve venerare tutti i monaci più anziani sfiorando i loro
piedi e salutandoli a mani giunte. Infine deve recitare tre volte la formula del
"prendere rifugio".
In seguito il padre di Buddha, Śuddhodana, si recò presso di lui e gli espose il suo
problema. Non solo suo figlio lo aveva abbandonato, ma anche il cugino di Buddha,
Nanda, era entrato nell'ordine. Ora che il figlio di Buddha, Rahula, era divenuto
novizio, il dolore per Śuddhodana era fin troppo difficile da sopportare.
Egli chiese dunque a Buddha di introdurre una nuova regola: d'ora in poi nessuno
poteva essere ordinato monaco senza l'autorizzazione dei suoi genitori.
Il Buddha acconsentì, in un certo senso correggendo anche il suo stesso
comportamento.
Un'altra regola, nata sempre per necessità, prevedeva che nessuno sotto i
vent'anni potesse diventare monaco. Il Buddha infatti pensava che i giovani sotto i
vent'anni non potessero sopportare le difficoltà della vita dei monaci, che fanno
voto di vivere di sola elemosina.
In seguito ad una grave epidemia, vi fu un gran numero di ragazzini orfani, che
avevano perso i genitori per colpa della malattia. Pur di salvarli dalla fame e per
non abbandonarli a se stessi, il Buddha decise di cambiare la regola dell'età,
abbassando l'età minima a quindici anni - purché i giovani fossero in grado di
scacciare i corvi. Questa curiosa regola è ancora in vigore in Sri Lanka.
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Questo esempio ci fa capire come le regole fossero intese in maniera "plastica",
cioè si potevano adattare alle circostanze.
Molti associano il buddhismo alla dieta vegetariana; in realtà Buddha non vietò il
consumo di carne: i monaci avrebbero potuto mangiare tutto quello che gli veniva
donato, purché gli animali non fossero stati ammazzati proprio per loro (non
mangiare un animale già morto vorrebbe dire sacrificarlo invano).
Tutto può cambiare e si adatta alle circostanze. Il Buddha stabilì con una regola
che il discepolo ha il dovere di correggere il proprio maestro se sbaglia a
pronunciarsi su questioni religiose: in questo modo gli eviterà di commettere un
errore ancora più grave.
Nella tradizione buddhista esistono anche ordini monastici femminili. Secondo le
leggende buddhiste, la prima donna a divenire monaca fu Mahāpajāpatī, la zia di
Buddha, che lo aveva accudito quando era piccolo.
Anche le monache buddhiste hanno i capelli rasati e si vestono di giallo o di
arancione. In generale seguono le stesse regole dei monaci.
Nella tradizione buddhista più antica, la scuola Theravāda, l'ordinazione delle
monache si è estinta intorno al XI-XIII secolo. Non ci sono più monache della
stessa tradizione che possano dare i voti, cioè nominare altre monache. Questo
pretesto è stato utilizzato in Thailandia per vietare in maniera assoluta
l'ordinazione di monache. Le donne thailandesi che prendono i voti sono
condannate al carcere.
In altri paesi asiatici, tra cui Cina, Taiwan, Giappone, Corea e Sri Lanka, gli ordini
monastici
femminili
sono
ancora
attivi.
Esiste
inoltre
un'associazione
internazionale di donne buddhiste, fondata in India con il patrocinio del Dalai
Lama, che unisce circa duemila fedeli, tra monache, monaci e fedeli laiche di 45
nazioni diverse.
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15. La scuola Theravāda
In Sri Lanka, la grande isola a sud-est dell'India, intorno al terzo secolo avanti
Cristo, parte della popolazione era di origine indiana: alcuni resoconti parlano del
principe Vijaya, che con un seguito di settecento persone, aveva preso possesso
della fortezza di Lanka. Probabilmente gli indiani erano giunti in Sri Lanka
seguendo le rotte commerciali, e vi avevano fondato una colonia.
Aśoka, il sovrano che unificò gran parte del nord dell'India nel corso del III secolo a.
C., aveva un figlio, Mahinda. Il padre avrebbe voluto che egli diventasse l'erede al
trono, invece Mahinda decise di diventare un monaco buddhista.
La tradizione tramanda che il monaco Mahinda, intorno al 250 a. C., si recò in Sri
Lanka, e vi introdusse le teorie buddhiste. Un'altra leggenda tramanda che lo
stesso sovrano Aśoka avesse spedito in Sri Lanka su un vascello un esemplare di
Ficus Religiosa, l'albero sotto il quale Buddha aveva raggiunto l'illuminazione.
Dai discendenti del principe Vijaya, convertiti al buddhismo, ebbe origine l'etnia
singhalese dello Sri Lanka. Attualmente costituisce i tre quarti della popolazione
dell'isola, ed è stanziata soprattutto nella zona centro meridionale.
La tradizione buddhista riporta che i testi fondamentali furono messi per iscritto
proprio in Sri Lanka, durante il I secolo avanti Cristo. I discorsi del Buddha, fin ad
allora trasmessi oralmente, furono quindi codificati per iscritto in lingua pāli.
Questa è la prima codificazione che abbiamo dell'insegnamento del Buddha,
avvenuta circa cinque secoli dopo la sua morte. Nei lunghi secoli tra la morte del
Buddha e la scrittura dei suoi insegnamenti, era stato compito dei monaci
tramandare i suoi discorsi, che venivano imparati a memoria e ripetuti oralmente.
Non sappiamo quanto queste scritture prodotte in lingua pāli corrispondano a
quanto insegnato dal Buddha storico, ma sulla base di questi scritti si è sviluppata
la più antica scuola di buddhismo che esiste ancora ai giorni nostri, la scuola
Theravāda, ovvero "la scuola degli antichi".
34
Questa scuola, che si rifà ai testi codificati nel I secolo avanti Cristo, si è in seguito
diffusa dallo Sri Lanka in altre regioni del Sud Est asiatico, in particolare in Laos,
Cambogia, Thailandia e Burma. In questi paesi è tutt'ora l'ordinamento religioso
più diffuso.
Fa parte di questa scuola l'eminente monaco e filosofo Buddhaghoṣa, che nel V
secolo dopo Cristo partì dal nord dell'India per recarsi in Sri Lanka alla ricerca dei
testi buddhisti più antichi. Giunto in Sri Lanka, vi trovò il canone in lingua Pāli, e
passò il resto dei suoi giorni a studiarlo, rimetterlo in ordine e scrivere numerosi
commenti. Buddhaghoṣa ha anche scritto un lungo e approfondito trattato in
lingua Pāli sulla meditazione, il Visuddhimagga, ovvero "Sentiero della
Purificazione".
35
16. Il Buddhismo in Sri Lanka
Il buddhismo Theravāda in Sri Lanka è sempre stato legato al potere monarchico
delle dinastie singhalesi, discendenti dei primi colonizzatori provenienti dall'India.
L'isola è spesso stata dilaniata dalle guerre che hanno visto opporsi i singhalesi e i
tamil, popolazioni originarie del sud dell'India, che si sono installate nella parte
settentrionale dell'isola.
Il potere ed il prestigio dei monasteri e dei monaci buddhisti in Sri Lanka sono stati
messi a dura prova soprattutto dalla dominazione coloniale.
La prima dominazione coloniale fu quella dei portoghesi, tra il 1505 e il 1658. I
portoghesi, di religione cristiana e cattolica, portarono avanti, con l'aiuto dei
missionari,
una
massiccia
opera
di
conversione:
fondamentalmente,
promettevano degli incarichi prestigiosi a chi si fosse convertito al cristianesimo, e
punivano crudelmente i buddhisti che rifiutavano di convertirsi. I missionari
cristiani spesso chiesero ed ottennero la distruzione di reliquie buddhiste da parte
delle autorità militari portoghesi.
Tra il 1658 e il 1796 lo Sri Lanka fu dominato dagli olandesi. La dominazione
olandese è ricordata come meno crudele di quella portoghese, ma i nuovi
colonizzatori costruirono un sistema burocratico e di istruzione che sosteneva la
religione cristiana: le scuole erano gestite da missionari protestanti, e i matrimoni
e le nascite potevano essere registrati solo se officiati con rito cristiano.
