Il cielo di cartone

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Il cielo di cartone
Il cielo di cartone
di
(Enrico Vetrò)
Francesco non avrebbe mai ammesso la definizione del suo stato che
un comune dizionario di lingua italiana fornisce alla voce barbone.
“Uomo che conduce una vita non regolare, che non ha né una
dimora fissa né un lavoro o un’occupazione normale, ma vive di
elemosina o di altri espedienti, trascurato nella persona e
nell’abbigliamento”.
“Sti cazzi!”, urlava puntualmente all’ingenuo malcapitato di turno
che nelle fredde sere invernali gli recava una scodellata di minestra
calda, “Io nun sono un barbone! Io sono un clochard! Ficcatelo bene
nella capoccia e in qualche altra parte!”. E gli strappava dalle mani
quella vaschetta in plastica bianca con tale vigore, che minuzzoli di
tubetti e patate andavano ad appiccicarsi alle spalle di lui, su una
parete della sala di aspetto.“E nun sono Fido io! Che deve
scodinzolarte per dirte grazie e farse accarezzare! Sti cazzi! Conosco
quattro lingue! Io!”. Poi ingollava quella minestra in men che non si
dica, con un cucchiaio di plastica che portava sempre in tasca,
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alternando il suo respiro con chissà quali barbugli, mentre il donatore
si dileguava in tutta fretta, senza aggiungere nemmeno una sillaba,
per timore che la situazione potesse degenerare in qualcosa di molto
spiacevole.
In realtà, se si considera la questione da un punto di vista
strettamente pratico, quell’uomo sulla cinquantina, una dimora fissa
l’aveva, e, come avete già intuito, era una sala viaggiatori della
stazione Termini, dalla parte di via Marsala per essere più preciso.
Sopra alcuni sedili tre ricolmi sacconi di plastica blu e un borsone
sportivo che una volta doveva essere stato rosso: il guardaroba. In un
angolino, a terra, un fornelletto a gas: la cucina. Sapete, di quelli che
usano i campeggiatori con la bomboletta intercambiabile. E più in là
un carrello, con il quale noi gente per bene normalmente facciamo la
spesa ai supermercati. Lascio a voi immaginare come se lo fosse
procurato, ma voglio darvi un aiutino in proposito: al Forum Termini
c’è il Drugstore Conad aperto dalle 6.00 alle 24.00.
Nelle sere invernali particolarmente fredde lo si poteva vedere
davanti al fornelletto intento a mescolare una sbobba in intingoli vari,
con una logora cucchiaia di legno dal colore praticamente nero, come
la solitudine che aveva in corpo, il suo eterno aperitivo …o digestivo,
se preferite. E mentre operava con la mano destra riscaldava la
sinistra, portandola sul vapore che fuoriusciva dal piccolo tegame,
con movimenti simili a quelli di Mago Merlino, quando da fumi
nauseabondi sapeva evocare non so quali spiriti. Toccava quindi
all’altra mano. E cambiava. E cambiava ancora. Il clochard ti
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sembrava allora un buffo giocoliere, e la cucchiaia l’attrezzo dei suoi
esercizi di destrezza.
Gli addetti alla pulizia lo conoscevano molto bene ormai. Cesco, lo
chiamavano. E quando giungevano nella sala d’aspetto lo salutavano
e gli chiedevano come stesse. Rispondeva sempre con un bofònchio,
quasi un grugnito. Subito dopo si raccomandava a loro perché
facessero una ramazzata particolarmente accurata alla sua sala. E per
facilitare il compito di quelli, in quattro e quattro otto, sbarazzava
d’ogni roba i sedili imbottiti, riponendola nel carrello. “Me
racomanno!”, diceva prima di andar via, con il tono di chi si rivolge
alla donna delle pulizie del proprio appartamento, “ Er lavoretto
fatelo per bene! L’igiene è tutto per vivere a lungo forti e sani”.
Quando i lavori erano terminati ritornava lì e, con fare minuzioso,
rimetteva prima i sacconi e il borsone sui sedili, poi il fornelletto a
terra nell’angolino di sempre, ed infine – adiacente ad una parete - il
prezioso mezzo di trasporto dei suoi beni. Ogni giorno alle ore
ventidue.
Più tardi, intorno a mezzanotte, gruppetti di gente come lui, con
discrezione, lo raggiungevano e si mettevano a sedere in buon
ordine, gli uni di fronte agli altri, e fumavano, e a turno iniziavano a
raccontarsi storie personali di una vita distante da loro mille anni.
