Siddhartha tra i Molti Loti
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Siddhartha tra i Molti Loti
La biblioteca di Florianopolis di Patrizio S. Siddhartha tra i Molti Loti 1 - Il Principe Infelice “Il principe, nel vedere per la prima volta la strada maestra, che era piena in tal guisa di cittadini modesti con vesti pulite e sobrie, si rallegrò alquanto e credette quasi d'essere rinato in cielo”* Così cita la strofa 25 del Canto III del Buddhacarita di Aśvaghoşa, opera poetica di argomento sacro scritta in sanscrito, tra le più alte della letteratura mondiale. Da questo testo di enorme valore artistico e religioso il grande fumettista italiano Roberto Raviola, meglio noto come Magnus (da Magnus Pictor Fecit = fatto da un maestro pittore), ha tratto l'ispirazione e i testi per una delle sue opere meno conosciute, ma certamente più interessanti: Il Principe nel Suo Giardino. Nel Buddhacarita, conosciuto in Italia col nome Le Gesta del Buddha, viene raccontata la storia della vita terrena del principe della dinastia dei Śākya, Sarvāsthasiddha, meglio noto come Siddhartha1 Gautama, il Buddha, l'Illuminato, colui che fonderà una delle religioni più diffuse nel pianeta. Fra i tanti episodi che vengono raccontati, dai segni premonitori alla nascita, fino alla completa illuminazione, importante è quello che riguarda la visita a cui viene forzato il Principe nel boschetto chiamato L'Adorno di Molti Loti, dove il fiore supremo simbolo di bellezza asiatico, altro non è che un paragone per indicare le donne, ed in particolare, il loro sesso. Ed è proprio in quello che si concentra l'attenzione di Magnus, che per questo lavoro creerà 30 illustrazioni in cui protagonisti assoluti sono il sesso e il corpo della donna. Abituato a sorprendere il suo pubblico Raviola crea un portfolio spiccatamente erotico inserendolo in una cornice che più epica, mitica e religiosa non si poteva, e cosa più importante lo fa con una coscienza e un'arte che tutto fa pensare forché a un intento blasfemo. Pubblicato per la prima e unica volta dalla Granata Press di Bologna, città natale dell'autore, nel 1994 Il Principe nel suo Giardino è un'opera della tarda maturità di Magnus, e rappresenta l'ultima sua creazione ad ampio respiro prima dell'uscita del famigerato Albo Gigante di Tex La Valle del Terrore, che verrà alla luce nell'aprile del '96 dopo 7 anni di lavoro, poco dopo la morte di Raviola. L'erotico nel '94 era genere già ampiamente trattato dall'autore di Alan Ford (sua creazione più nota al vasto pubblico). Necron, Le 110 Pillole, Le Femmine Incantate sono solo alcuni dei suoi lavori più noti in cui il sesso viene usato come espediente comico, come argomento etico, o come pretesto narrativo. Il Buddhacarita pubblicato nell'edizione presa qui in considerazione dalla Adelphi, con la cura di Alessandro Passi, noto studioso di letteratura indiana, ha una storia travagliata. Andando completamente disperso l'originale, il curatore ha dovuto fare affidamento su alcuni testi, il più autorevoli possibili: un manoscritto sanscrito (quindi stessa lingua dell'originale) del XIV secolo; due frammenti di un manoscritto nepalese; la traduzione tibetana del testo; la traduzione cinese del testo, quest'ultima risalente al V secolo d.C.. Il grande lavoro del Passi non può certo evitare che dalla lettura si possano sollevare dei dubbi, ma d'altronde la ricostruzione originale del Buddhacarita così come fu scritto è impossibile. Inoltre questa edizione comprende soltanto i canti dal I al XIV, dove invece le versioni spurie tibetane e cinesi constano di XXVIII canti. Il motivo di tale cernita è dovuto al fatto che le versioni spurie posseggono delle modifiche e delle interpretazioni rese inevitabili dalla traduzione, che però farebbero perdere uniformità e coesione a un testo che prevalentemente è preso dalla fonte più autentica, il manoscritto in sanscrito. Si narra così della vita di Siddhartha fino alla sua Illuminazione, escludendo la parte relativa alla sua diffusione della dottrina. Apsaras 2 - La Conversione del Poeta La figura del poeta Aśvaghoşa, come tutto ciò che concerne l'India antica, è avvolta in una coltre di mistero, a causa della totale mancanza di storiografia indigena che caratterizza la storia indiana fino al 1000 d.c.. Da un confronto tra le fonti indirette