I sud e le mafie, le donne si raccontano

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I sud e le mafie, le donne si raccontano
Su di noi donne del sud è caduto uno sguardo
di Angela Lanza
Napoli, 3 ottobre
UNA STORIA IN 3 MOVIMENTI
1° movimento
Su di noi, donne del sud, è caduto uno sguardo doppiamente coloniale. Alleato con chi poteva
tenere a freno una reale presa d’atto della nostra esistenza.
Non si va oltre certi confini. Sia perché non c’è immaginazione per andare oltre e quindi questo
oltre è qualcosa di indefinito, di difficile narrazione ma intravisto. Una tensione verso la propria
identità che consenta una libertà di guardare anziché essere guardate: decodificare quanto avviene.
Un’andatura a salti, non lineare nel senso che c’è una impossibilità dovuta all’attraversamento
continuo di una scena che si dissolve e ricompone. Parlo di uno specifico delle situazioni di mafia:
rigidità e nello stesso tempo incapacità di strutturare vita con il resto della società. Quindi
nascondimento e dissolvimento. Da qui il cambiamento continuo di alcune parti della città. Nello
stesso tempo, l’eterna mummificazione di molte zone degradate contribuisce -come nel primo casoa una sensazione di soffocamento.
Il desiderio di ribaltare tutto questo e tessere vita non è sufficiente.
Qualche volta è una forte emozione che spinge il desiderio a tradursi in lotta e creare una scena
diversa come è stato per la lotta delle “donne del digiuno”. Nell’occupazione di piazza Politeama lo
spazio che abbiamo scelto era delimitato da un ottocentesco palchetto della musica che è servito da
fondale. Da qui l’intera città ha preso per noi una connotazione diversa e non solo per noi ma anche
per quanti ci venivano a trovare: quello era il centro su cui ruotavano insieme le relazioni fra noi e
quelle con la città.
C’era anche la sensazione di essere “a casa”; non era più una piazza ma il punto da cui osservavamo
i fatti, le persone, e costruivamo una identità collettiva fatta anche di avvicinamenti e distanze. Una
casa priva di legami familiari dati ma altra e più reale con pareti invisibili incise dalla nostra
determinazione.
Contrapponevamo la nostra realtà ad un nulla di verità ( tanto temuto dalla Ortese) forse arrivate a
un movimento concreto dell’immaginario? E come? Anche attraverso una profonda inquietudine,
nostra virtù principale di quei giorni, che ci aveva spinte ad agire quando ci era stata proposta solo
un lato della realtà. Noi la volevamo tutta.
E ogni giorno, alle sette di sera, un’assemblea –sedie portate da casa- vedeva le presenti discutere il
da farsi stabilendo una relazione forte, senza capi, ne deleghe, Fino a che si risolveva nell’azione.
Nella narrazione di ognuna “dopo” c’è stato sempre presente l’esperienza forte della piazza, la
continuità del movimento dall’una all’altra, l’impossibilità della resa, il portare avanti quello che
ritenevamo giusto (la nostra norma). Il ricostruire radici.
E’ stata una comunità di donne in piazza a ridare senso a una storia irreale (meglio chiamarlo un
nulla di verità). Niente era più sensato dell’insensata frase che portavamo al collo: “Ho fame di
giustizia / Digiuno contro la mafia”.
2° movimento
Molti anni prima –anni ’70- c’era stata una grande esperienza di strada. Quando durante
l’occupazione delle case con un piccolo gruppo di donne (quelle di una fotografia ritrovata per
caso) per qualche notte abbiamo fatto gli stessi sogni. Un’esperienza incredibile che solo la gioia
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straripante di una lotta insieme può accettare. Come se ci fosse stato un sogno (simile a un libro) a
cui potevamo attingere insieme.
Ho fra le mani quella fotografia. Un primo piano di donne: visi felici e concentrati. E ancora alcune
di spalle. Oltre me, Giuliana insegnante di matematica e fotografa e Cettina che dopo qualche anno
partirà per gli Stati Uniti con il solo biglietto di andata.
Giuliana non è la fotografa che ferma quell’attimo. Dentro quel riquadro molte altre donne, tutte
del coordinamento lotta per la casa . Si intersecano molti piani: il nostro – delle donne istruite,
sapevamo parlare meglio – era un piano di intensa partecipazione emotiva. Avevamo preteso carta
bianca dalle rispettive organizzazioni della sinistra extraparlamentare che si combattevano
fieramente attraverso una quantità di distinguo.
Lo stesso avevano ottenuto le donne del quartiere Kalsa con cui ero entrata in contatto per via della
scuola. A quel tempo facevo la psicologa.
Le donne del quartiere Kalsa avevano vinto la battaglia con mariti e fratelli -negoziandola
centimetro per centimetro per essere padrone della strada, decidere, provare a smuovere un Comune
assente – che da un angolo seguivano la faccenda. Un angolo protetto da possibili incursioni della
polizia: le donne non avevano precedenti penali mentre la maggior parte degli uomini era in
qualche modo compromessa.
