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Lectio Divina
Il Cantico dei cantici
(5,2-6,3)
A cura della Comunità dei Chierici Regolari di San Paolo - Barnabiti
Santa Maria al Carrobiolo – Monza
www. carrobiolo.it
1
Nella notte dell’assenza (Ct 5,2 – 6,3)
LEI
5,2
lo stavo dormendo ma il mio cuore vegliava.
Una voce! È il mio amato che bussa:
«Aprimi, mia sorella, amata mia,
mia colomba perfetta:
il mio capo è coperto di rugiada,
i miei riccioli di gocce notturne».
3
«Mi sono già levata la tunica,
come indossarla di nuovo?
Mi sono lavata i piedi,
come potrei sporcarmeli di nuovo?».
4
Il mio amato introduce la mano nell'apertura
e il mio cuore è impazzito per lui.
5
lo mi sono alzata per aprire al mio amato
e le mie mani si sono impregnate di mirra,
le mie dita grondavano mirra
sulla maniglia del chiavistello.
6
lo ho aperto al mio amato
ma il mio amato era già partito, era scomparso.
- La mia anima era venuta meno alle sue parole ... –
L’ho cercato ma non l'ho trovato,
l'ho chiamato ma non m'ha risposto!
7
Mi hanno trovata le sentinelle che fanno la ronda in città,
mi hanno percossa, mi hanno ferita,
mi hanno strappato il mantello
le sentinelle delle mura.
8
Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,
se troverete il mio amato
che cosa dovrete raccontargli?
Che sono malata d'amore!
CORO
9
Che cosa distingue il tuo amato dagli altri amati,
o tu che sei la più incantevole tra le donne?
che cosa distingue il tuo amato dagli altri amati,
o tu che ci scongiuri così?
LEI
10
Il mio amato è bianco e rosso,
2
spicca tra diecimila!
CORO
LEI
11
Il suo capo è oro purissimo
i suoi riccioli sono grappoli di palma,
neri come il corvo,
12
i suoi occhi come colombe
lungo i ruscelli d'acqua,
i suoi denti sono bagnati nel latte
e perfettamente incastonati,
13
le sue guance sono come aiuole di balsamo,
come scrigni di aromi,
le sue labbra sono gigli
che stillano flussi di mirra,
14
le sue mani sono anelli d'oro
incastonati di gemme di Tarsis,
il suo ventre è avorio lavorato,
tempestato di zaffiri,
15
le sue gambe sono colonne d'alabastro,
che poggiano su piedestalli d'oro fino.
Grandioso come il Libano,
giovanile come un cedro.
16
Il suo palato è dolcissimo.
Egli è tutto una delizia!
Così è il mio amato,
così è il mio amore,
o figlie di Gerusalemme!
6,1
Dove se n'è andato il tuo amato,
o tu che sei la più incantevole tra le donne?
Dove si è diretto il tuo amato?
Noi lo cercheremo con te.
2
Il mio amato è sceso nel suo giardino,
tra le aiuole di balsamo
a pascere il gregge nei giardini,
a raccogliere gigli.
3
lo sono del mio amato
ed il mio amato è mio,
lui che pasce il gregge tra i gigli.
3
Forse con una tecnica simile al flashback cinematografico la sposa rievoca una
passata ricerca dell'amato, affine a quella descritta in 3,1-5. Perlustrando la città e
incorrendo in disavventure, la donna era però riuscita a ritrovare il suo uomo. Il
timore non è, quindi, completamente cancellato, l'amore non è mai del tutto
perfetto ed esige una continua purificazione che lo aiuti a superare i suoi momenti
oscuri e le sue crisi. Ma ormai tutto è lasciato dietro le spalle. La sposa non
conclude neppure il racconto descrivendo il ritrovamento. Basta solo ripetere la
sigla del Ct: «lo sono del mio amato e il mio amato è mio» (6,3).
Leggiamo ora in dettaglio il brano. La trama è abbastanza lineare. Un primo
quadro (5,2-8) descrive il notturno dell'assenza e della ricerca ansiosa per la città.
Uno stacco del coro (5,9) permette alla donna di disegnare un appassionato canto
del corpo maschile, parallelo a quello femminile che abbiamo appena letto nel c. 4
(5,10-17). Un nuovo stacco del coro (6,1) e un quadro brevissimo per far balenare
la gioia del ritrovamento (6,2-3) concludono la sezione.
