STORIA DI UNA FUGA Ora la padrona di casa non si lamenta più

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STORIA DI UNA FUGA Ora la padrona di casa non si lamenta più
STORIA DI UNA FUGA
Ora la padrona di casa non si lamenta più.
Dopo averle stretto il bavaglio, si alza e va alla finestra, per godersi finalmente un po’ di silenzio.
In prigione c’era sempre rumore. Casino in lavanderia, casino nella mensa, casino dappertutto.
Anche di notte, quando l’arabo della cella a fianco recitava il Corano nel dormiveglia e gli altri,
ancora più in là, litigavano per qualche giornalino porno o un pacchetto di sigarette.
Guarda l’orologio.
Sono già le sei di mattina.
Ovvero esattamente dieci ore da quando è riuscito ad evadere dal carcere nella maniera più classica,
quella che ormai nessuno si aspetta più: nascosto nel furgone della raccolta immondizia.
Canadese in fuga dal Canada, si è fatto pinzare un mese prima in una banca di Palermo.
Bastava che quel cretino di impiegato se ne fosse rimasto faccia a terra a contare le formiche. E
invece niente. Il vogliofareleroe aveva tentato di schiacciare il solito pulsante del solito allarme
posizionato sotto la solita mensola del solito sportello. E alla fine, ad essere schiacciato per primo,
era stato il grilletto della suo fucile a canne mozze.
Pumfff.
La testa dell’uomo era esplosa in uno sciame color vermiglio, tra grida, svenimenti e fuggi fuggi.
Poi, chissà come, era scivolato sul sangue di quell’idiota e un cosa simile non è proprio da farsi
quando stai scappando da un istituto di credito che hai appena rapinato e le sirene della polizia
urlano sempre più vicine. Caricato sulla volante, gli avevano tirato quattro schiaffi e senza dire né
ah né bah lo avevano spedito al penitenziario di Brissogne, in un posto chiamato Valle d’Aosta…
Distoglie l’attenzione dal panorama e dai ricordi per dedicarla ad una cartina geografica appesa alla
parete. E realizza di trovarsi in una specie di vicolo cieco tra le montagne, con l’unico varco aperto
e piano a sud, e poi ancora più giù, superati il Piemonte e la Liguria, la costa e il mare. Quindi, i
bastardi in procinto di braccarlo penseranno che il topo abbandona la gabbia per la via più
semplice. Scruta di nuovo la mappa seguendo con l’indice la catena alpina tra l’Italia e la Francia.
Se quei tratti neri che, poco sopra Courmayeur, scavalcano le vette più alte d’Europa non sono
l’oleodotto costruito da un pazzo, allora lui ha già trovato una soluzione.
D’altronde, chi l’ha detto che non si può fuggire in funivia?
Abbandona la dimora della poveraccia che suo malgrado è stata costretta ad ospitarlo e dopo un
lunga passeggiata in mezzo a prati di tarassaco e ciliegi in fiore raggiunge il piazzale di un
ristorante. Lì, con il muso rivolto ad annusare il nord, sono parcheggiati alcuni tir con targhe
francesi. Ne sceglie uno verde, ma non tanto per il colore quanto per il fatto che il suo occhio da
rapace notturno ha notato il portellone posteriore socchiuso. Dunque entra nella stiva e aspetta che
l’autista finisca di abbuffarsi con le specialità locali vergate a gessetto su una lavagna appesa
all’ingresso del bistrot. Zuppa della Valpelline, spezzatino con purè di patate e torta alle mele.
Cerca di non pensarci, visto che non mangia dal giorno prima. Quando il veicolo inizia finalmente a
muoversi, si distende tra due scatoloni e, ignorando il brontolio sordo in fondo alla pancia, si
addormenta.
Lo risveglia una violenta frenata.
Evidentemente un semaforo rosso notato all’ultimo momento.
Sbircia fuori e comprende che la buona stella continua a illuminarlo. Poco più in là, un pulmino con
la fiancata coperta dallo slogan “Funivie del Monte Bianco – L’ottava meraviglia del mondo” sta
scaldando il motore. Cambio veloce di mezzo e si ritrova tra sciatori insaccati in variopinte tute di
goretex frammisti ad allegre famigliole di villeggianti in cerca dei brividi offerti dai ghiacciai eterni.
Troppo facile.
Quando è così, lo sa, succede sempre qualcosa di brutto…
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Le sue peggiori previsioni si concretizzano sottoforma di due carabinieri in sosta davanti alla
biglietteria delle funivie. Considerata l’esiguità della pattuglia, sembra che gli sbirri siano stati
messi lì soltanto per dirigere il flusso dei turisti e non per cercare lui. Tuttavia è una magra
consolazione che lo costringerà ad elaborare piani alternativi. Non fosse che arriva di nuovo lei, la
dea bendata, decisa a non mollarlo: quasi a significare che la misura dell’ avere un culo sfondato,
una curiosa espressione imparata in carcere da alcuni italiani, non è ancora colma.
Sono una decina.
Vestiti con palandrane sgargianti ricoperte di specchietti e coccarde, sfoggiano cappelli napoleonici
e sfiorano ogni tanto la faccia della gente con lunghe code di cavallo.
E, quello che apprezza maggiormente, sono mascherati.
Teschi sbiancati, pierrot con una lacrima rosso sangue e orride facce di streghe, deformate da
paterecci e rughe millenarie. La folla intorno si spreca in fotografie e filmini. Un lungo striscione lo
informa sul significato dello show: Lo Carnaval de la Coumba Frèide. Origliando i discorsi di
alcuni ragazzi, raccoglie la notizia che più lo riguarda. Per un gemellaggio tra il carnevale del Gran
San Bernardo e quello della Val d’Isère, gli uomini in costume raggiungeranno Chamonix con la
funivia che scavalca il massiccio del Monte Bianco.
