babele 35 - Istituto di Ortofonologia

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babele 35 - Istituto di Ortofonologia
35
Verso uno scambio comunicativo
Periodico quadrimestrale dell’Associazione Sammarinese degli Psicologi (RSM) Anno VIII – n. 35 gennaio-aprile 2007. Pubblicità inferiore al 40% – Stampe – Spedizione
in abbonamento postale – Tabella B – Taxe percue (tassa riscossa) – Autorizzazione n. 397 del 15/1/’98 della Direzione Gen. PP.TT. della Repubblica di San Marino –
ISSN: 1124-4690. In caso di mancato recapito rinviare all’ufficio Postale di Borgo Maggiore – 47893 (RSM) per la restituzione al mittente, che si impegna a pagare la relativa tassa.
www.diregiovani.it
I
n questi ultimi vent’anni si è conclamata una frattura
nella relazione tra i giovani e gli adulti, che è esplosa in
famiglia e nel mondo della scuola. Se fino a circa dieci
anni fa la difficoltà relazionale si avvertiva fondamentalmente nei licei, adesso è presente anche nella scuola media
inferiore, con elementi predittivi che si potrebbero cogliere
già dalla scuola elementare.
Al determinarsi di tale situazione hanno probabilmente
contribuito da un lato il senso di inadeguatezza, il disagio e
la rabbia dei giovani (giustificata o meno), dall’altra la scarsa capacità degli adulti di comprenderli nella loro problematicità, mostrando invece di esserne indispettiti e irrigiditi;
i ragazzi, quindi, si sono sentiti autorizzati e spinti ad essere sempre più autonomi, più intenzionati a dimostrare la loro forza, la loro indifferenza e distacco dalle regole sociali
degli adulti.
Le cause di questa situazione sono diverse, possiamo
racchiuderle nell’incapacità di noi adulti di contenere e gestire in modo attuale le problematiche giovanili: la famiglia
è spesso assente; la scuola presenta molte inadeguatezze determinate da troppi carichi, pochi mezzi, ma soprattutto i
docenti sono stati esautorati dai giovani. La scuola è stata
delegata silenziosamente, ma non ufficialmente, di quegli
aspetti educativi di cui prima si faceva carico la famiglia.
Il mondo degli adulti trasmette, attraverso i mass-media,
modelli di comportamento sociale e di immagine di sé costruiti sull’apparenza, rinforzando in tal modo i sentimenti
di onnipotenza che sono propri dei ragazzi di questa età.
L’impossibilità di rispondere a tutte le loro domande e alle
richieste di aiuto ci ha spinto a cercare uno spazio e un linguaggio che sia ascoltato dai giovani e che ci permetta di
ascoltarli. In collaborazione con l’agenzia di stampa quotidiana DIRE è nato diregiovani, un portale di informazione
per giovani dai 14 ai 25 anni che si occupa di tutta l’informazione, dalla musica alla politica, dallo sport all’attualità,
comprese le tematiche più spinose da affrontare. All’interno
di questo portale vi saranno campagne di informazione per
diverse tematiche, la prima è stata I LIKE ME! La mia
immagine? Mi piace!, che affronta il tema dell’immagine
corporea (obesità, gli stili di vita, ecc.) in collaborazione
con gli assessorati del Comune di Roma per le Politiche
Giovanili e l’assessorato per la Famiglia e Adolescenza.
L’obiettivo generale di questo progetto è, così, riuscire a dare ai giovani l’opportunità di manifestare il proprio disagio,
trovare comprensione e accoglienza da parte degli adulti attraverso la presenza di esperti. A questo proposito hanno
dato la loro disponibilità i membri della S.I.M.A. Società
Italiana di Medicina dell’Adolescenza (presidente dott.
Giuseppe Raiola), il servizio di psicologia e psicoterapia
dell’Istituto di Ortofonologia (responsabile dott.ssa Magda
Di Renzo), così i ragazzi avranno la possibilità di scambiarsi idee e contenuti, di dialogare attraverso il portale con
gli esperti che, garantendo l’anonimato, saranno disponibili on line per fugare i loro dubbi e perplessità anche con
l’aiuto di molti responsabili scolastici. Per dare ai giovani
un’informazione anche tramite i loro coetanei, in particolare attraverso la videopartecipazione, su www.diregiovani.it
i navigatori potranno creare un loro spazio riservato con la
consulenza di esperti, e «postare» gli elaborati audio-videoscritti in modo tale che loro stessi, formati come informatori/giornalisti, siano i protagonisti dell’informazione.
