Fratelli crudeli? - Associazione Gea

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Fratelli crudeli? - Associazione Gea
Individuazione
Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione GEA
Sped. A.P. Comma 20/c - Art. 2 - Legge 549/95- GE- Reg.Trib.di Genova n.31/92 del 29/7/1992 Dir. Resp. A. Cortese
Ass. GEA Via Palestro 19/8 16122 Genova; Via Salasco 20 Milano - http://www.geagea.com - Anno 11 - N.04 - Dicembre 2002
Il Gioco del Potere sprecato
Fratelli crudeli?
Siamo sommersi da notizie
Saremmo davvero fratelli
negative, costantemente a con- crudeli se coltivassimo radifronto con la nostra debolez- calmente la mutazione coscienza, il nostro limite, sospesi ziale?
ormai da tempo tra il rischio
Ho l’impressione non ci si
dell’annientamento totale e la voglia svegliare del tutto. Che
possibilità della umana tra- si voglia restare tra favola e
sfigurazione.
risveglio.
Sappiamo che il pensabile
Il cosiddetto Grande Risveè tutt’uno con il possibile e glio Spirituale non ha nulla a
che il possibile, avendo a di- che fare con sentimentalismi,
sposizione l’eternità del non romanticismi e umanesimi unitempo, prima o poi accade.
laterali. Il risveglio consiste, raL’uomo può ciò che fin qua dunando tutte le nostre facoltà
solo la natura poteva. Com- intellettive e senzienti, nel sopplice Prometeo, ha rubato il portare lo sguardo sulla nuda
fuoco agli dei, ha sottratto Cosa. Al di là del Bene e del
all’universo fisico quasi tutti i Male, senza voli verso il prima o
suoi segreti.
verso l’oltre, assistere anche solo
L’uomo però ha anche ru- al grande Fenomeno del Monbato il cielo agli dei. Lo fece do.
quando apparve sulla Terra
Perché è così difficile acun uomo di nome Gesù.
cettare la partenogenesi della
Con la comparsa della co- natura, la sua crescita, il suo
scienza cristica l’uomo resta dramma, senza dovere scaricare le tensioni su un Grande
orfano di idoli e di divinità.
Responsabile?
E tanto, tanto libero.
Perché è così difficile, acE tanto, tanto potente.
Ma egli pare non sapere canto all’umana, composta e
che farsene della sua libertà e silenziosa pietà, riconoscere
quella necessità superiore a cui
del suo potere.
Una mutazione naturale gli la stessa Madre di tutte le Madri
si è installata dentro, invisi- ha saputo sottomettersi?
Ma avete presente gli infibilmente, silenziosamente.
Una mutazione per cui tutte le niti volti della Madonna in cui
cose terrene sentono di dipen- essa, la Pietà, è rappresentata?
dere da lui come lui seppe in Avete presente lo sguardo della madre e del Figlio? Mai trapassato di dipendere da dio.
Ma egli non osa ancora pela facile emotività, ma solo
guardare al suo potere totale un dolore infinito che dice ansicché insiste ancora ad agire che l’infinita impotenza per
irresponsabilmente come un quello che già si lascia intuire
bimbo, pretendendo fantasma- essere un destino dolorosissiticamente eterna rassicurazio- mo ma necessario e finalizzane da una presenza più gran- to. Noi invece temiamo di dare
de di lui. Da un Padre, da nome alle cose nel distacco.
un’Autorità che 123456789012345678901234567890121234567890123456789
123456789012345678901234567890121234567890123456789
ATTENZIONE:
continuerà a dar- 123456789012345678901234567890121234567890123456789
123456789012345678901234567890121234567890123456789
123456789012345678901234567890121234567890123456789
gli pane e sonno. 123456789012345678901234567890121234567890123456789
123456789012345678901234567890121234567890123456789
Evento
ECM a pag. 7
123456789012345678901234567890121234567890123456789
Prende il potere 123456789012345678901234567890121234567890123456789
123456789012345678901234567890121234567890123456789
come un gioco e, proprio come Temiamo l’oscillazione tra l’alun bimbo, preferisce mano- gida osservazione scientifica e
mettere, mani-polare, buttar- il bruciante coinvolgimento
si goffamente e crudelmente affettivo.
Eppure occorre spendere
sui suoi compagni di gioco.
Non ama ancora il gioco del due parole a favore della scienza se scienza è semplicemente
cielo sulla terra. Non ama.
Ma il possibile ha davanti a conoscenza. Ecco, noi non reggiamo avanti alla visione disè l'infinito per accadere.
staccata dell’evoluzione di cui
siamo parte. Non la vogliamo
avere. Vogliamo restare ciechi
e vicini al dolore. L’immagine
che mi sovviene è di una Madonna che, per non reggere il
dolore, non lascerebbe né riconoscerebbe a Cristo il suo
destino salvifico.
Quando avanzo la necessità che in me l’essere avverte di
incoraggiare la mutazione che
mi ha colpita nel venire al mondo, mutazione di logica e di
struttura coscienziale, spesso
mi sento dire che per noi, qui in
questa parte tranquilla di Occidente, è facile parlare di compito spirituale, che ogni secondo al mondo muoiono tot bambini, che in Sud America esistono commerci vergognosi di
carne umana, che i poveri e i
barboni non possono essere rimossi.
Ecco: mi sento
di nuovo sola nel
repentino e subdolo cambio di registro su cui l’altro si
sposta e dal quale
osserva, giudica e
ascolta il mio esserci.
Tutte le volte che
si cerca di parlare
oltre l’immediata
immedesimazione (che non
può durare troppo a meno di
non decidere di dedicarci la
vita), oltre la comunione naturale della carne e del destino
fisico, tutte le volte, dicevo,
che si tenta il nuovo discorso
con totale determinazione e
con radicale sentire, sembra
che si compia il peccato immondo ed egoico della selezione solo perché si vuole consacrare la totalità del proprio
essere al mondo all’evoluzione coscienziale dell’Essere!
E la fiducia che questa esigenza provenga proprio dall’essere stesso che soffre e ha
sofferto i limiti della “pre –
mutazione” (quando persiste
lo stato limbico del guado inoperoso), è sempre troppo fa-
cilmente sottratta.
Proprio nel momento cruciale!
Quando occorrerebbe dire
un no radicale alla radice della sofferenza!
Quando si dovrebbe osare
entrare nella stanza che già per
noi è stata arredata di quella
trasparenza e universalità concreta che saprebbe, nei secoli
dei secoli, sottrarre il dolore
nel mondo.
Ma non si tollera la colpa di
abbandonare e così si pretende
di erigere a metodo la paralisi.
Sì, perché paralizzante è restare nella figura spirituale del
pensiero che coglie sempre e
solo la contraddizione. Pavida è
quella condizione psichica che
accusa la necessaria nuova radicalità di “rimozione” unilaterale
perché in realtà non fa che
ribadire l’impossibilità sia di
pensare il nuovo che, tanto
meno, di tentarlo qui ed ora
subito.
Si rimuove,
così, quel lato
dell’animale
uomo che non
sa amare la libertà ed i grandi voli. E non sa
non perché sia brutto e cattivo, ma perché tale ignoranza
gli è elemento costitutivo in
una certa sua fase evolutiva;
lato, dunque, fisiologico e non
moralistico.
E così ancora una volta il
Grande Inquisitore di Ivan
Karamazov non molla la scena. Ancora una volta nel nome
dell’amore per il genere umano, per i suoi fardelli, per la sua
imperfezione, si preferisce restare al calduccio sotto l’ala
anche se soffocante di qualche
autorità ideologica che tolga
l’abisso e l’angoscia dell’essere orfani e responsabili su questa Terra della fragilità di Dio.
Non mi dispiace affatto tentare di cambiare tutto questo.
A.C.
AAA
A.
2
METODO
PARANOIA
Considerazioni sulla struttura paranoide della psiche
Siamo abituati a sentire parlare di paranoia prevalentemente in due accezioni:
a) nel gergo giovanile come sinonimo
di paura e/o di stato di confusione mentale
b) come disturbo psichiatrico di psicosi paranoide.
Nel primo caso è una “piacevole” sottolineatura linguistica di un stato di paura
o di angoscia che possiamo incontrare
nella quotidianità, nell’altro una vera e
propria malattia mentale, delegata all’ambito “psichiatrico”.
Questo è quanto galleggia in superficie
nella percezione collettiva; due lati estremi quasi facilmente determinabili e in mezzo nulla, nulla o poco meno che arrivi alla
coscienza.
Cercheremo qui di esprimere proprio
la dimensione mancante alla nostra percezione, ovvero la dimensione della paranoia nella sua trama meno visibile, peraltro
ben presente nel pensiero e nel comportamento umano; cercheremo inoltre di
focalizzare il rispecchiamento tra la sua
dimensione individuale e quella collettiva.
Para-noia significa etimologicamente disordine (para) della mente (nous),
secondo Hillman “è esattamente ciò
che il suo nome indica: para-noetica,
mentale, cognitiva, quindi un disturbo
del significato”.
La prima osservazione è la seguente: la paranoia non è solo un modulo
comportamentale ma è uno stato o
livello di coscienza, latente o manifesto, presente in tutti gli esseri umani;
esso è stato funzionale alla conservazione della specie, ma nel nostro tempo
sta sempre più perdendo senso rispetto
all’economia delle relazioni umane ed all’evoluzione della coscienza.
La paranoia, attraverso uno stato di
attivazione anche a livello neurofisiologico, predispone al controllo sulla potenziale ostilità dell’altro da sé; essa ha il suo
fondamento nella geometria pericolo-sopravvivenza, “hunter and hunted”, persecutore-perseguitato.
Ridotta all’osso, consiste nella paura
archetipica di essere distrutti, mangiati,
fatti a pezzi, paura vissuta da uno strato
arcaico della nostra psiche, come è sempre stato nel mondo animale che ha lottato
per la sopravvivenza nell’arco della filogenesi.
Lo stato paranoide è “lucido” (anche
nella forma palesemente psicotica) ovvero ben supportato da un impianto di razionalizzazioni associative che sostengono
l’idea e la consistenza dell’ostilità e del
“nemico”.
In prossimità di momenti di destrutturazione parziale dell’Io, la pasta emotiva
della sensazione paranoide è molto particolare, sembra caratterizzata da una percezione proveniente dal numinoso, dall’oltre, oppure da una sorta di ‘sesto senso’ col quale si è consapevoli di non essere
sempre in contatto.
Proprio questo elemento ricollega il
nostro discorso alla teorizzazione sulla
Mente Bicamerale di J. Janes, ovvero ad
una forma di parziale regressione del funzionamento del pensiero, anteriore allo
sviluppo della coscienza soggettiva.
La teorizzazione di Janes non è qui
riassumibile; per brevità possiamo riportare che essa fa riferimento proprio a
livelli di coscienza, di cui quello bicamerale è legato alle percezioni di voci o sensazioni interiori, attribuiti a divinità che guidavano il comportamento umano nelle
prime civiltà.
La coscienza coincideva con quella
situazione mentale in cui non esisteva
alcuno spazio interno, “un analogo io”
per rappresentare un dentro ed un fuori.
Questo strato della psiche è rimasto sepolto ma non si può certo dire che sia
inattivo od innocuo; la paranoia latente è
proprio una via di mezzo tra uno stato fin
troppo soggettivo (lucido), egoriferito e
quella percezione del numinoso (o meglio
della sua ombra) che rimanda a quell’antico stato di coscienza; una sorta di situazione “borderline” tra due livelli evolutivi.
Peraltro, è noto quanto frequentemente la paranoia si accompagni a comportamenti ritualistici: essi hanno un valore
propiziatorio rispetto a paure di annientamento e distruzione, proprio come facevano i nostri antichi predecessori.
Il vissuto paranoide si incrocia con la
situazione bicamerale rimossa e ne attinge
tutta la legittimazione ‘divina’.
L’ideazione paranoide viene ascoltata
come voce dell’inconscio, con una caratteristica di lucidità ed autenticità di un
qualcosa che invece è tragicamente fuori
dalla relazione con l’Altro e con il “principio di realtà”.
Proseguendo in questa direzione, la
paranoia si presenta come patologia dell’Io o meglio ancora della libido dell’Io,
tutta ricurva su se stessa, in cortocircuito
con un egoriferimento ipertrofico, Ego a
cui tutto si riferisce in una forzatura di
associazioni mentali apparentemente razionali.
Questo “cortocircuito libidico” è ben
sostanziato dalla scissione tra l’Io e la
dimensione più universale, quindi da un
disturbo della facoltà di creare simbolo.
E’ indubbio che lo stato di attesa, tensione e difesa dall’ignoto, dall’altro da sé
vissuto come minaccioso nemico, uomo o
fiera che fosse, è stato fondamentale per la
conservazione della specie umana, attraverso tutte le sue tappe.