Il notturno dell'assenza (5,2-8)
È notte fonda. La donna nell'interno della sua casa sta dormendo. In verità il suo
amore non dorme ed è come una sentinella attenta a ogni piccolo segno.
L'originale è essenziale e limpidissimo, usa solo quattro parole ebraiche: «io
dormiente, il mio cuore sveglio». Ed ecco, all'improvviso, nella nebulosità del
sonno, una voce che fa balzare il cuore: è lui, l'amato che bussa alla porta. Il suo
desiderio è sottolineato dall'intensità dell'appello: «Aprimi, mia sorella, amata mia,
mia colomba perfetta». Egli viene dalla fredda notte orientale ed il suo capo è
tutto impregnato di rugiada come avvenne un giorno lontano al vello di Gedeone
(vedi Gdc 6,37-40), i riccioli della sua capigliatura sono imperlati di gocce
notturne. Egli porta tutto il freddo della notte e attende di gustare il calore di quel
letto e di quel corpo. La tenebra e il gelo attendono di essere sciolti dall'abbraccio
ardente dell'amore.
È celebre il passo dell'Apocalisse che rielabora in chiave mistica il quadretto del
Ct, d'altra parte già noto alla poesia egiziana: «Ecco, io sto alla porta e busso. Se
qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui e cenerò con lui ed
egli con me» (Ap 3,20).
Ma ecco una sorpresa. La donna, probabilmente più per vezzo che per pigrizia, si
fa desiderare mostrandosi indifferente. Questa schermaglia d'amore è descritta nel
v. 3: ella si è già spogliata anche della sottoveste (la "tunica") sulla quale si portava
un manto che ai poveri serviva anche da coperta; ha già fatto il bagno e non vuole
di nuovo sporcarsi i piedi (spesso si camminava scalzi). Si tratta solo di una
ritrosia capricciosa ma la tradizione ha interpretato la scena come se fosse una
parabola della freddezza della sposa Israele nei confronti del suo sposo fedele, il
4
Signore.
In realtà la donna, appena sente che la mano del suo amato armeggia al
chiavistello per farlo saltare e per introdursi così in casa, viene percorsa da un
fremito d'amore e di gioia. L'originale ebraico dice: «le mie viscere si sono
commosse per lui», un'emozione profonda, intima, radicale. C'è una particolare
connotazione di femminilità: le viscere materne nella Bibbia sono il segno di un
affetto totale, istintivo, illimitato (Ger 4,19; 31,20; Is 16,11; 49,15). E per la Bibbia
anche Dio ha "viscere" materne di bontà e di misericordia (rahamim è un attributo
"viscerale" frequentemente applicato a Dio dalla Bibbia e dal Corano).
La donna si alza. E mentre le sue dita sollevano la maniglia del chiavistello, essa
sente il profumo lasciato dalle mani del suo uomo attaccarsi alle sue. È la mirra, il
profumo preferito dal suo amato, un profumo aspro e acuto, una resina odorosa
intensa (v. 5). Ogni innamorato non solo sa riconoscere il profumo del suo
partner ma, appena lo percepisce, si commuove perché è come se avesse davanti a
sé il suo amore in persona. Ma ecco la sorpresa amara, sottolineata nel v. 6 dalla
ripetizione di ciò che era stato detto nel versetto precedente: «Mi sono alzata per
aprire ... Io ho aperto al mio amato». La porta si spalanca solo sul vuoto, sulla
notte, su un silenzio glaciale. Lo sposo s'è dissolto come un'ombra (Sal 144,4)
nella tenebra. E quello svenimento che la donna aveva provato alle parole
pronunziate dall'amato mentre era in attesa davanti alla porta chiusa piomba di
nuovo su di lei. Ma non è più uno svenimento d'amore bensì di terrore. Essa però
non vuole rassegnarsi.
Inizia, allora, un nuovo notturno di grande tensione. Esso si svolge sulle vie e
sulle piazze di una città deserta e divenuta improvvisamente ostile. È una ricerca
disperata che ha sempre lo stesso esito, il vuoto. È un grido lacerante sempre con
lo stesso risultato, il silenzio. All'improvviso a una svolta della via, appare una
ronda della polizia (v. 7).