Federico Bianchi di Castelbianco
A pagina 96 un’importante comunicazione ai Lettori
Istituto di Ortofonologia
AUT. DECRETO G.R.L., ACCREDITATO CON IL S.S.N. – ASSOCIATO FOAI
Centro per la diagnosi e terapia dei disturbi della relazione, della comunicazione, del linguaggio, dell’udito, dell’apprendimento
e ritardo psicomotorio – Centro di formazione e aggiornamento per operatori socio-sanitari, psicologi e insegnanti
OPERATIVO DAL
1970
Direzione: via Salaria, 30 – 00198 Roma TEL. 06/85.42.038 06/88.40.384 FAX 06/84.13.258
[email protected] - www.ortofonologia.it
Corso Quadriennale di Specializzazione in Psicoterapia dell’Età Evolutiva a indirizzo Psicodinamico (Dec. MIUR del 23-7-2001)
Convenzionato con la Facoltà di Medicina dell’Università «Campus Bio-Medico» di Roma per attività di formazione e ricerca
Accreditato presso il MIUR per i Corsi di Aggiornamento per Insegnanti
Provider ECM accreditato presso il Ministero della Salute Rif. N. 6379 per Corsi d’aggiornamento per Psicologi e Operatori Socio-Sanitari
Accreditato per la Formazione Superiore presso la Regione Lazio
UNI EN ISO 9001:2000 EA:37
ATTIVITÀ CLINICA
Verifica periodica
Servizio di Diagnosi e Valutazione
– 1a Visita
– Osservazione globale
• area cognitiva, linguistica,
psicomotoria
• area affettivo-relazionale
• visite specialistiche
• psicodiagnosi
– Proposta terapeutica
Presa in carico
Riunioni d’équipe
e progetto terapeutico
ATTIVITÀ DI FORMAZIONE
Corso Quadriennale
di Specializzazione in Psicoterapia dell’età
evolutiva ad indirizzo psicodinamico
Corsi di Psicomotricità
Corsi di formazione per operatori
socio-sanitari
Corsi di Aggiornamento
per Insegnanti
Seminari Monotematici
Verifica periodica
Servizio Psicopedagogico
–
–
–
–
–
–
–
–
–
–
Logopedia
Psicomotricità
Atelier grafo-pittorico
Atelier della voce
Laboratorio di attività costruttive
Laboratorio ritmico-musicale e di
educazione uditiva
Attività espressivo-linguistica
(racconto-fiaba)
Attività espressivo-corporea
e drammatizzazione
Rieducazione foniatrica
Servizio scuola-collaborazione
con gli insegnanti
ATTIVITÀ DI RICERCA
CONSULENZE
PSICOPEDAGOGICHE
PUBBLICAZIONI
Servizio di Psicoterapia
per l’Infanzia e l’Adolescenza
– Psicoterapia, individuale
e di gruppo, con bambini
– Psicoterapia, individuale
e di gruppo, con adolescenti
ATTIVITÀ
CONGRESSUALE
– Counseling e psicoterapia
della coppia genitoriale
SCUOLA
FAMIGLIA
PEDIATRA
SERVIZI
TERRITORIALI
IN QUESTO NUMERO
«Io conto e te ti nascondi!»
Renato Corsetti, Gianluca Panella
l’immaginale
Un approccio al sogno
Patricia Berry
4
14
Technè astrologica. Studio sulla
Carta Natale di J. Hillman
Pia Vacante
Magi Informa
18
13, 21, 23-25, 36-37
45, 52-53, 65-67, 81
Questioni di psicoterapia
dell’età evolutiva
DIRETTORE RESPONSABILE
Riccardo Venturini
RESPONSABILI SCIENTIFICI
Federico Bianchi di Castelbianco
Magda Di Renzo
AMMINISTRAZIONE
Via Canova 18, 47891 RSM
tel 0549/90.95.18
fax 0549/97.09.19
PER INFORMAZIONI SULLA
PUBBLICITÀ
06/84.24.24.45
Fax 06/85.35.78.40
STAMPA
SO.GRA.RO.
Società Grafica Romana SpA
Via Ignazio Pettinengo, 39
00159 Roma
TIRATURA
100.000 copie
E-MAIL
[email protected]
SITO WEB
www.babelenews.net
Magda Di Renzo
27
CHI VOLESSE SOTTOPORRE
ARTICOLI ALLA RIVISTA PER
EVENTUALI PUBBLICAZIONI PUÒ
INVIARE TESTI ALLA REDAZIONE
Edizioni Magi srl
Via G. Marchi, 4 - 00161 Roma
Daniela Cardamoni, Daniela Quinto
Mariella Tocco, Simona Trisi
Ingresso libero
Il materiale inviato non viene
comunque restituito e la
pubblicazione degli articoli
non prevede nessuna forma
di retribuzione
Bruno Tagliacozzi
Il presente numero è stato
chiuso nel mese
di aprile 2007
Simone Pesci
64
Maria Cardone
68
Pietro Campanaro
32
La disabilità vista da un medico
degli adolescenti
71
Giuseppe Raiola
34
ISFAR Magazine
74
76, 82-83
Approccio psicopedagogico
ed esperienze cliniche
38
Il mondo sconosciuto della
Pet Therapy
Francesca Allegrucci, Barbara Silvioli
Fare psicologia
Psicoanalisi e telepatia
42
47
48-49
77
L’importanza delle emozioni
nello sviluppo della mente
Chiara Lukacs Arroyo
Evento migratorio
e reazione psicogena acuta
Autismo e psicosi
nell’età evolutiva
La psicologia come professione
31
Cinema e letteratura,
una lettura psicodinamica
Filippo Sciacca
60
Le caratteristiche del
comportamento alimentare
in adolescenza
Professione genitore: dagli Egizi
all’angolo piatto
Marco Alessandrini
Alberto Vito, Martina Lupoli,
Liliana Tizzano, Giuseppe Nardini,
Giuseppe Viparelli
Prospettive pediatriche
«Per parlare di... adolescienza.
Gli adulti di fronte
a una nuova sfida»
Serena Polinari
La Psicologia della Salute in
un Ospedale di Malattie Infettive
Il counseling come spazio per
una «triplice alleanza»
Qualcuno con cui correre
I numeri arretrati possono
essere richiesti alla redazione
(è previsto un contributo
per le spese postali)
58
Counseling per i genitori
Il bullismo tra senso di
inadeguatezza e onnipotenza
EDITORE
Associazione Sammarinese
degli Psicologi (RSM)
L’«ospicologo»
e lo sportello d’ascolto
Luciana Cerreti, Flavia Ferrazzoli,
Anna Mammoli, Barbara Zerella
L’immaginale al di là della vita
Alfredo Sacchetti
54
84
«Diversamente = diversa... mente»
Maria Rita Esposito
Calendario convegni
89
96
l’immaginale
4
Un approccio al sogno
PATRICIA BERRY
Analista junghiana, University of Dallas
l’immaginale, anno II, 1984
U
na volta una paziente di Jung arrivò alla seduta stranamente turbata. Sembra che avesse avuto occasione di mostrare a qualcun altro un sogno che lei e il
suo analista avevano esaminato in una seduta precedente,
ed era poi rimasta così insicura per la differenza di interpretazione, che si era affrettata a chiedere una terza e poi una
quarta opinione. Tutte differivano in modo essenziale. L’interpretazione dei sogni, ora recriminava, era una pseudoscienza e coloro che li interpretavano soltanto ciarlatani.