cinesi e tibetane, lo studio sullo stile letterario e il linguaggio peculiare del testo, e i ritrovamenti archeologici probabilmente appartenenti al regno sotto il quale Aśvaghoşa visse, si può comunque avere un idea approssimativa della sua vita e del contesto storico a cui apparteneva. Brahmano dell'India nord orientale, quindi appartenente alla casta posta alla base delle gerarchie sacerdotali Indù, Aśvaghoşa era un grande conoscitore della retorica e della scrittura. Si dice che durante un pubblico dibattimento (che doveva essere simile a quello di Socrate narrato da Platone del “Gorgia”) con il maestro giainista2 Pārśva venne sconfitto, e vacillando la sua fede, seguì quel dotto convertendosi infine al buddismo. Successivamente Aśvaghoşa avrebbe seguito in alcune campagne militari il Marajà Kanişka I, divenendo poi un suo stimato poeta di corte. Appartenente alla dinastia dei KuşāĦa, Kanişka I fu uno dei più grandi sovrani del suo tempo, con un regno che si estendeva in tutta l'India continentale, fino a sfiorare l'odierno Tibet al nord e la moderna Birmania a est, a partire all'incirca dalla prima metà del II secolo d.C.. Con lui la pace, il commercio, le arti e le libertà confessionali conobbero un periodo di grande prosperità. Fra le religioni quella che più si sviluppò nel suo territorio, Tibet e bassa Cina soprattutto, fu proprio quella buddista, tanto che Kanişka I ne viene considerato uno dei patroni. L'idea dell'affiliazione di Aśvaghoşa a Kanişka I però si scontrerebbe con alcuni dati paleografici, tratti da alcuni manoscritti unanimemente ritenuti originali, che circoscriverebbero la vita del poeta all'interno del I secolo dell'era volgare. Sta di fatto che sia Aśvaghoşa che Kanişka I sono dei personaggi storici divenuti col tempo, e grazie alla mancanza di fonti certe, oggetto di numerose leggende di stampo buddista. Fra le numerose caratteristiche attribuite dai miti ad Aśvaghoşa c'è quella di una straordinaria fecondità narrativa, che abbracciava diversi stili, diverse forme e persino diverse lingue. Oltre a poemi religiosi infatti gli vengono attribuite opere teatrali, le prime della letteratura indiana, e poemi epici. Ci sono poi numerosi frammenti di altre opere che vengono, forse a ragione, assegnate alla paternità di Aśvaghoşa. In totale i testi da lui scritti, secondo la tradizione, sarebbero una ventina, ma lungi dal considerare inverosimile la mole e la varietà del lavoro, le altre opere vengono sottratte ad Aśvaghoşa per fondate questioni linguistiche e cronologiche. Tra i tanti testi due sono sicuramente suoi, accomunati, oltre che dal registro aulico e poetico, anche dal tema, caro al poeta, della conversione. Si tratta del Śāriputraprakarana e del Saundaranandakāvya. Sulla prima si può dire poco, data l'estrema frammentarietà del testo a noi pervenuto, tranne che si tratta di un dramma che parla della conversione di Śāriputra e di Maudgalyāyana. La seconda opera ci è arrivata completa, grazie alla giustapposizione di due frammenti nepalesi e uno centrasiatico. Si tratta di un mahākāvya (poema epico-religioso), come il Buddhacarita, che ha però come protagonista Nanda, un fratellastro di Buddha dissoluto e libertino. Rispetto al Buddhacarita è lungo la metà e l'argomento è trattato con più leggerezza, nonostante permanga un comune elemento educatore. Di certo l'argomento della scoperta della via della liberazione, dell'illuminazione, doveva affascinare un poeta che nella sua vita sperimentò un simile cammino. Nel Buddhacarita, per esempio, Aśvaghoşa calca la mano sulla “sconfitta di sè stessi”. Un concetto questo, tipico della filosofia orientale, che fa pensare come lui, assieme al suo pubblico, dovesse auto-istruirsi, per abbandonare l'illusorio mondo dei sensi. Apsaras 3 - Il Toro degli Śākya Come raccontato nel Buddhacarita, il Buddha, trova i suoi natali in una delle famiglie più nobili appartenente alla stirpe dei Śākya, alla cui origine vi era Iksvaku, uno dei grandi sovrani della tradizione indiana. Figlio di un Re saggio, pio e dotto e di una madre bellissima, Siddhartha nacque senza placenta, già in grado di camminare e di parlare, annunciando al mondo lo scopo della sua esistenza, quello di trovare la Liberazione dal ciclo delle trasmigrazioni dell'anima. La sua nascita, come si conviene agli esseri