Gli agenti delle Forze dell’Ordine, lì in pattugliamento, avevano da
lungo tempo notato la presenza di questi esseri umani senz’arte né
parte; un po’ diversi, persino nell’aspetto, dai barboni che purtroppo
siamo abituati a vedere per le vie di Roma o di altre città italiane. Li
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tolleravano, per il loro fare contegnoso e perché mai, dico mai,
avevano procurato molestia ad una sola delle decine di migliaia di
persone che transitavano quotidianamente lungo la mastodontica
galleria centrale ed il centro servizi del primo pian sotterraneo. In
quella babele di visi, di voci e di passi, un deserto di sabbiosa
indifferenza, i clochard cercavano piccole oasi di relativa quiete e di
calore umano, per scambiare quattro chiacchiere e, più d’ogni altra
cosa, per consolarsi a vicenda. Così facendo, tentavano
quotidianamente di mitigare l’estrema difficoltà di un copione che la
vita aveva loro imposto di recitare.
Chi sentiva parlare Cesco si rendeva immediatamente conto che non
era originario del luogo. Si ostinava ad usare una loquèla arabescata
da scampoli di un romanesco imperfetto, una sorta di talismano
fonetico che si era voluto regalare nell’intento, forse, di proteggersi
dai rigurgiti del suo passato affettivo, in realtà solo in parte ripudiato.
Era nato a Taranto, la stupenda città bimare. Dopo la morte dei suoi
genitori si era trasferito a Bolzano per motivi di lavoro. Era stato
assunto, infatti, come portiere in un hotel a cinque stelle. In tale
circostanza gli aveva giovato enormemente la sua pluriennale
esperienza di addetto alle pubbliche relazioni maturata a bordo delle
lussuose liners della flotta Lauro. E perché no, anche il suo bel
portamento, che manteneva ancora, malgrado tutto. In seguito aveva
conosciuto Tonia, una graziosa venticinquenne del luogo, durante un
concorso regionale di bellezza tenutosi, guarda caso, proprio nel
magnifico salone da ricevimenti del suo hotel. L’aveva sposata,
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quella fraschetta, e dalla loro unione erano nate due bellissime
gemelline: Ester e Nicla.
“Poi un bel giorno mi’ moglie s’è ‘nvaghita d’un ricco cliente ”,
snocciolava, rimovendo la cenere della sigaretta con l’unghia
stracresciuta multiuso dell’altro mignolo, “ed era annata a vivere
con lui, portannose via le du’ creature. Le tentai tutte per avere le
bambine ch’ all’epoca eran vicine ai du’ anni; ma li avvocati loro st’ impuniti, ‘ttacci loro - con le ciance che se retrovano sempre a
portata de bocca, convinsero er giudice che, facenno er portiere de
notte, avrei negato alle mi’ fije - giusto in quelle ore, signori, che
tesi stupida - una presenza educativa essenziale ai fini di una loro
crescita sana e senza traumi”. E recitava queste parole a mo’ di
magistrato che sta emettendo una sentenza. “Er novo papà”,
tuonava, “lui sì, ch’avrebbe potuto assicurare loro tutto questo e ben
altro, con le sue sostanziose risorse! Ora so’ più de otto anni che nu
le vedo... Nu saprei riconoscerle se me capitassero davanni … ”.
Ragionava come se stesse narrando le vicissitudini del protagonista
di una telenovela, tra nuvolacce di fumo di sigaretta, mentre
l’altoparlante annunciava l’arrivo di un intercity e, in sottofondo, si
udivano le sirene spiegate delle auto della Polizia fendere l’aria del
mondo esterno.
“Sai, quanno te capita fra capo e collo una cosa der genere”,
continuando ad affumicare la faccia dei suoi interlocutori,“ devi fare
come er maestro de’ scola elementare. Prima d’abbozzare alla
lavagna i pensierini che i suoi alunni devono copiare e leggere ad
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alta voce, egli chiama uno de loro. Cancella tutto quello che sta
scritto, jiè fa. E con er tocco der gesétto colorato, poi, quello
comincia a ricamare ’na gràfia de “o” e de “e” tutte tondeggianti.
