versione stampabile - Dipartimento di Filosofia

Transcript

versione stampabile - Dipartimento di Filosofia
Il regime della comunicazione nell’arte
Luca D’Elia
Dal “consumo” alla “comunicazione”
Nel suo saggio del 19921 la studiosa francese Anne Cauquelin teorizza la distinzione, a suo avviso netta, fra arte moderna e arte contemporanea. La definizione
di “moderna” sarebbe da attribuire a quell’arte che si afferma intorno al 1860,
nel momento in cui entra in crisi il sistema iper-protetto e centralizzato dell’Accademia e la pratica artistica si sottopone integralmente al “moderno” regime del
consumo. Si consuma un prodotto sotto forma di spettacolo, si consumano i segni spettacolari come prodotti. A innescare questo consumo generalizzato è «una
grande macchina, industriosa, stimolante, tentacolare»2 : il mercato dell’arte. È la
nascita dell’Avanguardia. Lucidamente la Cauquelin rileva lo stretto rapporto che
si instaura fra l’artista d’avanguardia, isolato, ribelle, perennemente in lotta con
la società mercantile borghese, alla quale oppone l’esasperata ricerca dell’autenticità della ispirazione artistica, e il sistema moderno del consumo dell’arte, in cui
centrali sono alcune figure di “mediatori”: il critico, il gallerista, il mercante, il
collezionista. L’artista offre alla pubblica opinione un’immagine di sé come esiliato, appartenente a un mondo “altro”, a un tempo affascinante e strano3 . Tuttavia
i legami fra oppositività artistica e mercato dell’arte non soltanto si rafforzano ma
tendono a divenire addirittura strutturali: l’opera d’arte è venduta proprio perché
in aperto contrasto con il sistema mercantile e i valori che in esso si incarnano.
1
A. Cauquelin, L’arte contemporanea, tr. it. di M. Costa, Tempo Lungo Edizioni, Napoli 2000.
Ibid., p. 26.
3 Cfr. ibid., p. 43.
2
c 2003 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera/)
Copyright Il contenuto di queste pagine è protetto dalle leggi sul copyright e dalle disposizioni dei trattati internazionali.
Il titolo e i copyright relativi alle pagine sono di proprietà di ITINERA. Le pagine possono essere riprodotte e
utilizzate liberamente dagli studenti, dagli istituti di ricerca, scolastici e universitari afferenti ai Ministeri della
Pubblica Istruzione e dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica per scopi istituzionali, non a fine
di lucro. Ogni altro utilizzo o riproduzione (ivi incluse, ma non limitatamente a, le riproduzioni a mezzo stampa,
su supporti magnetici o su reti di calcolatori) in toto o in parte è vietato, se non esplicitamente autorizzato per
iscritto, a priori, da parte di ITINERA. In ogni caso questa nota di copyright non deve essere rimossa e deve
essere riportata anche in utilizzi parziali.
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
In questa opposizione tra il concetto tradizionale di opera d’arte e la società industriale moderna, è Baudelaire4 a trovare una soluzione definitiva. Alla minaccia
che il sistema mercantile (chiara manifestazione di una società volgare, capitalista e
pubblicitaria) fa pesare sull’arte, a questa nuova oggettivazione, espressa in termini
di valore mercantile, Baudelaire oppone non una difesa dello statuto tradizionale
dell’opera d’arte, bensì una sua oggettivazione assoluta. Dal momento che il valore
estetico rischia di essere alienato dalla merce, è necessario non difendersi dall’alienazione, ma andare oltre l’alienazione stessa e combatterla sul suo stesso terreno.
Occorre seguire l’inesorabile via dell’indifferenza e dell’equivalenza mercantile,
facendo dell’opera d’arte una merce assoluta. Di fronte alla sfida moderna della
merce, l’arte non deve cercare la propria salvezza in un disconoscimento critico;
se così fosse, l’unica alternativa possibile sarebbe l’art pour l’art, torre d’avorio
dell’artista esiliato, specchio derisorio e impotente del capitalismo5 . L’arte deve,
insomma, diventare più merce della merce, oltrepassando il valore d’uso e persino
il valore di scambio.
Negli anni Sessanta del Novecento, al regime del consumo si sostituisce, secondo Anne Cauquelin, il regime della comunicazione, che caratterizzerebbe l’arte
contemporanea. «Siamo passati dal consumo alla comunicazione»6 . Si tratta di
una distinzione netta, basata su una periodizzazione che ben evidenzia la scissione moderno-postmoderno, insieme con le modificazioni radicali intervenute nella
pratica artistica con l’affermazione dei mass media.
Impostato su una simile linea interpretativa è il recente saggio della sociologa
francese Nathalie Heinich7 , secondo la quale l’intera vicenda dell’arte contemporanea può essere interpretata come una continua trasgressione e come una straordinaria espansione del suo territorio. Tuttavia, questo oltrepassamento dei limiti non
deve essere inteso come una totale assenza di norme, ma piuttosto come una complessa strategia della sfida e dello scandalo che rientra a pieno titolo nell’economia
della comunicazione e dell’informazione. Analogamente a quella proposta dalla
Cauquelin, risulta pertinente la distinzione compiuta dalla Heinich tra il paradigma moderno e il paradigma contemporaneo: per il primo il valore artistico risiede
nell’opera e tutto ciò che le è esteriore si aggiunge al valore intrinseco dell’opera
stessa; per il secondo il valore artistico risiede nell’insieme delle connessioni (discorsi, azioni, reti, situazioni ed effetti di senso) stabiliti intorno a un oggetto, che
diventa soltanto un’occasione o un semplice pretesto.
4
Si veda Ch. Baudelaire, Scritti sull’arte, tr. it. di G. Guglielmi e E. Raimondi, Einaudi,
Torino 1981.
5 Cfr. A. Hauser, Storia sociale dell’arte, 4 voll., tr. it. di A. Bovero, Einaudi, Torino 1987,
vol. IV, pp. 22-26.