divini, era stata annunciata da degli inequivocabili segni, e il più saggio fra gli asceti del suo tempo, Asita, dopo averli interpretati correttamente si recò nel palazzo del Re dove si trovava il neonato. Là informò il Re del destino del figlio, che avrebbe illuminato il mondo dei raggi della sua saggezza, rammaricandosi della sua età per colpa della quale non avrebbe potuto ascoltare le sue rette parole. Il Re allora a quel punto gioì e allo stesso tempo si preoccupò, per paura che il figlio tanto amato si allontanasse da lui per raggiungere l'Illuminazione. Nel frattempo la madre di Siddhartha muore, e lui viene cresciuto dalla zia amorevole, fra tutti i piaceri e i lussi che un Re poteva concedere a suo figlio. Il regno era sempre più florido, la terra era generosa più che mai, il popolo era in pace, la povertà e la violenza erano sparite, i nemici si quietavano, le virtù prosperavano, e il Re per mantenere sempre a sé quel suo fortunato figlio, lo fece vivere nei più alti piani del suo palazzo, circondato dalle musiche e dalle arti di belle fanciulle, senza che potesse scendere a terra, dove, si temeva, Siddhartha avrebbe potuto assistere e venire turbato da scene non adatte a un Principe. Giunto a una certa età il Principe, come si conveniva nell'India del tempo, prese moglie, Yaśodharā, di grande bellezza e molteplici virtù. Da lei poco dopo, attraverso un rapporto puro (eseguito quindi secondo il dharma), ebbe Rāhula, suo figlio, uno splendido bambino nato sotto i migliori auspici. Mentre quindi la vita del Principe scorreva nel più piacevole e confortevole dei modi, egli decise di andare visitare i giardini, i campi, i boschi piani di meravigliose creature di cui sentiva parlare fin da bambino nei canti e nei racconti. Il Re a quel punto, vedendo il figlio preso dalla naturale e irrefrenabile curiosità di conoscere il mondo, organizzò una gita degna del suo rango. In più per evitare ogni tipo di turbamento al figlio, ordinò che dalle strade venissero allontanati tutti i vecchi, tutti i malati, e che deviassero le processioni funebri. Così il Principe passando su un carro d'oro nella via maestra poté vedere la città nel suo lato migliore, con i palazzi ai lati delle strade che traboccavano di gente accorsa a vederlo e a salutarlo, festosa e ammirata. A quel punto però, per intervento degli Dei che avevano intenzione di accompagnare il Principe nella sua strada verso l'Illuminazione, forgiarono un vecchio tremulo e malconcio, e lo misero sulla strada vicino al carro di Siddhartha in maniera che egli lo vedesse. “Chi è quell'individuo?” chiese allora egli al suo auriga “Questa dalla quale è spezzato costui si chiama vecchiaia” gli rispose quello che nella mente era guidato dagli stessi Dei benevoli. Colpito dalla nefandezza della situazione di quell'uomo e venuto a conoscenza dell'universalità del fenomeno, preoccupato decise di tornare al palazzo. Qualche tempo dopo, per distrarsi dai pensieri causati da quella visione, organizzò un'altra gita. Allora gli Dei crearono un malato, gonfio e ansante, e lo misero in maniera tale che Siddhartha lo vedesse. “Questa è la grandissima pena chiamata malattia” gli spiegò l'auriga. Il Principe allora terrorizzato e scosso dal vedere l'umanità gioire nonostante incombano su tutti malattia e vecchiaia decise di ritornare ancora a palazzo. Là, il Re, che vide come fosse profondo e ormai irreparabile il turbamento del figlio, decise di provare l'ultima carta, quella del piacere, per trattenere il Principe ed evitare che egli prendesse la via della Liberazione, lontano dalla sua reggia. Ordinò allora di preparare un nuovo carro e chiamò un altro auriga, e dispose che in un giardino regale nella città venissero chiamate le donne più leggiadre e abili nelle arti amorose. Ma durante il viaggio verso il giardino gli Dei fecero si che di fronte all'auriga e a Siddhartha soltanto si materializzasse una processione funebre. “Per tutte le creature questo è l'atto finale” disse il cocchiere al Principe, che tremando di spavento e incredulità chiese che il carro fosse rigirato verso il palazzo. Ma l'auriga non voltò i cavalli, e anzi portò Siddhartha al suo giardino, L'Adorno di Molti Loti. Il principe nel suo giardino 4 – Il Giardino della Tentazione E' da notare però a questo punto una fondamentale sintesi