E così ho fatto pure io. Da a tavoletta carboniccia della mi’ vita ci
ho cancellato moglie, casa e lavoro! Dopo so’ annato de filato alla
stazione e ci ho preso un biglietto per Roma, d’annata, e so’ partito
solo co’ quello che ci avevo addosso… Ma le bambine no! Le
bambine no! Nu le ho dimenticate! Stanno qua, sotto sta maglia
appestata de sudore. Dopotutto, anche quanno se pulisce la lavagna
cor cancellino sempre rimane quarche segno gessato de quello che
ce sta scritto prima! Solo che er novo che sto a scrive me sta a venì
fori a zampe de galina!”. E qui scoppiava a ridere a denti stretti …
una risata amara, contagiosa che a tratti assumeva la modulazione di
un lamento, e più in là di un pianto.
“Tanto che nu ce capisco nemmeno io quello che sta iscritto!” E
rideva e rideva, “Figuriamose jialtri poi!”, diceva causticamente, e
continuava a ridere, volgendo al soffitto il viso. Un campo coltivato
di pieghe e smorfie d’imprecazioni.
Gli altri, per lo più individui originari dei paraggi della capitale, gli
echeggiavano con altrettanto ridere frammisto a colpi di tosse secca e
commenti smorzati in gola del tipo: “Anvvedi questo! … Gajàrdo!
…Che te possino! … E come te capisco!”. Poi gli spifferi fischiettanti
d’a Tramonta’ che s’annunciava alle porte e … nulla più per un
minuto o due.
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Fra una sigaretta e l’altra, e qualche centello di whisky buono, si
facevano le due. Allora vedevi Cesco congedare tutti senza tanti
complimenti: “Mò annàtevene!” gli abbaiava, “Che vojo metterme a
dormì! Se vedémo!”.
La notte sistemava il suo metro e ottanta di pelle e nervi, scolpiti
dalla rabbia in mal nutriti tessuti muscolari, su un materasso di
vecchie camicie colorate di flanella riposte sulla prima delle diciotto
panche in doppia fila, davanti all’altare della chiesetta del S.S.
Crocifisso, all’interno della Termini, dal lato di via Giolitti. Non si sa
come, era riuscito a farsi un copia della chiave della porta di accesso.
“Lì sto tranquillo.”, commentava a coloro che gli chiedevano dove
fosse solito dormire nelle ore notturne,“Così er Padreterno che ci ha
sempre da fare s’accorge pure de me”.
La coperta se l’era procurata da un negoziante di elettrodomestici.
Un cartone molto spesso, di quelli che servono per imballare i
frigoriferi. L’aveva tagliato ad arte, fino a farlo diventare un
rettangolo più o meno snodato, che poteva coprirlo dalla testa ai
piedi e, soprattutto, ripararlo dalla luce azzurrina sempre accesa che
illuminava la chiesetta. Per un po’ rimaneva con gli occhi aperti e lo
sguardo rivolto a quel cielo di cartone, dove, più delle altre,
brillavano due stelle, le sue bambine. Poi … bona notte. A tutto e a
tutti. E cadeva in un sonno di piombo.
“A Cescoo, lo voj er capucìno cardo? Sì o no?”, gli facevano la
mattina, un quarto alle sei.
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La Provvidenza, che pur doveva avercela con lui per i bestemmioni
dedicati a questo o a quel santo del Paradiso quando gli andava tutto
di traverso, gli aveva donato l’amicizia dei lavoranti del
CaféFoodhal, nell’area fronte binari.
“Vengooo, vengooo!”, rispondeva incazzato, “E nu me fate perder
tempo! E metétece dentro du’ bustarele de zuchero, me racomàno!
Ch’oggi ci ho da fà!”. E tracannava quella bevanda senza badare al
fatto che la sua bocca non fosse foderata d’amianto.
In che cosa consistesse il suo lavoro è presto detto. Per lo più aiutava
signore con prole al seguito, sistemandone i bagagli nello
scompartimento del vagone che dovevano occupare.
In altre circostanze, con fare professionale, ai passanti intimiditi dalla
vastità della stazione, forniva utili indicazioni servendosi di una
piccola guida che portava sempre con sé:
“Lo vedi er disegnino de la scala mobile? Noi semo de fronte. Si voji
annà a la bijeteria, scenni co’ questa e ta trovi, immantinente!”.
Aveva imparato a memoria i numeri di binario della maggior parte
dei convogli internazionali in partenza; non di rado sfruttava tale
capacità per ostentare il suo ottimo francese,“attaccando un bottone”
alla parigina sul punto di partire. Sapeva riconoscerle subito, lui, le
francesine. E offriva informazioni non richieste con dovizia di
particolari, pur di conversare con loro il più a lungo possibile. Un
operatore plurilingue del Servizio Civile Termini “Welcome Staff”
non avrebbe potuto fare di meglio.