Quindi considerando la stratificazione
di questo meccanismo potremmo dire che
questo stato di coscienza, rinforzato dallo
strutturarsi del sociale, si è sedimentato
(fino a perdere coscienza della sua stessa
esistenza) in una serie di gesti, pensieri,
dinamiche collettive e quotidiane che riguardano tutti.
Le ripercussioni sociali della stratificazione paranoide della psiche sono molteplici; è noto infatti quanto il controllo
sociale venga attuato attraverso dinamiche di tipo paranoide, mi riferisco ad
istituzioni (militari, giudiziarie, di potere)
che favoriscono nell’individuo comportamenti e vissuti inconsci di paranoia.
Le parole di Hillman ("La vana fuga
dagli dei") sono illuminanti sulle ripercussioni della scissione paranoide: il
non riconoscimento della polis la “città
- stato” quale espressione simbolica
del Sé fa sì che “quanto è stato escluso
ritorni nella polis per quelle vie letterali e prive di anima che sono la burocrazia materialista e la teocrazia fondamentalista: la tediosa città della
materia e la fanatica città dello spirito, né l’una né l’altra città dell’anima”
Ed inoltre : “Viviamo in uno Zeitgeist (tempo spirituale) di minaccia, in
uno stato animico e politico di paranoia... La minaccia della catastrofe giustifica le misure prese contro di essa,
rendendo con ciò stesso sempre più letterale la minaccia: la paura della catastrofe tende quasi inevitabilmente a produrre
la sindrome. Peggio: la sindrome ha bisogno della catastrofe. Il circolo vizioso
della psicologia paranoide è la realtà
politica di oggi…”
Ma se l’umanità è sopravvissuta ai tragici effetti dell’ultima esplosione psicotica
mondiale del secolo scorso, quale sarà la
conseguenza della sua attuale insistenza
nell’investire su un meccanismo psichico
così primitivo quale quello paranoico?
I grandi pericoli, però, si sa, risvegliano anche grandi antidoti.
Così, pensando alle possibilità concrete di attivazione simbolica e salvifica del
Sé nella “polis” mi viene incontro l’esperienza dell’analisi di gruppo; i sogni che
raccogliamo, spesso all’inizio del lavoro,
fanno riferimento a metafore di congiunzione, di iniziazione attraverso l’accettazione dell’inaccettabile, di amore per il
nemico, di morte dell’egoriferimento, in
altre parole il loro contenuto tende con
grande evidenza ad indebolire la struttura
paranoide e “le sue voci”.
Ma di questo riparleremo prossimamente su questi fogli.
P.C.
3
PROFILI
Heinz Kohut
Il Narcisismo e la Psicologia del Sè
H. Kohut
(Vienna 1913 - Chicago 1981)
Laureatosi in Medicina a Vienna nel
1938, iniziò ad esercitare come neurologo
per poi interessarsi sempre più di Psichiatria e di Psicoanalisi. Si trovò costretto, in
seguito all’annessione tedesca dell’Austria, a trasferirsi negli Stati Uniti (1939)
dove si specializzò in Neuropsichiatria a
Chicago. Dopo il training psicoanalitico si
dedicò alla pratica privata e di supervisione e all’insegnamento universitario in Psichiatria e Psicoanalisi. Fu presidente della
American Psychoanalytic Association ('64'65) e vicepresidente della International
Psychoanalytic Association ('65-'73).
Partendo da una rigorosa visione psicoanalitica freudiana, elaborò gradualmente una propria teoria: la Psicologia del Sé.
Contesto storico
L’apparizione della psicologia del Sé,
fondata da Kohut, costituì una sfida all’analisi tradizionale nell’America degli
anni '70. Il panorama psicoanalitico di
allora era dominato dall’analisi freudiana,
di cui Kohut metteva in discussione alcuni
principi basilari. Per questa portata fortemente rivoluzionaria, le sue idee non trovarono all’inizio grande eco tra gli analisti
americani.
Ci sono voluti infatti più di trent’anni
prima che l’analisi tradizionale cominciasse ad integrare nell’approccio classico
alcuni importanti contributi di Kohut. Oggi
si può parlare di ripercussioni di grande
entità del pensiero kohutiano nella pratica
psicoanalitica americana (e non solo) oltre che nell’orientamento teorico. L’aspetto per noi più interessante di questa inversione di rotta riguarda sia l’ambito relazionale in cui si colloca, sia l’aver aperto
la strada alle successive posizioni intersoggettive dei cosiddetti Neofreudiani.
Il Pensiero
La psicologia psicoanalitica del Sé è
frutto del lavoro pionieristico di Kohut
con pazienti sofferenti di disturbi narcisistici, i quali mostrano dei sensi indefiniti di
depressione o insoddisfazione nei rapporti riconducibili a una forte vulnerabilità
della stima di sé, ad una estrema sensibilità
alle offese da parte degli altri, mancanza di
empatia o di umorismo, stati maniacali e
preoccupazioni eccessive per il corpo
Tale mancanza di autostima sarebbe
dovuta alla carenza di risposte empatiche
adeguate nelle prime fasi dello sviluppo.
Kohut considera le mutate condizioni
sociali in cui si sviluppa la psiche infantile
rispetto al contesto in cui fu elaborata la
teoria freudiana: la meno assidua presenza dei genitori priva il bambino di un
oggetto immediato per il suo bisogno di
idealizzazione e provoca, invece del tradizionale complesso edipico, una malattia
del Sé, un disturbo narcisistico della personalità.
Kohut pone al centro del suo modello
un apparato psichico primitivo, il Sé, la
cui coesione ed integrazione è essenziale
allo sviluppo successivo dell’Io.
Il Sé è all’origine del sentimento per il
quale l’individuo si sente un polo autonomo di percezione e di iniziativa. Ha quindi
un ruolo funzionale: è una dimensione
intrapsichica che si alimenta del rapporto
con gli altri, (oggetti-Sé). Se viene a mancare un’adeguata relazione adulto-bambino il Sé si ripiega su se stesso e si fissa in
una posizione narcisistica: in tal caso
l’esperienza del Sé, normalmente appagante, si disintegra e si cristallizza, in
modo difensivo, dando luogo a un Sé
grandioso e onnipotente (narcisistico).
La terapia proposta da Kohut è centrata sul contenimento e la ricostruzione del
Sé frammentato. Egli individua con chiarezza nell’empatia il metodo principe per
la raccolta dei dati in psicoanalisi nonché
un elemento cardine del proprio orientamento teorico e clinico.
Lo sviluppo della personalità
I bisogni narcisistici permangono per
l’intero corso della vita seguendo uno
sviluppo parallelo a quello dell’amore
oggettuale. La posizione classica sul narcisismo risulta quindi a suo avviso moralistica perché contrappone l’amore di sé
con l’amore per l’altro, considerando negativo il primo. Al contrario esisterebbe
un ‘doppio binario’: una libido oggettuale
e una narcisistica, una che porta all’amore
verso l’altro e una all’amore verso sé.
Lo sviluppo della personalità origina
da un equilibrio narcisistico primario ed
evolve a partire dalla capacità della madre
di disilludere gradualmente il bambino
sottoponendolo alla frustrazione ottimale - concetto base - grazie a cui delusioni
tollerabili dell’equilibrio narcisistico primario portano al graduale instaurarsi di
strutture interne che permettono al bambino di imparare a calmarsi da sé e di
tollerare la tensione narcisistica.
L'esperienza della frustrazione è alla
base dello sviluppo della capacità di percepire la realtà, interna ed esterna, distinguendola da fantasia ed allucinazione.
Il processo di formazione delle strutture psicologiche è lento e passa attraverso
due stadi contemporanei:
- L’imago parentale idealizzata è lo
stato in cui una parte della perduta esperienza di perfezione narcisistica è attribuita a un oggetto-Sé arcaico (genitore) che
viene così idealizzato. Al genitore spetta
di lasciar cadere gradualmente tale idealizzazione lasciando che il figlio incontri
l’inevitabile esperienza di frustrazione, che
sola porta al passaggio evolutivo successivo. Quando la frustrazione non è adeguata, si determina un danno permanente
nella personalità, una fissazione (narcisistica) che può essere superata solo attraverso il trattamento psicoanalitico.
- Il Sé grandioso, costituito da esibizionismo e grandiosità, è lo stato complementare a quello dell’imago parentale idealizzata. Se l’esperienza di frustrazione è
ottimale il bambino impara ad accettare i
propri limiti realistici, rinuncia alle fantasie grandiose e alle grossolane esigenze
esibizionistiche, sostituendole con mete e
scopi sintonici all’Io e con l’autostima
realistica. Se invece il bambino subisce
gravi traumi narcisistici il Sé grandioso si
conserva nella sua forma inalterata e arcaica generando patologia.
Nei disturbi narcisistici e in qualche
misura anche nelle nevrosi, il lavoro di
consolidamento del Sé non è avvenuto
sufficientemente e deve essere rafforzato
con l’aiuto del processo analitico.
Sul piano del transfert Kohut notò che
tali pazienti tendevano a instaurare due
tipi di transfert: il transfert speculare (in
cui il paziente cerca di ottenere una risposta di conferma) e il transfert idealizzante
(in cui il paziente vive il terapeuta come un
genitore estremamente potente, la cui sola
presenza può consolare e risanare).
In entrambi i casi Kohut ipotizza un
soggetto con un Sé difettoso o carente,
fermo a uno stadio in cui è fortemente
incline alla frammentazione.
La meta del trattamento nei disturbi
narcisistici della personalità consiste nel
portare il paziente a riconoscere la presenza, accanto ai fini realistici, di mete narcisistiche e perverse, vincendo le resistenze
che si oppongono al riconoscimento e
all’elaborazione del comportamento e delle
fantasie grandiose.
La descrizione di Kohut del processo
analitico è coerente con le premesse relazionali che fondano la sua posizione teorica: la situazione analitica è posta come
un campo interpersonale.
Lo sforzo prolungato e coerente di
comprensione analitica, sul piano terapeutico, permette (insieme agli inevitabili
fallimenti empatici che diventano altrettante occasioni di frustrazione ottimale)
di recuperare situazioni deficitarie.
Opere principali
Narcisismo e analisi del Sé (1971); La
guarigione del Sé (1977); La ricerca del
Sé (1978) La cura psicoanalitica (1984)
A.G.
4
SCHEDE
Le città possibili
brevi riflessioni tra individuale e collettivo
“La città dice tutto quello che devi
pensare, ti fa ripetere il suo discorso, e
mentre credi di visitarla non fai che registrare i nomi con cui essa definisce se
stessa e tutte le sue parti.” (I. Calvino- Le
città invisibili)
La città , nel corso della storia, ha
sempre rispecchiato le idee fondamentali
su cui si basa una cultura: è il palcoscenico
ideale per mettere in scena gli eventi che
caratterizzano ogni società.
Ogni forma urbana diventa immagine
del tempo e delle regole di convivenza del
gruppo.
Senza entrare nella complessa storia
delle città, bastano alcune considerazioni
per sottolineare certi cambiamenti fondamentali: la città tradizionale aveva lo spazio pubblico costituito dalla piazza, luogo
esterno, aperto; la città contemporanea
racchiude lo spazio pubblico, sia fisicamente che simbolicamente.
Se nelle città greche il teatro, i templi,
l’agorà erano a diretto contatto con il
mondo esterno, via via questi luoghi sono
diventati sempre più contenuti in muri e si
sono scollegati dalle altre parti della città.
Questo non solo per fattori di comodità o
di clima, ma perché lo spirito di comunità
della polis antica, basato sulla partecipazione attiva in cui individuale e sociale si
intersecavano, si è perso in favore di una
specializzazione delle varie forme di attività, con conseguente creazione di compartimenti stagni.
Come altro esempio possiamo pensare
alle città cresciute con la rivoluzione industriale, dove si formarono immensi quartieri dormitorio e divenne evidente la specializzazione dei vari luoghi: per lavorare,
per dormire, per divertirsi.
L’alienazione non era quindi solo a
livello del lavoro svolto, non più legato
alla propria unicità umana, ma lo stesso
vivere diventava uno spostarsi in zone
specifiche in cui occorreva vestire gli abiti
adatti al luogo.
Gli esempi potrebbero continuare, vorrei solo accennare al dibattito che si
accese tra gli urbanisti verso la fine dell’Ottocento, divisi tra progressisti e culturalisti. I primi ipotizzavano un’architettura razionalista, una città altamente funzionale in cui le varie zone specializzate
avrebbero ottimizzato la vita urbana.
Le basi teoriche, rintracciabili nell’utopista Fourier a cui Le Courbusier si ispirerà, riguardano una giustizia sociale attuata attraverso un’organizzazione spaziale
che consenta a tutti i cittadini di fruire dei
benefici della tecnologia.
Il collettivo prende il sopravvento ma,
partendo da fini nobili, certe forme di
razionalizzazione radicali sfociano poi in
autoritarismi dove il cittadino si ritrova in
una struttura che non riconosce più sua.