Di fronte a una vagabonda la reazione di quelle guardie è brutale e scatena tutta la
loro tensione repressa. Per quelle sentinelle la donna non è che una prostituta e
quindi un'occasione per sfogare tutti i loro istinti: la inseguono, la spogliano del
mantello che avvolge completamente il corpo della donna orientale, la
percuotono, la feriscono e la abbandonano sul selciato. Umiliata, la donna non
perde però il suo desiderio di ritrovare l'amato. Lancia, allora, un appello
altamente poetico al coro delle "figlie di Gerusalemme" perché anch'esse si
associno alla ricerca del giovane (v. 8). Un unico messaggio esse dovranno
comunicare allo sposo: «Sono malata d'amore!» (‘Sono ferita d'amore, io!», traduce
la versione greca dei Settanta).
Il canto del corpo maschile (5,9-16)
5
La domanda delle "figlie di Gerusalemme" sulla fisionomia e sui caratteri somatici
che permettano l'identificazione dell'uomo alla cui ricerca anch'esse si indirizzano
(v. 9) provoca nella sposa una nostalgica e dolcissima rappresentazione del corpo
del suo uomo. È il parallelo di quel canto del corpo che lo sposo aveva intessuto
su di lei (4,1-7). Si concentrano qui i colori di una tavolozza poetica di gusto
tipicamente orientale. «Questo amato si distingue da tutti gli altri amati!». Per
l'innamorato la persona amata è sempre la più incantevole di tutte le creature.
Come dice l'originale ebraico del v. 10, lo sposo è come un vessillo spiegato tra
diecimila, una bandiera di bellezza in mezzo ad un esercito immenso di eroi, il più
forte e il più splendido in assoluto. Inizia quindi il ritratto dell'uomo delineato in
tutta la sua figura fisica. Nell'Antico Testamento non mancano profili di bellezza
maschile: esemplare, ma in chiave sacrale, è la raffigurazione del sommo sacerdote
Simone offerta da Sir 50,5 -10; Giuseppe era «bello di forme e avvenente di
aspetto» (Gn 39,6); Davide era «fulvo, con begli occhi e gentile di aspetto» (1Sam
16,12; 17,42); «in Israele non vi era uomo che fosse tanto lodato per la sua
bellezza quanto Assalonne, figlio di Davide, dalle piante dei piedi alla cima del
capo non vi era in lui alcun difetto» (2Sam 14,25). Molti studiosi, riferendosi
anche alla descrizione della statua sognata da Nabucodonosor in Dn 2, pensano
che il poeta modelli il suo ritratto più da scultore che da pittore. Scrive, ad
esempio, un commentatore tedesco, G. Gerleman: «Tra il ragazzo e il canto
descrittivo che ne fa il Ct c'è sicuramente la rappresentazione dell'uomo nell'arte
figurativa e precisamente nell'arte egizia». Ma questa statua di efebo sotto le
parole del poeta diventa sempre più viva e palpitante.
Il suo incarnato non è bruno come quello della ragazza (1,5) ma rubicondo, una
tonalità piuttosto eccezionale e segno in Oriente di estrema bellezza e di salute. Il
bianco è il colore del cielo luminoso, spoglio di nubi (Is 18,4), il rosso è quello del
sangue (Is 63,2) o dell'aurora (2Re 3,22). È come se un alone di luce, un'aureola
divina lo avvolgesse. Il suo volto è di oro purissimo, simile quasi alla corona dei
raggi del sole (la statua di Dn 2,32 ha la testa di oro prezioso, vedi anche Lam
4,1). Simile alla chioma di una palma ricca di grappoli è la sua capigliatura di un
nero corvino percorso da striature metalliche (v. 11). Come tenere colombe
(l'animale dell'amore) sulle rive di un ruscello sono i suoi occhi (v. 12), identici a
quelli della donna. Il testo ebraico continua per tutto il v. 12 la comparazione
degli occhi ma è molto probabile che qui sia caduta la menzione dei denti (4,2;
6,6). Come un bacile colmo di latte candidissimo così è la dentatura perfetta
dell'amato. Come aiuola di fiori balsamici sono le sue guance, tutte cosparse di
aromi: il poeta allude probabilmente alla barba che gli orientali impregnavano di
profumi (Sal 133,2-3; Sir 50,9). Essa è, quindi, considerata come uno "scrigno" di
balsami o anche, come può significare l'originale ebraico, una torre o un muro
fortificato, cioè il bordo protettivo della guancia, segno di potenza e di virilità.