Benché questo aneddoto possa riflettere un certo numero di problemi sull’analisi, e più in particolare su questo
tipo di paziente, stimola anche alcune riflessioni teoriche
sui sogni. Naturalmente ogni sogno ha una varietà di possibili interpretazioni e, come è naturale, ogni analista ha inclinazioni, approcci e ipotesi particolari. Alcune interpretazioni, tuttavia, non sono forse più pertinenti di altre? Esaminiamo il sogno della paziente:
«Giacevo su un letto in una stanza, apparentemente sola,
ma con un senso di agitazione attorno a me. Una donna di
mezza età entra e mi porge una chiave. Più tardi entra un
uomo, mi aiuta ad alzarmi dal letto e mi conduce al piano
superiore, in una stanza sconosciuta».
Possiamo ora immaginare differenti analisti junghiani e
il tipo di interpretazione che ognuno di essi può dare di questo sogno:
1. Analista Io-attivo: l’intero sogno è caratterizzato dolla
passività del tuo Io. Sei sdraiata: una posizione alquanto
inconscia, che favorisce il senso di agitazione inconscia.
Senza sforzo da parte tua, prendi quel che ti viene porto.
Sei quindi portata via dall’Animus, in alto, in un’area
ulteriore di fantasia passiva.
2. Analista relazione-sentimento: sei sola in una stanza,
isolata e tagliata fuori dal tuo matrimonio, dalle amicizie, dai figli. Non esprimi mai sentimenti alle altre figure del sogno, né hai contatti reali con esse. Vieni quindi
condotta nelle regioni superiori, in compagnia solo del
tuo Animus, sola e lontana, la principessa nella torre.
3. Analista orientato sul transfert: sei in una posizione sessuale semiconscia, in cui l’agitazione rappresenta le tue
proiezioni erotiche non riconosciute. Fantastichi varie
soluzioni: (a) la madre fallica, o (b) l’uomo che ti conduce al piano superiore verso uno sconosciuto culmine di
intensità. Una di queste soluzioni (in chiave sessuale) si
riferisce alla tua proiezione su di me come tuo salvatore.
Ma ogni processo psichico, per quanto può essere osservato come tale, è
essenzialmente «teoria», è cioè una «presentazione»; e la sua ricostruzione
– o «ri-presentazione» – è nel migliore dei casi una variante della presentazione stessa.
C.G. JUNG1
4. Analista Animus-sviluppo: quando sei di fronte alla tua
agitazione, questa diventa la donna di mezza età: hai
paura di diventare vecchia e infeconda. Ma in quella
donna più anziana trovi la chiave creativa che diventa
poi l’Animus sconosciuto, che ti porta verso la stanza di
sopra, cioè verso la parte sconosciuta della tua psiche,
dove ora può avvenire un lavoro creativo.
5. Analista introverso: eccoti infine sola con te stessa, nel
vaso. Ricevi ora un aiuto dall’interno. La tua femminilità
interiore ti dà la chiave, perché la chiave è la claustrazione in cui affronti un’inquietudine interiore, finora negata
dalle tue difese estroverse e dall’acting-out. Questo ti
porta al passo successivo, la figura dell’Animus, che ti
aiuta ad alzarti dal letto e ti conduce a un altro livello.
6. Analista femminile-madre terra: giacevi passiva, con
naturalezza, in contatto con i tuoi sentimenti reali (posizione depressiva). Ora puoi ricevere doni dal femminile,
la madre positiva. Sfortunatamente non appena appare
l’Animus perdi questa unione, seguendolo in alto verso
l’intelletto.
7. Analista orientato sul processo: non è tanto importante
il contenuto del sogno, quanto la maniera in cui l’hai
presentato nella nostra seduta (il fatto che me l’hai raccontato con voce così aggressiva; il fatto che hai aspettato fino alla fine dell’ora; il fatto che me l’hai dato
scritto chiaramente a macchina e poi ti sei adagiata passiva, aspettando l’interpretazione).
Quando leggiamo queste sette enunciazioni, quanto le
tesi dell’analista sembrano evidenti in alcune e quanto credibili e accurate in altre! Tuttavia, ognuna di queste prospettive può essere desunta da scritti di Jung sul sogno, e nessuna
di esse è necessariamente errata. Qui non ci interessa il «giusto» o lo «sbagliato» riguardo alle risposte precedenti, ma
piuttosto perché ne preferiamo una a un’altra. Si potrebbe
evitare il problema dicendo che dipende tutto dalla reazione
del paziente – quale interpretazione fa «click» per lui. Ma
per quanto pratico possa essere questo approccio, nasconde
una difficoltà essenziale, dal momento che ha a che fare con
quella che può esser chiamata una sensibilità teoretica.
Sappiamo dagli studi comparativi, fatti su indirizzi teorici e su stili di terapia diversi, che virtualmente ogni terapia
«funziona»: ogni terapia dà prova di raggiungere gli scopi
che si propone, e i fallimenti hanno la stessa incidenza
l’immaginale
5
quantitativa in tutti i tipi di terapia. Benché di per se stesso
non sorprenda, dal punto di vista dei risultati il relativismo
in terapia può portare a gravi conseguenze. Apre la strada a
un aspetto della psicoterapia poco diverso dalla ciarlataneria, dalla nevrosi da transfert sintonico, dalla suggestione
isterica, dalla acquiescenza dottrinale, dalla conversione
religiosa e dal lavaggio del cervello adottato in politica. Per
questi e in questi troppi «clicks», il soggetto si sente cambiato in meglio sulla base di intuizioni rivelate. Se manca
un discernimento sensibile fra le teorie, non importa più
quale teoria abbiamo; un’idea è buona quanto un’altra, purché funzioni – e ciascuna funziona in egual misura. Se ci
sono teorie migliori o peggiori sull’interpretazione del
sogno, queste non possono basarsi su ciò che fa «click» –
perché quando perdiamo la nostra sensibilità su questo
punto, la perdiamo anche nella pratica.