Viceversa, i culturalisti pensavano al
ritorno a vecchie forme urbane: nessun
prototipo né standard urbanistici, ogni
edificio sarebbe stato diverso dall’altro e
l’attenzione avrebbe riguardato soprattutto gli spazi comunitari.
Se quindi i razionalisti hanno l’obiettivo di una società ideale su larga scala, i
culturalisti pensano alla comunità nella
sua specificità.
Le differenze sono sostanziali: nella
comunità l’uomo attivo, il cittadino politico diventa protagonista: individuale e
sociale nuovamente si mescolano.
La città rispecchia i due lati dell’uomo:
l’individuale e il collettivo.
Entrambi convivono in noi e la storia
del pensiero umano potrebbe essere vista
come un continuo interrogarsi sulle interazioni tra queste due dimensioni.
Oggi l’equilibrio è sempre più difficile,
talvolta prevale una delle due, spesso c’è
una totale schizofrenia e noi assumiamo
ora l’una ora l’altra, identificandoci totalmente con un singolo lato.
Prevale allora un individualismo egoistico o una folla che diventa gregge. Il
cittadino, simbolo di singolo individuo
che forma ed è formato da una rete
sociale, tende a scomparire.
La città attuale è ancora una volta
concreta attuazione di questa schizofrenia
del nostro tempo.
Da un lato esistono singole abitazioni
sempre più mono familiari, in cui i nuclei
sono ormai singoli o coppie con figli annessi, dall’altro crescono ogni giorno nelle periferie i centri commerciali: capannoni dove ci si sente tutti uguali, nel rito
dell’acquisto facile che ci fa illudere di
essere individui consapevoli.
In mezzo non c’è niente: il mercato
tende a scomparire, la piazza è solo un
luogo di passaggio, i luoghi della decisione politica sono estranei.
Le vecchie aree di coesione sociale
hanno perso l’originale funzione. L’antico cittadino, che poteva provare un senso
di comunità incidendo attivamente su di
essa, non esiste più: sembriamo individui
che, quasi casualmente, si ritrovano a
vivere nello stesso luogo.
L’adagio della Gestalt, per cui singole
parti messe insieme costituiscono qualcosa di più e di diverso rispetto alla loro
semplice somma, non è più vero: le città
sembrano essere diventate solo un elenco
anagrafico senza identità specifica.
Il bene comune è perso di vista, nell’esagerata attenzione al proprio bene personale.
Una riunione di condominio è uno spaccato emblematico di tutto questo: l’aspetto importante non è l’edificio, ma il singolo interesse.
Si potrebbe continuare con gli esempi,
ma credo che ognuno di noi abbia presente questo stato delle cose, che è ormai
talmente radicato che quasi nessuno può
proclamare la propria innocenza.
Sembra che non siamo più in grado di
far parte di una comunità.
Certamente esempi in senso contrario
esistono, ma spesso sono relegati a localismi isolati, piccole isole felici o anacronistiche che non incidono sull’andamento
generale.
Oppure la comunità ritorna solo quando c’è un nemico esterno da combattere:
lo straniero che mette in pericolo le proprie credenze sicure.
Eppure individuale e sociale non possono essere separati, proprio perché l’uno
non esiste senza l’altro.
Il collante tra le due dimensioni è la
relazione. Se perdiamo questa o non siamo più abituati ad attivarla, allora solitudine nelle proprie piccole abitazioni e
alienazione nei grandi magazzini aumentano.
Conciliare individuale e sociale non è
facile, soprattutto ora che nessuno vi è più
abituato, ma è l’unica strada contro la
schizofrenia.
Solo così possiamo tornare a essere
cittadini.
Vorrei però finire con una nota di speranza che riguarda proprio la mia città.
In questi ultimi tempi Genova è in
contro tendenza.
E’ una delle poche città che, invece di
peggiorare nel suo aspetto e nella sua vita,
è riuscita a migliorare. Penso al centro
storico che sta ridiventando vero centro
della città.
Non c’è la forza centrifuga che porta
illusione di vita attiva nelle periferie dei
centri commerciali, ma piuttosto un’attenzione al nucleo centrale della città.
Non so se questo episodio possa incidere
davvero nell’atteggiamento dei cittadini,
comunque è un segnale che qualcosa si sta
muovendo.
Quando passo per piazza De Ferrari le
uniche persone che abitano la piazza e non
sono di passaggio sono ormai solo gli
extracomunitari. Solo loro rendono a
quel luogo il suo senso originale, e anche
questo è un segno dei tempi.
T.T.
5
RIDERE PER RIDERE
La differenza tra un genio e uno stupido è che un genio ha i suoi limiti.
(Anonimo)
Se vuoi assaporare
la tua virtù,
pecca qualche volta.
(Ugo Ojetti)
Zelo:
malattia nervosa
che colpisce
talvolta i giovani
e gli inesperti.
(Ambrose Bierce)
La filantropia
serve da copertura
a coloro che desiderano
seccare il prossimo.
(Oscar Wilde)
Quando un uomo
ti dice:
“Ti amerò sempre”
penso:
cos’è, una minaccia?
(Brunella Andreoli)
Si è buttato nel Ticino.
L’hanno ripescato nel Po.
Ne ha fatta di strada!
(Marcello Marchesi)
Nuova Delhi:
autobus investe
una mucca: cinquanta morti.
(dai giornali
dell’agosto 1993)
Non vedo perchè
sia legittimo amare
insieme Cimarosa,
Bach e Strawinski,
e sia da fedifraghi
amare
a un tempo Carolina,
Claudia e Maria.
(Gesualdo Bufalino)
Quando fracassate
monumenti,
salvate i piedistalli.
Tornano sempre utili.
(Stanislw J. Lec)
E’ difficile riconoscere
un gatto nero
in una stanza buia
soprattutto quando
il gatto non c’è.
(Proverbio cinese)
E’ primavera:
nella serra, in ogni fiore
c’è un’orgia.
Chi riuscisse a inventare
un motel per insetti
farebbe i milioni.
(Stefano Benni)
Non sono un atleta.
Ho cattivi riflessi.
Una volta sono stato
investito da un’automobile
spinta da due tizi.
(Woody Allen)
Eravamo così poveri
che mia madre
non poteva avermi.
Così mi ha avuto
la vicina di casa.
(Mel Brooks)
Certo che ti amo!
La bellezza e l’intelligenza
non sono tutto,
a questo mondo!
(Anonimo)
Questa la chiamano
musica classica, vero?
L’ho capito
perchè non cantano.
(Marilyn Monroe)
...sono stufo di non portare
mai a termine
le cose che inizio.
Mi analizzo e mi chiedo:
“Ma è mai possibile che...”
(Franco Pennasilico)
Amare significa
poco dolci.
(Maurizio Sangalli)
Non picchiatevi mai
con persone brutte,
perchè non hanno
niente da perdere.
(Anonimo)
Il mondo è diventato
così pericoloso che
quando uno se ne va,
ringrazia il cielo
per esserne uscito vivo.
(Boris Makaresko)
Secondo i meteorologi la
previsione era giusta, era
sbagliato il tempo.
(Henri Tisot)
Odio le discussioni di ogni
tipo. Sono sempre volgari e
spesso convincenti.
(Oscar Wilde)
Le conversazioni
dal parrucchiere sono
la prova inconfutabile
che le teste
sono fatte per i capelli.
(Karl Kraus)
Un buon ascoltatore
di solito
sta pensando a qualcos’altro.
(Kin Hubbard)
Quando sentirai il telefono
che non suona, sarò io che
non ti chiamo.
(Fannie Flagg)
Se i pesci non abboccano
all’amo provate con:
“La stimo profondamente”.
(Mario Zucca)
Mi ricordo con affetto ancora
adesso tutti i momenti in cui
non l’ho incontrata.
(Oscar Levant)
Rifletti,
prima di pensare!
(Stanislaw J. Lec)
Sono gli uomini
che sbagliano
o siamo noi donne
nel giusto?
(Syusy Blady)
L’unica cosa che detesto
del mio passato è
che è lunghissimo.
Se dovessi vivere
un’altra volta farei
gli stessi errori,
però prima.
(Tallulah Bankhead)
Ho una famiglia
da farmi mantenere.
(Mino Maccari)
Non mi ricordo mai
una faccia,
in compenso però
dimentico i nomi.
(Leopold Fetchner)
Solitudine:
quando sono nato,
mia madre non c’era.
(Ivan Della Mea)
Riduzionismo:
i sette Re di Roma
erano tre.
Romolo e Remo.
(Anonimo)
Ho una vasta collezione
di conchiglie,
che tengo sparse
per le spiagge
di tutto il mondo.
(Steven Wright)
Vedere in tutti
i lati positivi
e partire da essi:
Hitler
era non fumatore.
(Tobias Inderbitzin)
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BACHECA
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dalle ore 15 alle ore 19
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Istinto, Fantasia, Educazione?
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GRUPPO DI INCONTRO
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Trainer: Tullio Tommasi
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Per maggiori informazioni la Segreteria dell'Associazione Gea è a disposizione nelle ore d'ufficio
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Telfax: 010 - 8391814
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Gruppo Operativo Gea
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ogni Mercoledì
dalle ore 18 alle ore 21
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alle ore 21
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si riunisce ed è a disposizione
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nella relazione d'aiuto e nel rapporto educativo
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di soci e simpatizzanti per raccogliere
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proposte ed iniziative ludico - culturali
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per completare
GRUPPO DI INCONTRO
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il
programma
delle Attività per il 2003
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Trainer: Simonetta Figuccia
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Iscrizioni entro il 7 Marzo 2003
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Vi ricordiamo che il trimestrale
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Individuazione
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può essere letto e scaricato dal nostro sito web:
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ore 21
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E-mail:
[email protected]
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presso
la
sede
di
Genova
Chi
invece
desiderasse
riceverlo
a casa in versione cartacea,
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può richiederlo utilizzando il coupon qui sotto riportato.
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Via
Palestro
19/8
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Nome e cognome .....................................................
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Indirizzo ...................................................................
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Un'occasione
per
migliorare
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Cap ............................. Città ....................................
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conoscenza reciproca e sinergie.
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Tel ...................... Professione .....................Età .......
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Ricordiamo che sono soci tutti coloro
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che sono in regola con il pagamento
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desidero ricevere il trimestrale
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della quota e, pertanto, chiediamo
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“INDIVIDUAZIONE”
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gentilmente collaborazione nella
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CONTRIBUENDO
col versamento quota associativa
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verifica
della
Vostra
situazione
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di
Euro
25
sul
c/c postale N. 19728161
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Associazione G.E.A. - Via Palestro 19\8 - 16122 Genova
associativa.
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GEA ORGANIZZA
Domenica 23 Gennaio
Amori Difficili:
GoGea
Venerdì 14 Marzo
Atteggiamento ludico
Mercoledì 19 Febbraio
Assemblea Annuale
dei Soci
7
ATTIVITA'
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Evento Formativo ECM
Rivolto a Psicologi e a Medici
da Mercoledì 5 Marzo a Sabato 22 Marzo 2003
Quattro Giornate di Studio
su
Archetipo dell'Ombra:
il limite e la malattia nel rapporto psicoterapeutico
Poiché dall’Aprile del 2002 è passata la
legge secondo cui tutti i soggetti professionali dell’area - pubblica e privata sanitaria (medici, fisioterapisti, infermieri, ecc.) e dell’area - pubblica e privata parasanitaria (psicologi, psicoterapeuti,
ecc.), sono tenuti ad ottemperare al principio della Formazione Continua, la nostra Associazione ha deciso di diventare
un “Provider” dell’ECM, ossia un ente
riconosciuto dal Ministero della Salute
quale organizzatore e dispensatore di eventi formativi ECM.
Così abbiamo presentato il primo evento, un programma di quattro giornate di
studio sul tema “L’archetipo dell’Ombra:
il limite e la malattia nel rapporto psicoterapeutico” ed esso è stato accreditato
presso il Ministero della Salute.
Siamo in grado, quindi, di riportare già
fin da ora e su queste pagine il programma
nel dettaglio chiedendo agli interessati
solo la pazienza dei tempi tecnici per
quanto riguarda l’esatto numero dei crediti riconosciuti al nostro evento. Comunicheremo la notizia appena essa ci giungerà dall’ente deputato.
I Destinatari
L’evento si rivolge a psicologi e medici. Ai primi perché è tema specifico del
loro lavoro. Ai secondi perché ormai è
nella sensibilità scientifica generale il riconoscere al colloquio medico - paziente la
delicatezza e il valore terapeutico che si
riconosce ad un vero e proprio colloquio
psicoterapeutico stante la nuova e davvero salutare tendenza a considerare il malato non più un insieme di organi ambulante,
una inerte “cosa”, bensì un soggetto umano dotato di psicologia, anima e carattere.
Il Programma
Si propone di approfondire quelle dinamiche psichiche, transferali e controtransferali, presenti nel rapporto psicoterapeutico e psicologico, che nella Psicologia Analitica vengono riassunte sotto il
nome di archetipo dell’Ombra.