6
Come gigli rosati sono le sue labbra, come mirra che si effonde è la saliva che le
percorre (v. 13).
Come gioielli d'oro sono le mani e le dita affusolate, incastonate di mille
perfezioni simili alle gemme di Tarsis, pietre provenienti dai confini estremi della
terra. Come lastra d'avorio compatta e raffinatamente intagliata è il ventre
dell'amato: un bianco caldo e dorato, un colore prezioso e dolce su cui si
intessono mille sfumature di altre tonalità e perfezioni simili allo zaffiro e al
lapislazzulo, spesso usato, quest'ultimo, nella statuaria egizia. Un'iridescenza di
tinte che trasfigurano questo corpo già così armonioso e integro. Come colonne
d'alabastro poggiate su basi d'oro puro sono le gambe solide, vigorose, ben
piantate del giovane (v. 15). Ancora una volta questa immagine evoca le statue
egizie degli dèi e dei faraoni i cui piedi poggiavano su fondazioni d'oro mentre la
menzione dell'alabastro continua il richiamo alle tonalità calde e delicate. Nella
poesia araba successiva la comparazione gambe-colonne è frequente e rimanda
alla snellezza, all'eleganza e alla stabilità delle colonne delle moschee degli
Omayyadi. Come il Libano maestoso nella sua imponenza, lo sposo s'avanza;
come i cedri verdeggianti posti sulle pendici di quel monte così egli si rivela
"giovanile", fresco e forte: in ebraico l'aggettivo "giovanile" è usato per le truppe
scelte, per i giovani eroici e coraggiosi (v. 15). Il suo palato, cioè le sue parole e i
suoi baci, è la dolcezza fatta carne, conquista ed inebria (v. 16). La donna non sa
più trattenersi: «Il mio amato è tutto una delizia!». C'è in lui una soavità che riesce
a stregare, tutto in lui è affascinante, egli ha la forza di una magia che conquista
anima e corpo. «Così è il mio amato, così è il mio amore, o figlie di
Gerusalemme!». La tradizione mistica ha visto in questo abbandono totale al
fascino dell'amato l'adesione che lega il credente al suo Signore, al suo amore e
alla sua bellezza. L'orante del Sal 16 proclama: «Ho detto: Jahweh, Signore, sei tu
il mio bene, sopra di te non c'è nessuno!» (Sal 16,2). Il poeta mistico indù
Tukaram nella stessa linea affermava: «Che Egli sia il tuo Dio unico: senza di lui
non c'è per te gioia. Tu sei il mio tutto, il mio unico. In ogni pietra è te che io
vedo. Nella mia anima non c e più angoscia».
Il giardino dell'incontro (6,1-3)
Il coro in apertura ripete la domanda della ricerca dell'amato in un crescendo di
tensione (vedi 5,9). Alcuni studiosi sentono nella formula «Dove si è diretto il tuo
amato? Noi lo cercheremo con te» un'eco dell'antifona propria dei riti pagani che
celebravano la risurrezione stagionale del dio della fertilità. Ma al di là di questa
eventuale citazione dotta, la domanda si spegne subito ed è subito accantonata
perché la scenetta finale mette già in atto la vera risurrezione, quella dell'amore
ritrovato. La notte è scomparsa, gli incubi sono svaniti, c'è solo un delizioso
giardino, costellato di aiuole di balsamo e di gigli. Al centro, come se fosse un
7
sovrano nel suo parco, ecco lo sposo-pastore che sta raccogliendo gigli (v. 2),
simbolo dell'amore, della tenerezza e della pace. E allora, come nel parallelo di
2,16, il vertice è raggiunto da una perfetta professione d'amore, quella che
abbiamo considerato come la sigla del Ct: «lo sono del mio amato, e il mio amato
è mio» (v. 3). Al termine di questa scena drammatica e oscura in cui ha dominato
l'assenza, questa professione d'amore acquista un sapore più intenso e un tono
più veemente. L'amore ritrovato ha un gusto simile all'amore scoperto per la
prima volta. La cosa decisiva è quella di non arrendersi al silenzio, al gelo
dell'assenza, all'idea della morte, all'inferno della disperazione e del fallimento.
«Padri e maestri, io mi chiedo: Che cos'è l'inferno? Io affermo che è il tormento di
non essere più capaci di amare» (Doostoievskij).