6 A. Cauquelin, op. cit., p. 45.
7 N. Heinich, Le triple jeu de l’art contemporain, Minuit, Paris 1998.
2
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
La nozione di “rete”
Secondo Anne Cauquelin l’arte contemporanea è fondata sulla «comunicazione in
rete». In tale ambito assume un’importanza rilevante la nozione di rete, che sembra porsi a metà strada tra la «rete commerciale» e la «rete telecomunicazionale»,
anche se con una netta prevalenza per questa seconda caratterizzazione. La rete, in termini comunicazionali, «è un sistema di connessioni multipolari, sul quale
può inserirsi un numero indefinito di accessi, poiché ogni punto della totalità della rete può fungere da punto di partenza per un’altra micro-rete»8 . Ciò vuol dire
che la totalità è sempre passibile di estensione. Entrare in rete, “connettersi” alla
rete significa avere accesso a tutti i punti della rete. Questo comporta una estrema labilità, una ristrutturazione permanente descrivibile in termini topologici. In
questa topologia, priva com’è di un centro unico, non è importante un centro e
nemmeno l’origine dell’informazione; ciò che conta è il movimento che permette
la connessione. In tale situazione la nozione di «soggetto comunicante» è annullata
a vantaggio di una produzione globale di comunicazione9 .
La Cauquelin mette in evidenza alcune caratteristiche della rete. Analizziamo
di seguito le principali.
Auto-chiusura L’estrema estendibilità, dovuta alla continua attivazione delle connessioni, produce un effetto di auto-chiusura. Una volta entrati nella rete,
non solo non è più possibile uscirne, ma, «poiché non esiste un percorso
privilegiato ma un’infinità di punti, ogni accesso è a se stesso il proprio inizio e la propria fine: ogni parte della rete è virtualmente la totalità della
rete»10 . La circolarità conduce alla tautologia: la rete ripete indefinitamente
se stessa, ogni possibile messaggio si dissolve nella comunicazione globale
totalizzante.
Ridondanza e saturazione L’auto-chiusura, quale prodotto della ripetizione del sempre identico, è il segno dell’autonomia del sistema. Tuttavia occorre rilevare
anche dei limiti di esercizio che tale situazione comporta. Se da un lato la ridondanza dei diversi vettori assicura il funzionamento e il mantenimento della rete, d’altra parte essa è in tal modo condannata all’usura per saturazione.
Quando oltrepassa un certo tasso di ripetizioni, il sistema-rete, ormai saturo,
diventa inutilizzabile. Il sistema-rete è chiuso su se stesso, non può uscire da
se stesso, ed è in questo che consiste la sua debolezza. Esso assimila continuamente nuove informazioni, gli eventi, che tuttavia non costituiscono più
alcuna novità: tutti i contenuti sono sullo stesso piano, tutti collocati nello
stesso sistema circolare e ripetitivo, ogni differenza è annullata11 .
8
A. Cauquelin, op. cit., p. 48.
Cfr. ibid.
10 Ibid., p. 49.
11 Cfr. ibid.
9
3
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Denominazione Per ovviare a questo limite di esercizio del sistema-rete si è ricorso alla denominazione. Il nome crea una differenza, sottrae al flusso grigio
dell’indistinzione, indica un oggetto, isolandolo, sulla rete indifferenziata
delle comunicazioni. La denominazione classifica, individualizza, designa
una particolarità12 . Tuttavia la denominazione tende a inglobare il messaggio, tanto che quest’ultimo diventa pura denominazione: è il proprio nome
che l’artista pubblicizza nella rete, finendo per identificare la propria “opera”
con il proprio nome.
Costruzione della realtà L’importanza decisiva del linguaggio determina progressivamente la scomparsa della presenza positiva della realtà fornita dai sensi,
sostituita da un’altra realtà, di secondo grado, in cui vero e falso tendono
a confondersi e a non essere più distinguibili. Alla percezione ordinaria
del mondo si sovrappone una costruzione linguistica, i cui enunciati hanno
valore di ingiunzione fino a determinare il campo delle azioni possibili13 .
Anne Cauquelin si serve di questi concetti come nuovi strumenti per la comprensione e l’apprendimento della realtà contemporanea. Ci è sembrato utile richiamarli brevemente in quanto ben evidenziano il quadro di riferimento della
contemporaneità artistica che, seguendo la periodizzazione suggerita dalla studiosa
francese, comincerebbe proprio con Warhol.
La nozione di rete offre più di uno spunto per un modello interpretativo del
mondo contemporaneo dell’arte. Essa suggerisce, in primo luogo, l’immagine di
un movimento orizzontale multidirezionale, in cui ogni profondità tende a essere
annullata a tutto vantaggio di un sottile strato superficiale. È il trionfo della superficie sul volume. Da ciò segue, in secondo luogo, la predominanza del segno sulla
cosa: prima ancora di essere esposta, l’opera, o piuttosto il suo segno, già circola
nella rete. Tale situazione, in cui il segno precede ciò di cui è segno, consente di
misurare tutta la distanza che corre tra l’opera, che perde evidentemente importanza, e il suo segno, ciò che è davvero rilevante. In terzo luogo occorre registrare la
messa tra parentesi dell’artista: dal momento che la rete esclude la figura dell’autore del messaggio, in linea di principio l’opera e l’artista saranno considerati dalla
rete comunicazionale, a un tempo, sia come suoi elementi costitutivi e strutturali,
in quanto senza di essi la rete non ha ragion d’essere, sia come prodotti della rete
stessa, in quanto senza la rete né l’artista né l’opera avrebbero visibilità14 .
Correlativo alla diminuita importanza dell’artista è il dominio delle figure di
mediatori professionisti (critici, galleristi, collezionisti), che sempre più si affermano come i veri produttori delle operazioni artistiche che promuovono. Allo
sguardo dello spettatore vengono offerte non opere singole prodotte da singoli artisti, bensì l’immagine stessa della rete. «Quando vediamo un’opera della cosiddetta
arte contemporanea vediamo in effetti l’arte contemporanea nel suo insieme, è
12
Cfr. ibid., p. 50.
Cfr. ibid., p. 51.
14 Cfr. ibid., p. 59.
13
4
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
questa che si espone alla vista come totalità, una totalità in sé chiusa e radicata
ai suoi meccanismi di trasmissione»15 . Tali meccanismi non rimangono nascosti,
ma sono esibiti, resi pubblici, pubblicizzati, secondo uno schema di visualizzazione che appartiene al principio stesso della comunicazione: dire tutto, raggiungere
tutti, rendere tutto pubblico. L’arte contemporanea appare, dunque, come un sistema che si auto-produce e si auto-assimila; coloro che producono arte sono gli
stessi che la consumano16 . Il risultato è una circolarità senza fine: tutto si gioca
all’interno del sistema17 . Il contenente prende il sopravvento sul contenuto: è la
pubblicizzazione a generare il significato; l’opera funge soltanto da supporto di un
giudizio assiologico imposto dall’esterno: “questa è arte”. La moltiplicazione dei
valori estetici comporta una diminuzione delle possibilità di giudizio (ma anche
di piacere) estetico. La rete esibisce il proprio messaggio e, presentando l’opera, esibisce se stessa. Questo dispositivo dell’auto-consumo e dell’auto-esibizione
dell’arte assicura compiutamente il ripiegamento del sistema su se stesso: «l’arte
contemporanea è la sua immagine»18 .
