Licenziamenti, rilevanti novità dalla Cassazione

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Licenziamenti, rilevanti novità dalla Cassazione
Gli Approfondimenti di Lavorofacile.it
Numero 42/2016 – Giovedì 3 novembre 2016
Licenziamenti, rilevanti novità dalla Cassazione
Diverse pronunce giurisprudenziali, succedutesi nel corso del corrente anno, hanno
riguardato la materia dei licenziamenti. In particolare, da alcune recenti decisioni della
Corte di Cassazione, sono rilevabili importanti indicazioni in merito ai recessi per
giustificato motivo oggettivo ed a quelli disciplinari.
A cura di Matteo Cremonesi
Giustificato motivo oggettivo – La prima sentenza rilevante, pronunciata dalla Corte di
Cassazione, è la numero 19185 del 28 settembre 2016, con cui la Suprema Corte ha
affermato che il giustificato motivo oggettivo di licenziamento è ravvisabile anche nella
soppressione di una posizione lavorativa derivante da una diversa ripartizione di date
mansioni fra il personale in servizio, attuata ai fini di una più economica ed efficiente
gestione aziendale, nel senso che, invece di essere assegnate ad un solo dipendente,
certe mansioni possono essere suddivise tra più lavoratori, ognuno dei quali se le vedrà
aggiungere a quelle già espletate: il risultato finale può far emergere come in esubero la
posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente.
In tale ipotesi, il giustificato motivo oggettivo consisterebbe in una diversa distribuzione di
determinate mansioni, tale da far emergere l'esubero della posizione lavorativa del
lavoratore licenziato. Il principio di cui alla massima si può applicare anche quando le
mansioni di più lavoratori sono suddivise fra un numero più ridotto di dipendenti. In
entrambi i casi c’è, alla base, quella riorganizzazione tecnico-produttiva che integra il
nucleo irriducibile del concetto di giustificato motivo oggettivo.
In ogni caso, la ripartizione delle mansioni deve essere all’origine del licenziamento e non
la conseguenza dello stesso.
Il lavoratore X è
titolare delle
mansioni a, b e c
Si effettua una
riorganizzazione
tecnico-produttiva
Le mansioni a, b,
e c sono ripartite
tra i lavoratori Y e
Z
Le mansioni a, b
e c sono
assegnate a 5
lavoratori
Si effettua una
riorganizzazione
tecnico-produttiva
Le mansioni a, b,
e c sono
suddivise solo fra
3 lavoratori
Il lavoratore X,
rimasto senza
mansioni, può
essere licenziato
per gmo
I 2 lavoratori
rimasti senza
mansioni possono
essere licenziati
per gmo
Un’altra rilevante sentenza, la numero 18409 del 20 settembre 2016, sempre in materia di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ha chiarito che è rispettoso dei canoni di
correttezza e buona fede il comportamento del datore di lavoro che, in presenza di
mansioni formalmente omogenee e fungibili tra loro, fondi la scelta del lavoratore da
licenziare sulla base dell'incidenza del diverso orario lavorativo prestato da ciascuno, a
garanzia dell'intero orario di apertura degli uffici (nella specie, la lavoratrice licenziata
osservava il part-time, mentre la collega confermata il full-time). Nel caso concreto non vi
era stata la soppressione delle mansioni affidate alla lavoratrice part time licenziata, ma
semplicemente una contrazione di attività che non giustificava più la presenza di due
dipendenti (una full time e una part time) per le stesse mansioni. L'unica differenza
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riscontrabile tra le due dipendenti, risiedeva, appunto, nel fatto che la lavoratrice licenziata
aveva un contratto part-time, mentre la collega osservava il tempo pieno. A parere della
Corte, la necessità della datrice di lavoro di coprire tutto l’orario di aperura, unitamente
all'impossibilità di proseguire nel rapporto di lavoro con entrambe le dipendenti nella
modalità part-time (stante il rifiuto di trasformazione da parte di quella a tempo pieno),
integrava un'ipotesi di infungibilità delle prestazioni rese dalle due lavoratrici. La datrice di
lavoro non avrebbe potuto raggiungere diversamente l'obiettivo di coprire l'intero turno
lavorativo con un solo addetto.