L’Obiettivo
E’ il miglioramento, attraverso l’elaborazione dei vissuti conflittuali, della
capacità di riconoscere la natura di tali
vissuti presenti nel setting psicoterapeutico e psicologico, per imparare a gestirli e
a trasformarli a fini terapeutici.
In particolare ci si prefigge di porre
attenzione allo smascheramento delle forme di cattivo rapporto con il limite e la
malattia fisicamente e psichicamente intesi tra le quali:
- situazioni di ipercompensazione attraverso comportamenti generatori di
stress;
- situazioni di negazione del limite o/e
della malattia con sbocco nei classici sintomi nevrotici (fobie e ossessioni);
- situazioni di parassitismo psicologico
con attaccamento al vantaggio secondario che il limite e la malattia possono
offrire;
- situazioni di identificazione con il
limite e la malattia con impoverimento
della personalità globale e sbocco in modalità depressive.
Si prevede inoltre la focalizzazione su
alcune strategie metodologiche che permettono di trasformare il rapporto con il
limite in nuova risorsa disponibile.
Altro punto qualificante il nostro programma è lo sviluppo di quel particolare
atteggiamento di ascolto e di disponibilità dello psicoterapeuta quando egli si
trovi a dover trattare con pazienti malati
gravi e/o terminali.
La sede
Associazione GEA,
Genova, Via Palestro 19/8
Il calendario
Mercoledì 5 Marzo 2003, Sabato 8
Marzo 2003, Mercoledì 19 Marzo 2003,
Sabato 22 Marzo 2003.
Le Fasce Orarie
ore 9 - 12; ore 15 - 18
I Docenti
Prof. Carla Pezzani, medico, psicoterapeuta, già Associata all’Università degli
studi di Parma, Facoltà di Medicina e
Chirurgia, presso la Cattedra di Psicopatologia Generale dell’Età Evolutiva. Docente GEA.
Dott. Ada Cortese, psicoterapeuta e
psicoanalista, Presidente dell’Associazione GEA “Psicologia Analitica e Filosofia
Sperimentale” di Genova. Docente GEA.
Il Programma in dettaglio
Mercoledì 5 Marzo 2003
Ore 9 – 12: Lezioni Magistrali della
Prof. Pezzani sulle dinamiche inerenti:
* L’ipercompensazione attraverso comportamenti generatori di stress;
* La negazione del limite o/e della
malattia con sbocco nei classici sintomi
nevrotici (fobie e ossessioni);
Ore 15 – 18: Esercizi di role-playng a
due, restituzioni del gruppo condotte dalla Dott. Cortese
Sabato 8 Marzo 2003
Ore 9 – 12: Lezioni Magistrali della
Dott. Cortese sulle dinamiche inerenti:
* Il parassitismo psicologico con attaccamento al vantaggio secondario che il
limite e la malattia possono offrire;
* L’identificazione con il limite e la
malattia con impoverimento della personalità globale e sbocco in modalità depressive.
Ore 15 – 18: Esercizi di role-playing a
due, restituzioni del gruppo condotte dalla Prof. Pezzani
Mercoledì 19 Marzo 2003
Ore 9 – 11: Lezioni Magistrali della
Prof. Pezzani sulle dinamiche inerenti:
* Le strategie metodologiche che permettono di trasformare il rapporto con il
limite in nuova risorsa disponibile.
Ore 15 – 18: Esercizi di role-playng a
due, restituzioni del gruppo condotte dalla Dott. Cortese
Sabato 22 Marzo 2003
Ore 9 – 11: Lezioni Magistrali della
Dott. Cortese sulle dinamiche inerenti:
* La presenza e l’ascolto empatico
dello psicoterapeuta nel trattamento con
pazienti malati gravi e/o terminali.
Ore 15.00 – 16: Drammatizzazione con
partecipazione guidata di tutto il gruppo.
Ore 16.30 – 18.00: Casi clinici e Presentazione di problemi. Conduce la Prof.
Pezzani.
Per iscrizioni e prenotazioni rivolgersi alla Segreteria dell'Associazione.
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Masochismo morale e masochismo fisico
Due tra i più inquietanti prodotti del micidiale connubio tra paura e aggressività.
Se il masochismo morale può affondare le proprie radici in esperienze primarie e sistematiche di
cortocircuito nel rapporto frustrazione - aggressività, il masochismo fisico pare trovare la propria
origine in violenze realmente subite da figure familiari
in epoche più evolute della maturazione psico - fisica.
Il ruolo dei sintomi
E’ ancora attualmente accolta l’ipotesi
secondo cui la paura sarebbe al centro di
tutti i disturbi psichici.
Essa ci offrirebbe la possibilità di individuare il punto d’incontro tra soma e
psiche.
Si parla, ovviamente, di paura patologica, non legata a pericoli reali e va inoltre
ricordato che, nell’universo della patologia, va distinta la paura manifesta, con
valore di sintomo, dalla paura latente,
coperta da un sintomo.
I quadri nosologici estremi sono per la
paura manifesta: le nevrosi fobiche, per
quella latente: le nevrosi ossessive.
Il fobico sa d’aver paura; l’ossessivo la
maschera dietro il rituale.
Spesso le nevrosi ossessive sono precedute da fasi fobiche, l’ossessione interviene come difesa dalla consapevolezza
della paura.
Il sintomo come difesa dalla coscienza
della paura lo si ritrova alla base di certi
deliri.
Ma qual è la funzione della paura?
Essa segnala il pericolo, mobilita l’energia con lo stato di allerta che predispone
l’organismo all’azione di difesa.
E qual è allora il ruolo clinico dei
sintomi?
Essi si sostituirebbero all’azione in
ciò spezzando la tensione dovuta allo
stato di all’erta.
Nel soggetto cosiddetto ossessivo il
rituale come sintomo lo difende, oltre che
dalla coscienza della paura, anche dalla
coscienza della sua forte aggressività. Il
soggetto ossessivo pare essere più rigido
del soggetto fobico.
Egli pare, da un lato, caratterizzato da
una debolezza primaria dell’Io che deriva
da un minor grado di organizzazione di
quest’ultimo e, dall’altro, da tendenze
aggressive più forti che un Io debole non
riesce a dominare.
L’origine della paura patologica pare
allora essere legata alla pulsione aggressiva.
La paura ha la funzione di segnalare la
forza di tale pulsione in quanto pericolo
che minaccia il soggetto.
I travestimenti della paura
Nel suo percorso verso il travestimento che la renda in qualche modo gestibile
dall’Io, la paura può trasformarsi o in
ansia (e questa in angoscia) o in depressione.
Se la paura si dice tale perché permane
in rapporto diretto con il pericolo che la
provoca, via via che essa si allontana dalla
causa originaria, proprio perché “sconnessa”, “slegata” e “irrelata”, diventa ansia che può ancora mascherarsi ulteriormente dietro il sintomo fobico e/o ossessivo; oppure si fa angoscia, più difficile da
nascondere e “legare” dietro un sintomo
ben definito.
L’angoscia, come già notava Freud,
tende a riprodurre se stessa e ciò che l’ha
fatta sorgere in un estenuante quanto fallimentare tentativo di “abrearla” all’origine.
Stessa dinamica per la depressione.
Se per Freud erano solo l’insoddisfazione sessuale ed i traumi a produrre
angoscia, è da tempo ormai accolta l’ipotesi che ogni stato di frustrazione possa
dar luogo all’angoscia.
Nonostante ripensamenti, Freud non
risolse il problema dell’angoscia e neppure Jung.
Forse perché non venne sufficientemente compresa la natura delle relazioni
esistenti tra aggressività e paura.
La relazione
tra aggressività e paura
Guidati da M. Klein e da S. Nacht,
possiamo ipotizzare che il più remoto
rapporto tra
aggressività e
paura risalga al
mondo infantile neonatale (secondo questa
tradizione psicoanalitica, dai
sei mesi in avanti ).
L’aggressività sarebbe la reazione pulsionale alla mancata soddisfazione di bisogni elementari primari e quindi alla persistenza della tensione.
Il bambino però, sappiamo, non può
esprimere aggressività verso la persona
da cui dipende per la sopravvivenza; quindi nasce la paura della propria aggressività
che condurrebbe all’autodistruzione.
Questa sarebbe la prima paura ed anche la più difficilmente sradicabile.
Da allora in avanti ogni pulsione ag-
gressiva verso l’oggetto di una frustrazione o di un’insoddisfazione rimarrà associata, ancorata alla paura, poiché tale
oggetto verrà confuso dall’inconscio personale che lo identificherà con quello che
fu all’origine delle prime frustrazioni.
Più il bambino reprime l’aggressività,
più la tensione persiste ed aumenta in
quanto l’energia, provocata dall’inibizione dell’aggressività, resta bloccata. E a
questo punto intervengono anche fattori
costituzionali a decidere il grado di disagio psichico futuro: la sopportabilità alla
tensione, la forza dell’istinto…
Masochismo morale (o Depressione)
L’aggressività che non può trovare
sbocco all’esterno viene rivolta dal bambino su se stesso. E qui sta forse la radice
del cosiddetto masochismo morale¹, ovvero la convivenza subita dall’Io con una
sorta di Superego percepito come carnefice e giudice inquisitore.
Il masochismo morale è una figura di
quella condizione psico - fisica più genericamente chiamata “depressione”.
Distinguendo poi la depressione tra
vera e propria patologia e predisposizione
alla condizione “depressiva”, l’unità fondamentale di ogni stato depressivo pare
essere l’accoppiata tra senso di colpa cosciente e notevole riduzione della propria
autostima con diminuzione
provvisoria dell’attività mentale e psico - motoria, nonché delle funzioni or-
ganiche.
Essendo il depressivo un soggetto che
originariamente non ha concluso affermativamente l’elaborazione del lutto (conseguente alla percezione dell’indipendenza
dell’oggetto d’amore: la madre), ne consegue che egli sia tale proprio perché
imprigionato nel limbo della modalità relazionale narcisistica. Ciò significa che
l’oggetto del suo amore deve essere onnipotente, infallibile, buono e sempre pre-
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sente.
Poiché l’oggetto reale non possiede
mai queste qualità, e poiché il soggetto
cortocircuita la relazione in una identificazione introiettiva, l’aggressività per la
frustrazione diventa immediatamente autoaggressività.
Il soggetto si trova a vivere come una
mutilazione di quella che considerava la
parte migliore di sé (l’oggetto buono) e si
trova esposto senza riparo alla potenza
scatenata della sua aggressività e alla messa
in minoranza delle sue pulsioni d’amore.
Anche se non si può negare la validità
dell’ipotesi relazionale, resta ad essa affiancabile la teoria del Freud maturo sulla
primarietà della pulsione di morte, accanto all’altrettanto primaria pulsione di vita.
Anche per l’intensità della sua mani- f e stazione valgono gli elementi fisiologici e psichici già sopra citati.
Da un punto di vista filosofico
esistenziale resta il fatto che ogni
nostra angoscia, ogni nostra depressione,
può essere fatta risalire alla paura che tutti
ci accomuna e che ha un preciso inesorabile nemico: la morte.
Morte voluta dalla madre che non ci
delizia con il latte che vorremmo, morte
voluta dal compagno che ci abbandona,
morte voluta da un Dio paradossale, morte voluta dalla Necessità.
Ma reimmergiamoci nelle profondità,
torniamo verso quelle posizioni intermedie che ci consentono di rimuoverla quel
tanto che basta per continuare a vivere e a
scrivere. Allontaniamoci da linee di confine così inquietanti e perturbanti e torniamo al masochismo.
Masochismo fisico
Accanto al masochismo morale e alla
depressione che salvano sempre gli altri a
proprio discapito, va però segnalato un
altro masochismo: quello fisico.
Se il masochismo morale può affondare le proprie radici in esperienze primarie
e sistematiche di cortocircuito tra frustrazione e aggressività , il masochismo fisico
pare affondare la sua origine in violenze
realmente subite da familiari (non necessariamente la madre) in epoche più evolute della maturazione psico - fisica.
Diciamo “violenze realmente subite”
con ciò intendendo la partecipazione della coscienza del bambino nella relazione
entro cui egli ha subito la violenza (psichica e o fisica).
Se da un lato essa, quando si mostra
con l’evidenza della ferita fisica, ci inquieta e immediatamente ci fa pensare ad un
sintomo di tipo psicotico, è anche vero
dall’altro lato, che questa naturale repulsione all’autodistruttività fisica potrebbe
condurre noi terapeuti fuori strada inducendoci ad un tipo d’intervento che anziché curativo, come nelle nostre naturali
intenzioni, rischia di diventare ulteriormente patogeno.
Non stiamo dicendo che non siano
clinicamente gravi i segnali anticonservativi soprattutto negli adolescenti e nei
giovani, ma stiamo sostenendo che questi
sintomi, confortati dai dati clinici, rimandano ad un’origine e ad un tempo storico
nell’evoluzione del paziente in cui la sua
soggettività ed il suo Io erano già sufficientemente strutturati ed integrati, a tal
punto da non aver potuto né “voluto”
rimuovere la ferita e l’offesa subita (in
genere sessuale o “sensuale”) ma di “scegliere” la sua ripetizione sistematica in un
rituale autoindotto e in un luogo simbolico e reale a tutti visibile: sulla propria
pelle.