Gli olandesi erano principalmente interessati alla gestione delle coste e dei traffici
marittimi, e così nell'entroterra dell'isola di Sri Lanka i sovrani singhalesi
continuarono a sostenere il buddhismo come religione ufficiale, proteggendo i
monasteri e promuovendo varie riforme del sistema monastico.
Nel 1815 l'impero britannico prese il controllo della capitale dell'isola, ponendo
fine alla dinastia singhalese che aveva protetto il buddhismo per più di duemila
anni. Nel firmare il trattato che cedeva il loro dominio all'impero britannico, la
36
dinastia singhalese chiese che fosse inserita una legge che tutelasse la religione
buddhista. In un primo tempo questa legge fu rispettata, in seguito i dominatori
britannici conferirono sempre più privilegi ai cristiani e a coloro che si
convertivano al cristianesimo. Venne finanziato e sostenuto un sistema scolastico
gestito da missionari cristiani: le famiglie preferivano mandare i figli in queste
scuole perché pensavano che così avrebbero avuto più possibilità di fare carriera.
L'educazione impartita in questi istituti mirava a sradicare la cultura buddhista ed
esaltare gli ideali del cristianesimo.
Alla fine dell'Ottocento in Sri Lanka nacquero nuovi movimenti per la rivalutazione
del buddhismo, anche ispirati da pensatori stranieri. Da questi movimenti nacque
una sorta di "nazionalismo buddhista", uno spirito di appartenenza non solo alla
religione buddhista, ma anche alla nazione dello Sri Lanka.
Lo Sri Lanka ottenne l'indipendenza nel 1948, e dal 1972 è una repubblica
socialista. La storia recente della nazione è marcata da continue lotte interne tra
la popolazione tamil e quella singhalese, solo temporaneamente interrotte in
seguito al disastroso tsunami del 2004.
L'idea del buddhismo come simbolo di appartenenza alla nazione dello Sri Lanka e
all'etnia singhalese è influente ancora oggi in una frangia estrema di buddhisti,
che si dichiarano anti-musulmani e, in aperta e netta contraddizione con quanto
insegnato dal Buddha, hanno compiuto atti di violenza contro le moschee. Si
tratta, comunque, di un movimento estremista piuttosto ristretto.
Attualmente in Sri Lanka, su una popolazione di circa venti milioni di persone,
circa il 70% di cittadini si dichiara buddhista e si contano circa 6000 templi e
decine di migliaia di monaci che dichiarano di discendere dalla tradizione del
Primo Concilio del buddhismo e di appartenere alla scuola Theravāda.
In seguito ai recenti fenomeni migratori verso i paesi europei e gli Stati Uniti, la
tradizione Theravāda si è diffusa anche in occidente.
37
17. Il Buddhismo sulla Via della Seta
La Via della Seta era un sistema di comunicazione e trasporti nato per motivi
commerciali che, attraversando territori vastissimi, permetteva di partire dai porti
sul Mediterraneo e raggiungere le capitali dell'impero cinese.
Non era un viaggio facile: si partiva in nave fino a raggiungere i porti di Istanbul o
di Antiochia, in Turchia; poi si procedeva con delle carovane di cammelli
attraverso l'attuale Iraq, lungo le strade dell'impero persiano e lungo il corso del
fiume Eufrate (Iran). Dopo Teheran, il sistema di strade si divideva. Una parte
attraversava le verdi vallate dell'Afghanistan e del Pakistan, dove un tempo erano
instaurati i regni dei discendenti di Alessandro Magno. Altre strade proseguivano
verso nord, tra deserti e caravanserragli, fino alla città di Samarcanda. Da qui si
procedeva attraverso il bacino del Fergana, tra rilievi montuosi alti tremila metri, e
si arrivava alla città crocevia di Kashgar, nel bacino del fiume Tarim, che nel primo
secolo dopo Cristo faceva parte del grande dominio dei Kushana, ed oggi fa parte
della regione autonoma del Xinjiang, in Cina. Da qui si procedeva, anche
sfruttando la navigabilità del Fiume Giallo, fino alle capitali cinesi di Chang'an
(odiera Xi'an) e Luoyang.
Anche le teorie di Buddha si sono spostate lungo queste strade impervie, tra
altipiani e deserti. Erano idee molto affascinanti e per certi versi, consolatorie. I
mercanti le adottarono come proprie, e le raccontavano ai propri colleghi di città
lontane. Inoltre, spinti dal desiderio di far conoscere il dharma fuori dall'India, e
sempre alla ricerca di offerte e sussidi per portare avanti la propria missione, i
monaci buddhisti si unirono alle carovane di mercanti.
Così il buddhismo iniziò a diffondersi in Asia. Le idee di successo fanno molta
strada, e spingono a realizzare grandi progetti.
38
Lungo la Via della Seta, in particolare, si sviluppò l'arte greco-buddhista del
Gandhara, cui dobbiamo le prime rappresentazioni di Siddhārtha Gautama, che
hanno anche influenzato la letteratura successiva.
Sempre lungo la Via della Seta, presso l'oasi di Dunhuang, è stato scoperto uno dei
siti archeologici buddhisti più importanti al mondo. Lungo una parete rocciosa del
monte Mingsha si trova un complesso templare di circa mille e seicento metri,
costituito da 492 santuari e grotte scavate nella pietra. Le grotte contengono
statue di Buddha e dipinti murali databili dal IV al XIV secolo dopo Cristo: per mille
anni, monaci buddhisti, artisti e artigiani hanno costruito questo luogo di
devozione.
Dunhuang era una città particolare, sede delle ultime torri di segnalazione della
grande muraglia cinese di epoca Han - in queste torri venivano accesi grandi
fuochi per segnalare l'arrivo di eserciti nemici, infatti Dunhuang vuol dire "faro
splendente"; la città si trova a duemila e quattrocento chilometri da Pechino, nella
periferia dell'impero. Nel corso dei secoli, è stata abitata e governata da popoli
dell'Asia Centrale di diverse etnie, tra cui turchi, tibetani, mongoli.
I dipinti e le statue delle grotte di Mogao rappresentano la fusione di motivi
indiani, cinesi, tibetani e centro asiatici.
Nel 1900 durante un lavoro di ristrutturazione, il guardiano delle cave, un eremita
daoista di nome Wang Yuanlu, scoprì per caso una grotta chiusa. La aprì e trovò al
suo interno un'intera biblioteca, sigillata da oltre mille anni. Nella grotta erano
conservati manoscritti in cinese, tibetano, sanscrito, sogdiano. Oltre ai manoscritti,
vi erano circa quindicimila libri a stampa, quasi tutti testi buddhisti.
Tra questi, vi è una copia del "Sūtra del Diamante", un testo molto venerato dalla
tradizione buddhista, tradotto per la prima volta dal sanscrito al cinese nel V
secolo. Il libro ritrovato a Dunhuang è databile all'anno 868 dopo Cristo: si tratta
del libro stampato più antico al mondo - Gutenberg stampò la prima Bibbia solo
39
nel 1455. Il libro del "Sūtra del Diamante" di Dunhuang è oggi conservato presso la
British Library di Londra.
40
18. Il buddhismo arriva in Cina
Diffondendosi lungo i canali commerciali della Via della Seta e della Via delle
Spezie, le teorie buddhiste raggiunsero nuovi territori e affascinarono molti nuovi
fedeli, cambiando il loro stile di vita.
Ci sono molte leggende sull'arrivo del buddhismo in Cina. La più famosa di tutte è
forse quella del Tempio del Cavallo Bianco. Questa leggenda narra che
l'imperatore Ming (28 - 75 d. C.) della dinastia Han fece un sogno: una grande
figura dorata volava sul suo palazzo, riempiendolo di gioia. Il giorno dopo,
l'imperatore chiese ai suoi consiglieri di quale dio si trattasse. Essi risposero che si
trattava di un dio che veniva dal "paradiso occidentale", ovvero dall'India.