Inoltre, poiché il nostro più importante modo di riflettere su quel che stiamo facendo è attraverso i sogni, è fuori
discussione che diventare consci delle nostre ipotesi è di
importanza fondamentale. È il punto cruciale della nostra
pratica. Gli alchimisti non solo facevano esperimenti, ma
trascorrevano in egual misura il loro tempo in un certo tipo
di theoria – pregando, leggendo e riflettendo su ciò che stavano facendo. Fare della «praticità» il nostro criterio determinante è infatti una forma di immoralità, di quel tipo che
osserviamo anche nello psicopatico, per il quale è buono
ciò che funziona. Ma piuttosto che lasciarci troppo trasportare da questa accusa morale contro il pragmatismo, sarebbe
forse più vantaggioso rivolgersi al suo contrario, all’importanza psicologica della teoria.
Dal momento che la teoria è così determinante per la pratica – dopo tutto, ciò che mettiamo in pratica è teoria –, perché
si possa essere consci di ciò che facciamo con i sogni, dobbiamo divenire consapevoli di ciò che pensiamo dei sogni. Dobbiamo esaminare non solo come mettiamo in pratica la nostra
teoria, ma anche ciò che di essa mettiamo in pratica. Questo
significa rivolgersi alle nostre ipotesi e diventare consapevoli
della nostra inconscietà anche in questo campo.
Quindi, ciò che elaboreremo in questo saggio è uno strumento (uno tra tanti) per afferrare con più precisione le idee
che sono in fondo a noi quando esaminiamo i sogni. Nostra
intenzione è di elaborare alcuni mezzi per un’«autocoscienza interpretativa», un procedimento attraverso cui poter esaminare il nostro effettivo processo interpretativo, interpretare le nostre interpretazioni.
Come abbiamo detto, i metodi hanno ipotesi sottostanti,
e anche questo metodo implica una posizione teorica. Il
nostro presupposto fondamentale è che il sogno è qualcosa
in se stesso e per se stesso. È un prodotto immaginale in
tutto e per tutto. Indipendentemente da quel che facciamo o
non facciamo con esso, – è un’immagine.
I. IMMAGINE
Dobbiamo aderire all’immagine!
R.L. PEDRAZA
Come dice Jung, per immagine «non intendo la riproduzione psichica dell’oggetto esterno, quanto piuttosto una con-
cezione proveniente dal linguaggio poetico, cioè l’immagine fantastica, che si riferisce solo indirettamente alla
percezione dell’oggetto esterno. Questa immagine si basa
piuttosto sull’attività fantastica inconscia»2. In questo passo
Jung dà luogo a una distinzione tra immaginazione e percezione. Un’immagine della fantasia è sensibile anche se non
è percettuale; ha cioè ovvie qualità sensuose – forma, colore, struttura –, ma queste non sono derivate da oggetti esterni. D’altro canto la percezione ha a che fare con cose reali
oggettive – quel che vedo è reale e lì. E così, siccome rivendicano una realtà esterna, le allucinazioni (sia psicotiche
che psichedeliche) riguardano la percezione; mentre le
immagini del sogno riguardano l’immaginazione. I due
modi, immaginale e percettuale, si affidano a funzioni psichiche distinte e differenziate. Per quanto concerne
l’immaginazione, qualsiasi questione di referente oggettivo
è irrilevante. L’immaginale è a suo modo assolutamente
reale, ma mai «perché» corrisponde a qualcosa di esterno.
Benché figure e luoghi del sogno spesso prendano a prestito
l’aspetto della realtà percettiva, non derivano necessariamente dalla percezione. Come leggiamo in Jung, le immagini nei nostri sogni non sono riflessi di oggetti esterni, ma
sono «immagini interne».
Ma perché allora, possiamo chiederci, a volte sogniamo
figure del nostro mondo percettivo e altre volte figure che
non sono mai state percepite? Di certo la figura familiare
deve essere un certo tipo di immagine a posteriori, o Tagesrest. La maniera tradizionale con cui trattiamo le immagini
che corrispondono a figure legate alla percezione è di chiamarle prodotti dell’inconscio personale e di cercare poi di
classificare le proiezioni che esse ci portano. Fin qui tutto
bene, perché sembra che quel che stiamo realmente facendo
sia cercare di redimere queste immagini dal loro imprigionamento percettivo e di recuperarle come psichiche, spostando con ciò il nostro punto di vista dal percettivo all’immaginale.
Ma questo non può avvenire, la nostra uscita da questo
mondo percettivo resta bloccata, il nostro procedere si
arresta quando abbiamo a che fare con queste cosiddette
figure personali a un livello personale, dimenticando che
sono fondamentalmente immagini della fantasia «celate»
in immagini a posteriori. Le figure personali sono proprio
quelle maggiormente legate alla nostra prospettiva letterale. Quando il mio sposo, i miei figli o un amico appaiono nel mio sogno, in una certa misura sono stati allontanati dal quella «realtà» del mondo percettivo al quale sono
così strettamente uniti. Il sogno offre l’opportunità di rendere metaforiche queste figure, e così la psiche può essere
osservata mentre opera «verso» l’immaginale, allontanando dal percettivo, ripetutamente e insistentemente. Si può
considerare questo movimento come l’opus contra naturam della psiche, un’opera che si allontana dalla realtà
naturale del percettuale e va verso la realtà psichica dell’immaginale.