Meditazione spirituale di Enzo Bianchi
( da ‘Lontano da Chi, lontano da dove?)
L'esilio dell'amore (3,1-5 e 5,2-6,3)
Che cosa contraddice costantemente all'unione perfetta degli amanti? Che cosa fa
rimandare sempre ad un domani, non mitico ma ancora da venire, il trionfo
dell'amore? Che cosa dà ad ogni sabato un suo tramonto e ci rimanda ad un'attesa
a volte angosciante del sabato eterno? Il sonno, il torpore della sposa, nient'altro.
Certo lo sposo è il Dio geloso (Iah qanna), è l'amante esigente che non attende di
fronte all'indugio; ma la sposa resta pur sempre un'amata incapace di uscire
completamente dal sonno.
« Senza dubbio - dice san Bernardo echeggiando Origene - lo sposo fugge solo
perché lei lo chiami con più ardore e lo trattenga con più forza: quando passa
vuol essere trattenuto: quando se ne va, vuol essere richiamato».
L'esilio, la lontananza, la solitudine e la sofferenza sono il risultato dell'incapacità
di rispondere con rapidità agli inviti del Signore. Vergine stolta, serva non
vigilante, donna gravata dal sonno, incapace di vegliare, Israele e la Chiesa non
provocano, anzi ritardano, il ritorno dello sposo. Egli aspetta perché vuole che la
sposa esclami: «Fammi tornare e io tornerò» (Ger 31,18). Ed è questa la
schermaglia dell'amore, l'eterno gioco di questo nostro cuore umano che il
Signore continua a chiamare, continua ad attirare. Già durante la fase del
fidanzamento, quando doveva sbocciare l'amore, essa non si era mostrata pronta,
non era riuscita a trattenere l'Amante con sé: nella notte l'angoscia l'aveva colta, e
dopo aver cercato e chiamato lo sposo con un gesto di folle amore per lui, aveva
osato uscire sola nel buio, mettersi alla sua ricerca, chiedere alle guardie notturne
se l'avevano visto (3,3): ma nelle piazze, nei vicoli, nelle strade non c'era. L'ha
cercato senza trovarlo: e quando scoraggiata andava piangendo per un momento,
evento di pura grazia, l'Amante fu suo e poté abbracciarlo. 7
8
Non era quello un incontro definitivo, ultimo: la Sulammita giaceva ancora
insonnolita, il tempo dell'amore non era giunto e lo sposo se ne andò lasciandola
al suo esilio. Quel momento fu un sabato con un tramonto e non ancora il sabato
eterno.
Rabbi Eliezer nello Zohar spiega che l'incontro con lo sposo non avviene perché
la sposa è ancora in terra impura, nel suo esilio tra le genti. La sposa allora esce a
cercarlo perché lui la tragga dall'esilio, ma non lo trova perché lo sposo non si
unisce alla comunità di Israele se non nel santuario (3,1) e neppure le risponde
perché la voce dello sposo non si fa udire se non ai suoi figli (5,6; cfr. anche Deut
4,33) 54.
Come non vedere in questo quadro del Cantico (3,1-4) il motivo ispiratore
dell'episodio di Maria di Magdala al sepolcro? Nella notte del sabato santo Maria
sta fuori e piange cercando l'Amato, il Signore; come la donna del Cantico essa è
sicura di poter baciare lo Sposo, ne ha la fede incrollabile anche davanti
all'evidenza di un sepolcro. Maria è restata attaccata ad una fedeltà d'amore
contraddetta dalla tomba che sta davanti a lei, dalla morte avvenuta in modo
estremamente scandaloso la sera del venerdì: «Maria in pianto si chinò e guardò
nel sepolcro ... Cercò dunque una prima volta, ma non invano perseverò nella
ricerca e le fu dato di trovare. Avvenne che il desiderio per l'attesa si intensificò e
così poté incontrare l'oggetto della sua ricerca amorosa. Questo è il significato
dell'espressione che la Chiesa applica allo sposo del Cantico (3,1): "Ho cercato
l'amore dell'anima mia"». Maria lo cerca senza trovarlo, si reca « al sepolcro
quando è ancora buio» (Gv 20,1), trova la tomba vuota ma grida: «O mio amato,
risorgi, mostra a me il tuo Volto! »
Lo sposo appare a lei per un momento, risvegliandola con la pronuncia del suo
nome «Maria! »: «Trovai l'amato del mio cuore, lo strinsi fortemente e non lo
lascerò» (Cant 3,4). Maria vorrebbe abbracciarlo, non lasciarlo più, ma il tempo
non è ancora venuto: Maria non può essere privilegiata rispetto ad Israele e alla
Chiesa: deve ancora attendere come la sposa del Cantico. Il Messia ha concesso a
lei solo una primizia: egli è vivente, egli c'è ma non può essere trattenuto: «Non
mi trattenere» (Gv 20,17). E Maria ripiomba nella lontananza dallo Sposo: ma la
sua ormai non è più una ricerca disperata, angosciata, anche se è un'attesa
dominata dal desiderio di essere con Cristo per sempre.