L'imperatore inviò un messaggero a cercare una traccia di questa divinità, ed
ottenne un curioso risultato: le scritture buddhiste arrivarono presso la sua corte,
sulla groppa di un cavallo bianco, insieme a due monaci. Per ricordare questo
prodigio nella città di Luoyang, allora capitale dell'impero, venne fondato il
Tempio del Cavallo Bianco.
Non ci sono prove storiche che ci assicurino della verità di questa leggenda, ma
molti documenti storici testimoniano che a partire dalla metà del II secolo
circolavano a Luoyang molti manoscritti di testi buddhisti. Queste idee si erano
diffuse con la migrazione dei mercanti dal centro dell'Asia nelle regioni limitrofe
alla capitale dell'impero. Infatti, i primi monaci buddhisti in Cina erano tutti di
origine centro-asiatica.
Il principale problema per la diffusione del pensiero buddhista era un problema
linguistico. Il cinese è una lingua molto diversa dai dialetti dell'India.
Vennero così a crearsi degli "uffici di traduzione", all'interno dei monasteri o
presso le corti dei sovrani cinesi e centro-asiatici. In questi uffici, i monaci
lavoravano a squadre. Un monaco erudito, spesso di origine indiana, recitava i
sūtra a memoria, o leggeva i manoscritti. Un interprete che conosceva tutte e due
41
le lingue faceva da intermediario. Vi era poi un monaco che annotava quello che
veniva detto in cinese, spesso includendo anche i commenti e le spiegazioni. Alla
fine un "correttore di bozze" controllava il lavoro.
La vita di questi monaci non era facile. Dovevano cercare la protezione di signori
potenti che potevano garantire i mezzi per portare avanti il lavoro di traduzione
dei testi sacri. Spesso il frutto del loro lavoro era messo in discussione: potevano
dimenticare parti dei sūtra, oppure avere dei manoscritti incompleti - ricadeva
quindi su di loro la responsabilità di aver trasmesso la parola del Buddha in modo
"sbagliato". Ci sono anche molti casi di testi apocrifi, "finte traduzioni": si tratta di
testi sacri scritti in Cina che fingono di essere traduzioni di testi indiani originali.
Alcuni di questi testi hanno avuto grande successo e ci permettono di capire come
il pensiero buddhista sia cambiato a contatto con la millenaria cultura cinese.
La storia della diffusione del buddhismo nell'impero cinese non è solo una storia di
monaci coraggiosi, traduzioni e successi. Nell'anno 845 l'imperatore Wuzong della
dinastia Tang perseguitò i seguaci del buddhismo, fece distruggere i monasteri, le
scritture e tutti i simboli della religione. La persecuzione durò più di un anno, fino
alla morte di Wuzong, nell'anno 846. I danni alla cultura buddhista cinese furono
enormi.
In Cina si svilupparono diverse scuole di pensiero buddhista. La maggior parte di
queste scuole vanta di essere derivata da preesistenti scuole indiane, e ha come
base testi sacri buddhisti scritti in India.
Indipendentemente dall'origine di queste scuole, esse possono essere considerate
un prodotto culturale cinese, e nel corso dei secoli hanno esercitato una grande
influenza nei paesi vicini, soprattutto in Corea, in Giappone (e da qui, in America),
e in Vietnam.
Tra le più importanti scuole di buddhismo cinese ci sono:
42
- la scuola della Terra Pura, focalizzata sul culto di Amitābha Buddha - secondo
questa scuola esistono infiniti Buddha, ognuno dei quali esercita un potere
benefico su tutto ciò che ha intorno, creando una "Terra Pura". Ci si rivolge ai
Buddha di ciascuna Terra Pura per ottenere l'illuminazione;
- la scuola Tiāntái prende il nome dalla montagna su cui è stata fondata nel VI
secolo, ed ha avuto un grande successo in Vietnam, Corea e Giappone, dove è
tuttora fiorente con il nome di Tendai; questa scuola si ispira alle teorie del
filosofo indiano Nāgārjuna, secondo cui il mondo che percepiamo è
continuamente soggetto al cambiamento, quindi niente esiste veramente, ma
tutto è "vuoto" di realtà assoluta;
- la scuola della Ghirlanda Brillante, teorizzata dal monaco Fazang, è stata
sostenuta dall'unica imperatrice donna della storia cinese, Wu Zetian (684–705).
Questa scuola sottolineava in particolar modo l'importanza del comprendere che
tutte le cose dell'universo sono in relazione tra loro. Dopo la morte di Wu Zetian,
la scuola conobbe un rapido declino;
- la scuola Chán si sviluppò a partire dal VI secolo, nelle regioni montuose della
Cina centro-orientale. Questa scuola diede grande importanza alle pratiche della
meditazione e al rapporto tra studente e maestro. Nell'ambito del Buddhismo
Chan si è sviluppata la tradizione della pratica delle arti marziali. Questa scuola nel
XIII secolo ha cominciato ad avere influenza in Giappone, dove è conosciuta come
"buddhismo Zen".
43
19. Alla ricerca dei testi mancanti: i viaggi ad occidente
Ci sono molte figure di monaci esemplari, che sacrificarono la loro vita per lo
studio e la diffusione delle scritture in Cina. Il primo monaco che compì il viaggio
"al contrario" fu Faxian, nel quarto secolo. Egli si recò in India insieme ad altri
monaci, e scrisse un importante resoconto dei suoi viaggi.
Il più famoso monaco cinese a compiere un viaggio in India è sicuramente
Xuanzang (602 - 664), che visse durante la dinastia Tang. All'età di ventisette anni,
egli decise che avrebbe dovuto approfondire i suoi studi, e chiarire tutti i suoi
dubbi sul pensiero di Buddha. In quell'epoca l'imperatore Taizong aveva proibito i
viaggi all'estero, quindi Xuanzang dovette uscire dai confini dell'impero di
nascosto, e chiedere la protezione dei re dei territori dell'Asia Centrale. Affrontò
molti pericoli per raggiungere l'India, in un viaggio estremamente duro e
pericoloso che durò dieci anni.
In India fece dei pellegrinaggi nei luoghi della vita del Buddha, prese molti appunti
di viaggio che ancora oggi usiamo come documenti sulla storia del sub-continente
indiano. Studiò con importanti maestri, copiò e porto via con sé un enorme
numero di manoscritti. In Cina i suoi insegnamenti furono di ispirazione per la
fondazione di nuove scuole di pensiero buddhiste.
L'imperatore Taizong (599 - 649) della dinastia Tang chiese a Xuanzang di scrivere
un resoconto del suo viaggio alla ricerca dei sūtra buddhisti.
Il lungo resoconto del monaco Xuanzang ispirò la produzione di un romanzo molto
famoso in Cina, il Xi you ji, "Racconto del viaggio ad Occidente" scritto nel XVI
secolo da Wu Cheng'en. Si tratta di una rivisitazione fantastica del viaggio di
Xuanzang, che si reca in India accompagnato da magici aiutanti, tra i quali uno
scimiotto. Le leggende narrate in questo romanzo hanno ispirato molti film e
cartoni, tra cui Dragon Ball.
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20. Piccolo Veicolo/Grande Veicolo
All'inizio della nostra era, circa cinquecento anni dopo la nascita di Buddha, le sue
teorie cambiarono orientamento: vennero esposte in uno stile diverso, rivolte ad
un pubblico diverso e con nuove teorie e contenuti.
Questa nuova moda di pensiero si auto-definì come più grande e più importante
di quella precedente: Mahāyāna è la tradizione del Grande Veicolo (in sascrito
mahā vuol dire grande, mentre yāna è un carro).
Secondo questa tradizione, vi è stato un "secondo giro della ruota del dharma",
cioè un secondo discorso tenuto dal Buddha su un monte, ma solo per
un'assemblea di pochi eletti, che in seguito furono chiamati bodhisattva. Questo
discorso è stato a lungo tenuto segreto, perché le persone comuni non erano
ancora pronte per capirlo: è stato svelato ai fedeli molti secoli dopo.