La celebrazione della singolarità artistica: i “commutatori”
Abbiamo mostrato come vi sia, secondo Anne Cauquelin, una netta frattura tra i
due modelli dell’arte moderna e dell’arte contemporanea, il primo basato sul regime del consumo, il secondo su quello della comunicazione. Tuttavia, nell’ambito
stesso dell’arte moderna, alcuni indizi potevano «far prevedere il sopraggiungere
di una nuova situazione»19 . Emergono figure singolari che, con le loro pratiche
innovative, i loro diversi modi di operare, si fanno interpreti di una rottura con il
passato, creano sconcerto, annunciano, anticipando i tempi, una nuova realtà. Tali
figure indiziarie sono i “commutatori”. L’autrice mutua il termine dalla linguistica,
ambito in cui esso indica degli elementi che hanno una doppia funzione e un doppio regime: da un lato rimandano all’enunciato, il messaggio ricevuto nel presente,
dall’altro rimandano all’enunciatore che lo ha enunciato precedentemente. Con il
termine “commutatori” qui ci si riferisce a queste due modalità temporali: il messaggio, ricevuto nel presente, e il suo enunciatore, che ne è stato l’emittente nel passato. In tal modo viene sottolineata la connessione fra passato e presente, il doppio
15
Ibid.
L’artista e teorico statunitense Joseph Kosuth ha indicato nella tautologia la caratteristica essenziale dell’operazione artistica, essendo l’arte null’altro che la definizione di se medesima. La perdita
di credibilità dell’arte nel corso Novecento sarebbe una conseguenza del modernismo, che ha considerato le opere d’arte al pari di reliquie religiose, determinando il loro valore a partire soltanto da
basi economiche. Secondo Kosuth un’opera d’arte altro non è che la presentazione dell’intenzione
dell’artista, il quale tautologicamente certifica tale qualità. In tal modo l’artista assume il ruolo specifico del critico, rivolgendosi a un pubblico di artisti. Pertanto l’arte contemporanea non consente
un approccio ingenuo, ma implica, al contrario, una conoscenza preliminare della situazione in cui
l’arte stessa si colloca. Si veda in proposito J. Kosuth, Art after Philosophy and After. Collected
Writings 1966-1990, a cura di J.-F. Lyotard, The Mit Press, Cambridge (Mass.) 1991.
17 Su questo tema si veda F. Poli, Il sistema dell’arte contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1999.
18 A. Cauquelin, op. cit., p. 64.
19 Ibid., p. 71.
16
5
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
legame che si istituisce fra queste due unità temporali poste ai limiti dell’oggettivo
(il messaggio emesso) e del soggettivo (la singolarità dell’enunciatore)20 .
La Cauquelin si sofferma su tre figure-chiave che hanno contribuito alla trasformazione del regime moderno del consumo dell’arte nel regime contemporaneo
della comunicazione: Marcel Duchamp, Andy Warhol, Leo Castelli. I primi due
hanno portato a una nuova definizione estetica dell’opera d’arte, in una nuova epoca, che coincide con quella della sua “riproducibilità tecnica”. E poi Leo Castelli,
figura emblematica del mercato internazionale, attraverso cui è possibile comprendere tutta l’importanza e l’utilità della rete comunicazionale. Dunque non pare affatto improbabile che, accanto ai nomi dei due artisti, compaia quello del mercantegallerista. La sua presenza fra i “commutatori” dell’arte del Ventesimo secolo segue, con logica coerenza, le considerazioni presentate dalla studiosa francese sul
regime della comunicazione, quale cifra caratteristica dell’arte contemporanea.
Prendiamo ora in esame le posizioni assunte da Duchamp e Warhol nell’ambito del sistema artistico contemporaneo, tentando di mettere in risalto analogie e
differenze fra i loro modi di operare, alla luce delle considerazioni fin qui svolte
sull’avvento del regime della comunicazione nel mondo dell’arte.
Il commutatore Duchamp
Duchamp si pone come il referente, più o meno esplicito, di molti artisti contemporanei. Infatti, si ritrovano in lui già tutte le caratteristiche del modus operandi
artistico contemporaneo. Innanzitutto, l’indifferenza per il valore estetico dell’opera d’arte, la sua qualità intrinseca. Egli si definisce anartista, non essendo più
l’arte questione di contenuti ma di contenente. Analogamente nel 1964 McLuhan
sosterrà che «il medium è il messaggio»21 , cancellando la distinzione classica fra
messaggio (contenuto intenzionale) e canale di trasmissione (neutro e oggettivo),
per affermare l’unicità della comunicazione attraverso il medium. Duchamp realizza lo stesso annullamento del contenuto intenzionale dell’opera nei confronti
del contenente, essendo ormai soltanto quest’ultimo a conferire quell’“aura” intesa
quale garanzia di autenticità artistica. Walter Benjamin assume un atteggiamento
opposto nel suo saggio del 193622 , in cui deplora la perdita dell’aura dell’opera
d’arte che, da unica e irripetibile, è diventata un mero multiplo nel gioco meccanico della riproducibilità tecnica. L’unicità dell’opera d’arte si identificava con la sua
integrazione nel contesto della tradizione, dove la sua originaria articolazione trovava espressione nel culto, nell’ambito rituale. La riproducibilità tecnica dell’opera
determina la sua emancipazione dal contesto cultuale accentuando di conseguenza il suo valore espositivo23 . Essendo prima legata al luogo per il quale era stata
20
Cfr. ibid.
Si veda M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, tr. it. di E. Capriolo, Il Saggiatore,
Milano 1967.
22 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it. di E. Filippini,
Einaudi, Torino 1991.
23 Cfr. ibid., pp. 26-28.
21
6
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
concepita, ora l’opera, attraverso i vari metodi di riproduzione tecnica che hanno
vistosamente accresciuto la sua esponibilità, compare in luoghi inconsueti che ne
decretano la perdita di autenticità.