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Per tanti era diventato un riferimento indispensabile nel sincrono
caos del viavai quotidiano: “Va da quel’omo co’ ‘a barba grigia e
cor giacòne blu che sta vicino ar bar.”, facevano gli interrogati agli
sprovveduti avidi d’informazioni, “Che té dice tutto!”.
Gli altri cercavano d’imitarlo, ma lui era di gran lunga il più bravo di
tutti.
Gli capitava di correre a comprare pacchetti di sigarette a quei
viaggiatori che all’ultimo momento si accorgevano di non averle, e
con un saltello li consegnava a volo, attraverso i finestrini semiaperti,
con il treno già in movimento. Una volta gli avevano chiesto persino
di prendere una scatola di aspirine effervescenti.
“Tieni il resto!”, gli gridavano in mezzo al diavolìo, “E grazie
tante!”.
Seguiva puntuale la sua espressione preferita: “Sti cazzi!”,
accompagnata dallo sventolìo di una mano rivolta alla carrozza che
s’allontanava, con il fiatone che ancora gli usciva dalla bocca in
forma di vapore intermittente, come le locomotive di una volta.
Così, grazie alle sue svariate attività, riusciva sempre a rimediare
quanto gli bastava per soddisfare necessità essenziali: da fumare,
qualche pizzetta da “Spizzico” e, di tanto in tanto, per una capatina
nello Stanley International Betting, al piano sotterraneo, a
scommettere un deca su un cavallo “quasi” sicuro.
Prima di ritornare lì dove la sera gli altri erano soliti incontrarlo,
faceva un salto ai Servizi/Toilets di fronte alla Bottega Verde, quel
grande negozio di erboristeria che potete trovare ubicato al primo
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piano sotterraneo della Termini. Una doccia, una sfoltitina alla barba
e via. A riprendere il suo carrello che lasciava all’interno del
deposito bagagli, con l’impiegata che fingeva di non notarlo.
“Anvvedi ‘sta burìna, manco te saluta!”, le sventagliava
scherzosamente in modo che quella potesse sentirlo, “Chi se crede
d’esse’”. Era il suo modo di ringraziare, fiondato su un sorriso
appena accennato, prima di allontanarsi a passi svelti.
Quel giorno della sua vita Cesco lo ricorderà sino a quando smette di
campare; non ci sono dubbi in proposito.
La giornata era incantevole. Nel cielo azzurro di Roma il sole
primaverile del Venerdì Santo metteva le ali ai piedi degli ultimi
viaggiatori ritardatari che si accingevano a raggiungere le località di
vacanze pasquali. Egli si trovava al binario 27, a caccia, come
sempre, di signore con figliolanza e bagagli al seguito, nel pieno
espletamento della sua attività lavorativa. Ad un tratto, nell’eterno
andirivieni, intravide una bambina che dava in singhiozzi innanzi al
Leonardo Express, in procinto di partire per l’aeroporto di
Fiumicino. Qualche falcata e la raggiunse. Mostrava ad occhio e
croce di avere non più di dieci o undici anni, ben curata nell’aspetto e
nell’abbigliamento.
“Che c’è piccola?”, le pigolò, “Du se trova la tu’ mamma?”.
“Non lo so…”, gli cinguettò quella tra un frigno e l’altro, “era qui
poco fa … ”.
Molto probabilmente la madre era salita sul mezzo ferroviario
convinta che sua figlia la seguisse in mezzo a quel brulicare di gente.
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Ebbe un intuito: “ Nu te móve dar qui, rimani bona bona e ferma
ferma ado’ stai, che ta vò ar trovà io la mamma tua!”, le
raccomandò, posando una mano sulla spalluccia di lei che annuiva a
testa bassa e nel contempo si stropicciava gli occhi per liberarsi di
qualche luccicone.
In un baleno fu sopra il treno, che già scaldava i motori per partire.