In che senso un grande veicolo? La tradizione Mahāyāna lo spiega attraverso una
parabola, come quelle che il Buddha stesso amava molto raccontare: si tratta della
parabola della "casa che va a fuoco", contenuta in uno dei testi principali della
tradizione Mahāyāna, il "Sūtra del Loto".
C'è un grosso incendio, una casa va a fuoco con dei bambini dentro. Il padre
giunge sul luogo dell'incidente e vede i suoi figli all'interno, ignari di quello che sta
succedendo. Egli li chiama a gran voce, gli urla di scendere. Ma i bimbi sono piccoli,
non capiscono il pericolo, non vogliono uscire. Il padre allora gli promette dei
giochi, dei piccoli carretti decorati. I bambini, contenti della nuova proposta, si
affrettano fuori e sono così salvi. Una volta fuori, il padre, al colmo della felicità,
decide di regalare loro un grande carro.
Buddha è come un padre preoccupato che cerca di tirare fuori gli esseri umani dal
ciclo del saṃsāra, pericoloso come una casa che va a fuoco. Egli dapprima utilizza
le teorie del Piccolo Veicolo per farci uscire dal ciclo delle rinascite; una volta fuori,
decide di darci un premio, il grande carro della tradizione Mahāyāna.
45
Ma quindi il Buddha ci ha preso in giro? In realtà non è così: la sua prima
promessa deriva dalla sua grande abilità di comunicatore; egli ha il fine più nobile
di condurci alla salvezza del nirvana, e per raggiungere il suo scopo usa le sue virtù,
i cosiddetti "abili mezzi".
In che modo le teorie Mahāyāna sono diverse da quelle del "Piccolo Veicolo"?
Queste teorie affermano una cosa importante: non solo i monaci possono
diventare Buddha, ma anche i laici, le persone comuni.
In particolare, viene introdotta l'esistenza di una nuova figura, il bodhisattva, in
cinese púsà (菩薩). Il bodhisattva è un essere che ha raggiunto l'illuminazione
grazie alla sua straordinaria saggezza, ma decide di non raggiungere il nirvana, la
liberazione, perché, spinto da una grande compassione per gli altri esseri umani,
decide di restare sulla terra per aiutarli a raggiungere l'illuminazione.
Anche le persone comuni possono essere bodhisattva, se hanno risvegliato la
"mente di illuminazione", o "mente del risveglio". La mente risvegliata, o
bodhicitta, consiste in una nuova consapevolezza di sé stessi: in quanto
bodhisattva, aspiriamo al nirvana per la salvezza degli altri esseri.
Ma qual è il bodhisattva modello?
La tradizione del Grande Veicolo propone vari esempi, tra cui un laico, Vimalakīrti.
Il bodhisattva Vimalakīrti ha una famiglia, indossa gioielli, beve alcolici e gioca a
carte. Nonostante ciò, egli è dotato di grandissima compassione, pazienza,
diligenza nell'applicare i principi buddhisti in ogni aspetto della sua vita.
Una simile visione del bodhisattva ebbe molto successo in Cina, in cui la figura del
monaco non era vista in modo positivo, perché il monaco è una persona che
rinuncia ad avere una famiglia e preferisce dedicarsi alla religione.
Per giungere al risveglio della mente, il bodhisattva deve percorrere un cammino
di sei stadi (anche se alcune teorie ne nominano dieci). L'ultimo di questi stadi è la
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Prajña pāramitā, ovvero la perfezione della sapienza, la saggezza suprema che si
raggiunge soprattutto attraverso la pratica della meditazione.
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21. La meditazione
Secondo la tradizione buddhista, il mondo non è esattamente quello che vediamo
con i nostri occhi. Abbiamo un'opinione sbagliata di quello che è intorno a noi.
Bisogna realizzare innanzi tutto che non esiste un'anima immutabile, ma tutto
cambia: le persone, le situazioni sono tutte destinate a mutare.
Attraverso la pratica della meditazione, i buddhisti credono di poter raggiungere la
piena consapevolezza dell'impermanenza dell'esistenza.
L'ultimo pezzo dell'ottuplice sentiero per giungere all'illuminazione è proprio
l'idea di liberare e calmare la mente. Non è una pratica facile: bisogna stare seduti,
per lungo tempo, ad occhi chiusi, concentrandosi sull'obiettivo di rallentare il
flusso dei pensieri.
La tradizione indiana ha analizzato e classificato nel dettaglio le fasi del processo
di meditazione. Uno dei più approfonditi trattati sulla pratica della meditazione
nella tradizione Theravāda è stato scritto da Buddhaghoṣa, nel V secolo. Il
Visuddhimagga, ovvero "Sentiero della Purificazione" è un trattato sulle fasi della
pratica della meditazione.
Esistono due tipi principali di meditazione: samatha, per calmare la mente e
concentrarsi, e vipassana, per vedere con chiarezza la realtà delle cose.
La meditazione samatha ha l'obiettivo di calmare e liberare la mente. Questo tipo
di meditazione presuppone sempre che il praticante abbia fede nell'insegnamento
del Buddha e conduca una vita seguendo i principi morali buddhisti. Il primo passo
da compiere è concentrarsi. In questa fase possono essere usate delle immagini,
soprattutto schemi e diagrammi (mandala). Un'altra strategia è quella di porre
attenzione soltanto al proprio respiro, cercando di renderlo regolare. Altri metodi
consistono in focalizzare l'attenzione su dei concetti, come la compassione, o la
benevolenza.
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Durante la meditazione samatha, bisogna difendersi da cinque principali cause di
distrazione: i desideri dei sensi, le intenzioni cattive, la stanchezza e il sonno,
l'euforia o la depressione, il dubbio.
La pratica della meditazione porta al raggiungimento di quattro diversi stadi di
purificazione della mente, in sanscrito dhyāna (in pāli jhāna).
Il primo stadio è caratterizzato dal pensiero applicato all'oggetto della
meditazione, capacità di analisi, gioia, felicità, e focalizzazione della mente.
Procedendo dal primo dhyāna al quarto dhyāna, la mente si libera gradualmente
dalle sue qualità: nel secondo dhyāna, ad esempio, il pensiero razionale e la
capacità di analisi non sono più necessari.
Nel quarto e ultimo dhyāna, la mente è ormai "unificata", non prova più tristezza
o gioia, si è entrati in uno stato di completa equanimità. In questo stadio si
raggiunge una conoscenza suprema, che può fornire dei poteri soprannaturali
come vedere le proprie vite passate, volare, conoscere i pensieri degli altri.
Dalla parola dhyāna derivano il cinese Chán e il giapponese Zen, due scuole di
pensiero buddhista che focalizzano gran parte dei loro insegnamenti sulla
meditazione e sull'illuminazione come intuizione improvvisa della mente.
La meditazione di visione profonda, o vipassana, si inizia focalizzando l'attenzione
non su un oggetto, come nella meditazione samatha, ma su come le cose sono
"realmente": la vita è sofferenza, tutto è impermanente, non esiste un sé
immutabile. Secondo la teoria di Buddhaghoṣa, la meditazione vipassana
comprende sette stadi di purificazione:
- purificare la propria condotta:
- sviluppare la calma (samatha);
- comprendere la natura del sé come composto di diversi elementi: non siamo
qualcosa di unico e unitario, siamo l'unione di corpo e mente, a loro volta
composti da diversi elementi aggregati;
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- comprendere la continuità di causa ed effetto: ogni nostra azione ha delle
conseguenze - questo equivale a capire il karma;
- capire che tutte le cose sono impermanenti, mutevoli, destinate a finire - in tutte
le cose c'è sofferenza e nulla possiede un'anima immutabile;
- conoscere e vedere il giusto sentiero: in questa fase la mente medita sul
concetto di nirvana;
- purificazione completa della percezione e della conoscenza.
Avendo percorso tutte queste fasi, abbandonati tutti i vincoli dell'ignoranza, si
raggiunge la completa consapevolezza: da questo momento in poi, secondo la
tradizione Theravāda, si diventa arhat, e in un solo momento si comprendono le
Quattro Nobili Verità, si raggiunge l'illuminazione e si raggiunge il frutto (phala)
della completa pratica meditativa.