Con i primi ready made, la Ruota di bicicletta (1913) e l’orinatoio ribattezzato Fontana (1917), Duchamp abbandona il campo estetico propriamente detto.
Nessun tocco, nessuna maniera, la “mano d’artista” si ritrae, lasciando spazio a
una serie di “segni”, un sistema di indicatori che delimitano una nuova topologia:
l’esposizione di oggetti “belli e fatti”, oggetti banali e comunemente disponibili nella quotidianità, segnala il fatto che soltanto il luogo in cui sono collocati li
eleva al rango di “opere d’arte”. Il valore dell’opera, separandosi dall’oggetto in
quanto tale, è ora strettamente legato alla nuova spazio-temporalità che si afferma con il prelievo dell’oggetto stesso dall’ordinaria quotidianità. Il ready made
elimina del tutto la possibilità dell’espressione e della creazione. Esso determina
l’annullamento del soggetto creatore. L’artista, nell’accezione classica del termine,
scompare dietro una nuova figura che si limita a mostrare, a esibire, a indicare, a segnalare. Il ready made rappresenta il risultato estremo dei tentativi duchampiani di
ridurre al minimo, fino a eliminare, il coefficiente artistico personale: nell’oggetto
bello e fatto la presenza soggettiva dal punto di vista dell’intenzione artistica è
drasticamente azzerata.
Se il “fare” artistico, nella situazione sopra delineata, appare drasticamente
ridotto, rimane pur sempre la “scelta”, in cui si riassume il nuovo ruolo svolto dall’artista. Se una importanza rilevante è assunta dal contenente spaziale, non meno
importante è il contenente temporale, il momento, dato che la scelta dell’oggetto
è del tutto casuale, occasionale. Sembra essere questo l’ultimo tratto che richiama
l’artista del passato: il segno di una intuizione creatrice, di una presenza inventiva.
Il ready made, incontrato per caso, indica lo stato dell’arte in un dato momento, è
una parte della totalità del sistema dell’arte; non può essere considerata un’opera
separata, dotata di un autonomo valore estetico. È piuttosto un indice, un segno
nell’insieme di un sistema sintattico, che attraverso la sua sola posizione manifesta
l’intera sintassi24 .
Da qui l’importanza del linguaggio. In un gioco di semplici designazioni che
si riduce a un puro indicare, che consiste nel prelevare un oggetto già presente
nell’ordinario e attribuirgli un coefficiente artistico, i titoli degli assemblaggi diventano il sigillo di “autenticità” dell’oggetto “artistico”, ciò che propriamente lo
distingue da un multiplo che, non elevato parimenti alla dignità artistica, conserva
pienamente lo statuto della sua ordinaria banalità. Così l’orinatoio è una “fontana”,
l’attaccapanni appoggiato a terra è un “trabocchetto”; e se l’oggetto appare riconoscibile come oggetto estetico (è il caso della Gioconda) è proprio l’aggiunta del
titolo a spiazzarne il valore estetico: L.H.O.O.Q. (letta foneticamente in francese
significa “lei ha freddo al culo”). Si tratta di ready made linguistici: la sintassi è
perfetta, ma ne sfugge il senso. Diversamente dai giochi surrealisti, nessun effetto
poetico viene ricercato; è soltanto un esercizio linguistico, che rimanda a se stesso,
24
Cfr. A. Cauquelin, op. cit., p. 77.
7
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
congelato nella sua purezza definitiva. «Le parole sono come dei segni impalpabili,
leggeri, che la catena della comunicazione può far circolare nel vuoto, esse servono
ad un tempo come luogo e come tempo per gli oggetti che intitolano e si sostituiscono alla materia: il titolo è un colore»25 . Come, secondo Wittgenstein26 , i giochi
linguistici chiariscono non il messaggio ma il sistema della lingua e i suoi ambiti
di utilizzo, così le proposizioni di Duchamp illuminano non tanto gli oggetti stessi,
di cui piuttosto tendono a oscurare il significato ordinario, quanto il funzionamento
del sistema dell’arte.27
Richiamandoci all’interpretazione teorica della nozione di rete proposta da Anne Cauquelin, abbiamo precedentemente osservato come il rapporto dell’arte col
sistema generale (sociale, politico, economico) non sia conflittuale, bensì teso all’integrazione. La singolarità di Duchamp (in ciò consiste, a nostro giudizio, la
pregnanza della sua proposta artistica) è di aver messo a nudo un meccanismo,
di aver svuotato l’artista e l’opera del loro contenuto intenzionale ed emozionale,
di aver smontato l’antica ideologia dell’artista esiliato, rifiutato, isolato, estraneo
a ogni forma di compromesso con quella società nei confronti della quale mostra
un’accesa opposizione. La pluralità di ruoli assunti dall’artista (creatore, conservatore mussale, membro di una giuria che ha giudicato le sue stesse opere), legittima
l’indecidibilità dell’operare duchampiano; l’artista non è più un elemento isolato
dal sistema globale: «non c’è autore, non c’è spettatore, ma solo una catena di ‘comunicazione’ che si chiude su se stessa»28 . Duchamp mostra che l’estetico non è
un territorio le cui leggi sono diverse da quelle del sistema generale, ma è soltanto
una parte di un sistema comunicazionale circolare, senza inizio né fine. Le operazioni che si svolgono all’interno di una rete dipendono dalle proprietà della rete
stessa, non dalla volontà del singolo artista.
Come ha sottolineato Mario Costa, per Duchamp non si pone tanto la questione di decifrare l’una o l’altra delle sue opere; è piuttosto il senso della totalità dei
suoi atteggiamenti e delle sue azioni che deve essere compreso29 . Su un piano più
generale è opportuno riconoscere come le operazioni duchampiane utilizzino soltanto accidentalmente il sistema dell’arte e mirino nella sostanza, nell’atto stesso in
cui disgregano e oltrepassano il costrutto teorico relativo all’artistico e all’estetico,
a porre problemi generali di tipo logico ed epistemologico30 . L’atteggiamento di
Duchamp è teso a una radicale rimessa in questione delle strutture epistemiche del
sapere, nell’ambito di una metodica applicazione del dubbio cartesiano: si tratta di
riattivare il possibile reso sterile dalla banalità e dalla ripetizione. L’incontro col
25
Ibid., p. 82.