La sposa del Cantico è ormai lacerata tra il risveglio che la vuole desta e il torpore
che ancora la possiede: essa desidera ma non ha ancora la capacità di accogliere il
dono assoluto.
Per lei, così scrive Bonhoeffer, «non vi è nulla di più tormentoso della nostalgia.
Dobbiamo allora semplicemente aspettare e aspettare ancora, soffrire
indicibilmente per la separazione, dobbiamo alimentare la nostalgia quasi fino a
star male, solo così conserveremo intatta, anche se in maniera molto dolorosa, la
9
comunione con le persone che amiamo». Infatti «il difficile è avere fiducia in Dio
e sperare da lui cose migliori di quelle che non si abbiano, quando a nostra
impressione e intelligenza Dio è irato. Ma qui egli è nascosto, e, come dice la
sposa del Cantico dei cantici: "Ecco, egli se ne sta dietro al muro e guarda dalla
finestra". Ciò significa che nelle sofferenze che ci vogliono separare da lui come
una parete, anzi come una muraglia, egli rimane nascosto, eppure ci vede e non ci
abbandona. Poiché egli è pronto ad aiutare con la sua grazia e si lascia vedere
attraverso la finestra oscura della fede».
Nella sua notte la sposa conserva il ricordo dello sposo, dorme ma il suo cuore
veglia, e in questa schizofrenia spirituale c'è il segno della sua conversione
imperfetta. L'amore è ancora in esilio, lei è ancora lontana dall'Amante: nelle sue
profondità ci sono ancora zone di oscurità, di opacità, non tutto il suo essere si è
convertito. L'amore è nato, voluto e creato dallo sposo, ma le cadute sono il
quotidiano, i rifiuti permangono. La piena risposta alle esigenze dell'amore non
emerge ancora. La notte tenebrosa vince ancora sulla luce dell'Amante! Il Dio
geloso però vuole ancora sollecitarla per mantenere in lei la memoria dell'Amore,
e viene a trovarla mentre lei dorme e le chiede di aprire. Egli sta alla porta e bussa:
se la sposa sentirà la sua voce ed aprirà allora ci sarà il banchetto nuziale (5,1-7
cfr. anche Apoc 3,20). Dice Gerolamo: “Alzati subito e corri ad aprirgli perché
non passi oltre a causa del tuo indugio e tu non debba lamentarti così: "Ho aperto
al mio diletto, ma il mio diletto se n'era già andato" (5,6)”.
Ma essa ha vari pretesti che impediscono il suo slancio: non è in attesa, in piedi,
coi sandali cinti, non ha tenuto accesa la lampada ad olio e si è lasciata vincere dal
sonno. L'amante tende la mano attraverso la fessura della porta ed essa è invasa
da un fremito che la scuote: potenza della mano del Signore, che però scompare
subito lasciando il suo profumo inebriante sulla maniglia della serratura.
Dello sposo restano a lei soltanto le tracce profumate ricordo di una bellezza
intravista. E « cosa c'è di più ammirabile della bellezza divina? Cosa si può
concepire di più degno di essere per noi fonte di gioia, che la magnificenza di
Dio? Quale desiderio è così ardente e impossibile a sopportar si come la sete
provocata da Dio nell'anima purificata da ogni vizio che grida nell'emozione
sincera: sono malata d'amore? ».