In tradizioni di epoche successive si è affermata anche l'idea di focalizzare
l'attenzione sulla figura del bodhisattva, ripetendone il nome o ripetendo delle
formule di preghiera chiamate mantra. La pratica di ripetere in continuazione i
mantra ha un effetto benefico sull'organismo: aiuta a regolare il respiro e
favorisce il rilassamento dei muscoli, anche attraverso la vibrazione della voce questo tipo di meditazione ha ispirato alcune formule di preghiera della religione
cattolica, come la recitazione del rosario.
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22. Il culto dei bodhisattva e dei Buddha
Se ognuno di noi può scegliere di intraprendere il cammino del bodhisattva, allora
probabilmente esistono molte persone che sono riuscite ad arrivare all'ultimo
stadio di questo cammino. Quindi ci sono molti bodhisattva.
I bodhisattva hanno raggiunto il risveglio della coscienza, ma non sono diventati
Buddha perché la loro compassione li spinge a salvare gli altri esseri. Ma
probabilmente ci sono stati dei bodhisattva che sono già diventati Buddha, nel
passato. Quindi ci sono anche tanti Buddha.
Un bodhisattva riconosciuto da tutte le scuole è Maitreya, il cosidetto Buddha del
futuro. Si pensa che Maitreya risieda in un paradiso detto Tuṣita, che si può
visualizzare attraverso la meditazione. Alcune tradizioni buddhiste ritengono che il
mondo sia in continua decadenza, e anche il dharma buddhista finirà per
scomparire. Il bodhisattva Maitreya è rappresentato seduto su un trono, con tutti
e due i piedi posati a terra: appena si renderà necessario, egli sarà pronto a
scendere sulla terra ad annunciare di nuovo il dharma buddhista.
Uno dei bodhisattva più venerati è Avalokiteśvara, che rappresenta la
compassione. Egli è inteso come un riparo dalla sofferenza e dai pericoli,
particolarmente invocato in casi di violenza, attacchi di demoni o anche di predoni.
Avalokiteśvara, il cui nome sanscrito vuol dire "Signore che guarda verso il basso",
nella tradizione cinese si chiama Guanyin, ed è curiosamente rappresentato come
una donna. Durante la meditazione, o semplicemente durante la preghiera, si può
invocare Avalokiteśvara ripetendo una formula, un mantra di sei sillabe: oṃ maṇi
padme hūṃ. La prima e l'ultima sillaba sono sillabe benaugurali, maṇi vuol dire
"gioiello" e padme è il fiore di loto. Questo mantra ha diverse traduzioni, alcuni
pensano che il gioiello sia il nirvana, mentre il fiore di loto rappresenterebbe la
mente pura.
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Il bodhisattva femminile per eccellenza è Tārā. Rappresentata come una bellissima
ragazza di sedici anni, si dice sia nata da un loto blu nato dalle lacrime di
Avalokiteśvara - egli piangeva al pensiero di non poter salvare tutti gli esseri
viventi, e così Tārā si è materializzata in suo soccorso.
Esistono due versioni di questo bodhisattva femminile: la Tārā verde e la Tārā
bianca. La Tārā verde è rappresentata seduta su una luna posata su un loto, e
tiene in mano un loto blu.
La Tārā bianca ha sette occhi, tiene in mano un loto bianco ed è di solito venerata
nell'ambito di pratiche per ottenere la longevità.
Il bodhisattva che rappresenta la saggezza è Mañjuśrī. Di solito è a cavallo di un
leone, e porta con sé una spada, simbolo della saggezza che sconfigge l'ignoranza.
Anche Mañjuśrī è rappresentato come un ragazzo di sedici anni, un principe di
straordinaria saggezza, per la sua età.
Questo bodhisattva è particolarmente venerato in Nepal, dove si crede che abbia
contribuito alla fondazione della città capitale, Kathmandu, tagliando in due una
collina con la sua spada, e prosciugando un lago.
Secondo la tradizione cinese, Mañjuśrī risiede sul monte Wutai. Egli è un
bodhisattva molto venerato, e si consiglia sempre di conservarne un'immagine e
ripeterne il nome (in cinese Wénshū). Nel corso dei secoli, vari sovrani asiatici e
lama tibetani sono stati identificati con la figura di Mañjuśrī.
Il bodhisattva Kṣitigarbha (in cinese Dizang, in giapponese Jizo) è venerato
soprattutto nei paesi dell'estremo oriente ed è considerato particolarmente abile
nel salvare i morti dagli inferi. Il culto degli antenati è molto importante nella
cultura cinese, ed è forse per questo motivo che Kṣitigarbha è particolarmente
venerato in Cina. In Giappone è considerato il protettore dei bimbi morti
prematuramente.
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Con il tempo si è sviluppata la teoria secondo cui ogni Buddha esercita un potere
benefico su tutto ciò che ha intorno. In questo senso, possiamo dire che ogni
Buddha ha una sua sfera di influenza, una "Terra Pura". Ci si rivolge ai Buddha di
ciascuna Terra Pura per ottenere l'illuminazione, invocandone il nome.
Il Buddha Amitābha (in cinese Āmítuó Fó, in giapponese Amida Butsu) è
considerato particolarmente potente; egli risiede nella Terra Pura ad occidente,
fuori dai confini di questo mondo. Il suo potere deriva dall'aver accumulato
moltissimi meriti positivi grazie alle azioni che ha compiuto nelle sue vite
precedenti, quando era un bodhisattva.
Nella tradizione popolare cinese, Amitābha Buddha è così potente che
semplicemente ripeterne il nome aiuta a purificare la mente. Ripetendo il suo
nome almeno diecimila volte, si raggiunge l'illuminazione. Per questo motivo, i
credenti buddhisti della tradizione della Terra Pura si salutano ripetendo il nome
di Amitābha Buddha. Questa scuola di buddhismo è oggi molto diffusa anche in
occidente, ed ha avuto un particolare successo negli Stati Uniti.
Non sappiamo se il Buddha storico sarebbe stato d'accordo con la devozione per
le figure dei bodhisattva: dobbiamo ricordare che in base ai testi che conserviamo
sui suoi primi insegnamenti, il Buddha aveva dato poca importanza alle cerimonie
e ai rituali, affermando che l'azione (karma) svolta con buone intenzioni era,
insieme alla meditazione, l'unico mezzo per purificare la mente.
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23. Il buddhismo tantrico e la tradizione tibetana
Il buddhismo tantrico è una delle ultime tradizioni buddhiste nate in India, intorno
al V-VI secolo d. C., come un movimento piuttosto marginale, riservato a una
ristretta cerchia di praticanti. Il tantrismo era diffuso tra piccoli gruppi di fedeli
soprattutto perché promuoveva pratiche considerate "impure", o considerate
pericolose. Alla base di questa scuola c'è infatti l'idea che l'illuminazione possa
arrivare attraverso atti estremi, che scuotano la coscienza e risveglino la mente.
Intorno al VII-VII secolo, il tantrismo è diventato comunque molto diffuso
dell'India del Nord, dove era praticato in grandi e potenti monasteri.
Nello stesso periodo, le diverse tribù che abitavano il Tibet (l'altopiano più alto del
mondo, con un'altitudine media di 4900 metri sulla catena montuosa
dell'Himalaya) furono riunite da un'unica dinastia. La nuova dinastia tibetana
allargò i suoi domini nell'India del Nord e conquistò anche parte dei territori cinesi.
I sovrani tibetani vennero a contatto con le pratiche buddhiste e le adottarono.
Il primo sovrano a introdurre il buddhismo in Tibet fu Songtzen Ganpo, nel VI
secolo. Egli volle portare in Tibet una statua di Buddha, ma nonostante gli
innumerevoli tentativi, non riusciva a costruire un tempio per conservarla: i carri
che trasportavano il materiale per costruire il tempio continuavano a rovesciarsi.
