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giuliano_galletta_files/Fenomenologia dell
Giuliano Galletta
Fenomenologia dell’inapparenza
Come si stende un indumento sulla corda, ad asciugare, con delle mollette da bucato1,
così Giuliano Galletta, artista, sciorina fotografie e carte, motivi e motivazioni, appende
teche e arma biblioteche, estrapola citazioni, intenta sovrapposizioni di canti e suoni,
organizzando in mostra l’irriducibile scenario delle incompossibilità. Ma poi, si tratta
realmente di una mostra? Comunque, varcando la soglia dello spazio espositivo il
visitatore, lo spettatore, entrano in quello che non esiterei a definire un teatro delle
simultaneità. Non tanto della crudeltà, come prescrive Artaud, che ricusa una
rappresentazione della vita per presentarla in quanto ha di impresentabile, quanto
piuttosto delle modalità di sopra-vivere, non cessando di riavvolgerne il filo nella trama
intermittente di un racconto, di una storia in perdita, messa in opera attraverso immagini.
O di un’iterazione di copie da un originale sempre differito, implacabilmente differente.
Entrato in un gioco di rispecchiamenti, l’autoritratto con palloncino, ad esempio,
interviene come la citazione di quello in jeans con bandiera rossa del 1980.
Sarebbe forse troppo suggestivo parlare di una tranche de vie tratta da un’ipotetica
pagina di diario, il suo, o di uno spettacolo in cui interagiscano situazioni esteticoemozionali di ordine diversificato, quali, ad esempio, un incidente stradale. Entrando in
galleria, infatti, si percepisce a destra la megafotografia di una barella ospedaliera su cui
è distesa, sotto un lenzuolo insanguinato, che non convince del tutto un osservatore
attento, una giovane donna con bracciali al polso, dall’immancabile vestito rosso: è
chiaramente leggibile, su di lei - sopra(v)vissuta? richiamata in vita dall’autore? sospesa
in un Arrêt de Mort?2 - la bianca scritta “Je voudrais apprendre à vivre. Enfin3. A sinistra,
ci si confronta con quell’ironico, pensoso, autoritratto fotografico dell’artista seduto
accanto a un precario, infantile, palloncino colorato, mentre, in simultanea, sulla parete di
fronte, scorre in loop, un video inedito di tre minuti, che duplica l’immagine dello stesso,
accompagnandola con il sottofondo sonoro, al pianoforte, di You’re the top! il pezzo jazz
di successo, composto nel 1934 da quel brillante autore americano di musical che è stato
Cole Porter, soprannominato il grande sofisticato e mito dell’alta borghesia europea anni
Trenta. Non è inusuale che il pubblico di Giuliano Galletta, artista visivo, si sorprenda
coinvolto in un clima da vaudeville, come già quello dell’irresistibile tip tap di Fred Astaire
1
Jacques Derrida, Sopra-vivere, Feltrinelli editore, Milano, 1982, pag.14, trad. Giovanni Cacciavillani.
2
Maurice Blanchot, L’Arrêt de Mort, 1948, racconto che Jacques Derrida rilegge analiticamente attraverso la pratica
della sua “doppia invaginazione”, e che pubblica nel 1982 con Feltrinelli, intitolandolo Sopra-vivere.
3 Jacques Derrida, Spettri di Marx, Cortina editore, Milano, 1994, trad. di Gaetano Chiurazzi.
1
in La camera melodrammatica, con introduzione di Sandro Ricaldone e Raffaele Perrotta
o quello fatale del tango argentino Caminito in A casa Jorn , presentata dagli
imprescindibili testi di Simone Regazzoni e ancora di Ricaldone: segni in levare
contrapposti, come nel solfeggio, a quelli in battere, che sortiscono l’effetto pulsionaleintenzionale di innescare una sorta di insinuante euforia. Il segmento del testo di Porter
You’re the top!...But if, baby, I’m the bottom you’re the top! viene riportato alto su una
parete come esempio di quell’enumerazione caotica che ha il suo referente nella figura
letteraria indagata da Leo Spitzer nella poesia moderna e si compone di connotazioni
antitetiche, riferite a una coppia in cui l’oggetto del desiderio sarebbe vincente, mentre il
soggetto desiderante irrimediabilmente perdente. Seguono, sulla parete, citazioni fedeli
da Jorge Luis Borges, citato a sua volta da Foucault in Le parole e le cose sull’impresa
assurda di una classificazione dell’universo e di una delirante tassonomia degli animali,
trovata forse in un testo cinese, un’ulteriore citazione da Charles Cros, in quanto poeta e
inventore proto surrealista che elenca ninnoli e chincaglieria desueta, rinviante a un certo
clima baudelaireiano, da Jacques Derrida4 sulla pretesa di un vivente di voler imparare a
vivere, finalmente, a vivere intrattenendosi con i fantasmi della politica, della memoria,
dell’eredità e delle generazioni, forse per esorcizzarli; infedele la citazione dalla Genesi
che introduce alla parete dell’Archivio del Caos, un dispiegamento di carte e scritte
formato A4, che anticipa un “mosaico” della Gesamtkunstwerk di prossima realizzazione
al Museo di Villa Croce. In bacheca, un manichino, capovolto, in tuta arancione da
cosmonauta, intanto, ci ricorda, usando le parole di Riccardo Manzotti per la mostra
Hotel de l’avenir, che il futuro, storico, sociale, utopico, dei cittadini sovietici degli anni
Settanta oggi è un passato, diventato anteriore al loro presente, uscito dal quadrante
delle lancette.