Per la teoria dei giochi linguistici si veda L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. it.
di R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1967.
27 Cfr. A. Cauquelin, op. cit., p. 82.
28 Ibid., p. 80.
29 Cfr. M. Costa, Sulle funzioni della critica d’arte e una messa a punto a proposito di
Marcel Duchamp, Ricciardi, Napoli 1976, p. 23.
30 Cfr. M. Costa, Le immagini, la folla e il resto. Il dominio dell’immagine nella società
contemporanea, ESI, Napoli 1982, p. 7.
26
8
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
mondo si risolve tutto a livello corticale; ogni investimento affettivo viene ritirato
a vantaggio di un energico e rigoroso ripensamento dell’esistente.
Il commutatore Warhol
Da quanto detto sopra è facile comprendere come l’opera di Duchamp risulti di
difficile accesso, protetta da un alone di discrezione che la rende disponibile soltanto a pochi “iniziati”, chiusa in un’atmosfera di segreto e mistero, tanto che il
tentativo di rintracciare in essa i caratteri generali di un regime della comunicazione risulta tutt’altro che immediato. Al polo opposto, l’opera di Warhol è talmente
pubblica e si serve in maniera così evidente e sistematica dei mezzi offerti dalla
pubblicità commerciale, da rendere comunque problematica la valutazione della
sua contemporaneità31 .
Warhol entra nel circuito della comunicazione per immagini passando attraverso la pubblicità commerciale veicolata da giornali e riviste. Tuttavia, questa
prima esperienza nel design pubblicitario sembra esigere un coinvolgimento ancora troppo stretto del soggetto, del genio creatore, con tutto il carico di invenzione,
intuizione, creatività, sentito ancora come troppo oneroso. Apparentemente negli
studi pubblicitari, largo spazio viene lasciato all’iniziativa creativa del soggetto,
alla libertà del gusto individuale; in realtà, l’essenza della pubblicità, più che nella
produzione, risiede nel consumo. Ciò che davvero è importante per la pubblicità
non è tanto che venga creata e prodotta, quanto il fatto che venga subita e consumata con passiva assuefazione. Dunque Warhol si colloca, nella circolazione
dell’immagine nel regime comunicazionale, alla fine del percorso, nel momento
stesso del consumo dell’immagine massmediatica.
Come Duchamp, Warhol abbandona l’estetico, lascia il mestiere di grafico pubblicitario per approdare all’ambito artistico; tale passaggio, paradossalmente, non
è determinato dall’aspirazione a una maggiore libertà espressiva, quanto, piuttosto,
da una ricerca di adesione a quella epidermica superficialità che connota il regime
della comunicazione artificiale di massa. Warhol è il primo artista a iniziare un vasto pubblico al consumo feticistico di opere d’arte, non più stimabili in termini di
abilità tecnica, ma trasformate, come ha sottolineato Jean Baudrillard, in «oggetti
letteralmente superstiziosi, nel senso che non hanno più niente a che fare con una
natura sublime dell’arte e non rispondono più a una credenza profonda nell’arte,
ma ne perpetuano comunque la superstizione in tutte le sue forme»32 . Si registra,
così, una rinuncia sempre più radicale del tocco, della manualità, del gesto, a vantaggio di una programmatica predilezione per un’assortita collezione di banalità:
oggetti ordinari, kitsch, del comune consumo quotidiano; insomma dei duplicati,
dei re-made.
31
Cfr. A. Cauquelin, op. cit., p. 85.
J. Baudrillard, Illusione, disillusione estetiche, tr. it. di L. Guarino, Pagine d’Arte, Milano 1999,
pp. 35-36.
32
9
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Come per Duchamp, si tratta anche qui di mostrare il già-esistente; ma al ready made, che resta unico e protetto da un alone di segreto e discrezione, Warhol
oppone la serialità, la ripetizione, la saturazione dell’immagine moltiplicata indefinitamente. Tutto questo conduce a una nuova situazione caratterizzata dal paradosso di una spersonalizzazione iper-personalizzata. Se Duchamp attribuiva al
luogo la garanzia dell’autenticità artistica del prodotto, allontanandosi dal campo
estetico e tralasciando ogni questione di gusto, Warhol, mettendo in pratica la sua
conoscenza delle reti comunicazionali, abbandona anche l’ultimo indizio di autenticità artistica che è il luogo di esposizione, per collocarsi sull’intero spazio della
rete comunicazionale: in tal modo si attua il passaggio da un luogo determinato
contrassegnato dall’etichetta “arte”, alla totalità del circuito della comunicazione
massmediatica.
Una delle leggi principali della rete è il paradosso, che si riferisce al circolo esistente tra colui che produce il messaggio e il messaggio stesso: secondo un
meccanismo di autoriferimento, il messaggio rinvia a se stesso, senza significare
altro che la sua semplice presenza all’interno della rete. In un sistema di comunicazione complesso il nome e l’opera si equivalgono: il nome “Warhol” non è una
semplice firma apposta su un supporto, ma è esso stesso un’opera33 . Così l’apparente spersonalizzazione si trasforma, attraverso la semplice presenza della firma,
in un’iper-personalizzazione ossessiva e totalizzante.
Come le star hollywoodiane sono, al tempo stesso, il prodotto di una serie di
realizzazioni cinematografiche e legittimano tali realizzazioni con la loro medesima presenza di star, così l’opera di Warhol vale come la presenza di una diva nel
sistema di produzione che la esibisce. La star è, nella personalità che esibisce, impersonale; la star è un oggetto; non invecchia, appartiene alla rete prima ancora di
appartenere a se stessa.
Warhol, prima ancora di produrre l’opera, produce se stesso come la propria
opera: in ciò consiste il paradosso del commutatore Warhol. L’oggetto che egli
esibisce altro non è che un supporto del nome, propagazione ossessiva di una firma.
Alla fine l’oggetto – questa bottiglia, questa scatola, questa star – è Warhol. A
differenza di Duchamp, il cui nome si manteneva in tutta la sua singolarità, al
riparo da ogni simulazione della firma, in Warhol la distinzione fra il nome, che
designa la singolarità dell’autore, e la firma, quale segno che rinvia al nome, viene
cancellata: nome, firma e opera sono la stessa cosa34 .