Ora è sveglia, pienamente cosciente della passione d'amore che le brucia nel cuore
ma anche capace di misurare l'angoscioso risultato delle sue esitazioni: l'Amante
non c'è più, è ormai assente. Questa è la stagione dell'attesa ardente, la stagione in
cui il suo cuore desidera sentire risuonare il nome destinato a lei dall'eternità. Sarà
chiamata Sulammita, colei che trova pace, ma solo nell' Amato la donna amata
troverà il suo riposo poiché « Tu ci hai creato per Te, o Signore, e il nostro cuore
non ha pace fino a che non riposi in Te ».
10
L'esilio, anzi l'abbandono, fa di lei una errabonda, ferita, spogliata, battuta,
desolata: infedele alla realtà dell'amore geloso e assoluto che la vuole pronta, è
incapace di accogliere l'ora delle nozze sopravvenute per pura grazia, sente che il
respiro le viene meno e che la sua è la stagione di chi languisce separato,
oppresso, esiliato. Quante volte questa stagione si è ripetuta e si ripete per Israele,
la Chiesa, il credente. Non c'è possibilità di darsi guarigione e non resta altro che
attendere la redenzione. Intanto le altre genti pagane che non han conosciuto la
genesi dell'amore, vedendo la sposa torturata e battuta, perseguitata e offesa (5,78), ma sempre attaccata nella fede allo sposo, domandano la ragione di tanto
amore (5,9).
La sposa risponde facendo il Cantico dell'Assente: non si rivolge a lui con il tu
confidenziale di chi gli sta di fronte, ma descrive l'Amante scomparso, il suo
Signore che l'ha lasciata e lo annuncia a quanti non lo conoscono. Essa adora
quest'Assente, e questa è la sua fede; essa ama questo lontano, e questa è la sua
verità; essa lo conosce e proclama com'è bello, e questa è la sua missione. Tutto
questo canto si alza nell'attesa del trionfo dell'amore.
Ma come è colui che l'ama? Egli è ineffabile, indicibile, si possono fare solo dei
paragoni: ciò che è bello nella creazione porta il suo sigillo: «Questo è il mio
amato, questo è il mio amico» (5,16).
Di fronte a tale proclamazione le nazioni sorelle, Raab e Babilonia, la filistea Tiro
e l'Etiopia conoscono l'Amante con tutti i doni di cui è cinto: la legge, la parola, il
suo popolo, i giusti suoi figli. Conoscono l'Amante e l'Amata e si sentono figli di
Sion, fiumi che hanno sorgente nella città santa, e allora dicono alla sposa: noi
vogliamo cercare con te! (Sal 87). C'è esilio, c'è persecuzione, c'è lontananza per la
sposa, ma in questa situazione resta la fede ed essa continua ad essere del Signore:
anche in questa lontananza lei svolge presso le nazioni la sua missione: far
conoscere Dio. Per questo proclama con forza ancora una volta: «lo sono per il
mio amato e il mio amato è per me» (6,3). Dio domanda che lo si adori come
Signore, lo si onori come padre, lo si ami come sposo, ma la più eccellente di
queste tre cose è l'amore. E Dio è presente nel Cantico solamente come colui che
ama di un amore totale.
C'è infatti una parola che non ritorna mai, ed è proprio il nome di Dio. Dio è
l'assente che tuttavia cerchiamo e di cui abbiamo bisogno. Lo cerca Israele che ha
già udito la sua voce, lo cerca la Chiesa che ha contemplato per un istante la sua
luce, lo cercano le genti nel cuore delle quali arde solo una domanda: chi è? dov'è?
Testimonia la sposa: «lo sono per il mio diletto e il mio diletto è per me ».
Anche nell'esilio essa rimane in attesa che l'amore trovi il suo compimento. Da
questo esilio la sposa eleva un cantico:
11
« lo voglio essere sempre per te,
tienimi per mano.
Guidami con il tuo consiglio,
quindi ricevimi nella gloria.
Chi ho in cielo fuori di te?
Te soltanto desidero sulla terra.
Vengono meno la mia carne e il mio cuore,
ma la roccia del mio cuore è Dio,
è Dio la mia fonte per sempre! » (Sal 73,23-26).
È Dio che riempirà la nostra sete d'amore per l'eternità. Il Cantico dei cantici
parla della nostra vita, del nostro cuore, del nostro amore. Guai a noi se troppo
presto rinunciamo all'amore, guai a noi se non sperimentiamo a fondo come
l'amore è un amore indomabile, un amore che non può essere condizionato, che
non può essere stretto entro i confini del nostro dolore, quei confini che la morte
impone alla vita umana.
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