Da non sottovalutare, nella visione d’insieme della mostra, la cartolina d’invito con l’opera
Cow Artist:, dove, sulla scena dell’esponibilità e del feticismo della merce e con fondale
gli Spettri di Marx, si affaccia quell’inopportuno cestello di lavatrice, abbandonato su un
prato inglese, in cui una vigorosa mucca di Higher Fraddon, ormai star alla ribalta della
cronaca massmediatica digitale, ha infilato incautamente la testa, restandovi
tragicamente intrappolata. Anche questa è un’ironica metafora della critica radicale
dell’autore verso la società dello spettacolo, dell’industria culturale, dei consumi e dei
rifiuti in una società globale.
Se, di fronte a un tale scenario, qualcuno degli astanti dovesse ripensare mentalmente a
quella sorta d’indefinibile teatro dadaista che, nel 1952 al Black Mountain College, John
Cage, declamante su una scala in un angolo, e Merce Cunningham, danzante tutt’intorno
inseguito da un cane, realizzano, in mezzo al pubblico, facendo eseguire pitture bianche
al giovane Rauschenberg, altresì impegnato nel mettere vecchi dischi su un fonografo,
giusto mentre David Tudor versa acqua da un secchio all’altro, dopo aver
impeccabilmente suonato su un pianoforte preparato…ebbene sappia che Giuliano
Galletta, pur non prescindendo da quella ineludibile pagina di storia – operando sul
collage, sull’innesto di immagine e performance, su un’idea di continuità che non muove
4
Jacques Derrida, Spettri di Marx, Cortina editore, Milano, 1994, trad. di Gaetano Chiurazzi.
2
da uno stretto rapporto di relazione, ma piuttosto da un cut up alla Borroughs e su una
percezione di se stesso come identità inafferrabile, spazio-tempo del suo divenire, - non
può che divergerne per puntuali zone di tracce differenziali, rinvianti indefinitamente ad
altro, che lo connotano come indubbio autore occidentale, senza inflessioni Zen.
Giuliano Galletta lavora sul punto di sutura tra situazionismo e decostruzionismo,
approdando a un esito estetico-letterario-teatrale di cui è originale iniziatore in campo
artistico dalla seconda metà degli anni Settanta, pur non cessando di operare una mise
en abyme dell’individuazione dell’autore, anticipando, in qualche modo, anche
l’intenzione odierna del copyleft sul copyright. Maestro del montaggio e dello smontaggio,
Galletta mette in cortocircuito la vecchia impalcatura narrativa e i generi visivo-poeticoletterari, inaugurando, sul versante dell’arte, una sua tipologia di collage che non cessa di
scombinare e scambiare l’ordine del sistema dei segni attuali e virtuali. Giornalista
anomalo, decostruttore di romanzi, lirico parodista della cronaca, poeta dell’immagine
diaristica, scenografo dell’incongruo, filosofo del relitto, antropologo dell’aforisma,
stenografo del tempo, trascrittore di un’epica dell’erotismo, cacciatore inesausto di
fantasmi, Galletta, con finta tecnica poliziesca e al fianco di maestri del sospetto come
Marx e Freud, fa parlare gli indizi, lo spazio figurale dell’Unheimlich, filma se stesso
dando voce all’altro, delinea una sua fenomenologia delle inapparenze. Il campo
semantico che l’artista ritaglia per includervi la sua mostra è un vuoto in cui organizza il
caos evenemenziale di frammenti giustapposti della sua storia, portati sulla scena dai
flash intermittenti della memoria. Che accade in mostra? Una sequenza di non
accadimenti, la re-citazione di una visione, un metascenario, un film di spezzoni di déjà
vu e jamais vu, la dimensione performativa della decostruzione della scrittura, la ricetta
per apprendere, infine, a vivere? Creato un contesto di realtà spettrale, lo scrittore
assembla oggetti per trovare un bordo a tale contesto, per abbordare testi orlando
immagini e cose, mostrando reticoli di tracce, parole che straripano nella vita, nella deriva
dello spettacolo.
Nel perpetuarsi di un autoritratto dalla biografia irrintracciabile, si profila un personaggio
che nell’istante dell’appello dice io, occupando il posto della voce narrante e
autonominandosi Giuliano Galletta, altrimenti detto un soggetto che afferma che la vita
vive, che riafferma anzi un supplemento di vita sulla vita, sopra il vivere, nel
sopra(v)vivere.
Viana Conti
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