Secondo l’indagine storico-artistica, Warhol appartiene alla Pop Art, al trionfo
dell’arte americana degli anni Sessanta; dunque al limite dell’arte moderna. Tuttavia, se pure va considerato, in qualità di affermato artista pop, alla stregua di
Rauschenberg, Johns o Lichtenstein35 , se ne distanzia per il modo in cui concepisce l’inserimento dell’arte nella società di massa. Con Warhol l’arte non solo
si rapporta, ma penetra con decisione nel sistema di comunicazione massmediati33
Cfr. A. Cauquelin, op. cit., p. 92.
Cfr. ibid., p. 93.
35 Robert Rauschenberg (1925), Jasper Johns (1930), Roy Lichetenstein (1923-1997)
appartengono tutti al gruppo della Pop Art americana.
34
10
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
ca, con un’ampiezza tale non riscontrabile in nessun altro artista moderno. Tale
prorompente inserimento nella rete ci induce a considerare Warhol come appartenente all’arte contemporanea, come commutatore della nuova società basata sul
regime della comunicazione. È proprio sul tipo di questa totale integrazione col
sistema dei mass media che occorre riflettere per cogliere tutta la complessità della
proposta artistica ed esistenziale dell’artista americano.
Tutta l’opera di Andy Warhol si regge su una profonda tensione fra moderno e postmoderno: egli parte dall’immagine dell’informazione moderna veicolata
da giornali e riviste, dalla televisione, dalla pubblicità commerciale. Tale immagine diffonde i miti moderni della bellezza (Marilyn Monroe) , del benessere (la
Coca-Cola), del successo (Elvis Presley), del potere (il presidente Mao), del denaro (Agnelli): Warhol la sottopone a un processo di trasformazione che la sottrae al
business, diciamo di primo livello, quello direttamente competitivo e concorrenziale, per immetterla in un altro business, di secondo livello. Quest’ultimo, tuttavia,
non si pone in alternativa al primo, bensì ne costituisce una sorta di duplicato oppositivo. Lo stesso Warhol, in un famoso aforisma, sostiene: «La Business Art
è il gradino subito dopo l’arte. Io ho cominciato come artista commerciale e voglio finire come artista del business. Dopo aver fatto la cosa chiamata ‘arte’, o
comunque la si voglia chiamare, mi sono dedicato alla Business Art. Voglio essere
un Business-Man dell’Arte o un Artista del Business. Essere bravi negli affari è
la forma d’arte più affascinante»36 . Un’affermazione che suona come una provocazione. Ma se collocata nell’universo di Warhol, nel Warhol-sistema, si spoglia
immediatamente della sua aria provocatoria. La figura dell’artista esiliato, lontano dal mondo, che, animato da un’esigenza di purezza, produce un’opera geniale
dotata di un valore unico e incomparabile, si è dissolta con l’abbandono dell’estetico. All’arte “pura” si è sostituita la Business Art; al fare artistico, unico e
creativo, si è sostituita una “produzione”. Se, nel primo caso, la presenza dell’artista creatore appare essenziale, nel secondo si registra evidentemente il primato
dell’impersonalità.
La Factory37 , in tal senso, si pone quale determinazione emblematica della
nuova concezione dell’operatività artistica. La “azienda” warholiana ha assunto
36 A. Warhol, La filosofia di Andy Warhol, tr. it. di R. Ponte e F. Ferretti, Bompiani, Milano 1999,
p. 78.
37 Nel 1962 Warhol fissava il suo studio in un loft al 321 della 47th Street a New York, chiamando
il luogo Factory. Non si trattava di una fabbrica o di un’impresa industriale, sebbene il nome vi
alludesse in senso ironico e provocatorio. Piuttosto essa era paragonabile a un atelier rinascimentale.
Sotto l’attenta e lucida guida di Warhol lavorava un gruppo di giovani di diversa estrazione sociale,
accomunati dal rifiuto della convenzione e dell’establishment: omosessuali, lesbiche, artisti, registi,
studenti, attori, poeti. Rapidamente la Factory divenne un importante punto di riferimento della movimentata scena artistica newyorkese degli anni Sessanta e Settanta.
Il 3 giugno 1968 Valerie Solanas, una delle più radicali attiviste del movimento femminista, fondatrice dello Scum (Society for Cutting Up Men, ovvero società per fare a pezzi gli uomini), entrò alla
Factory e sparò a Warhol, il quale, gravemente ferito, passò alcuni mesi in ospedale, lottando tra la
vita e la morte. La Solanas compì il folle gesto poiché riteneva che Warhol le avesse rubato una
sceneggiatura. In seguito a questo drammatico attentato, l’ingresso alla Factory fu consentito solo
alle persone fidate.
11
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
negli anni il ruolo di certificazione di successo e celebrità. Nel riconoscere, nell’attestare, e, quindi, nell’amplificare la fama e la visibilità di star hollywoodiane, personaggi dello spettacolo, ma anche prodotti di consumo di massa come la
Coca-Cola o i detersivi Brillo, la Factory si situa con decisione nel cuore della rete, operando come un polo attrattivo fra i tanti. Una volta entrati in rete, occorre
rimanervi; e per restarvi, l’unica via è quella dettata dalla rete stessa: si tratta di
pubblicizzare l’esposizione, rendendola in qualche modo ossessiva e inevitabile.
Ora, questa pubblicità appartiene alla stessa rete di comunicazione, della quale è
opportuno controllare l’intero processo; ma tale processo rientra a pieno titolo nel
campo del commercio, degli affari, del business. «È molto meglio fare della Business Art che della Art Art, perché la Art Art non riesce a reggere lo spazio che si
prende come la Business Art. (Se la Business Art non regge il suo spazio esce dal
mercato)»38 .