Gli apparve quindi in sogno un monaco buddhista, che gli spiegò che il territorio
del Tibet giaceva sul corpo di una demonessa addormentata: per poter costruire il
tempio nella capitale, bisognava prima dominare la demonessa, costruendo dei
templi lungo i confini. Così la geografia del Tibet venne a rappresentare un
mandala, un simbolo buddhista, i cui confini sono tracciati dai templi, tutt'oggi
meta di pellegrinaggi. Alcuni studiosi ritengono che la "demonessa" del sogno
rappresenti in realtà le antiche religioni sciamaniche tibetane, che sono
conosciute con il nome di Bön. I praticanti del Bön non erano contenti
dell'introduzione di una nuova religione straniera in Tibet.
54
Nell'ottavo secolo un altro sovrano tibetano, Trisong Detseng, appoggiò la causa
buddhista, invitando a corte il filosofo buddhista Śāntarakṣita e il praticante
tantrico Padmasambhava, che si diceva avesse acquisito dei poteri magici grazie
alle pratiche buddhiste segrete. Questi due personaggi rappresentano le due
anime del buddhismo tibetano: la filosofia e le pratiche esoteriche. La tradizione
buddhista faticava a stabilirsi in Tibet: i sovrani successivi, forse influenzati dai
praticanti delle religioni tradizionali tibetane, perseguitarono i seguaci buddhisti. Il
buddhismo fu reintrodotto in Tibet solo nell'undicesimo secolo ad opera di un
monaco di origine bengalese, Atiśa.
Esistono varie scuole di buddhismo tibetano, tra le più importanti:
- la scuola Nyingma è la più antica, di cui viene ricordato come fondatore
Padmasambhava, nell'ottavo secolo;
- la scuola Kagyu, che emerse nell'undicesimo secolo ad opera del traduttore
Marpa (1012-1097), e del suo allievo Milarepa (1052--1135). Milarepa fu
praticante buddhista e poeta ed è divenuto uno dei simboli della cultura tibetana:
prima di convertirsi al buddhismo, seguendo gli insegnamenti di Marpa, egli fu un
praticante di magia nera. La scuola Kagyu mette al centro delle sue teorie
l'importanza del rapporto tra maestro, in tibetano lama, e allievo - il lama per
questa tradizione è l'incarnazione di Buddha;
- la scuola Sakya, cui appartiene una sola famiglia (un clan). La scuola Sakya è nata
nell'undicesimo secolo e si è sempre basata sulla trasmissione orale di pratiche
tantriche. Questa scuola ha avuto un importante ruolo di mediazione tra la cultura
tibetana e la cultura mongola. Nel XIII secolo i mongoli invasero il Tibet; i nuovi
sovrani si convertirono al buddhismo e si creò un'alleanza tra i monaci tibetani e i
principi mongoli. Gli ultimi seguaci della scuola Sakya, fuggiti dal Tibet dopo
l'occupazione cinese negli anni Cinquanta, vivono in esilio in India.
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- la scuola Gelug ebbe origine con l'opera di Tsongkhapa (1357-1419). Tsongkhapa
era un grande erudito che si impegnò a razionalizzare e riordinare tutte le
scritture buddhiste in tibetano, di cui scrisse anche molti commenti. Egli fondò
alcuni dei monasteri che costituiscono tutt'oggi i simboli culturali più importanti
del Tibet. La scuola Gelug, nota anche come dei "berretti gialli", ha messo al
centro del suo interesse la logica, il dibattito filosofico e le pratiche di meditazione.
Da questa scuola si è originato il lignaggio dei lama, che in tibetano vuol dire
"maestro". Il primo Dalai Lama fu nominato nel 1578 dal sovrano mongolo Altan
Khan. In questo modo i sovrani mongoli conferirono un potere politico ai lama
tibetani, mentre il buddhismo tibetano è rimasto da allora la religione più diffusa
in Mongolia.
I lama, in quanto monaci buddhisti, non possono avere figli, ma passavano il
proprio potere politico alle proprie "reincarnazioni": dopo la morte del Dalai Lama,
gli altri monaci tibetani, tra cui il Panchen Lama, cercavano la sua reincarnazione
attraverso visioni avute nei sogni o interpretando eventi particolari. Una volta
individuato il nuovo Dalai Lama, che poteva essere ancora bambino, lo facevano
diventare monaco e lo instauravano sul trono.
Dal 1959 questa pratica è stata interrotta con l'annessione del Tibet alla
Repubblica Popolare Cinese. La "dinastia" dei lama, rappresentata dal 14° Dalai
Lama, Tenzin Gyatso (1935-), è in esilio a Dharamsala, nell'India del Nord.
Nonostante il dominio politico cinese, il buddhismo tibetano continua ad avere
una grande influenza in Mongolia, in Nepal e nelle varie comunità che sono
fuggite in Occidente. È inoltre la religione ufficiale del Bhutan.
Il buddhismo tibetano è diventato popolare anche tra gli stessi cinesi, che spesso
si rivolgono a questa religione perché è considerata più autentica: sono sempre di
più i fedeli cinesi che si recano in pellegrinaggio in Tibet, alimentando l'economia
56
del turismo religioso, e spesso mettendo a dura prova il delicato equilibrio
dell'ecosistema dell'altopiano più alto del mondo.
57
24. Le tradizioni buddhiste in Giappone
La religione buddhista ha subìto profonde modificazioni nel suo passaggio
dall'India alla Cina, con la formazione di numerose tradizioni e scuole, più o meno
influenzate dalle tradizioni filosofiche e religiose cinesi. Attraverso la penisola
coreana, intorno all'anno 535, le teorie buddhiste sono sbarcate nell'arcipelago
giapponese.
Il Giappone stava attraversano un lunghissimo periodo di guerre civili e lotte tra
clan; la dinastia imperiale aveva bisogno di ideologie forti che ne consolidassero il
potere, e come spesso accadde nella storia del Giappone, i sovrani si ispirarono
alla tradizione cinese e introdussero alcuni principi derivanti dalla filosofia di
Confucio e da varie tradizioni buddhiste.
Queste nuove idee si incontrarono con l'insieme di credenze giapponesi detto
Shintō: secondo la visione shintoista della natura, tutto il mondo è popolato da
esseri di natura divina, i kami. I kami possono essere sia benevolenti che
incredibilmente distruttivi. Amaterasu è il kami che rappresenta il sole, ha una
natura femminile e la sua rappresentazione è la stessa dinastia imperiale
giapponese: anche per questo motivo il sole che sorge è il simbolo della bandiera
giapponese.
La caratteristica del buddhismo giapponese fu proprio la convivenza pacifica tra le
credenze dello Shintō e la tradizione buddhista, sotto la protezione della famiglia
imperiale. Così si spiega anche il grande successo che ebbe in Giappone la figura
del
Buddha
Vairocana
(leggi
"Vairociana"),
considerato
appunto
una
manifestazione del sole.
Gli imperatori incoraggiarono la costruzione di monasteri e l'introduzione delle
pratiche buddhiste.
Anche in Giappone nacquero nuove scuole, tra cui la Shingon, fondata da Kūkai
(774 - 835). Kūkai si recò in Cina per chiarire i suoi dubbi sulle dottrine buddhiste.
58
In Cina fu affascinato da un complesso rituale che includeva la ripetizione di
mantra. Imparò questo tipo di pratica e lo insegnò in Giappone, dove fondò la
scuola Shingon, che in giapponese vuol dire "parola vera" ed è la traduzione di
mantra. Infatti le pratiche della scuola Shingon consistono appunto nella
meditazione e nella ripetizione di parole e suoni. I seguaci di Kūkai credono che il
maestro stia ancora meditando in una grotta, dalla quale potrebbe uscire da un
momento all'altro.
Una scuola giapponese che ha avuto particolarmente successo è la Tendai: questa
scuola, derivante dalla scuola cinese Tiantai, ha come principio di base il credere
che le cose, così come le vediamo, sono in realtà vacuità, cioè non sono reali, ma
vuote: esse cambiano in continuazione, e sono legate tra loro in relazioni di causa
ed effetto. La scuola Tendai si basa sugli insegnamenti del testo buddhista noto
come Sūtra del Loto. Questo sūtra viene proposto come "Unico Veicolo" per
raggiungere l'illuminazione.