Dopo l’ennesimo girotondo e gli ultimi ritornelli, i figuranti si sparpagliano nella piazza per
recuperare le forze prima dell’imbarco. Alcuni si siedono togliendosi la maschera per un bicchiere
di vino, altri si mettono in posa per qualche scatto in più.
A lui interessa il tipo che decide di farsi un giro nelle toilettes pubbliche in fondo alla spianata.
Lo segue.
Entrano insieme nel piccolo edificio finchè, scomparsi alla vista degli altri, arriva il suo momento.
Lo abbatte con un violento colpo alla nuca mentre tenta di rinfrescarsi piegato su un lercio
lavandino. Pochi minuti dopo si ricongiunge al gruppo che ha ripreso a schiamazzare e si prepara
per la partenza. Il costume gli tira un po’ sulla schiena benchè, tutto sommato, la taglia dell’uomo
che ora riposa nello sgabuzzino delle scope corrispondesse quasi alla sua. Si sistema la maschera
della Morte sulla faccia e, cacciando un urlo feroce che esalta la folla, supera con la comitiva il
controllo dei biglietti, sotto il naso dei carabinieri distratti dallo spettacolo.
La funivia si innalza con un sibilo lungo il pendio assolato. All’interno il frastuono è assordante, le
esclamazioni dei turisti di fronte ai pinnacoli di roccia o ai branchi di camosci si mescolano con i
lazzi delle maschere. Quando le lamiere della cabina tremano all’ingresso della stazione intermedia
del Pavillon, il chiasso si placa per un attimo. Per riprendere esattamente uguale a prima, una volta
appesi alla fune del tratto successivo. Decisamente, sta come il topo nel formaggio. Il caos è
l’amico più prezioso, in casi simili.
Troppo facile.
Quando è così, lo sa, succede sempre qualcosa di brutto…
Non hanno ancora raggiunto il Rifugio Torino, la stazione successiva sotto la vetta del Bianco, e già
li ha visti da lontano. Sei uomini in divisa, fermi vicino al parapetto. Sembrano in attesa. Parlano
alla radio e guardano la cabina in lento avvicinamento.
Che abbiano trovato l’uomo tramortito nello sgabuzzino?
Una goccia di sudore si insinua tra la gomma della maschera e la tempia destra, accarezza lo
zigomo, caracolla sulla guancia e precipita lungo il collo. Un moccioso con gli occhi grandi e i
capelli ricci incomincia, per gioco, a tirargli un’ala del frac. Quando lo incalza ripetendo con
insistenza ‘Mi chiamo Piero! Mi fai provare la maschera? Dai gioca con me!’, passa all’attacco
mollandogli un pestone sul gracile piedino. Il ragazzino si ritira e nasconde la faccia nel grembo del
padre. L’uomo lo guarda storto ma non ha tempo di protestare perché le porte della cabina si aprono
e il branco in uscita lo trasporta via.
Si nasconde nel gruppo dei compagni in festa mentre i poliziotti controllano i documenti di alcuni
turisti. Sono quasi fuori tiro quando all’ultimo momento nota che l’agente più giovane e zelante,
disegnandosi una maschera immaginaria sul volto, richiama l’attenzione del comandante su di loro.
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A quel punto, gira l’angolo e guadagna di corsa il corridoio che conduce all’esterno. Lungo il muro
sono allineati numerosi scarponi. Ne infila un paio della sua misura, poi esce, agguanta due sci e si
raccomanda ad un dio sconosciuto mentre prova gli attacchi.
Calzano!
Sciolti gli ormeggi, supera gli ultimi visitatori sparsi nei dintorni del rifugio e si lascia andare sulla
candida china della Vallèe Blanche al termine della quale, tra cirri e pecorelle, si intravede il
territorio francese.
Pennellando le curve all’ombra delle Grand Jorasses, si sente quasi un uomo libero
Troppo facile.
Quando è così, lo sa, succede sempre qualcosa di brutto…
Si ricorda improvvisamente di trovarsi sopra un ghiacciaio.
Detto fatto, la coltre nevosa si squarcia sotto di lui. Il crepaccio ha le pareti azzurrine e un fondo
nero come la maschera che porta ancora sul volto. Rimbalza per un po’ finchè la dea bendata, più
beffarda del solito, si diverte a salvargli la pelle. Si blocca in un punto imprecisato, con la testa in
giù e le estremità degli sci malamente incastrate nella fenditura. Una nuvola di paillettes, fiocchi e
specchietti si stacca dal costume, si libra per un attimo nell’aria fredda ed infine cade a precipizio
nelle profondità glaciali. Ora non può che aspettare, rimanendo immobile in un equilibrio precario.
Dopo un bel po’, una voce lo riscuote dal torpore dell’assideramento.
“Papà, vieni a vedere anche tu!”
Il ragazzino della funivia!
Tenta di urlare ma il grido si frantuma in una manciata di polvere gelida e muta.
“Piero, guarda che è pericoloso.”
“Ma è un crepaccio bellissimo!”
“Ti faccio sicurezza con la piccozza. Non andare oltre!”
“D’accordo. Almeno, fammi fare pipì!”
E sente che la fa: d’altronde è sempre uno sballo farla sull’orlo delle voragini, quando non sai dove
finisce il getto. In questo caso, però, le stille giallo limone atterrano poco più in basso sulla soletta
dei suoi sci, dove si alleano in una piccola onda maligna che avanza fino al punto in cui le code si
appoggiano alle mura del baratro.
Quando il liquido caldo ha finito di erodere il ghiaccio, gli attrezzi si liberano e lui ricomincia a
precipitare.
E senza più fermate intermedie, conclude in silenzio il lungo volo nell’abisso.
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