Sia noi che loro attraversavamo pareti invisibili tenute in piedi da una presenza maschile che si era
messa in disparte solo perché pronta a intervenire se ce ne fosse stato bisogno. E in questo non c’era
differenza fra i maschi delle nostre organizzazioni e i loro uomini.
Per l’identificazione potente con la casa, le donne della Kalsa accettavano il rischio di tradurre
l’immaginazione in realtà, esplosa dall’essere coscienti –forse per pochi momenti – che le proprie
gambe da sole non riuscivano a percorrere la terra desolata in cui erano inchiodate.
Sognavano tendine alle finestre e case pulite senza topi per le scale; da quel quartiere pericolante di
case già distrutte dai bombardamenti della seconda guerra mondiale volevano scappare. Crolli di
case numerosi. Ma anche “crolli” della loro esistenza.
Il centro da cui sciamavano, ansiose di agire, era via Vetriera. Adesso è irriconoscibile. Ai tempi
delle occupazioni delle case popolari della Roccella e di quelle private di via Quintino Sella, era
completamente distrutta.
Venni in contatto con la famiglia di Annuccia quasi subito, il padre era un manovale senza lavoro
stabile e con problemi psicologici ma questo lo metteva al riparo da possibili chiare prestazioni
mafiose. Annuccia aveva l’età di mia figlia Leonora e impararono a giocare insieme.
Non andava spesso a scuola. Come fai a pretendere una presenza scolastica quando i ragazzini
dopo essere stati rinchiusi in aule fredde e con sbarre alle finestre se ne tornano nelle case in
pericolo?
Nel racconto di M. Ortese, “I Granili”, la gente senza lavoro e senza soldi, chiusa in questo
casermone dove vaga notte e giorno senza nulla da fare, è espropriata dalla sua persona; non
esprime più nemmeno quel minimo di energie che consente la sopravvivenza. Ma la fiducia che mi
dette la famiglia di Annuccia soprattutto sua madre – fra me e lei si era stabilita una relazione
fatta di affidamento e speranza di cambiamento -mi dette le chiavi per avere anche tutta la fiducia
delle donne del quartiere.
Così la scuola era diventata per mia precisa volontà (il potere me lo dava la mia qualifica di
psicologa) l’incontro-scontro con le madri, e la teatralità gestuale di questa massa femminile, al cui
interno ci muovevamo come pesci nell’acqua, era il tratto dominante.
Non la paura della polizia, non la paura dei crolli, non la paura dei loro uomini le poteva fermare.
Via Vetriera e piazza Magione, oltre che la Kalsa stessa, era l’agone in cui si dispiegava una grande
potenza fisica e gestuale. Le donne della Kalsa da quel punto si prendevano spazi fino ad allora
proibiti. Si prendevano la città.
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Dopo un piano di attacco elaborato la notte in poche, ai primi chiarori della mattina iniziava un
trasferimento massiccio. L’arrivo della polizia era atteso con fermezza e anche trepidanza. Le donne
in prima fila contro la polizia, con un coraggio da leonesse, prendevano i candelotti da terra e li
rispedivano indietro con una velocità pazzesca sconvolgendo le regole del combattimento. Una lotta
di corpi sessuati contro la lotta armata di chi nascondeva il corpo e il viso: i poliziotti.
Indiscutibile la soggezione di questi ultimi. I “corpi” di polizia non erano addestrati contro i corpi
femminili e si muovevano dapprincipio incerti come bambini sgridati dalle madri.
Questo naturalmente fu solo all’inizio.
Fra noi donne si discuteva delle occupazioni ma in qualche modo anche della vita privata, si
discuteva se gli uomini (mariti e non) che prendevano a botte le donne tornando a casa la sera lo
facessero per amore o per abbrutimento. Alcune si dichiaravano lontane dal considerarlo
“amore”. Non era accettato dalla maggior parte ma era tollerato come la condizione di “alcune”.
Capivo anche che su questo tema non potevano essere sincere: si vergognavano di noi. Ma la
condivisione delle storie rendeva più intensa la partecipazione alla lotta prendendo anche
impulso
dalla presenza reciproca. Il linguaggio era un veicolo ma più che la lingua parlava il corpo.
Avevamo la percezione di essere “guerriere senza uno stato alle spalle” (Mangiacapra-Putino: “Il
diverso della scrittura”) e questo dava più spinta al desiderio ma ancora non riuscivamo ad
articolare quella sensazione in parole.
Noi donne istruite eravamo talmente oleate dalle e nelle rispettive storie che, spinte da un ancora
più forte coinvolgimento emotivo con le donne della Kalsa, facemmo alcune volte sogni comuni. Ci
sbalordì riempiendoci di gioia perché lo vivemmo come un dono magico, come se noi stesse
potessimo possedere queste facoltà
magiche, avere la capacità di fare affiorare poteri che avrebbero allargato la nostra libertà - tutt’uno
con una diversa comprensione di vita. Anche noi osavamo da sole senza la paternità dei compagni
che, fino a quel momento, ci aveva seguito ovunque. E questo rendeva tutto terribilmente leggero.
Sembrava che volassimo e per questo – penso – c’era questa continuità con i sogni della notte.