Con la Business Art ci troviamo di fronte a una vera e propria trasformazione
non solo dello statuto tradizionale dell’oggetto artistico, ma anche dell’operazione
artistica. Se l’arte non ha più a che fare con la creazione spontanea e geniale, l’operare artistico si è ridotto a pura produzione meccanica. Baudrillard in proposito
parla di snobismo macchinale39 . L’arte dell’Avanguardia del primo Novecento era
già andata molto avanti nel processo di decostruzione del suo oggetto, ma Warhol
si è spinto molto più lontano nell’annientamento dell’artista e dell’atto creativo. In
ciò consiste il suo snobismo che, proprio perché macchinale, «ci alleggerisce di
tutta l’affettazione dell’arte»40 . Mentre in Duchamp la macchina è ancora presente
come meccanicità surrealista, ma non come macchinalità, ossia come realtà automatica del mondo moderno, con Warhol ci imbattiamo in una piena identificazione
dell’artista con la macchinalità. Duchamp, come anche dadaisti e surrealisti, che
hanno operato nella direzione di una decostruzione della rappresentazione e di una
esplosione dell’opera d’arte, fanno tutti parte di un’avanguardia e rientrano nell’ambito dell’utopia critica. Warhol, invece, non appartiene a nessuna avanguardia
e a nessuna utopia. Egli liquida l’utopia e si installa «nel cuore di nessun luogo»41 ,
che coincide con sé medesimo. Warhol si colloca nel cuore della rete, nell’ambito
della quale altro non è che un centro che riflette la totalità della rete stessa. Chiuso su se stesso e, al contempo, aperto alla totalità del sistema, Warhol attraversa
lo spazio dell’avanguardia e improvvisamente pone fine al ciclo dell’estetico. In
tal modo egli realizza da un lato la liberazione dell’arte dalla sua utopia critica,
dall’altro la liberazione del mondo dall’arte.
Allo stadio di macchinalità raggiunto da Warhol ogni spazio critico regredisce
fino a dileguarsi interamente; al posto della presenza rispettiva del soggetto e dell’oggetto si impone un nuovo spazio, paradossale, che coincide con la rispettiva
scomparsa del soggetto e dell’oggetto. Dietro ogni immagine di Warhol non c’è il
38
A. Warhol, op. cit., p. 114.
J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, tr. it. di G. Piana,
R. Cortina, Milano 1996.
40 Ibid., p. 83.
41 Ibid.
39
12
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
soggetto Warhol, ma semplicemente un centro fra i tanti della rete che si annulla
nella totalità del sistema. L’agnosticismo di Warhol, come lo ha definito Baudrillard42 , si esprime nel fatto di non credere all’esistenza dell’arte. Forse l’arte esiste,
ma non ci credo: così ragiona Warhol. Come l’agnostico non si affanna a glorificare Dio o a dimostrare la sua esistenza, così Warhol non si affanna a dimostrare
l’esistenza dell’arte; per il semplice fatto che se ne può fare anche a meno. «Un
artista è uno che produce cose di cui la gente non ha alcun bisogno ma che lui – per
qualche ragione – pensa sia una buona cosa dargli»43 . Chiaro indizio della sensibilità postmoderna, la sfiducia nell’esistenza dell’arte conduce a credere soltanto
nell’idea dell’arte, la quale, evidentemente, non ha nulla di estetico44 .
L’arte e la rete
Senza dubbio Andy Warhol deve essere assunto quale paradigma di una nuova
figura di artista che si afferma con l’avvento e lo sviluppo dei mass media e della società consumistica globalizzata che ne deriva. Nessun artista ha saputo, al
pari di Warhol, sfruttare tutte le potenzialità offerte dal sistema-rete: dalla galleria di Leo Castelli alla Factory, dall’opera grafica al cinema, dalla promozione dei Velvet Underground45 all’edizione di Interview46 . Tutto questo fa parte
dell’“universo-Warhol”: una fervida operatività multidirezionale che si espande
all’insegna di uno dei “dogmi” del postmoderno: la comunicazione. Se l’arte “pura” rimane celata dietro un alone di segretezza e discrezione, chiusa e protetta
da un luogo che la preserva da qualsiasi processo di dissoluzione della sua aura, la Business Art penetra con decisione nei circuiti comunicazionali tentando di
raggiungere, nel tempo più breve, la massima espansione possibile.
Ora dobbiamo porci un interrogativo: l’artista che entra nella rete conserva
pienamente la propria libertà creativa o rimane asservito alle leggi della rete stessa? Rispondere a questa domanda significa fare luce sulla nuova realtà che caratterizza l’arte dal momento del suo ingresso nei circuiti della comunicazione
massmediatica.
Più che un mezzo che si offre all’artista, la rete sembra configurarsi propriamente come un mondo, quindi qualcosa di radicalmente differente da un mezzo;
infatti a differenza del “mezzo”, che ciascuno può impiegare per un fine liberamente scelto, con il “mondo” non si dà altra libertà se non quella di prendervi parte
o starsene in disparte47 . La rete si configura come una nuova topologia, un nuovo
“mondo” la cui organizzazione è garantita dalle leggi imposte dalla rete medesima.
42
Cfr. ibid., p. 87.
A. Warhol, op. cit., p. 114.
44 Cfr. J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, cit., pp. 87-88.
45 Dal 1966 Warhol comincia una collaborazione con il gruppo rock dei Velvet Underground.
46 Interview è il nome della rivista fondata da Warhol nel 1969. Nata come pubblicazione di
cinema underground, nel 1973 si trasforma in mensile di spettacolo, moda, arte e attualità mondana,
sotto la direzione di Bob Colacello. Interview è ancora oggi una delle più famose riviste americane.
47 Cfr. U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 626-627.
43
13
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Nel pensiero contemporaneo la nozione di rete sembra assumere il ruolo svolto
dal concetto di organizzazione nella scienza ottocentesca48 : ciò che importa oggi
non è tanto il richiamo a norme razionali atte a legittimare i meccanismi disciplinari, quanto piuttosto l’instaurazione e la persistenza di schemi comunicazionali
indipendenti da ciò che attraverso di loro viene veicolato.
Con l’avvento del postmoderno il conflitto fra ordine e libertà, che costituisce il dramma della modernità, sembra giungere a soluzione. L’interesse filosofico
del concetto di rete, come sottolinea Mario Perniola49 , dipende dalla possibilità
di intendere tale nozione come un ordine senza fondamento e una libertà senza
soggetto. In tale direzione Heidegger50 considera da un lato il Gefüge (struttura)
come una dimensione più ampia del sistema, e dall’altro l’Offene (l’aperto) come
una dimensione più ampia della liberazione. Pensare l’ordine come sistema disciplinare e la libertà come emancipazione del soggetto significa restare nell’ambito
della modernità, l’età della scienza e dell’umanesimo. Se l’arte intesa come carcere, come chiusura è solidale con la modernità, l’arte contemporanea (nel senso
sopra specificato che la identifica con il postmoderno) non è un carcere ma una rete, dove l’immagine di chiusura lascia il posto a quella di un’apertura nel sistema.