Sempre nel corso del corrente anno, i giudici di legittimità si sono espressi in materia di
obbligo di repêchage, affermando che l’onere della prova incombe solo sul datore di
lavoro. In particolare, in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (nel caso
specifico determinato dalla soppressione delle mansioni del lavoratore), spetta al datore di
lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di "repechage" del dipendente licenziato, in
quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un
onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi
processuali una divaricazione tra i suddetti oneri (Cassazione, sentenza n. 5592 del 22
marzo 2016). Con tale sentenza la Corte si è discostata dal precedente orientamento
(Cass. 19923/2015, 4920/2014, 25197/2013), che richiedeva una sorta di collaborazione
del lavoratore nell’individuare un possibile altro impiego al fine di evitare il licenziamento.
Al lavoratore spetta invece solo il compito di provare l’inesistenza del giustificato motivo e
quindi l’illegittimità del licenziamento. Escludere il lavoratore dall’onere di provare una sua
diversa occupazione trova la sua giustificazione anche nel fatto che il dipendente non
dispone, a differenza del datore di lavoro, della completezza delle informazioni delle
condizioni dell’impresa, tanto più in considerazione di una condizione di crisi.
Impugnazione del licenziamento intimato per soppressione delle mansioni
Onere del lavoratore:
- Provare l’inesistenza
del gmo
- Provare l’illegittimità
del licenziamento
Onere del datore:
- Provare l’impossibilità
di “repechage”
Licenziamento disciplinare - La sentenza n. 18418 del 20 settembre 2016, ha ribadito
che, in caso di impugnazione del licenziamento disciplinare, ai fini dell’applicabilità della
tutela reintegratoria prevista dall’art. 18 della L. 300/1970, nel testo modificato dalla L.
92/2012, all’ipotesi del fatto contestato insussistente va equiparata quella del fatto che,
benché materialmente prodottosi, è privo di una intrinseca rilevanza giuridica. Nel caso
concreto, il licenziamento era stato motivato dalla circostanza che il lavoratore aveva
tenuto un comportamento maleducato con il personale che lui stesso aveva il compito di
formare e aveva, inoltre, rifiutato di rinegoziare il superminimo con l’impresa, contestando
a quest’ultima di essere stato demansionato. Nei due gradi di merito il licenziamento era
stato ritenuto illegittimo e il lavoratore reintegrato in servizio. L’impresa aveva proposto
ricorso in Cassazione sul presupposto che, una volta dimostrata l’effettiva sussistenza dei
fatti contestati, doveva riconoscersi al dipendente unicamente una tutela risarcitoria.
Secondo la Corte, diversamente:
- la reintegrazione non può essere esclusa per il solo fatto che il comportamento
contestato si è effettivamente realizzato, in quanto è necessario verificare che lo
stesso fatto sia illecito;
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-
non può essere relegato a una valutazione di proporzionalità qualunque
comportamento accertato ma privo, in concreto, di una sua consistenza
antigiuridica, in quanto tale argomentazione porterebbe ad ammettere che ricade
nella sola tutela indennitaria un licenziamento basato su fatti che, quantunque
esistenti, sono privi di qualsivoglia rilievo disciplinare.
Nel caso concreto il fatto era sussistente (perché il lavoratore aveva effettivamente tenuto
la condotta contestata), ma non era illecito. Per questo motivo, pur essendo materialmente
avvenuto, doveva essere considerato insussistente dal punto di vista giuridico.
Occorre ricordare che l’art. 18 della L. n. 300/1970, come modificato dalla L. n. 92/2012, si
applica ai datori di lavoro con i requisiti occupazionali (15 dipendenti) in relazione al
personale assunto fino al 6 marzo 2015. Per quello assunto successivamente si applicano
le tutele crescenti (D.Lgs. n. 23/2015). Deve ritenersi che i principi affermati dalla
sentenza in esame, che confermano l’orientamento in materia (si vedano le precedenti
sentenze, della stessa Corte, n. 20540/2015 e n. 23669/2014), abbiano effetti anche
sull’interpretazione delle disposizioni di cui al D.lgs. n. 23/2015, ai sensi del quale si ha la
reintegrazione in servizio quando viene dimostrata «l’insussistenza del fatto materiale
contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la
sproporzione del licenziamento».