Non è un caso che le ferite che i bambini
ed i giovani s’infliggono sono soprattutto
sulle braccia, sulle mani e, infine, anche sul
viso: bruciature con
sigarette, ferite
con cutter, sevizie al pro-
prio viso con le
unghie (quest’ultimo luogo meno
ghiotto perché
meno fruibile visivamente dal celebrante e
destinatario del rito).
La sofferenza delle bambine
E non è un caso che nell’autoaggressività fisica “dimostrativa” primeggino le
donne.
I casi clinici, a questo proposito, evidenziano spesso esperienze infantili remote di abusi e molestie a sfondo sessuale,
sistematiche o episodiche, che vennero
consumate nell'omertà familiare che proteggeva l'adulto (spesso un nonno o una
zia)e abbandonava la piccola bambina.
Lo sviluppo psichico consequenziale
all'esperienza abbandonica comporta il
vissuto di corruzione irreversibile del proprio corpo e della propria anima.
La risposta sintomatica, l'autoaggressione fisica, ripercorre - secondo l'ancora
attuale tentativo freudiano di comprendere la nevrosi d'angoscia, - e ripete la ferita,
l'oltraggio, la profanazione subiti invano
ricercando il capovolgimento del copione: sostituire a quella bambina che è stata
e si è sentita oggetto, il soggetto che a suo
tempo ne ha fatto uso.
E ciò che la bambina non può dire, ella
lo incide a lettere di fuoco nel suo corpo.
La storica identicità donna - oggetto
contribuisce ad amplificare il significato di
questo grido adolescenziale femminile
che non al singolo individuo si rivolge ma
a tutta la società umana.
La sua inscrizione nel corpo si fa sintesi dell'assurda sopravvivenza psichica di
questa corrispondenza donna - oggetto.
Maturità dei giovani
Il potenziale messaggio d’aiuto, tut-
t’uno con un segnale di potenziale maturità comunque presente, può giungere
non solo dagli atteggiamenti concreti, ma
anche dal materiale onirico:
Il giovane sognatore viene accoltellato più volte alle spalle. Senso di morte
imminente. Angoscia terribile. (Si sveglia).
Lo stesso sognatore assiste ad una
scena in cui un suo amico, simbolo di
pensiero e vita superficiali, sta morendo
sotto le coltellate sferrate da un gruppo di
neri. Sconvolto, cerca di soccorrerlo ma
egli stesso resta ferito gravemente. (Si
sveglia).
Seguendo le sue stesse associazioni
che egli ha portato in gruppo: “se nel
primo sono ancora tutt’uno con la mia
superficialità tanto da dover essere attaccato mortalmente dall’inconscio, nel secondo è come potessi meglio
vederla.
E quindi forse è giusto che
quella parte di me così indifferente, qualunquista, superficiale
appunto, debba subire i colpi del
mio inconscio, la banda dei neri,
nonostante la mia angoscia”.
Alcune differenze
Abbiamo altrove segnalato varie forme
autodistruttive: dalla onicofagia alla tricotillomania. La dinamica di fondo riguarda sempre il trinomio “ frustrazione,
paura e aggressività”.
Vorremmo qui introdurre un elemento
di differenza che troviamo abbastanza significativo: l’autodistruttività del corpo
sul corpo e l’autodistruttività attraverso
oggetti extracorporei.
Premesso che in realtà si assiste sempre
a mescolanze di sintomi, proprio per tal
ragione è importante saper discernere tra
gli stessi, quelli che sono o possono essere
intesi come messaggi più densi di presenza soggettuale, seppure con altrettanta e
proporzionale densità di dramma, da quelli
più primari e primitivi.
Va da sé che stiamo trattando fenomeni di “piccolo” masochismo (attraverso
cui ci si procura ferite superficiali a connotazione “dimostrativa”).
E utilizziamo il termine “masochismo”
proprio perché nella “detensione” che
questo sintomo, quale rito dimostrativo,
provoca, si realizza quello stato confuso
di piacere e senso di colpa latenti che tanto
incoraggiano e rendono credibile (i dati
clinici sembrano confermarlo) la relazione con aspetti pregenitali della vita sessuale.
Noi ipotizziamo che là dove sia presente il masochismo fisico, ci sia anche il
ricordo dell’evento traumatico più
facilmente riaffio-
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rabile o mai andato perso.
Ipotizziamo anche che, quando si tratti
di masochismo tramite uso di oggetti,
possa esserci una facoltà di premeditazione, in cui si esprime perversamente la
capacità della mediazione.
Sappiamo che non è tanto il ricordo
dell’evento drammatico, né l’isterico ossessiva “premeditazione” gli aspetti sui
quali deve svolgersi il lavoro analitico:
questo deve tenersi saldo al processo che
può rendere dicibile l’indicibile, attraverso la costruzione di un rapporto psicoanalitico in cui il paziente o più spesso la
paziente possa respirare quella fiducia che
lo condurrà all’affidamento e dunque al
superamento, più che della rimozione,
della vergogna e del senso di colpa per
voler dire a qualcuno finalmente il “grande segreto”.
Nella maggior parte del masochismo
fisico c’è ciò che vuole essere svelato ma
che deve restare velato.
L’importante è non cascare nella trappola, ossia non cedere al lato psicotico,
alla gravità dell’”acting –out” esibito, ma
sapere che esso può essere l’urlo silenzioso di una soggettualità che è solo imbavagliata da una patologica omertà affettiva.
Interdipendenza dei fenomeni
psichici e dei fenomeni endocrini
La paura della propria aggressività e la
percezione della propria aggressività producono alla lunga effetti di estrema importanza: le funzioni dell’Io tendono ad
esaurirsi nello sforzo di eliminare un’energia pulsionale che non riescono ad integrare e che finisce anzi per disorganizzarle. La loro azione ne risulta turbata sia per
ciò che concerne la risposta alle esigenze
della realtà esterna, che per ciò che attiene
alle pulsioni provenienti dall’inconscio. Si
formerebbe così una sorta di Io debole:
dalle varie difficoltà di adattamento e di
ideazione fino alla disintegrazione quasi
totale della personalità.
C’è da sperare che anche le ricerche in
campo fisiologico possano dare un contributo per fenomeni tuttora oscuri.
Alcune ricerche (Selye) pare abbiano
mostrato che la paura può agire sull’organismo al pari di un qualsiasi agente traumatizzante come ad esempio, un shock
fisico esterno, e può scatenare, al pari di
questo, le medesime reazioni funzionali
producendo eventualmente le medesime
lesioni.
Secondo le ricerche di M. Ribble nel
bambino che non resti a sufficiente contatto con la madre si assiste ad un certo
irrigidimento muscolare diffuso accompagnato da una diminuzione del ritmo e
dell’ampiezza della respirazione, fenomeno che indica che questo stato ansioso
potrebbe essere la risposta alla frustrazione e all’aggressività che questa scatena.
Si registra inoltre una carenza d’ossigeno nella circolazione sanguigna particolarmente al livello della circolazione
cerebrale.
Si vede, così, come l’ansia conseguente ad una frustrazione affettiva possa esercitare un’azione perturbante sul nutrimento
delle cellule e dunque sullo sviluppo e
sulla maturazione dei centri nervosi.
Ora, i centri nervosi e soprattutto i
centri subcorticali svolgono un ruolo d’importanza fondamentale a livello dell’apparato nervoso generale preposto all’integrazione delle forze pulsionali che a
tutt’oggi parrebbe costituire la sede somatica delle funzioni dell’Io.
Alcuni aspetti
dell'Io debole
Posto l’Io come insieme di funzioni, se
le funzioni e lo sviluppo dell’Io possono
dipendere dalla maturazione di certi apparati fisiologici, possiamo chiederci se non
sia ugualmente probabile l’azione inversa.
Si potrebbe concludere che la debolezza dell’Io è determinante in tutti i processi
psicopatici anche quando abbiano un’origine, per così dire, puramente organica.
Le principali conseguenze dell’Io debole si manifestano come:
-incapacità totale o parziale di integrare le forze pulsionali provenienti dall’inconscio e di utilizzarle rielaborandole (debolezza della personalità);
-incapacità totale o parziale di distinguere il segno dell’aggressività, se positiva o negativa, con conseguente inibizione
permanente e totale dell’attività;
-incapacità di ridurre
l’ambivalenza profonda e
quindi di instaurare rapporti
affettivi durevoli;
-incapacità totale o parziale di sopportare frustrazioni senza reazioni aggressive e regredite.
L’eccesso di paure primarie predisporranno il bambino a mal tollerare
le altre; quindi anche il conflitto edipico.
Il bambino, trovandosi in una situazione di rivalità e gelosia che potrebbe scatenare un’aggressività troppo temuta, cercherà di evitarla con un atteggiamento di
estrema passività che potrebbe condurlo
alla personalità omosessuale.
La paura di perdere l’oggetto amato e
la paura della castrazione sono precisamente i due poli dell’angoscia ed entrambi
sono intimamente connessi a reazioni aggressive.
L'analisi
come “correttivo”
dell’Io primario debole
La situazione che si crea attraverso il
rapporto analitico, ed in particolare attraverso il cosiddetto “transfert”, offre innanzitutto al paziente, in un’atmosfera
necessariamente frustrante, la possibilità
di “agguerrirsi”, di imparare gradualmente a vincere la paura in seguito ad ogni
impulso aggressivo.
I rapporti fra il paziente ed il suo analista riproducono, “inizialmente” e a grandi linee, i rapporti esistenti a suo tempo fra
il bambino ed i suoi genitori, ma il clima in
cui ciò avviene è completamente diverso e
l’atmosfera affettiva che lo caratterizza
deve permettere al paziente di ritrovare
progressivamente quella sicurezza minima che gli è indispensabile. E’ infatti
grazie a questa atmosfera che le paure di
un tempo possono essere rivissute, divenire consce e quindi eliminate e che l’Io
può trovare infine la possibilità dapprima
di padroneggiare e poi di integrare utilmente le forze provenienti dalle pulsioni
aggressive.
La cura psicoanalitica come
esperienza biologica
Il paziente arriva a rinunciare a comportamenti che gli erano familiari e arriva
ad adottarne dei nuovi che fanno perno,
inizialmente, sulla persona dell’analista,
per poi proseguire velocemente in sufficiente autonomia critica ed autogoverno.
Non crediamo ci sia da stupirsi avanti
all’ipotesi seguente: che a fronte dell’eliminazione della paura latente, s’inscrivano simultaneamente delle modificazioni
nelle funzioni endocrine. S. Nacht ne parlava già più di trenta anni fa e ci piace qui
ricordare la sua definizione della “cura
analitica” come di un’esperienza biologica e della paura come nucleo unico di
ogni elemento patogeno. Si potrebbe così
tentare di riassumere il suo pensiero sull’argomento fin qui svolto:
-non esistono una paura e un’aggressività soggettiva ma paura e aggressività primarie ossia “organiche” (parrebbe essere una
teoria contro la presunta
“scelta” della malvagità umana);
-la paura turberebbe lo sviluppo del
sistema fisiologico;
-l’analisi viene intesa come esperienza
correttiva dei disturbi funzionali con rispecchiamento nel sistema fisiologico.
Se compariamo gli atteggiamenti bio simbolici in area psicoanalitica, come per
l’appunto ha testimoniato S. Nacht, con
gli atteggiamenti bio - simbolici della
biologia più moderna (secondo la quale
non sarà la fisiologia ma il simbolo a
guidare futuri cambiamenti evolutivi nella
specie umana), ne deriva una speranza più
solida sulle potenzialità trasformative della scienza psicoanalitica che potrebbero
darle vita socialmente necessaria spostandola da quell’area angusta in cui essa
stessa si è spesso autoreclusa per non
rischiare azzardate quanto vitali “contaminazioni”.
1) S. Nacht – La presenza dell’analista – ed.
Astrolabio .
A.C.
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RICERCHE
Il fantasma
“...é l’errore che nasce da se stesso, il terrore paralizzante di quell’inafferrabile non-essere,
che non ha forma e divora i limiti del nostro pensiero” (*)
Dal greco phàntasma: “apparizione”.
Viene spesso indicato come “ombra, spettro, soprannaturale di solito malefico, immaginato dalla fantasia popolare”, oppure: “immagine non corrispondente a realtà, simulacro ingannatore, cosa inesistente, illusione, puro prodotto di fantasia.”
Se con la fantasia si può volare, per
quanto riguarda il fantasma, nell’immaginario collettivo, è solo lui a volare e a
spaventarci.