Nel tredicesimo secolo il Giappone fu minacciato dall'invasione mongola. Il
periodo di confusione che ne seguì portò all'idea - già presente nella tradizione
indiana - che il dharma di Buddha fosse destinato a finire, a declinare fino ad
estinguersi.
In questo periodo si fecero largo nuovi movimenti religiosi, tra cui la tradizione
della Terra Pura, in giapponese jōdo, che si esprime con la devozione per il Buddha
Amitabha. Hōnen fu il fondatore di questa scuola, nel tredicesimo secolo. Egli
sosteneva che a causa del declino dell'epoca in cui viveva, non c'era più nessuno
in grado di giungere alla salvezza da solo: l'unico modo per giungere
all'illuminazione è di riporre la propria fede nel Buddha Amitabha, e meditare e
cantare il suo nome. Il discepolo di Hōnen, Shinran, definì Amitabha proprio con le
caratteristiche di una divinità, grande e potente. Il buddhismo della Terra Pura
59
ebbe grande successo in Giappone - attualmente circa il 20% dei buddhisti
giapponesi si riconosce come facente parte di questa corrente.
Forse perché la definizione di Amitabha è molto simile a quella del dio dei cristiani,
il buddhismo della Terra Pura ha avuto successo anche in occidente, divenendo
per esempio una delle religioni più diffuse in California, negli Stati Uniti.
Un'altra figura importante della tradizione buddhista giapponese è Nichiren (1222
-1282). Nichiren si propose come un riformatore radicale del buddhismo
giapponese: era convinto che bisognasse tornare agli insegnamenti buddhisti
autentici, che secondo il suo punto di vista consistevano essenzialmente nello
studio e nella recitazione del Sūtra del Loto. Nichiren iniziò a predicare come un
vero e proprio profeta, arrivando ad ammonire anche lo stesso imperatore del
Giappone: disse che se i Giapponesi non si fossero convertiti all'insegnamento del
Sūtra del Loto, avrebbero dovuto subire la terribile invasione dei Mongoli (si
sapeva infatti che i Mongoli stavano preparando una flotta per invadere il
Giappone). In effetti, l'invasione del Giappone non avvenne più: la flotta mongola
fu distrutta da dei terribili venti ciclonici, detti kamikaze - il significato di questa
parola è "vento divino", i giapponesi sono infatti convinti che siano stati i kami, le
divinità scintoiste, a proteggerli dall'invasione.
Nonostante le profezie di Nichiren non si siano avverate, egli radunò un grande
numero di seguaci fedeli, che lo seguirono anche quando l'imperatore, offeso
dagli ammonimenti che Nichiren inviava alla sua corte, decise di esiliarlo. Nei
periodi di esilio, egli dipinse i primi gohonzon, dei mandala che rappresentano
l'essenza dell'insegnamento del Sūtra del Loto. Gli insegnamenti di Nichiren e la
ripetizione del Sūtra del Loto davanti al gohonzon sono molto diffusi anche nelle
tradizioni contemporanee.
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25. Il Buddhismo Zen
Il buddhismo Zen è forse la forma più popolare di buddhismo anche in Occidente.
La parola Zen è la pronuncia giapponese di "Chán" (禅), che a sua volta è il
tentativo di tradurre in cinese il sanscrito dhyāna, una parola che definisce gli
stadi della mente durante la meditazione.
Il maestro Dōgen (1200 -1253) è considerato il fondatore dello Zen; egli
approfondì i suoi studi in Cina e poi, tornato in Giappone, fondò la prima scuola
Zen indipendente, nei pressi di Kyoto.
Lo Zen rifiuta l'autorità delle scritture buddhiste, teorizzando che l'illuminazione
non arriva attraverso lo studio dei testi, ma attraverso delle "esperienze" che
riescano a farci intuire la natura delle cose come "natura di Buddha".
Non si può giungere a fare queste esperienze da soli, ma è fondamentale la guida
di un maestro: la fedeltà al maestro è un altro aspetto fondamentale del
buddhismo Zen. Il rapporto fondamentale tra maestro e discepolo è esemplificato
dai kōan: si tratta di dialoghi in cui il maestro pone delle domande per provocare i
dubbi dello studente. Queste domande sono, ad esempio "qual è il suono di una
sola mano che applaude?" oppure "un albero che cade da solo nella foresta, fa
rumore?". Il maestro può apprezzare o rifiutare la risposta dello studente,
guidandolo nella direzione giusta.
Un'altra pratica fondamentale del buddhismo Zen è la meditazione zazen (in
cinese Zuòchán 坐禅). Si tratta di una forma di meditazione che si fa da seduti a
gambe incrociate (la cosiddetta posizione del loto), senza l'aiuto di oggetti, ma
semplicemente cercando di concentrare l'attenzione sul proprio flusso di pensieri.
Il rifiuto della riflessione intellettuale, il grande valore dato alle esperienze
particolari con il fine dell'illuminazione e la fedeltà al maestro hanno fatto nascere
una serie di pratiche, di arti, che si ricollegano al buddhismo Zen e sono
considerate come strumenti che possono aiutare nel cammino di ricerca verso
61
l'illuminazione. Esse sono: la poesia, l'arte di disporre i fiori, l'arte culinaria, la
tecnica di tiro con l'arco e di combattimento con la spada, il teatro, la pittura, la
cerimonia del tè e varie forme di arti marziali (aikidō, karate, jūdō).
62
26. Buddhismo e arti marziali
La connessione tra il buddhismo e la pratica delle arti marziali è molto antica; si
può infatti immaginare come i monaci avessero bisogno di difendersi nei loro
spostamenti lungo le rotte commerciali dell'Asia Centrale; inoltre, considerando la
ricchezza accumulata da alcuni monasteri buddhisti, era probabilmente necessario
poter difendere i possedimenti della comunità dall'attacco di predoni o eserciti
invasori.
Naturalmente si può pensare che la pratica delle arti marziali sia in contraddizione
con le regole di vita dei monaci, che dovrebbero distaccarsi dalla vita mondana ed
evitare assolutamente di praticare atti violenti o dettati da cattive intenzioni.
Questa contraddizione è stata spiegata nella tradizione cinese del buddhismo
Chán: la pratica fisica delle arti marziali è un modo di coltivare la propria
spiritualità; è considerata un'alternativa alla meditazione. Non è da escludere che
le arti marziali siano nate in Cina anche grazie all'influenza di pratiche del daoismo,
come ginnastiche ed esercizi di respirazione, che miravano in generale
all'allungamento della vita (e al raggiungimento dell'immortalità).
I maestri del leggendario tempio buddhista Shaolin, nella regione dell'Henan, in
Cina, affermano che la logica del buddhismo Chan si manifesta nella pratica delle
arti marziali: le posture che di devono apprendere vengono in sequenza
scomposte per assumerne di nuove, e questo simboleggia il continuo mutare delle
cose.
Il tempio Shaolin è stato fondato nel V secolo, probabilmente da monaci di origine
indiana. Non è chiaro il motivo per cui i monaci abbiano iniziato a praticare le arti
marziali in questo tempio, ma probabilmente si tratta di pratiche volte alla difesa
dei possedimenti del monastero. Nel corso dei secoli, gli imperatori hanno avuto
attitudini diverse nei confronti dei monaci combattenti. In alcuni casi le attività del
tempio sono state osteggiate: in Cina molto spesso le ribellioni popolari
63
nascevano sulla spinta di organizzazioni religiose. Alle volte invece i monaci
venivano "sfruttati" a fini militari, venivano chiamati a combattere nelle armate
imperiali.
Il tempio è stato più volte distrutto e ricostruito nel corso dei secoli; l'ultimo
terribile incendio è avvenuto nel 1928; negli anni '60 le guardie rosse fomentate
da Mao Zedong hanno contribuito a distruggere quello che era rimasto.
Il tempio è stato in seguito ricostruito, e dagli anni '80 accoglie centinaia di
migliaia di giovani monaci e studenti laici che vogliano apprendere le arti marziali,
per periodi più o meno lunghi.