L. n. 92/2012
D.Lgs. n. 23/2015
Il giudice può disporre la reintegrazione nei
seguenti casi:
• Insussistenza
del
fatto
contestato;
• Il fatto contestato rientra tra le
condotte punibili con una sanzione
conservativa sulla base delle
previsioni dei contratti collettivi
ovvero dei codici disciplinari
applicabili.
Diversamente, si applica la tutela
indennitaria.
Il giudice può disporre la reintegrazione in caso
di insussistenza del fatto materiale contestato
al lavoratore dimostrata in giudizio, rispetto alla
quale resta estranea ogni valutazione circa la
sproporzione del licenziamento.
Diversamente, si applica la tutela indennitaria.
NB: disciplina applicabile alle aziende con più di 15 dipendenti. Per le altre si applica la tutela
indennitaria.
Sempre in tema di licenziamento disciplinare, con la sentenza n. 12337 del 15 giugno
2016 è stata affrontata l’annosa questione relativa all’immediatezza della contestazione. In
particolare, la Cassazione ha affermato che il principio di immediatezza deve intendersi in
senso relativo ed è, dunque, compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo,
allorché l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore
ovvero la complessità della struttura organizzativa dell'impresa sia suscettibile di far
ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la
valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo. La
specificità della contestazione non richiede l'osservanza di schemi prestabiliti e rigidi,
purché siano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare,
nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati, al fine di consentire al lavoratore incolpato
un'idonea e piena difesa.
Sullo stesso tema, la sentenza n. 17371 del 26 agosto 2016, aveva chiarito che la
tempestività della contestazione di cui all’art. 7 St. Lav., ai fini della liceità del
licenziamento, deve trovare applicazione non solo per la comunicazione al lavoratore della
condotta illecita, ma anche per l’irrogazione della sanzione.
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Nel caso esaminato dai Giudici di legittimità una banca aveva ricevuto una segnalazione
anonima con la quale veniva denunciata l’astensione dal lavoro per diversi mesi di un
dipendente dalla postazione informatica allo stesso assegnata. L’azienda dopo un lungo
periodo di accertamenti aveva disposto il licenziamento del lavoratore. Quest’ultimo aveva
contestato il licenziamento affermando che il lungo periodo di tempo decorso prima
dell’irrogazione della sanzione comportava l’illegittimità dello stesso, non tanto per
l’irregolarità formale del procedimento disciplinare, quanto perché risultava indicativo della
rinuncia da parte del datore di lavoro del relativo potere di recesso. Il datore di lavoro,
invece, aveva difeso la propria posizione, sostenendo che il lungo lasso di tempo
intercorrente tra la contestazione e l’applicazione della sanzione era giustificato dalla
necessità di corroborare l’ipotesi accusatoria. Inoltre, il fatto che l’azienda non voleva
rinunciare al recesso trovava la sua giustificazione nelle cadenze cronologiche del
procedimento disciplinare, secondo cui al dilatarsi dei tempi di formalizzazione della
contestazione e di adozione del provvedimento espulsivo faceva riscontro il tempestivo
avvio del procedimento disciplinare nella sua fase prodromica di accertamento della
condotta, cui il datore di lavoro aveva dato serrata successione temporale rispetto al
ricevimento della segnalazione anonima. Questo giustificava, sempre secondo il datore,
l’effettiva volontà della banca di voler reagire alla condotta inadempiente del lavoratore
che accompagna tutto il procedimento disciplinare fino all’adozione del provvedimento
espulsivo.
La Suprema Corte, tuttavia, ha rigettato il ricorso perché ha considerato troppo lungo il
lasso di tempo intercorrente tra la segnalazione della condotta illecita e la contestazione
degli addebiti.
Un’altra interessante sentenza, la numero 9635 del 11 maggio 2016, ha chiarito che può
essere considerato legittimo il licenziamento intimato a chi offende il superiore gerarchico.