In filosofia incontriamo il fantasmatismo: concezione psicologica e gnoseologica secondo cui ciò che viene percepito
non è che il fantasma, appunto, della realtà. Proprio come nel mito della caverna di
Platone. Vi si può far rientrare anche la
dottrina di Democrito nonché di certe
scuole moderne che vi sono approdate
attraverso una sorta di commistione tra
idealismo e sensualismo.
In psicoanalisi fantasma “è un termine
freudiano che indica la scena immaginaria in cui il soggetto è presente come
protagonista e come osservatore, in cui
si realizza l’appagamento dei suoi desideri inconsci”.
Intimamente collegato al desiderio
(Freud parla di fantasma di desiderio) e al
contempo al suo opposto (il divieto), il
fantasma è il luogo di processi difensivi
per lo più primitivi, come la proiezione e
la conversione nell’opposto.
La dimensione del fantasma è il luogo
del rischio mortale che corrono i grandi
sogni dell’umanità, quando essa, non riuscendo ad affidarsi a se stessa, preferisce
brancolare nel buio della propria istintualità conservativa.
Il fantasma è una metafora che l’uomo
ha creato con la sua fantasia per evocare
realtà interiori e soprasensibili, dove il
gioco tra realtà e apparenza tocca corde
profondissime che coinvolgono il senso
dell’esistenza e la mancanza di sicurezze.
Laudisi in “Così è se vi pare” di Luigi
Pirandello, parlando con la propria immagine riflessa allo specchio, si dice:
“Il guaio è che, come ti vedo io, non ti
vedono gli altri! E allora, caro mio, che
diventi tu? Dico per me che, qua di fronte
a te, mi vedo e mi tocco – tu, per come ti
vedono gli altri – chi diventi? – Un fantasma, caro, un fantasma! – Eppure, vedi
questi pazzi? Senza badare al fantasma
che portano con sé, in se stessi, vanno
correndo, pieni di curiosità, dietro il fantasma altrui! E credono che sia una cosa
diversa.”
Il fantasma ci rimanda al nostro perderci dentro l’abisso delle nostre singole vite,
smarrendo la percezione universale e facendo del frammento il tutto e del tutto un
incubo notturno.
Il fantasma è l’invisibile consapevole di
sè e della propria invisibilità; simboleggia,
a mio avviso, i diversi livelli in cui l’uomo
può vivere la propria esistenza e l’impossibilità di trovarsi con l’altro nella relazio-
ne contemporaneamente allo stesso livello o nello stesso registro concreto, simbolico, metasimbolico. Il fantasma interessa
dunque la relazione, ha a che fare con la
proiezione ed interessa l’orizzonte clinico, quello psicologico e quello spirituale.
Dal punto di vista spirituale il fantasma
è lo spirito negato quale realtà esistente;
diventando l’Ombra di se stesso, ci spaventa
ma non lo vediamo. A questo proposito
riportiamo il discorso dell’inconscio:
La sognatrice è con altre persone con
cui lavora analiticamente, incontrano un
cane lupo che fa loro da guida e che li
porta in un bosco dove ci sono gli spiriti
delle stesse persone pronti ad incontrarsi.
La sognatrice e i compagni non vedono i loro spiriti e passano oltre.
L’uomo che non si riconosca anche
spirito rende se stesso un fantasma ai
propri occhi.
Dal punto di vista psicologico il fantasma è ciò che la nostra mente crea; è
l’incoscienza della ragione, sono i pensieri
senza realtà che ci portano via dalla vita.
Da un punto di vista clinico, il sentirsi
un fantasma produce l’urlo di dolore che
esce dalla bocca di chi viene investito dal
vissuto psicotico: è la frantumazione del
soggetto come persona, è la sua morte, è
l’irrealtà di tutta l’esistenza.
In tutti e tre i livelli il fantasma simboleggia qualcosa di negativo in quanto non
ha uno statuto di realtà e in ciò è ingannevole, ciò spaventa proprio perché mette in
crisi il nostro bisogno di certezze sensibili.
Spaventa simbolicamente perché denuncia il rischio di ogni novità coscienziale che non siamo disposti ad accogliere.
E’ ciò che ci perseguita, è l’ombra che
trova nell’irreale il suo dominio per farsi
ascoltare.
Il fantasma rimanda al sonno della ragione dogmatica che Goya, nelle sue incisioni, ha così bene colto: esso domina quel
momento psicologico in cui, nella nostra
mente, galoppano fantasie sul reale che
denunciano la nostra assenza.
Il fantasma ci richiede un gesto concreto per sparire, per non inseguirci più, ci
richiede di non scindere, di passare ad
altra logica rispetto a quella “naturale”,
come suggeriscono i sogni già da tanto
tempo; come pure le usanze primitive
australiane ricordate da Freud, in cui i
vincitori avevano cura di chiedere scusa al
morto, da loro ucciso, per non essere
inseguiti dal suo spettro.
Jung ci fa notare come l’atteggiamento
di tranquilla curiosità di Faust davanti ai
fantasmi antichi della Notte di Valpurga
sia dovuto all’aiuto di Mefistofele, simbolo dell’intelletto, considerato dunque come
il male e come il “figlio del caos”.
Sappiamo che l’intelletto “separato”,
ossia l’intelletto che perda il contatto con
l’inconscio si vota all’impotenza, allo “sradicamento” del pensiero e dunque all’atteggiamento di sfiducia verso se stesso in
quanto percepisce, a un qualche livello, un
anello mancante nella relazione con la
“realtà” sicché non si fa mai persuaso delle
sue attività e relega se stesso nel fantasmatismo.
Il fantasma è anche, a mio avviso,
l’espediente attraverso cui l’inconscio non
ci permette di dimenticare la scissione che
nel nostro quotidiano operiamo tra la vita
e la morte.
Già nell’Alto Medio Evo, la Chiesa si
preoccupava della credenza secondo cui i
morti possono tornare al mondo per visitare i loro parenti; i padri della Chiesa
reputano le credenze popolari sull’opposizionismo degli spiriti sopravvivenze del
paganesimo.
Anche S. Agostino sbarra la strada, da
un punto di vista cristiano, ai fantasmi.
Il fantasma nella letteratura ha spesso
segnalato un disagio esistenziale dell’umanità; da Goethe a Pirandello il fantasma è
stato spesso un soggetto affascinante per
la letteratura dell’orrore, per le storie del
terrore; oggi la paura del fantasma viene
esorcizzata deridendolo in film come
“Gostbuster”, addolcendolo in film come
“Casper”, o rendendocelo romantico in
film come “Gost”.
In Amleto il fantasma del padre, chiedendo vendetta per la propria morte, dà
coraggio alla follia del cuore di Amleto.
Il fantasma ci rimanda alla domanda
esistenziale per eccellenza che nella filosofia antica coinvolgeva l’essere e nella
modernità l’uomo: essere o non essere?
Questo è il problema, o questo è il problema di un’umanità fantasma che non sa?
Nel Golem di Meyrink il protagonista
rifiuta l’iniziazione respingendo dal fantasma i grani perché lo riconosce fantasma.
Ma che differenza c’è tra il fantasma e
lo spirito? Forse il dramma del fantasma è
che appare anche se non esiste; il dramma
dello spirito è di non essere visto pur
esistendo.
L’uomo non può fare a meno di recuperare una dimensione soprannaturale,
(senza limiti, misteriosa ma consapevole)
dimensione a cui il fantasma rimanda denunciando i limiti della propria.
C.A.
(*) Gustav Meyrink - Il Golem
12
RECENSIONI
L'empatia psicoanalitica
in un lavoro di Stefano Bolognini (*)
In questo lavoro Bolognini esplora il
concetto di ‘empatia’ (einfühlung) cercando di fare chiarezza, evitando facili
mistificazioni ed evidenziandone criticamente il troppo frequente “alone semplificante, buonistico, dolciastro e confusionale” che sfocia in quella degenerazione
che egli chiama ‘empatismo’.
Ne emerge un concetto più sano di
empatia che prevede “separatezza e differenziazione, attenzione e capacità di mantenere operante il pensiero teorico”.
E’ una riflessione estremamente stimolante, ricca di riferimenti teorici e bibliografici e al contempo vivacizzata da stralci
di ‘diario clinico’ in cui l’autore, mettendosi direttamente in gioco, ci accompagna nel vivo di ciò che concerne l’essere
immersi in una seduta psicoanalitica.
La bellezza di questo lavoro consiste nel
nominare in maniera diretta e il più possibile
‘semplice’, qualcosa di estremamente complesso, che riguarda il ‘sentirsi’ dei due
soggetti coinvolti nel processo analitico,
sviluppando una riflessione profonda e coraggiosa, che non cede alla tentazione di
una qualche esaustività.
L’empatia psicoanalitica dunque, tema
centrale di questo lavoro, è argomento
delicato e complesso, in quanto mette in
gioco, nel realizzarsi del processo analitico, il prezioso intrecciarsi di due mondi
interni che entrano in contatto profondo.
La disposizione empatica dell’analista,
quale autentica capacità di sentire l’altro
‘dal di dentro’, ne è quindi una variabile
determinante.
tra loro che avviene a vari livelli di scambio (verbale e non verbale) tra i due.
Costruire tale rete empatica è lavoro
lungo e paziente, che si apprende nel
tempo, non potendo essere ‘insegnato’.
Il maggiore ostacolo che l’analista deve
affrontare in seduta sembra essere la paura dei propri sentimenti e delle proprie
emozioni, il che attiva difese (tra cui l’identificazione) per eluderli: questo può ostacolare o impedire l’ascolto empatico.
Identificazione ed empatia
Mentre l’identificazione è un meccanismo che mettiamo in atto per evitare sentimenti di angoscia, colpa o perdita, prendendo la scorciatoia della (con)fusione tra noi
e l’altro, l’empatia serve piuttosto a sentire
e comprendere queste condizioni interne.
La differenza fondamentale sta nel livello di consapevolezza presente: chi si
identifica normalmente non ne è conscio,
mentre chi empatizza sì. Quindi, mentre
l’identificazione è un processo prevalentemente inconscio, l’immedesimazione
empatica accade invece a livello conscio e
preconscio, è un evento transitorio e non
sostitutivo, pertanto prevede la consapevolezza della separazione.
Ciò permette di imparare ad entrare ed
uscire dall’atteggiamento empatico.
Infatti, citando Kohut, “se non è dotato
di empatia, l’analista non può percepire e
raccogliere gli elementi di cui ha bisogno;
ma se non sa andare al di là dell’empatia,
non può stabilire ipotesi e teorie, e in
definitiva non può arrivare a una spiegazione dei dati osservati”.
Bolognini non manca di citare autori
(Ping-Nie Pao) che ne hanno evidenziato
l’aspetto di reciprocità: sia colui che desidera essere capito che colui che desidera
capire devono partecipare attivamente all’esperienza: ciò fa sì che si stabilisca una
intricata rete di comunicazioni connesse
E’ pur vero che, se non può controllare
il proprio sentire, nè può decidere i propri
affetti, l’analista può però imparare a riconoscerli e utilizzarli come risorsa.
Ma finché non li accoglie per quello che
sono, l’analista rischia di mettere in atto
un’empatia inautentica e forzata. Il controtransfert, a differenza dell’empatia, scaturisce da un settore conflittuale della personalità dell’analista, che si attiva nella
relazione col paziente, facendo vibrare
emozioni che, in quanto non ancora elaborate, tendono all’agito.
L’empatia dunque costituisce l’esito
finale armonico di un processo, che può
passare attraverso vissuti controtransferali, mentre l’esperienza controtransferale è un passaggio, spesso necessario ma di
per sé non sufficiente, per avvicinarsi alla
condizione empatica.
Ciò evidenzia la condizione complessa, articolata e poco decidibile dell’empatia psicoanalitica: ci si può arrivare grazie
a molto tempo, molta pazienza e molto
lavoro.
Empatia e controtransfert
Il fantasma della neutralità dell’analista, quale garanzia di professionalità e di
scientificità è un’ombra che ha accompagnato la psicoanalisi fin dal suo sorgere.
Imparare a mettere in ballo la propria
vita affettiva, a coinvolgersi sul piano del
sentire profondo comporta il reggere un
lutto profondo: la caduta dell’arcaica illusione onnipotente di poter controllare i
propri affetti fino a poterli decidere.
Empatia e condivisione
Bolognini sottolinea inoltre come serpeggi tra gli analisti contemporanei il rischio di un pericolosa ‘retorica della condivisione’, mentre è risaputo che in psicoanalisi tutto ciò che è troppo intenzionale
e programmatico è a forte rischio di inau-
tenticità e di fallimento.
Come l’empatia anche la condivisione
non può ‘essere decisa’ a priori: si può
solo essere più o meno attenti all’imprevedibilità del suo accadere.
Il rapporto tra condivisione ed empatia
consiste nel fatto che “l’empatia costituisce, quando le cose vanno particolarmente bene, l’esito integrativo maturo del
processo di comprensione, allorchè si organizzano un sentire e un pensare armonicamente comuni, di cui la condivisione è la
necessaria premessa grezza, ma non il
prodotto finale, né tanto meno - di nuovo
- la garanzia.”