Dobbiamo ora guardare più da vicino al tipo di realtà
che un’immagine possiede. Dobbiamo esaminare più accuratamente che cosa intendiamo qui per immagine, e un
modo di farlo è considerarla separatamente, attuando una
sorta di «analisi dell’immagine».
l’immaginale
6
Sensualità. Una ragione per cui le immagini si fondono
così facilmente con le immagini a posteriori derivate dalla
percezione sensoriale, è perché anche le immagini sono
fondate sui sensi, anche le immagini implicano una specie
di corpo. Ma questo corpo non è un corpo «naturale» percettivo, più di quanto lo siano le immagini derivate da
oggetti naturali percettivi. Il corpo cui si riferiscono le
immagini è metaforico, un corpo psichico nel quale le combinazioni sensoriali e tutte le qualità sensoriali dell’immagine, che per la percezione, per un motivo o per l’altro, sarebbero bizzarre, incomplete, soverchianti o distorte, prendono
qui significato.
Trama. La parola «trama» è in relazione al tessere. Così,
essere fedeli a una trama significa sentire e seguire la sua
tessitura. Quando diciamo di porre un sogno nel suo contesto, con la trama, cioè, della vita di chi sogna, tendiamo a
dimenticare che il sogno ha un senso, una trama, è tessuto
secondo disegni che offrono un contesto compiuto e pieno.
Le situazioni della vita non devono essere gli unici mezzi
per mettere in relazione il sogno con questo suo aspetto di
trama. L’immagine ha di per sé una trama.
Emozione. Inseparabile, sia dalla sensualità che dalla
trama, è l’emozione. L’immagine di un sogno è, o ha, una
qualità d’emozione. I momenti del sogno possono essere
espansivi, oppressivi, vuoti, minacciosi, eccitati… Queste
qualità emozionali non sono necessariamente riferite verbalmente dal sognatore nel suo racconto, o rappresentate dall’Io
del sogno nelle sue reazioni o da altre figure del sogno. Sono
aderenti o inerenti all’immagine e possono non essere affatto
esplicite. Anche se non riconosciute dal sognatore nel sogno,
sono cruciali per «la loro connessione con le immagini. Non
possiamo prendere in considerazione alcuna immagine nei
sogni, come nella poesia o nella pittura, senza sentire la qualità emozionale presentata dall’immagine stessa.
Simultaneità. Un’immagine è simultanea. Nessuna parte
precede o causa un’altra parte, benché tutte le parti siano
intrecciate tra di loro. Perciò consideriamo il livello di immagine del sogno come non progressivo: nessuna parte avviene
prima, o conduce a una qualsiasi delle altre parti. Possiamo
immaginare il sogno come una serie di sovrimpressioni, e
come se ogni evento aggiungesse tessuto e spessore al resto.
Del sogno di prima possiamo allora dire che l’Io orizzontale
del sogno (la sognatrice sdraiata), la donna con la chiave,
l’uomo che conduce di sopra, sono tutte espressioni essenziali per lo stato psichico; nessuna di esse introduce un significato secondario. Sono strati l’uno dell’altro e inseparabili
nel tempo. Possiamo esprimere tale relazione come mentre o
quando. Mentre l’Io del sogno giace agitato, una donna di
mezza età porge una chiave e un uomo conduce in una stanza sconosciuta. Non importa quale frase viene «per prima»,
perché non ci può essere priorità in un’immagine – tutto
viene dato contemporaneamente. Ogni cosa sta accadendo
mentre tutto il resto sta accadendo in modi diversi, simultaneamente. L’accento che Jung pone sulla «situazione attuale» non è necessariamente da identificarsi con la situazione
di vita letterale, che allontana il sogno dalla presenza del-
l’immagine, ma può anche voler dire che ogni parte del
sogno è simultaneamente presente.
Relazioni interne. Tutti gli elementi (personaggi, ambienti, situazioni) all’interno di un sogno sono in qualche modo
connessi. Ciascuno è una parte dell’immagine globale del
sogno, così che nessuna parte può essere privilegiata o contrapposta ad altre parti. Con questa completa relazione interna del sogno, vogliamo mettere in evidenza la piena democrazia dell’immagine: tutte le parti hanno eguale diritto di
essere ascoltate, appartengono allo stato, e non ci sono posizioni privilegiate all’interno dell’immagine. (Questo non
significa negare le innate gerarchie all’interno dell’immagine, cui arriveremo più avanti, a «Valore».) Vediamo ora un
esempio, che mostra come la relazione interna appare nell’immagine di un sogno. Una donna sognò: «Sono a letto,
quando un buffo gnomo emerge dalle coltri. Mi guarda
timidamente, come se volesse un contatto sessuale. Proprio
in quel momento il mio amico R. (un conservatore, un
responsabile e anziano gentiluomo) appare sulla porta e
grida “Fuggi!”, come se fossi in gran pericolo».
Un modo di esaminare questo sogno potrebbe essere
quello di considerare l’amico conservatore R. e lo gnomo
briccone come opposti, tra i quali la sognatrice deve scegliere. Ma tale approccio equivarrebbe a «fissarli» in
opposizione, rafforzando quella che è già l’esperienza dell’Io del sogno. Tenendo conto della coincidenza degli opposti (la coincidentia oppositorum), cioè l’immagine globale
del sogno in cui tutte le parti si adattano l’una all’altra,
vedremmo lo spaventato R. costellato in realtà dallo gnomo
amoroso e viceversa. Loro due insieme sono l’immagine.
Nella vita quotidiana, quando la sognatrice è in relazione
con la sua creatività da gnomo, la sua bricconeria, e così
via, il suo Animus conservatore e responsabile la spaventa e
la spinge a fuggire, a scindersi dagli aspetti propri dello
gnomo, più bassi; e d’altra parte, quando l’Animus responsabile è in uno stato di panico, da qualche parte, probabilmente a livello molto inconscio, si verifica un investimento sullo gnomo. Nella vita quotidiana fa cadere la borsa,
perde le chiavi, crea inconsciamente malintesi… Se dobbiamo aderire a questo livello immaginale del sogno, il punto
essenziale è trattenersi dallo scegliere tra i personaggi.
Spesso occorre anche mantenere una certa tensione fra
vari ambienti. Un uomo sognò: «Mi muovevo nella cucina
di mia madre e vidi l’Enciclopedia Britannica sul banco».