Posto che la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempiere
alle disposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altro comportamento atto
a pregiudicarne l'esecuzione nel quadro dell'organizzazione aziendale, può integrare la
nozione di giusta causa una critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall'obbligo
di correttezza formale e dei toni e dei contenuti. Critiche di tal genere, oltre a contravvenire
alle esigenze di tutela della persona umana garantite dall’art. 2 della Costituzione,
possono essere di per sé suscettibili di arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale
(Cass. 5804/1987), dal momento che l’efficacia di quest’ultima risiede nell’analisi
sull’autorevolezza di cui godono i dirigenti e i quadri intermedi e tale autorevolezza non
può non risentire un pregiudizio nel caso in cui il lavoratore, con toni ingiuriosi, attribuisca
loro qualità manifestamente disonorevoli.
rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori
Insubordinazione
critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall'obbligo di
correttezza formale e dei toni e dei contenuti (ingiurie)
Ai fini della legittimità o meno del licenziamento non rileva neppure che il CCNL tipicizza
come ipotesi di giusta causa di recesso soltanto condotte che devono essere non solo
verbali ma anche fisicamente aggressive. Infatti la giusta causa di licenziamento ha fonte
legale e il giudice di merito non può ritenersi vincolato alle previsioni dettate dal contratto
collettivo, potendo e dovendo invece ritenere la sussistenza della giusta causa per un
grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme
della comune etica o del comune vivere civile, ove tale grave inadempimento o tale grave
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comportamento abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e
lavoratore, e potendo e dovendo specularmente escludere che il comportamento del
lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto
collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (Cass.
4060/2011).
Un’altra recente sentenza, la numero 19922 del 5 ottobre 2016, merita di essere presa in
considerazione per aver affermato che senza garanzie è illegittimo il controllo con il gps
del lavoratore ed il suo licenziamento. I “controlli difensivi” sui dipendenti devono
riguardare comportamenti specifici che esulano il rapporto di lavoro. Nel caso specifico,
un’azienda operante nel campo della vigilanza aveva installato sulle vetture dei lavoratori,
a seguito di autorizzazione sindacale, sia il gps sia un software che, in sostituzione del
consueto bigliettino utilizzato dai vigilantes, consentiva di verificare il corretto
adempimento dell’impresa nei confronti dei clienti. Tali sistemi, per espressa previsione in
sede sindacale, non dovevano portare a controlli a distanza nei confronti dei dipendenti.
La stessa azienda, tuttavia, proprio incrociando i dati del gps e del software, aveva
licenziato un lavoratore che aveva registrato come effettuate alcune ispezioni che in realtà
non aveva compiuto, in quanto dal gps risultava che la vettura era altrove. La Corte ha
ritenuto illegittimo il licenziamento, sottolineando come il gps fosse stato installato ex ante
ben prima che si potessero avere sospetti sulla condotta del lavoratore e che pertanto non
si trattava di un controllo difensivo, ovvero volto ad accertare l’illiceità del comportamento
del dipendente e a tutelare il patrimonio e l’immagine aziendale. In ogni caso, anche
nell’ipotesi sostenuta dal datore che si fosse trattato di un controllo a carattere difensivo,
avrebbero dovuto trovare applicazione le garanzie di cui all’art. 4 della L. n. 300/1970
(nella formulazione precedente le modifiche di cui al Jobs Act, trattandosi di una fattispecie
perfezionatasi precedentemente alla loro entrata in vigore). Il controllo difensivo potrebbe
dirsi legittimo solo ove sia posto in essere per evitare una specifica condotta lesiva di beni
estranei al rapporto di lavoro e non un generico danno per il datore, derivante dal
negligente adempimento della prestazione lavorativa da parte dei dipendenti, che
costituisce un naturale rischio d’ impresa.
Si deve considerare che il nuovo articolo 4 della L. n. 300/1970, prevede che le
informazioni raccolte dagli impianti audiovisivi e dagli altri strumenti di controllo, sono
utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore
adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli
e nel rispetto di quanto disposto dal d.lgs.n. 196/2003. Pertanto, ad oggi, rimane
necessario l’accordo (RSU/RSA/DTL), ed i dati potranno essere raccolti anche al fine di
accertare eventuali comportamenti illeciti del lavoratore e lesivi del patrimonio aziendale.
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