Empatia ed empatismo
Per entrare davvero in empatia, evidentemente, è necessario uscire dal buonismo e disporsi a contattare anche sentimenti sgradevoli, che sfiorano l’odio e
l’ostilità, o riconoscere umilmente di ‘non
riuscire a sentire’ l’altro, pena il cadere
nell’illusione di un contatto proprio mentre invece lo si sta evitando.
Rinunciare a sentirsi ‘un analista buono’, insomma, per poter eventualmente
diventare ‘un buon analista’.
Evidentemente l’autore, a differenza di
alcuni psicologi del Sé, tende a vedere
l’empatia come una meta, più che come un
metodo del processo psicoanalitico.
Là dove non sono state viste e superate
residue illusioni narcisistico onnipotenti
da parte dell’analista, si può incorrere in
incongruenze teoriche (circa il ‘dover essere empatico’) che possono derivare da
un cattivo uso di questo concetto fino a
cadere nel suo prodotto degenerativo che
viene qui chiamato empatismo.
In esso l’analista tende a sforzarsi di
essere empatico al di là del suo reale ed
effettivo coinvolgimento inconscio nelle
vicissitudini della relazione analitica, immerso in un pericoloso autocompiacimento, rischiando così di perdere la capacità di
riflettere su ciò che realmente prova, di
osservare e di attendere gli sviluppi della
vicenda analitica stessa.
Una tendenza al controllo, insomma.
In conclusione non possiamo che concordare con Bolognini nell’affermare che
la vera empatia non è una marcia che si
può ingranare a comando: l’analista può
tentare di disporsi alla recettività empatica, ma nulla di più. E’ la meta di un
processo che va al di là dell’Io.
Non a caso la comprensione empatica
vera spesso si realizza solo dopo periodi
anche lunghi di non comprensione e di
confusione, durante i quali all’analista
spetta il compito di restare in posizione di
ascolto fiducioso, senza per questo cadere nello sforzo coatto di ricercare il contatto a tutti i costi.
(*) L'empatia psicoanalitica Stefano Bolognini
Boringhieri 2002
A.G.
13
MITI E LEGGENDE
Gnomi, Elfi... & Co.
“Sono molto meravigliato di sapere che c’è gente che non ha mai visto uno gnomo. Non posso fare a meno
di provare compassione per costoro. Qualcosa non va. Certamente la loro vista non funziona bene.”(*)
Gnomi, folletti, elfi, silfidi e fate... sono
questi i personaggi di tante fiabe che hanno popolato la fantasia di quando eravamo bambini.
Paracelso ed Elephos Levi dividono il
piccolo popolo fatato in spiriti della terra,
dell’acqua, dell’aria e del fuoco.
Il popolo dei boschi esiste sulla Terra
da molto tempo prima dell’uomo. Egli ha
condiviso con gli animali e le piante il
pianeta per molti lustri. Poi sono arrivati
gli uomini, numerosi e pieni di esigenze e
il piccolo popolo si è ritirato negli angoli
più tranquilli dei boschi e delle foreste.
La parola “elfo” viene dal latino “Albs”
che vuol dire bianco. Il nome venne attribuito dalla tradizione germanica; è nei
paesi del nord che essi sono più frequenti.
Gli Elfi sono in genere alti, chiari di
pelle ed emanano un’intensa luce lunare
che si affievolisce nei momenti di pericolo, e si intensifica se sono molto felici o
arrabbiati.
Nelle grandi foreste del Nord è possibile incontrarli, ma è difficile vederli perché,
se è vero che sono luminosi, è anche vero
che si mimetizzano molto bene.
Ci sono molti tipi di Elfi, come ci sono
molti tipi di gnomi, fate, folletti e altro.
Anche gli gnomi sono personaggi importanti della mitologia nordica. Oggi sono
quasi dimenticati ma, in passato, erano
membri ben integrati nella società degli
uomini: circolavano per le strade ed era
normale che aiutassero o ostacolassero gli
uomini a seconda dei loro meriti.
Gli gnomi lavorano di notte nei boschi
o, in campagna, nelle case degli uomini.
Abitano spesso nelle travi dei grandi granai e, se trattati bene, danno un’occhiata al
bestiame ed al raccolto. Proteggono dagli
influssi malefici, dai trolls e dagli spiriti
maligni.
Nell’immaginario popolare lo gnomo
ha l’aspetto di un nano, spesso barbuto; è
custode delle miniere e degli spiriti della
terra. Da quando l’uomo è diventato padrone assoluto della Terra, infatti, gli
gnomi sono stati costretti a ritirarsi in
angoli nascosti, spesso sotto terra, dove si
tengono ben lontani dalla nostra vista.
Le fate, altre creature del popolo fatato, sono conosciute dai bambini di tutto il
mondo. Recentemente, con il film “Pinocchio” è tornata in auge la nota Fata Turchina, buona, dolce e leggiadra, capace di
compiere incantesimi, come tutte le fate
che si rispettino.
E’ curioso soffermarsi sull’etimologia
delle parole. Fatale, per esempio, viene
proprio da fata ma ha una connotazione
perloppiù negativa. Significa infatti “voluto dal fato”, dal destino, e si riferisce
spesso a eventi tragici, imprevedibili quanto drammatici.
Fata Morgana, personaggio importante della storia in chiave mitologica di Re
Artù, compagna e “collega” del Mago
Merlino, è un termine usato per indicare
un fenomeno ottico dovuto alla riflessione
e rifrazione della luce per cui gli oggetti
appaiono capovolti nell’aria: un vero incantesimo! Figurativamente sta ad indicare una vana speranza, un’illusione.
Ora, per tornare ai nostri piccoli esseri,
Yeats li descrive come “angeli caduti in
peccato, nè buoni abbastanza per essere
salvati, nè cattivi al punto d’essere dannati.” In questo li sento molto simili agli
uomini...
Molti sono gli aspetti per cui si possono ritenere angeli caduti, fra questi: la loro
natura volubile, la loro estrosità, il loro
modo di essere buoni con i buoni e cattivi
con i cattivi, la loro mancanza di responsabilità, l’instabilità di carattere che mostrano.
Il piccolo popolo fatato è fatto di creature estremamente suscettibili: bisogna
assolutamente evitare di parlarne spesso e
non desiderano che si conosca il loro
nome. Ma sono anche molto facili da
compiacere: basta solo lasciar loro, in
qualche nascondiglio, un po’ di latte o un
po’ di cibo, e faranno ogni cosa per tenere
lontano dai loro amici, gli uomini, ogni
sventura.
Sono angeli caduti, ma senza malizia di
peccato per cui non furono dannati; vivono nel mondo visibile, come gli uomini,
senza far parte nè del cielo nè della terra,
e non hanno una forma propria ma mutano
a seconda dell’umore e del capriccio del
momento.
Il loro mondo è quello del sogno, in
questo ci appaiono, ci parlano, agiscono
per noi. Il loro mondo è fatto di feste, di
lotte, d’amore e di musica.
Nell’ambito della loro vita sociale sono
soliti celebrare tre feste all’anno; la festa
di maggio, quella di mezza estate e la festa
di novembre.
A maggio escono all’aperto e benedicono le sementi germogliate.
A San Giovanni, quando i falò sono
accesi, fanno fiorire le miniere d’argento.
A novembre si scaldano al fuoco degli
uomini e possono predire il futuro.
Ma perché, pur somigliando tanto agli
uomini e pur nella loro ambivalenza, non
ci è mai dato di vederli?
Forse perché, come afferma Paracelso,
“gli spiriti in genere provano avversione
per le persone presuntuose e ostinate come
i dogmisti, gli scienziati, gli ubriaconi e gli
ingordi e per ogni persona volgare e litigiosa; amano invece i semplici, innocenti
e sinceri. Quelli che conservano un animo
infantile. Solitamente da costoro si lasciano avvicinare, ma con difficoltà, perché
sono timidi come gli animali del bosco.”
La fondatezza di questa antica ipotesi
ci arriva da una testimonianza onirica che,
proprio come una favola, sa regalare profonde emozioni:
Atmosfera fine Anni Cinquanta. Una
spider di quei tempi, un gruppo di giovincelli che evoca la “Gioventù bruciata”
del film di James Dean, s’avvicina ad un
casolare situato ai margini della città. La
porta d'ingresso fa mostra di sè in cima
ad una discreta, agevole e tondeggiante
scalinata. Essa dà su di un' ampia area
sterrata priva di recinzioni.
Si sapeva che in quel casolare periferico vivevano persone pericolose. Erano
orchi. Nessuno osava avvicinarvisi.
Ma con l’incoscienza della gioventù,
la baldanza del sentirsi in “branco” e in
“banda”, protetto dal mezzo motorizzato
regalato ad uno di loro con ricca negligenza paterna, il gruppo, in macchina , si
avventura fino avanti alla casa compiendo prodezze acrobatiche automobilistiche ed impestando l'aria di osceno rumore e ancor più oscena tracotanza...
Infine i ragazzi scendono e, più per
sfida reciproca che per sfida verso l'interlocutore esterno, provocano gli abitanti. Esce il capo orco e quelli, presi
dalla paura che si fa subito terrore, risalgono a bordo e mettono in moto. Solo uno
di loro resta e si lascia avvicinare dall’orco che, stupito, gli chiede: “perché
non hai paura?” e il giovane di rimando
“perché in ciascuno di noi c’è un orco e
tu non mi sei estraneo”.
L’orco, stupito, rientra. Tutti i suoi
compagni sono seduti, per il desco, attorno a un lungo tavolo.
Egli non si siede ma va avanti ad uno
specchio appeso alla parete antistante la
fine di una scala che collega i diversi
piani della casa . Si guarda e si vede nel
suo infinito orrore. E di orrore e dolore
urla continuando a guardarsi e intanto la
sua faccia si fa fiamma che arde.
E la fiamma si trasforma in un bellissimo volto di uomo.
(*) A.Munthe
L.O.
14
RICERCHE
La Pietra Filosofale
Il lapis, capace di trasformare in oro tutti gli altri metalli, nonchè l’elisir di lunga vita,
che avrebbe dovuto dare all’uomo il dono dell’immortalità.
Nel Rinascimento l’alchimia, già viva
presso gli Arabi e largamente praticata nel
Medioevo, si diffuse in tutta l’Europa.
Con le sue effettive scoperte essa preparò
l’avvento della chimica moderna.
Le ricerche degli alchimisti erano tutte
dominate dalla speranza di trovare la pietra filosofale, il lapis, capace di trasformare in oro tutti gli altri metalli, nonché
l’elisir di lunga vita, che avrebbe dovuto
dare all’uomo il dono dell’immortalità.
Nonostante l’illusorietà di tali speranze,
l’ideale di una sempre maggior potenza e
del dominio dell’uomo sulla natura agivano profondamente sulla mentalità degli
scienziati di quel tempo.
L’idea di una trasformazione dei metalli non era “campata in aria” in quanto
tale possibilità non urtava contro nessuna
delle cognizioni scientifiche del tempo e
aveva gli stessi scopi che si propone oggi
la sintesi chimica che prevede e controlla
il raggruppamento molecolare di sostanze
diverse.
Secondo le aspettative del tempo chi
fosse riuscito a trovare la pietra filosofale
non solo sarebbe diventato l’uomo più
ricco del mondo, ma avrebbe anche
goduto di perpetua giovinezza e salute.
Eppure, come osserva Jung attraverso lo studio comparato di miti e
antichi testi, l’alchimia, archetipo dell’Anthropos, illustra quella stessa fenomenologia psichica che il terapeuta
osserva durante il confronto con l’inconscio.
Il simbolismo alchemico è l’emblema di quel fenomeno noto non solo in
ambito psicoanalitico ma anche nei
normali rapporti umani: la traslazione.
Vi sono stretti rapporti tra l’alchimia e
la psicologia dell’inconscio ed è nella
proiezione - emergente nelle relazioni
- che l’inconscio si manifesta, attraversando le sue tappe per giungere al
compimento dell’Opus (l’unione).
Nel Medioevo, attraverso l’opera
degli alchimisti, si mette a fuoco per la
prima volta in modo chiaro il desiderio
dell’uomo di oltrepassare i limiti imposti
alla natura umana; l’alchimia, in questo
senso, anticipa e prepara l’avvento della
moderna civiltà.
Sull’onda di tale profondo desiderio
che, com’è noto, C.G. Jung interpreta
simbolicamente come cammino interiore
alla ricerca del Sè, anche sul finire del
Cinquecento, quando il metodo sperimentale aprì alla scienza nuove vie, l’alchimia
continuò a godere di una notevole fama e
ad offrire a strane figure di avventurieri la
possibilità di rapidi arricchimenti e di gigantesche truffe a danno di principi e
nobili piuttosto ingenui.
L’idea delle enormi ricchezze che la
pietra avrebbe potuto dare colpiva, infatti,
a tal punto l’immaginazione che gli alchimisti ricevettero, al pari degli artisti, denaro e ospitalità presso governi desiderosi di
incrementare la loro potenza.