che Magnus opera del Buddhacarita per venire incontro alle sue esigenze narrative de Il Principe nel suo Giardino, ridotte rispetto a quelle descrittive. I testi che intercorrono tra un'immagine e un'altra, infatti sono presi da due capitoli del libro originale, il IV e il V, solo il primo dei quali riguarda L'Adorno di Molti Loti. Il secondo invece tratta del momento in cui Siddhartha prima da solo comincia il suo percorso di lavoro interiore per allontanare da sé ira, violenza, e passioni dal suo intelletto, pio incontra un messaggero degli Dei che gli ispira l'eremitaggio come retta via per l'Illuminazione, e infine annuncia al padre il suo proposito di partire per diventare un monaco errabondo, in cerca di Liberazione. Ma a quella notizia, il padre terrorizzato, pianse per far desistere il figlio da quell'intento, ottenendo solo di turbare maggiormente il suo animo. Salito a quel punto a un piano superiore del palazzo, il Principe si sedette in una stanza circondato da decine di splendide fanciulle dedite alla musica e ai piaceri dei sensi. Gli Dei in quell'istante addormentarono le ragazze, che così assunsero pose scomposte, buffe, grottesche ma allo stesso tempo sensuali. Magnus unisce la scena del giardino a quella del palazzo, che si assomigliano effettivamente in stile e finalità, rendendo in un'unica sequenza il progressivo rifiuto del Principe fatto alle donne, maestre d'amore e di passione, principali fonti di dolore dal quale egli si voleva liberare. Siddhartha si trova così davanti a una schiera di splendide donne istruite al fine di dare piacere ai sensi. Magnus a questo punto si occupa a realizzare la sua versione grafica di questo gruppo variopinto di femmine che hanno tutta l'intenzione di far cedere il Principe dai suoi saldi proponimenti di purezza e imperturbabilità. La serie di illustrazioni comincia con delle rappresentazioni estremamente esplicite e particolareggiate di alcuni sessi femminili. Nel Buddhacarita stesso si dice che le donne sono vestite impudicamente o svestite, facendo così cadere l'attenzione su quella messa in mostra di nudità. Successivamente si passa a delle figure di donna intere dalle fisionomie più varie, ingioiellate nelle maniere più colorite, in pose estremamente sensuali e provocanti, tutte nude o tuttalpiù coperte da leggeri indumenti e accessori, come calze e camicette. Anche qui, come si conviene allo scopo lascivo, i sessi e i seni sono sempre posti in risalto. In questo caso però sono le pose e le espressioni delle donne a giocare un ruolo fondamentale. Magnus è attento a disegnare volti e corpi sempre protesi in un godimento sessuale, sia che rappresenti uno sforzo sia che rappresenti una rilassatezza. La terza serie di immagini è poi quella più sperimentale: se le precedenti donne emergevano tutte da uno sfondo bianco, per le ultime Raviola studia uno sfondo di diversi colori, ora rosso ora nero, ora viola ora grigio, modificando sostanzialmente non solo la forma, ma anche la cornice tematica, che si fa più eccitata, convulsa, come se con in questo modo le donne tentassero le loro ultime carte per corrompere il Principe, che comunque come narra la storia rimane impassibile. I materiali usati per la realizzazione dei disegni sono relativamente pochi: cartoncini bianchi e colorati per gli sfondi, matite per i contorni e pastelli e pennarelli per rifiniture e colorazioni. Con questi semplici mezzi Magnus esprime una padronanza incredibile di tecnica sopraffina. Ciò che stupirà il lettore infatti è la verosimiglianza dei corpi rappresentati fin nei minimi particolari, con particolare attenzione per i sessi. Le ombre della pelle, le forme dei corpi, le espressioni del viso, sono realizzati tutti con una precisione formidabile. La bellezza delle illustrazioni infatti non emerge solo dalle donne rappresentate, che essendo di varie fattezze possono anche non piacere in tutto e per tutto, ma dall'illuminante tratto con cui vengono realizzate. Le stesse piccole imperfezioni naturali, asimmetrie, difetti, non vengono nascosti ma esaltati, per dare a ognuna delle figure una caratterizzazione unica e profondissima. A questo molto concorrono anche gli indumenti e i gioielli, per cui ogni femmina a seconda del suo “genere” ne indossa di appropriati. Ci si presenta così un harem in cui ogni donna, presa