L’immagine è la cucina di sua madre, dove c’è un’enciclopedia. Una tendenza immediata sarebbe quella di distruggere quest’immagine dicendo, per esempio, che «un’enciclopedia non sta in una cucina», o che «essa mostra l’Animus
di tua madre». Mentre la prima affermazione significherebbe tradire del tutto l’immagine (perché le immagini più efficaci congiungono in effetti gli opposti più discordanti), la
seconda sarebbe in se stessa un’affermazione dell’Animus –
un giudizio preconcetto. Ma restituendo all’immagine il
riconoscimento e la dignità di un prodotto psichico infinitamente più profondo di noi, possiamo acquietarci.
Dentro la cucina di sua madre c’è un’enciclopedia o un
rospo o un vecchio storpio. La psiche ha già fatto qualcosa,
qualcosa sta accadendo nella cucina di sua madre. Per il
l’immaginale
7
sognatore l’importante è «lavorare» su quest’immagine (e
far sì che questa immagine «lavori» su di lui) in qualunque
maniera che sia immaginativo-esperienziale – il che richiede di mettere a freno il giudizio e l’interpretazione.
Valore. Alcune immagini sembrano più potenti, più
attraenti di altre. Per esempio, l’enciclopedia risalta sorprendentemente in quella che altrimenti apparirebbe come
una scena del tutto comune. Spesso, come in questo caso,
l’attrazione sembra risiedere in una singolare combinazione
d’immagine e di ambiente (un leone nel bagno), o a volte in
una singolarità dell’immagine stessa (un serpente alato). In
entrambi i casi le immagini sono «innaturali».
Quando il sogno presenta un’immagine che va contro il
normale corso delle cose, si presume che tali immagini
siano di gran valore, perché sono esempi dell’opus contra
naturam». Per come comprendo la concezione che Jung ha
dei simboli, essi cambiano il corso della natura ed elevano
la sua energia a un valore più alto. Di qui il fatto che
l’immagine innaturale, insolita, peculiare sia quella che si
distingue e che contiene il maggior valore.
C’è un’altra maniera di riconoscere il valore delle immagini del sogno. Immagini ordinarie possono essere investite
di sentimento, per esempio il piccolo cane marrone della mia
infanzia o la sciarpa che mia madre mi regalò a Natale. C’è
però bisogno di una differenziazione tra sentimenti-sentimentalismo, kitsch, desiderio struggente, nostalgia, aspettativa…
Il sogno scopre l’immagine del sentimento, mostrando il sentimento per quello che è. Così si può leggere il sentimento
attraverso l’immagine, come l’immagine attraverso il sentimento. Il cane o la sciarpa sono di gran valore solo perché li
«sento» fortemente nel mio sogno, ma il sogno mi dice anche
dove si trovano i miei forti sentimenti di nostalgia. Trattare i
nostri sentimenti più imbarazzanti di un sogno da un punto di
vista sentimentale, significa perdere l’imbarazzo e di conseguenza la discriminazione della qualità del sentimento.
Il caso è simile a quelle situazioni in cui uno sente lo stimolo a scegliere tra, diciamo, città e campagna, cielo e
terra, la casa paterna e il proprio appartamento. Un sogno
può mostrare la città come un luogo che dà ai nervi, la campagna idilliaca, il cielo spaventoso, la terra nutritiva, la casa
paterna complicata e insignificante, l’appartamento
indipendente come luogo riservato e appagante. Tuttavia
ognuna di queste sensazioni è una fantasia dal punto di
vista dell’altra. La città sembra minacciosa proprio a causa
della mia fantasia idilliaca e viceversa. Scegliere tra l’una e
l’altra di queste immagini parziali, significa perdere l’immagine più ampia, che dopo tutto è una totalità! Identificarsi con la fantasia del sogno nei termini in cui si è presentata,
vuoi dire perdere il significato della fantasia.
Struttura. Esistono relazioni strutturali significative
interne alle immagini e tra esse. Di conseguenza le immagini in una certa misura dipendono per il loro significato una
dall’altra. Ma è importante su questo punto distinguersi da
quegli indirizzi di pensiero che vorrebbero vedere le immagini come «solo» strutture, e derivanti il loro significato
interamente dalle impronte che riempiono. Secondo qualsiasi tipo di pensiero strutturale, forma e materia, struttura e
contenuto, possono essere separati; secondo il pensiero immaginale queste coppie sono invece un’unità. Il vecchio
saggio è sia una struttura archetipica che un contenuto, e
anche il numero quattro, il «quaternio», questa idea strutturale astratta, è un contenuto immaginale che appare come le
quattro persone della mia famiglia, o un’auto per quattro
passeggeri, o un quartiere della città.
Poiché le immagini con i loro contenuti sono sempre
disposte strutturalmente all’interno di un sogno, non possiamo parlare di esse al di fuori di questo contesto. L’uccello
rosso di un sogno e l’uccello rosso di un altro sogno non
implicano mai esattamente lo stesso contenuto, poiché né la
loro relazione strutturale nel sogno, né le altre immagini del
sogno, con le quali sono strutturalmente in relazione, sono
identiche.
Ma è vero anche il contrario. Dal momento che le strutture sono composte di immagini con contenuti, non possiamo parlare di esse al di fuori di questi contenuti. Sogni
identici con un solo contenuto diverso, diciamo un uccello
nero anziché uno rosso, porterebbero a significati diversi. In
altre parole, non è la posizione da sola che promuove il
significato di un simbolo, ma sia la posizione che il contenuto. L’uccello rosso non è il risultato di determinanti strutturali (leggi di forze, opposizioni binarie, grammatica, linguistica, o altro), ma è esso stesso una delle determinanti
che danno forma al sogno. L’immagine è essa stessa un’irriducibile e completa unione di forma e contenuto, e a nostro
giudizio non può essere considerata separatamente, come se
fosse solo uno dei due aspetti. L’immagine è sia il contenuto di una struttura che la struttura di un contenuto.