Molte persone di talento credettero
fedelmente nella reale possibilità di ottenere l’oro: la regina Cristina di Svezia, ad
esempio, ma anche personalità di grande
prestigio come il filosofo Bacone o il
grande matematico e filosofo Leibniz ebbero, su questo argomento, convinzioni
fermissime.
Jung ha trattato il mito della pietra
filosofale facendone l’emblema della psicoterapia. Il Lapis, infatti, la materia prima che gli uomini cercarono inutilmente
per secoli, va rintracciata nell’essere umano stesso.
Per questo gli alchimisti possono essere considerati dei mistici la cui esistenza è
stata dedicata al processo individuativo.
Non si sa fino a che punto fossero consapevoli della vera natura della loro arte. Di
fatto, da un lato correvano il rischio di
errare o d’esser sospettati di pratiche fraudolente, dall’altro rischiavano il rogo destinato agli eretici.
Alcuni, come il famoso Paracelso, furono perseguitati e costretti a lavorare
nell’ombra, altri si arricchirono alle spalle
di principi bramosi quanto ingenui.
Uno dei più noti fu Bragadino che
compì una delle più grandi truffe della
storia ai danni della Repubblica di Venezia. Per ottenere credito invitava centinaia
di persone ai suoi esperimenti.
Dopo che i notabili avevano preparato
il crogiuolo e vi avevano versato le sostanze indicate (carbone, mercurio, ferro
ecc.), Bragadino versava un po’ di polverina nel miscuglio, rimescolando il tutto
con una bacchetta.
Puntualmente, dopo ogni esperimento
il fondo del recipiente era ricoperto di uno
strato di purissimo oro.
Quando il truffatore ebbe accumulato
una ingente somma di denaro, fuggì da
Venezia e di lui non si seppe più nulla.
Molto più tardi fu scoperto l’inganno: la
verga di ferro di cui si serviva per rimescolare, era piena di una sottile polvere d’oro
trattenuta da un tappo che, a contatto col
calore, si scioglieva facendo discendere la
limatura sul fondo.
A differenza di questo disonesto avventuriero, l’alchimista, come il moderno
terapeuta, prende molto sul serio il suo
lavoro che lo porta inevitabilmente a confrontarsi con l’Ombra (fase della nigredo). E’ una situazione difficile che lo porta
al coinvolgimento e alla trasformazione.
Vi sono trattati che analizzano a fondo
la natura dell’Opera. Scrive l’anonimo
autore del Rosarium Philosophorum, intorno al 1500: “...E’ la pietra il Maestro
dei Filosofi... perciò il Filosofo non è il
Maestro della pietra, bensì ne è il servo. Di
conseguenza, chiunque tenti, con l’arte o
con un artificio non naturale, di introdurre
nell’arcano qualcosa che per natura non vi
si trovi, erra e si pentirà del suo errore.”
Commenta C.G. Jung: “ E’ chiaro che
l’artista non procede secondo il suo
capriccio creativo, ma è spinto ad
agire dalla pietra stessa; e questo maestro a cui egli è subordinato non è
altri che il Sè. Il Sè vuol rendersi
manifesto nell’opera, e perciò l’Opus
è un processo d’individuazione o di
divenire del Sè.”
Tornando ai giorni nostri e tentando un parallelismo tra le pratiche mistiche dell’alchimista e i miti moderni
di redenzione, mi chiedo a cosa può
corrispondere, oggi, la ricerca della
pietra filosofale.
Cosa cerca, oggi, l’uomo? Quali
sono le sue mete più ambite? Quali le
truffe, i nuovi giochi di prestigio??? ...
Nella sua variante ombrosa, al negativo, il nuovo mito che illusoriamente sembra garantire potere e felicità eterne, è il denaro, mentre nell’aspetto etimologico positivo del religere la ricerca è quella che, da sempre,
muove lo spirito umano, oltre le colonne
d’Ercole, nella vita di ogni giorno.
E’ la ricerca di Dio, dell’anima, del
benessere interiore e della serenità. E’ la
ricerca della salute, del giusto e del bene
non solo personale.
E’ ricerca che si dà attraverso il confronto autentico con l’ombra e la conflittualità che, pur lacerando la coscienza,
ogni volta, reintegrandosi in un terzo punto, superiore, contribuisce, dopo la coniunctio, la morte e la fermentatio, all’ascesa dell’anima ed alla purificatio di
una coscienza rinnovata, nella percezione
dell’essere e del divenire umano.
L.O.
15
Stream of Consciousness
In memoria di Giangy
Una sensazione di grande turbamento
mi assale.
Poi scoppia il dolore misto a commozione per un pezzetto di vita passata che
torna a toccarmi svegliandosi in me.
Non so perché ma ho come la sensazione che la morte non ti abbia colto di
sorpresa: come tu sapessi che stava arrivando. Come lo sapessi anch’io.
Poi d’un tratto, all’improvviso, esplode un dolore sordo, potentissimo; mi annichilisce mentre scoppio in un pianto che
temo possa non fermarsi mai più.
Evocazione del medesimo antico dolore, dolore di morte, dolore di vita. Dolore.
D’un tratto è come capissi chi sei stato
per me ed è come temessi di non averti mai
compreso, mai accolto veramente. Eppure a mio modo so di averti molto amato.
Sei stato l’incarnazione del male di
vivere, la testimonianza vivente del male
che la vita comporta, non di un male
particolare: il male che abita l’umano vivere.
Non hai mai tollerato chi legge all’affermativo la vita perché da costoro ti
sentivi negato. Eppure hai sempre provocato dialetticamente chi afferma la vita
perché ne avevi bisogno: non ti è mai
bastato chi ti dava ragione, chi era come te
disperato.
Sei la persona che più ho sentito vicina
quando sono stata disperata anch’io; non
hai mai cercato di consolarmi: sapevi stare
lì, accanto al mio dolore, come sei sempre
stato inesorabilmente accanto al tuo, senza contrapporvi nulla.
Mi domando quanto ti ho dovuto rimuovere per tornare a sentire la gioia della
vita. Ho cercato di dimenticarti, di prendere distanza da quella fetta di vita che mi
aveva schiacciata nella disperazione, nella
negatività, in quella che mi pareva esplicita voglia di morire.
Mi è sembrato di doverti dimenticare
per ritrovare la gioia, il sorriso, la leggerezza.
Poi sei tornato nei miei sogni, inaspettatamente solare, intimamente vicino: figura dolce; sei tornato nei miei sogni con
un’insistenza tale che mi ha costretta a
venirti a cercare, a rimettermi in contatto
con te, dopo tanti anni.
Così è ripreso, 4 o 5 anni fa, il nostro
dialogo, per lo più epistolare, qualche
volta telefonico.
Oggi capisco che il bisogno era reciproco: tu di contattare quella fiducia che
io ho avuto l’intento di ritrovare, io di
recuperare la realtà di quella disperazione, di quel non senso che è parte dell’esistenza e che tu continuavi ad incarnare.
Molto spesso ho risposto alle tue provocazioni ma, oggi mi accorgo, con un
filo di giudizio, forse, che non sono mai
riuscita a superare del tutto: come fossero
state, le nostre, due scelte diverse.
Ma è poi davvero così? Abbiamo davvero scelto?
E’ stata tutta disperazione la tua? E’
davvero tutta fiducia la mia?
Oggi come non mai ci sento, entrambi,
profondamente uno.
Sento e riconosco in me la disperazione che ho interpretato essere tua; hai mai
sentito in te la fiducia che interpretavi
essere mia? Non c’è stato in entrambi,
forse, un riconoscersi complementare?
Sei sempre stato attratto da ciò che al
contempo giudicavi: la psicologia, quella
scienza dell’umana mente che, come ti
piaceva sottolineare, mente continuamente.
Spesso mi hai provocata proprio su
questo aprendo vivaci dialoghi.
E torna in me l’interrogativo circa il
senso profondo del mio lavoro.
Risponde in me ad un bisogno profondissimo, questo l’ho sempre saputo; fino a
ieri mi bastava intendere ciò come qualcosa di grande, denso di valore.
Oggi è caduto il vanto, c’è forse più
lucidità mentre mi domando: bisogno di
che?
La disperazione che in passato ho incontrata è rimasta dentro come un abisso,
una domanda costante che, più che una
risposta, richiede spazio, apertura, esistenza.
Ho trovato spazio per la gioia, la serenità, un equilibrio che mi permette di
vivere, ma l’abisso non è stato mai colmato: esiste, di tanto in tanto mi ci trovo
affacciata.
E’ la sensazione, a volte, di aprirmi ad
un pianto che potrebbe non fermarsi più.
Non è più un dolore preciso, non ha più
una causa specifica. Basta talvolta un
evento inatteso che l’abisso si riapre: sempre quello.
Il lavoro che svolgo è allora l’occasione che ho trovato per restare aperta a
quell’abisso, corrisponde al bisogno di
elaborazione profonda, che durerà tutta la
vita, del non senso del dolore e della
sofferenza che la vita comporta.
Più che elaborazione forse si tratta di
un tentativo di accettazione.
La risposta ad un’atavica richiesta della vita di restarvi di fronte, di provare ad
accoglierla per quella che è, senza finzione, senza aggiustamenti.
Ho attraversato una fase in cui (come
con Giangy) ho teso a contrapporre la
fiducia (‘mia’) alla disperazione (‘dell’altro’) in un tentativo di compensazione che
ha lasciato troppo spesso dei buchi: un
senso in me di parola vuota.
Oggi lo intendo diversamente: è una
necessità profonda in me di imparare a
stare accanto al dolore, al non senso, alla
sofferenza dell’umano vivere, per provare
a reggerlo, per non doverlo più allontanare, per smettere di giudicarlo ma anche di
combatterlo.
Faccio questo lavoro perchè mi aiuta
ad accettare la vita per quella che è.
E’ come sentissi la necessità di trovarmi accanto al nodo, all’inghippo, alla sofferenza per sentire legittimo il mio tentativo, comunque, di tornare a sorridere, a
provare gioia, a nutrire fiducia nella bellezza che la vita pure regala.
Non mi sento più di parlare in termini di
senso o di non senso.
Il dolore c’è, il male esiste, è esperienza
reale. Possiamo solo imparare a reggerlo,
senza farci, per quanto possibile, schiacciare.
Questa è la tua eredità Giangy, il compito che la tua sottile ironia mi ha affibbiato: cogliermi in fallo ogni volta che il mio
atteggiamento diviene falso, o facilone, in
una positività che è negazione del male, il
quale, che ci piaccia o no, continua ad
esistere e ad interrogarci.
A.G.
Programmazione GoGea
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Sabato 8 Febbraio
Mercoledì 22 Gennaio
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* Incontro con
*
La
Grande
Ribelle:
Evento
Multimediale
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M. Mencarini, G. Moretti, C. Pezzani.
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Mercoledì 29 Gennaio
Coordina A. Cortese.
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* Oltre il Sistema Uomo: Evento Multimediale
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Gradita la prenotazione.
* Gruppo di lettura contemplativa
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Ulteriori informazioni a pag. 16
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Incontriamo Silvia Montefoschi
16
GEA - Milano
in Via Salasco 20
Domenica 19 Gennaio 2003 ore 16
Incontriamo Sigmund Freud
*Il Teatro e la Psicoanalisi: Evento multimediale
*La voce di Freud
Per maggiori informazioni rivolgersi ai numeri: 328.4729231 - 339.5407999
GEA - Genova
in Via Palestro 19/8
Sabato 8 Febbraio 2003 ore 16
Relazione, Anima ed Evoluzione
Incontro con la Psicoanalisi Dialettica.
Carla Pezzani
Relazione di Potere e Relazione d'Amore
Mario Mencarini e Giorgia Moretti
Amore e Paura
Ada Cortese
Le Potenze dell'Anima nel Laboratorio Evolutivo
Per maggiori informazioni rivolgersi alla Segreteria al numero: 010.8391814
http://www.geagea.com - e mail: [email protected]
Individuazione
Trimestrale di psicologia analitica
e filosofia sperimentale
Organo dell'Associazione GEA
Via Palestro 19/8 - 16122 Genova
Tel (010) 8391814 - (010) 888822
E mail: [email protected]
http://www.geagea.com
Anno 11, Numero 4 - Dicembre 2002
Direttore responsabile: Dott. Ada Cortese
Redazione: C.Allegretti, P.Cogorno, S.Figuccia, A.Galotti,
C.Manfredi, L.Marsano, L.Ottonello,
M.Quaglia, V.Sarti, T.Tommasi, A.Toniutti.
La segreteria è aperta tutti i giorni
dalle ore 10 alle ore 18 dal lunedì al venerdì.
Sped. A.P. Comma 27- Art. 2 Legge 549/95 - Genova
Registrazione del Tribunale di Genova
n. 31/92 del 29 Luglio 1992
Stampato in proprio.