nella sua totalità possiede una sua bellezza, quindi un espediente da usare contro l'integerrimità di Siddhartha, e del lettore, a cui Magnus lancia una sfida pari a quella dell'Adorno di Molti Loti al Principe. Le Gesta del Buddha 5 - Incontro all'Alba E' proprio nell'ottica della riproposizione della “tentazione” dell'immagine che si deve considerare l'opera di Roberto Raviola, che pur realizzando tavole di raffinato erotismo, non ha come semplice fine quello di eccitare il lettore. Lo scopo è piuttosto quello di metterlo di fronte a un banco di prova ipoteticamente paragonabile a quello posto davanti a Siddhartha, il quale nemmeno un pensiero concesse a quelle donne, così sfrontate e lussuriose. Un modo per far risplendere la figura del Principe di fronte alla naturale e innata condizione umana della concupiscenza, dalla quale solo con l'intraprendenza della lunga strada verso la l'Illuminazione, ci si può liberare. La stessa strada che poi viene descritta in maniera poetica e meravigliosa nei capitoli del Buddhacarita successivi al V capitolo fino al capitolo XIV, momento in cui è completata la Liberazione del Buddha. La vicinanza di Magnus al mondo spirituale dell'oriente, e in special modo a quello della Cina, mentre questa dell'India è un'eccezione, è cosa risaputa e confermata dalla grande mole di riferimenti alla filosofia Taoista e Buddista presenti in opere come I Briganti, Le 110 Pillole, Le Femmine Incantate, ma anche in racconti più brevi come Il Sogno dello Scroscio di Pioggia. Da sempre Raviola, che ascoltò in gioventù le notizie della lontanissima Rivoluzione Culturale Cinese di Mao-Tse Tung, fu appassionato di “cineserie”, come venivano chiamati gli ammennicoli cinesi appunto che andavano tanto di moda all'inizio del '900. Egli usava persino firmare alcuni suoi lavori con un simbolo tratto dal Libro dei Mutamenti, I Ching, che stava a indicare “colui che cerca”, a ulteriore testimonianza della sua spiritualità intesa appunto come ricerca della verità e della pace interiore. D'altronde nemmeno la sua religione più tradizionale, il cattolicesimo, è stata ignorata da Magnus, che per esempio fa apparire San Michele del Pericolo del Mare in uno dei bellissimi episodi del suo Sconosciuto, ambientati nella famosa isola-penisola Mont Saint-Michel, in Normandia. Non è quindi errato pensare a Il Principe Nel Suo Giardino, se non come libro sacro e religioso, come libro dall'alta caratura morale, specialmente per i testi scelti nel terzo capitolo che lo compone, privo di immagini. In esso, il Principe conoscitore della vera condizione umana e vincitore sulle passioni, insofferente all'ingannevole felicità in cui si crogiola l'umanità, grazie al supporto delle divinità benevole, parte immediatamente alla volta dei boschi, per seguire la sua strada di Illuminato. Magnus “Così quel destriero, simile a quelli che possiede il Dio Sole, andando innanzi al galoppo come sospinto in pensiero, corse per molte leghe, lontano, incontro a un cielo di stelle già appannate dall'alba, e con lui anche il Principe.”* * Tratto da una traduzione italiana del Buddhacarita Patrizio S. Note: 1- L'erronea trascrizione "Siddharta" al posto di "Siddhartha" è diffusa solo in Italia, a causa di un errore (poi non corretto) nella prima edizione del romanzo di Herman Hesse. 2- Il Giainismo è una delle maggiori correnti filosofico-religiose sviluppatesi in India nel VI sec. a.C.. La sua cosmogonia non prevede entità creatrici e per questo viene considerata una religione atea. Le divinità presenti nel Giainismo sono gli “Jina”, ovvero i “vincitori”, coloro che seguendo la dottrina hanno raggiunto uno stato divino. Sviluppata grazie all'opera di Mahavira, un maestro spirituale indiano contemporaneo del Buddha, ha un assetto sociale comunitario non gerarchizzato dove i fedeli devono seguire una serie di rigide regole, riassunte in 5 precetti fondamentali: castità, non-possesso, dire la verità, non-furto, e nonviolenza. Presente ancora oggi con all'incirca un milione e mezzo di seguaci, fra laici e monaci, il Giainismo è considerata una delle più antiche dottrine della nonviolenza. Il suo simbolo più sacro è la svastica con gli uncini rivolti a destra, i cui bracci indicano i quattro piani dell'esistenza: mondo degli dei, mondo dell’uomo, mondo animale, mondo infero.