La tradizione marziale buddhista ha avuto grande successo in Giappone, dove le
pratiche marziali sono state integrate nella tradizione del buddhismo Zen.
Le arti marziali risultano molto affascinanti per un vasto pubblico proprio perché
uniscono insieme diversi aspetti: militare, terapeutico e religioso.
L'aspetto marziale/militare è ovviamente nel fatto che ci si allena per combattere,
o per difendersi. Le arti marziali hanno un valore terapeutico perché sono nate da
pratiche di ginnastica e di controllo della respirazione. Inoltre hanno un fine
religioso, non solo nella misura in cui servono a raggiungere l'illuminazione, ma
anche perché vengono praticate da comunità che sono fedeli ad un unico maestro.
64
27. La fine del buddhismo in India
Il buddhismo è scomparso dalla sua terra natale, l'India, nel XII secolo. Gli storici
hanno
proposto
diverse
teorie
per
motivare
questa
scomparsa,
che
probabilmente ha avuto diverse cause. Tra le ipotesi più gettonate vi sono
l'invasione di popoli di fede musulmana (per cui l'islam ha soppiantato il
buddhismo); il potere del gruppo sociale che tradizionalmente detiene il potere
religioso in India, i brahmani: questa tradizione nel corso dei secoli ha riaffermato
con forza le regole del sistema familiare, per cui diventare monaco diventava un
insulto nei confronti della propria famiglia, che veniva lasciata senza eredi;
secondo altre teorie, il buddhismo tantrico era ormai diventato troppo elitario,
aveva finito per "chiudersi" all'interno di potenti monasteri e aveva perso il
contatto con la popolazione.
Un movimento di rinascita del buddhismo in India si è avuto solo nel XX secolo,
con l'opera di Bhimrao Ramji Ambedkar (1891 -1956). Sebbene nato nella casta
sociale più bassa, Ambedkar riuscì a completare gli studi di base ed iscriversi
all'università grazie all'influenza del padre, che fu militare nell'esercito imperiale
inglese. In seguito studiò legge ed economia a Londra e negli Stati Uniti. Fu tra i
redattori della costituzione indiana. A partire dal 1950, si dedicò a degli studi
approfonditi sul buddhismo, e decise di convertirsi nel 1956, in una cerimonia
pubblica nella città di Nagpur, insieme ad altri 400 mila nuovi fedeli.
Ambedkar aveva l'obiettivo di dare dignità agli indiani delle caste più basse.
Spesso gli appartenenti alle caste basse, come lo stesso Ambedkar, provenivano
da famiglie benestanti: erano discriminati per motivi religiosi e culturali, non per
motivi economici o sociali. La conversione al buddhismo rappresentava anche una
forma di opposizione alla tradizione religiosa brahmanica e alle discriminazioni di
casta.
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Negli ultimi decenni diverse scuole buddhiste stanno avendo un certo successo
tra i giovani indiani delle classi sociali abbienti proprio come avviene anche in
Europa e negli Stati Uniti.
Attualmente sono basate in India le scuole di buddhismo tibetano che hanno
scelto l'esilio dopo l'occupazione cinese; il buddhismo tibetano è diffuso nelle
regioni dell'India del nord-est.
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28. Buddhismo nella Repubblica Popolare Cinese
Dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, nel 1949, le scuole del
buddhismo cinese hanno spesso sofferto dei periodi di repressione: il partito
comunista cinese non vedeva di buon occhio i movimenti religiosi, percepiti come
sovversivi e contrari alla rivoluzione comunista. Le teorie socialiste, inoltre,
tendono a vedere tutti i fenomeni religiosi come superstizioni che non aiutano
nella creazione di una società ideale.
Il buddhismo ha continuato a fiorire ad Hong Kong (fino al 1997 possedimento
inglese) e a Taiwan (dove si erano rifugiati gli esponenti del partito nazionalista
cinese).
La situazione è molto cambiata a partire dal periodo dell'apertura della
Repubblica Popolare al libero mercato, nel 1987.
Il partito comunista ha deciso di allentare la morsa sulla repressione dei fenomeni
religiosi, ed il boom economico ha avuto dei vantaggi anche per molti templi e
monasteri, che sono stati restaurati e ricostruiti. Da un lato, si è avuta una
commercializzazione del fenomeno religioso: la vendita di incensi e di manufatti
devozionali e le offerte date ai templi sono diventate un enorme giro di affari,
tanto che il governo ha dovuto mettere un freno alle attività economiche dei
templi.
In seguito alla crescita rapidissima dell'economia, molti cittadini cinesi hanno
accusato la perdita del sistema di valori tradizionale, acquisendo anche uno stile di
vita poco sano. Per questo negli ultimi anni la pratica buddhista sta avendo un
nuovo successo tra la popolazione di tutte le età, proponendo pratiche salutari
che includono la dieta vegetariana, il distacco dai vizi e la meditazione per calmare
la mente. Tra le varie scuole buddhiste, vi è una certa preferenza per il buddhismo
tibetano, che viene considerato più "autentico".
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Il partito comunista tutela le pratiche buddhiste e ha incoraggiato l'organizzazione
del World Buddhist Forum nel 2006; nel 2007 ha inoltre varato delle misure che
vietano gli scavi minerari sulle montagne sacre buddhiste.
Una pratica buddhista tipicamente cinese che ha destato attenzione e curiosità
negli ultimi anni è il "lasciare in libertà": si tratta di liberare in natura animali che
sarebbero stati destinati ad essere uccisi e mangiati. I templi buddhisti di solito si
incaricano di salvare questi animali, e accettano offerte per comprarli prima che
vengano uccisi. Ma con l'aumentare delle offerte, questa pratica è diventata un
business: troppi animali o animali di specie non adatte sono stati liberati tutti
insieme, rischiando gravi danni all'ecosistema.
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29. Buddhismo in Italia
Negli ultimi decenni ha avuto grande diffusione in Italia un movimento laico che si
ispira alla tradizione del buddhismo riformata da Nichiren in Giappone nel XIII
secolo. Questo movimento, noto come Soka Gakkai, propone una pratica
quotidiana che consiste nella ripetizione dell'incipit Sūtra del Loto davanti al
gohonzon, una rappresentazione dello stesso Sūtra, che i fedeli custodiscono nelle
loro case.
Tutte le altre tradizioni buddhiste presenti in Italia fanno capo all'Unione
Buddhista Italiana, fondata nel 1985 e riconosciuta dallo stato come ente religioso
nel 1991. L'associazione ha il compito di unire e rappresentare i membri di tutte le
tradizioni storiche del buddhismo, Theravāda, Mahāyāna e Vajrayāna (buddhismo
tantrico) e di favorire il dialogo interreligioso.
L'Unione Buddhista Italiana riunisce decine di centri di pratica buddhista di tutta
Italia; questi centri favoriscono la diffusione delle tradizioni buddhiste e
l'insegnamento della meditazione.
Oltre ai fedeli italiani convertiti, vi è un grande numero di immigrati che si
dichiarano appartenenti a tradizioni buddhiste.
L'associazione buddhista Hua Yi Si, letteralmente "Tempio Cinese-Italiano"
gestisce due templi buddhisti a Roma, uno dei quali è conosciuto come il tempio
buddhista più grande d'Europa (il tempio è gestito da monache cinesi e taiwanesi,
l'abate del tempio è una donna). L'associazione fa parte dell'Unione Buddhista
Italiana e segue le teorie della scuola buddhista sino-taiwanese Chung Tai Chan
fondata dal maestro Wei Chueh nel 1987. L'insegnamento del maestro Wei Chueh
è seguito da moltissimi fedeli a Taiwan, Hong Kong, nelle Filippine, negli Stati Uniti
ed in Europa. Wei Chueh è stato tra i promotori del World Buddhist Forum
tenutosi in Cina nel 2006.
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La scuola Chung Tai Chan si dichiara della corrente buddhista Chan; nei suoi centri
e templi sparsi in tutto il mondo si organizzano dei corsi di meditazione anche per
bambini (i corsi sono in lingua cinese).
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