II. IMPLICAZIONE
… l’interpretazione deve guardarsi dal fare uso di un qualsiasi punto
di vista altro da quelli manifestamente offerti dallo stesso contenuto.
Se qualcuno sogna un leone, la corretta interpretazione può trovarsi
solo nella direzione del leone; in altre parole sarà essenzialmente una
«amplificazione» di quest’immagine. Ogni altra cosa sarebbe un’interpretazione inadeguata e scorretta, perché l’immagine «leone» è una
presentazione del tutto inequivocabile e sufficientemente esplicita3.
Dopo aver esposto l’aspetto iniziale del nostro approccio al
sogno come immagine, ed avere esplorato quel che è l’immagine, procediamo alla sua elaborazione: quel che l’immagine implica.
Questa seconda modalità di approccio ha a che fare con
l’intero procedimento del trarre implicazioni dall’immagine
originale. Naturalmente, quanto più ci allontaniamo dall’effettivo testo del sogno, tanto più la nostra interpretazione si
apre a problemi, a differenze individuali, a inclinazioni e a
particolari aree di conoscenza (con le lacune che ad esse si
accompagnano). Quando parliamo di questo movimento
dall’immagine all’implicazione (e a una terza categoria, alla
quale giungeremo più avanti), non stiamo parlando di una
progressione sequenziale nell’atto di interpretare. Non è che
noi necessariamente osserviamo prima l’immagine e poi ne
traiamo delle implicazioni, e così via, in questo ordine. Ma
tutti questi sono aspetti dell’interpretazione, il cui ordine
non è sequenziale, ma ontologico. L’immagine è primaria
non nel tempo, non perché ci è necessario considerarla per
l’immaginale
8
prima quando si considera un sogno; l’immagine è primaria
in un senso più fondamentale, quello al quale ritorniamo
più e più volte e che è lo sfondo e la fonte della nostra
coscienza immaginale.
Così, quando consideriamo il sogno nelle sue implicazioni, ci accorgiamo che si restringe ulteriormente la selettività con cui stiamo operando. E questo sembra paradossale,
perché si ha la sensazione (a causa del nostro maggiore sviluppo concettuale? a causa della nostra tradizione iconoclastica?) che sia l’immagine il modo più limitato. Il sogno
dice solo questo, o dà queste particolari immagini, mentre
le implicazioni sembrano estendersi in molte direzioni. Ma
allontanandoci dall’immagine e procedendo verso l’implicazione, ci priviamo delle profondità dell’immagine – le
sue ambiguità senza limite, che possono essere solo in parte
afferrate con implicazioni. Cosicché diffondersi sul sogno
significa anche restringerlo – un’ulteriore ragione per non
allontanarci troppo dalla fonte.
Narrazione. Fin qui abbiamo trattato il sogno da un
punto di vista relativamente statico, sentendo i vari eventi
del sogno come i suoi livelli e le sue trame. Ora però cominciamo ad ascoltare e a osservare il sogno nel suo aspetto
narrativo e drammatico. Era a questo aspetto del sogno che
Jung si riferiva quando parlava della sua struttura drammatica (esposizione, sviluppo, peripezia, lisi)4.
Poiché la maggior parte dei sogni appaiono in questa
forma di racconto, possiamo qui giustamente seguire Jung e
servirci della narrazione piuttosto che dell’immagine, come
categoria primaria. Ma questo ci conduce a nuove complicazioni, la prima delle quali è il carattere verbale della narrazione. Anche se le parole contengono le immagini, le parole
non possono contenerle del tutto: parole e immagini non
sono identiche. Dato che le immagini sono primarie per noi,
qualsiasi forma in cui viene modellata l’immagine è per
conseguenza una sua trasposizione, è forse un passaggio
che allontana da essa. Naturalmente, trasformando un’immagine in parole, l’immagine può vivificarsi e arricchirsi;
allo stesso tempo tuttavia ciò appesantisce le immagini permeandole di tutti i problemi del linguaggio. La lingua diviene ora il contesto, un contesto che richiede il suo genere di
coerenza. Abbiamo fatto tutti l’esperienza di lottare per
scrivere in forma coerente quel che sembra un sogno essenzialmente incoerente. Ma comincio a dubitare della nostra
idea di coerenza. È veramente il sogno incoerente, o è il
nostro approccio verbale che lo rende tale? Le immagini
non richiedono parole per manifestare il loro intrinseco
significato, ma non appena siamo coinvolti con il linguaggio, allora ciò che aderisce all’immagine viene trasposto in
coerenza verbale. Così troviamo che alcuni sogni non possono essere descritti con parole. Sembrano far resistenza
alla trasposizione e allora li troviamo «incoerenti». Non riusciamo a mettere assieme le immagini entro una storia.
La seconda difficoltà con la narrazione è quindi che la
sua natura verbale richiede una coerenza di tipo particolare:
una storia, o il senso di una sequenza. Una cosa accade
prima di un’altra e conduce a un’altra ancora. Ma la successione dei frammenti del sogno è spesso ambigua. E dal
punto di vista dell’immagine .deve essere così, perché l’immagine non ha un prima e un dopo. Attraverso il nostro racconto, i frammenti del sogno, la cui successione è ambigua,
tendono a diventare una cosa piuttosto che un’altra. Il nostro
racconto genera una direzione irreversibile e dà forma al
sogno entro un modello definito.