“Ce sta ’na bimba a téra che piagne! Vole la su’ mamma! Di chi è ‘a
bimbéta?”, cominciò a dire, con le mani a megafono davanti alla
bocca, mentre si faceva largo tra i viaggiatori che intasavano il
corridoio. A quelle parole, dal terzo scompartimento del vagone,
Cesco udì una voce femminile dal tono allarmato: “Dov‘ è! Dov’ è la
mia Ester?”. Una signora attillata, slanciata, bionda, dai grandi occhi
verdi, ben truccati in verità, lo raggiunse tenendo per mano un’altra
bambina, fotocopia di colei che frignava a terra.Un eterno attimo
d’imbarazzo e poi: “Tonia! Che fai tu qui! …”, fece il clochard,
restando con gli occhi sgranati su di loro e il corpo immobile che
conservava ancora, come in una fotografia, la posa dell’ultimo
movimento.
Ovviamente anche la donna per alcuni secondi si mostrò esterrefatta,
tanto che ebbe soltanto la forza di dire a mezza voce: “Francesco…”.
Il destino si era davvero divertito quel giorno. Alla grande!
“ Ehm … nostra figlia sta giù che te cerca … ta porto subito…”, le
sfoderò dall’animo con voce pietrosa, appena ripresosi
dall’abbarbagliamento. Qualche balzo e fu a terra. Andò incontro alla
bambina dai stupendi occhi celesti, e, raro a vedersi, dai capelli d’un
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corvino lucido su cui danzavano i tocchi di luce della bellissima
giornata di primavera. La prese in braccio e, intanto che la riportava
alla madre, la baciò su una gota, con la rapidità di un ladroncello.
Posò quindi le sue gambucce a terra, delicatamente: “Ecco, picìna, é
tutto a posto”. E tirando ad indovinare, con apparente spavalderia:
“Ti chiami Ester, non è vero?E la sorellina che mamma tiene per
mano se chiama Nicla. É così?”.
Pareva l’oracolo di Delfi innanzi ad una piccola supplicante. Aveva il
cuore in gola e chiunque si sarebbe accorto che in realtà era lui il
supplice, che ambiva un responso senza equivoci. Lo ebbe. Con gli
interessi.
“Sì. Ma tu come fai a saperlo?”, ribatté lei con pronuncia ricamata,
mentre si allontanava da lui per raggiungere la mamma.
Le risposero occhi teneri di certezze, lampi di pensieri calcati a
ritroso con un sorriso abbozzato, in quel buscherìo di gente.
“Ora devo scenne.”, disse, “Er treno st’annànno. Ciao Tonia, se
vedemo, stamme bene …”, rivolgendosi alla donna con una
inflessione di voce caramellata; quella che da fidanzati
accompagnava le sue promesse di eterna tenerezza o i progetti di
arredamento del loro futuro nido d’amore, “Quanno te serve
quarcosa se passi da ste parti co’ le creature, io sto qua … Me trovi
davanti al Café Fudhall, a disposizione de tutti. Nu te scordà com’ar
solito. Va béne ?”.
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Lei gli fece appena di sì con la testa, amara in volto, tenendo gli
occhi bassi. E poi, con fare rapido, si cacciò nello scompartimento di
prima classe insieme alle figliolette.
“E voi piccole non lasciate mai la mano alla mamma, capito? È
pericoloso! Non fatemi stare in pensiero!”, aggiunse in maniera più
che mai paterna e, questa volta, in un perfetto accento italiano, da
annunciatore televisivo.
Saltò giù dal treno e lo seguì con gli occhi, sino a che non lo vide
scomparire sculettante all’orizzonte.
Finalmente ricco. Era da tanto tempo che non si sentiva così.
L’anima stracolma … quel bacetto che aveva rubato …
Non sarebbe stato più solo la notte nella chiesetta dalla luce
azzurrina. Portava con sé l’immagine nitida di due bambine dagli
occhi sorridenti, come la vita che le teneva strette in petto, alle quali
pensare e parlare, sotto la sua fetta di cielo di cartone.
Per giunta, ora aveva una ragione in più per migliorare lo standard
tecnico della sua attività lavorativa e, soprattutto, per allargare il
ventaglio dei servizi offerti all’utenza.
“E già …”, rimuginava dentro di sé, “le creature un giórno
potrébero ancora aver bisogno de me, e nun se sa per quare che sia
necessità …”.
Accadeva durante il Grande Giubileo 2000, alla stazione Termini,
dove quotidianamente si può presenziare alla replica di un colossale
defilé di destini. In certe giornate speciali, alcuni di essi possono
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ritornare ad intrecciarsi come per incanto, proprio lì, nell’ombelico di
Roma!
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Racconto terminato il 12.01.2001. Tutti i diritti riservati.
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