Le parole chiave di quel periodo erano: furore e gioia, due termini che rispecchiavano l’energia
frizzante data dalla libertà di potersi muovere senza catene – il controllo degli uomini – per
conquistare loro la casa agognata, noi un diverso modo
di imporre a Palermo con fierezza le nostre rivendicazioni di donne in un modo nostro, con altre
donne.
Vivevamo sempre in movimento. Non c’era più un orario per i pasti né per il sonno. E questo ci
faceva sentire delle viaggiatrici nella nostra stessa città diventata irriconoscibile perché vista sempre
dal centro della strada o di una piazza. Le nostre persone sempre mutevoli creavano una storia
intrecciata con quella della città continuamente ridefinita da passaggi in ombra e in luce in una
perenne oscillazione tesa a rimuovere qualsiasi ostacolo. Ostacolo? In realtà niente era per noi un
ostacolo: semplicemente rompevamo le condizioni del “prima”.
E’ stato un movimento scandito in due tempi.
Il primo è stato farci carico di responsabilità nei confronti della scuola e immediatamente alla prima
assemblea si è aperta una cataratta: le donne hanno invaso l’aula scrollandosi l’apatia e la passività
con cui fino a quel momento avevano vissuto la scuola dei loro figli. Adesso la scuola non era più il
luogo antagonista.
E dal momento scuola è venuto naturale passare agli altri problemi del quartiere. La casa prima di
tutto. Di fatto avevano avuto il coraggio di diventare protagoniste rifiutando (per un momento) la
subordinazione agli uomini. Si, uomini di mafia. Di cui sapevamo e non. Che si mantenevano alla
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larga semplicemente perché in quel momento il loro ruolo sarebbe stato ingombrante e di disturbo.
Avevamo il permesso di agire e lo sapevamo. Ma era pur sempre un permesso.
Ma in quella lotta c’è stato qualcosa di più: capire fin nel midollo delle nostre ossa che la nostra
energia visionaria creava politica. Malgrado tutto.
3° movimento
Il terzo movimento di queste mie pagine è Adesso. Ad una scadenza di più di trent’anni dalle
occupazioni delle casa con le donne della Kalsa e di venti dal secondo quello delle Donne del
Digiuno, arriva un Adesso inaspettato.
Nella primavera dell’anno scorso sono chiamata alla scuola media Quasimodo (ora “Maredolce”) di
via Oreto per presentare il libro: “Ho fame di giustizia”, parla della nostra occupazione in piazza
dopo la morte di Borsellino. Alla fine dico ad alcune
professoresse che potrebbe essere un testo da mettere in scena. Una frase che butto là senza
pensarci.
Dopo esattamente un anno vengo invitata di nuovo in quella scuola e, a sorpresa, rappresentano il
testo. Con me ci sono Daniela, Piera, Stella che hanno vissuto quei giorni. Ci assale immediata una
profonda e intensa emozione per donne che con forza continuano la nostra storia. Come? Portandola
in scena con i loro mezzi e la loro interpretazione. Sono madri dei ragazzi della scuola media:
badanti, commesse, donne che fanno pulizia, e molte casalinghe senza lavoro.
Si sono appropriate del testo, lo hanno lavorato per un anno, si sono identificate in quella tragedia di
nuovo dopo venti anni. Il quartiere Oreto è ad alta densità mafiosa.
Qualcuna di noi che ha fatto il digiuno a piazza Politeama dice che può dare adito a equivoci il fatto
che l’occupazione del ’92 sia rappresentato da donne di quartiere. Lo dice forse perdendo di vista
( o non ricordando) quanto può essere forte e matrice di percorsi nuovi un’energia desiderante.
Io so che un testo è di chi lo legge e lo interpreta ad alta voce o dentro di se e in questo modo apre a
quell’energia desiderante da cui scaturisce qualcosa di più del modello di partenza.
La loro vita si è trasformata. Così dicono. Ed è visibile. Hanno dato un senso alla piattezza e alla
mancanza di senso ma non solo: in qualche modo si sottraggono alla gravità del ruolo di madri e
sorelle come è stato per noi sia durante le occupazioni delle case sia come “donne del digiuno” nel
’92.
Queste donne del quartiere Oreto si sono tuffate in quei giorni del ’92 e, senza conoscerci, e in parte
senza averlo vissuto - molte erano giovanissime, alcune non erano ancora nate - si sono
immedesimate nelle nostre azioni attraverso il testo. Esprimono una gioia, un’emozione che ci
commuove.
Adesso sono loro che ricreano la piazza, si indignano per quello che viene contrabbandato per reale,
per il nulla di verità con cui tentano di imprigionarle. Accettano il rischio della loro trasformazione.
Mordono non solo con la parola ma anche con il gesto. Ci ripropongono come punto di origine di
questo cambiamento e nello stesso tempo lo dimenticano, lo stravolgono, lo intersecano con i loro
desideri pur rimanendo fedeli al testo.
Con coraggio creano un nuovo anello.
Onda in movimento.
ANGELA LANZA
ottobre 2013 Palermo
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