Ciò naturalmente comporta un nuovo e differente approccio alla stessa nozione
di arte, privata ora di quei caratteri di opposizione pregiudiziale alla società caratteristici della concezione romantica. Nel momento in cui si realizza la totale
integrazione dell’opera d’arte nel sistema-rete tende a dissolversi anche il legame
strutturale fra mercato e oppositività artistica: l’arte che entra in rete eredita dal circuito economico i meccanismi del mercato, e in tal modo da “Art Art” si trasforma
in “Business Art”.
Lo statuto tradizionale della categoria artistica è l’insieme delle determinazioni
fondamentali del modo di essere dell’operazione artistica e del prodotto da tale
operazione. Tanto l’operazione quanto il prodotto si pongono come una totalità
compiuta: l’operazione, nella misura in cui diviene cosciente di se stessa, non
tollera la presenza di nessun’altra operazione; il prodotto, nella misura in cui si
pone come opera d’arte, annulla tutti i prodotti esterni51 . Con la nuova concezione
dell’arte, invece, quella totalità compiuta che accomunava operazione e prodotto
appare dapprima scissa (nell’Avanguardia, ancora sotto l’egida del moderno), per
poi ricomporsi in una nuova totalità (con Warhol, ad esempio, nel postmoderno),
che altro non è se non la totalità della rete. Se da un lato l’operazione artistica
diventa ora mera operazione commerciale, dall’altro l’opera è oggetto di un ingente
potenziamento del suo valore. Ci troviamo di fronte all’«estasi del valore, che fa
esplodere la nozione di mercato dell’arte e annienta al tempo stesso l’opera d’arte
48
Cfr. M. Perniola, “Arte e carcere”, in L. Russo (a cura di), Oggi l’arte è un carcere?, Aesthetica,
Palermo 1982, pp. 11-24.
49 Cfr. ibid.
50 Cfr. M. Heidegger, Schellings Abhandlung über das Wesen der menschlichen Freiheit,
Tübingen 1971.
51 Cfr. M. Perniola, L’alienazione artistica, Mursia, Milano 1971, pp. 18-19.
14
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
in quanto tale»52 .
Nella concezione moderna l’opposto complementare dell’arte è l’economia.
Come l’arte monopolizza il significato, così l’economia monopolizza la realtà;
mentre la prima è il significato separato dalla realtà, la seconda è la realtà separata dal significato. «Alla idealità dell’arte è complementare la materialità dell’economia. [. . . ] L’idealità dell’arte riguarda tanto l’operazione artistica quanto il
prodotto. L’operazione è ideale non perché priva di manifestazioni esteriori, [. . . ]
ma perché rimanda al suo prodotto senza risolversi in esso; così l’opera d’arte
è ideale perché a sua volta rimanda all’operazione che l’ha prodotta senza risolversi in essa»53 . Così come l’operazione artistica termina in un prodotto libero,
autonomo, analogamente l’opera d’arte si pone quale prodotto di un’operazione
spontanea. C’è, tuttavia, un residuo che accomuna tanto l’operazione che l’opera: si tratta della sfera del desiderio, dell’immaginazione, del simbolico, di ciò
che non si dà immediatamente né con l’opera né con il processo che la realizza.
L’operazione tenta di soddisfare il desiderio da cui nasce attraverso l’opera d’arte,
al tempo stesso l’opera d’arte cerca di risolvere il mondo desiderato nel prodotto
dell’operazione artistica. Ma né l’una né l’altra riescono in tali tentativi: la loro
totalità, infatti, è soltanto ideale, in quanto non comprende la sfera economica, la
realtà materiale54 .
La nuova concezione postmoderna della categoria artistica, basata sulla nozione di rete, sembra fornire una soluzione al problema. L’arte che si è fatta business risulta essere pienamente integrata nella sfera economica; grazie al dinamismo
multipolare delle reti comunicazionali sia l’opera che l’operazione artistica si inseriscono energicamente nei circuiti economico-commerciali. Ora che tanto l’opera
quanto il processo che la conduce a realizzazione si sono trasformati rispettivamente in un prodotto commerciale e in un’operazione commerciale, quella totalità
soltanto ideale (in quanto separata dalla realtà materiale economica) cede il posto a
una nuova totalità, non ideale ma reale. Paradossalmente, tuttavia, in questa nuova
totalità reale l’immaginario si sostituisce alla realtà: l’immaginario è il regno del
sogno, della specularità, del narcisismo; a esso manca sia il carattere mediato e
allusivo del simbolico, sia l’aspra e dura traumaticità del reale55 .
Una domanda, ora, si impone: con la fine della modernità si assiste, dunque,
a un inesorabile processo di morte dell’arte? Da un lato, come sostiene Debray,
è il denaro ad aver “salvato” l’arte. «L’arte, fortunatamente, è un mercato e noi
divinizziamo la prima perché abbiamo divinizzato in primo luogo e soprattutto il
secondo. O, piuttosto, il miracolo della sopravvivenza viene dall’incontro tra le
caratteristiche fisiche dell’oggetto d’arte [. . . ] e le proprietà miracolose del denaro. Ossia, l’alleanza di due feticismi in uno solo»56 . D’altra parte i nuovi criteri di
52
J. Baudrillard, Il delitto perfetto, cit., p. 85.
M. Perniola, L’alienazione artistica, cit., pp. 20-22.
54 Ibid.
55 Cfr. M. Perniola, L’arte e la sua ombra, cit., p. 14.
56 R. Debray, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, tr. it.
di A. Pinotti, Il Castoro, Milano 1999, p. 197.
53
15
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
giudizio e valutazione della categoria artistica che l’epoca postmoderna inevitabilmente impone, suggeriscono un’ipotesi più ottimista sulla sopravvivenza dell’arte.
Infatti, se esiste un nocciolo duro, un nucleo inviolato nell’arte, questo non deve
essere cercato nel soggetto, nell’artista, nel suo desiderio di espressione, quanto
piuttosto nell’opera, nella sua radicale estraneità, nella sua irriducibilità a un’unica
identità, nella sua essenziale enigmaticità. L’arte, in sostanza, sembra non potersi
mai dissolvere interamente nel mercato, nella comunicazione, nella rete; pur aderendo alle leggi e ai parametri economici dettati dai circuiti in cui è inserita, essa
custodisce un nucleo insondabile e incomunicabile, un fondo buio che è la fonte di
un’infinità di interpretazioni.
16