Rilevare i limiti della narrazione non significa mettere
in dubbio il potere della parola, il logos, in terapia – anzi, la
maniera in cui raccontiamo la nostra storia è quella in cui
diamo forma alla nostra terapia; significa semplicemente
mantenere distinto il racconto dallo strato immaginale fondamentale, e notare che la loro fenomenologia è a volte
discrepante. Quando capitano lacune verbali o narrative nel
racconto del nostro sogno noi le riempiamo, elaboriamo ciò
che potrebbe dar senso al significato narrativo, ma non
necessariamente al significato immaginale. Le immagini
sono del tutto reversibili, non hanno un ordine o una successione fissa. In alcuni casi queste «interpolazioni» narrative distorcono o persino tradiscono l’immagine, perché
tendono a collassare l’immagine nel racconto, entro la storia di cui parliamo. E se i sogni sono principalmente immagini – la parola greca per sogno, oneiros, significa immagine e non racconto – allora disporre queste immagini come
se fossero una narrazione è come guardare un dipinto e trarne una storia.
Questo carattere di racconto è rinforzato anche dalla
terapia. Quando narriamo i nostri sogni, narriamo le storie
della nostra vita. Non solo il contenuto dei sogni viene
influenzato dall’analisi, ma lo stesso stile del nostro ricordare. L’analisi tende a enfatizzare quello narrativo piuttosto
che quello imagistico, anche se l’accento posto da Jung
sulla pittura e sulla scultura ha contributo a ripristinare il
primato dell’immagine. Ma il nostro reale interesse qui non
è se sia più fondamentale il racconto imagistico o quello
narrativo. Pensiamo piuttosto, dal momento che lo stile narrativo della descrizione è inestricabilmente legato a un
senso di continuità – che in psicoterapia chiamiamo l’Io –,
che l’abuso della continuità a causa dell’Io sia un rischio
sempre presente.
Questo ci porta alla terza e più importante difficoltà presentata dalla narrazione: essa tende a diventare il viaggio
dell’Io. L’eroe sa bene come trovarsi al centro di ogni racconto; può trasformare qualunque cosa in una parabola del
modo di raggiungere il centro, del modo di occupare comunque il gradino più alto. La continuità in un racconto diventa
il continuo avanzare dell’eroe stesso. Cosicché, quando leggiamo un sogno come narrazione, non vi è niente di più
tipicamente egoico che considerare la sequenza dei movimenti come una progressione che culmina nella giusta
ricompensa o nella disfatta del sognatore. Il modo in cui un
racconto ingloba l’individuo come suo protagonista corrompe il sogno e ne fa uno specchio ove l’Io vede soltanto
quel che gli interessa. E poiché il suo principale interesse è
il progresso comunque sia, l’interpretazione del sogno
diviene ben presto parte del progredire eroico. Colui che
sogna e colui che interpreta il sogno abbreviano la loro strada attraverso l’inconscio qui decidendo, là rifiutando, perché la successione degli eventi è caduta preda dell’idea del
l’immaginale
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miglioramento progressivo. Il prima e il poi diventano
anche il peggiore e il migliore.
Il problema è aggravato dal fatto che sia il sognatore
come appare nel sogno, che le tendenze eroiche di colui che
interpreta, possono presentarsi in forme più sottili di quella
ovvia che chiama in causa l’eroe implicitamente. Entrambi
possono essere eroici nella funzione, anche se sono sensibili
e umili. Come Eracle si vestì con un abbigliamento femminile, può farlo a un certo punto anche la coscienza eroica.
Ma sotto questa umiltà c’è ancora l’Io come centro del
sogno o della storia terapeutica. Il sogno ruota intorno a lui,
intorno alla sua individuazione.
Quel che veramente intendiamo quando parliamo di
coscienza eroica dell’Io, non è tanto questa o quella figura
mitologica, quanto piuttosto quell’atteggiamento che rompe
la continuità e l’interconnessione proprie all’immagine del
sogno come un tutto. Questo atteggiamento discrimina continuamente tra bene e male, amici e nemici, positivo e negativo, a seconda di quanto queste figure ed eventi si accordino con la nostra opinione di progresso. Interpretare quindi
come «negativi» o «positivi» questi stessi personaggi significa considerare la narrazione nel suo aspetto esteriore, ed
essere presi perciò dall’idea di movimento che ha l’Io nel
sogno.
Poiché l’errore è di tipo piuttosto ovvio, la sofisticazione
analitica ci ha insegnato a fare l’una o l’altra mossa opposte.
Possiamo, per esempio, prendere le parti dei ragazzi cattivi,
dando credito al punto di vista dell’inconscio (le forze opposte all’Io del sogno). Oppure possiamo tentare di prendere in
maniera drastica le distanze dal racconto, giudicandolo.
Allora dimostriamo come la situazione del sogno possa
essere stata manipolata abilmente proprio là dove l’Io ha
imboccato una direzione sbagliata, o dove ha instaurato una
situazione autodistruttiva. Diventiamo come insegnanti che
giudicano l’esecuzione. Ma con questo giudicare, forse
siamo intrappolati ancor più dal racconto e dalla sua enfasi
egoica, perché questa trappola è ancora più sottile. Le nostre
osservazioni interpretative sui modi migliori di trattare il
sogno sono affermazioni di una coscienza eroica, la nostra,
più esperta, contro un’altra che lo è di meno (quella del
sognatore, ora identificato con la rappresentazione di sé nel
sogno). Lo stiamo semplicemente spingendo a barattare il
suo mito eroico con il nostro, o a raffinarlo in conformità del
nostro.
Poiché il coinvolgimento dell’Io provocato dal racconto
è forse, a un certo livello, inevitabile, prima di andare avanti dovremmo mostrare per il racconto quel tanto di rispetto
che gli è dovuto. Non possiamo ascoltare una storia senza
sentirci rapiti; non possiamo raccontare una storia senza
sentire noi stessi in una parte di essa. Il racconto ci rapisce
emozionalmente e immaginativamente, ed è una modalità
estremamente profonda di esperienza archetipica. Sia che
arriviamo o no ad affermare come alcuni fanno (vedi Stephen Crites) che senza la narrazione non ci sarebbe affatto
esperienza, possiamo almeno esser d’accordo sul fatto che i
racconti trasformano l’esperienza e arricchiscono di significato archetipico i comportamenti quotidiani. Eventi personali, umori, gelosie e persino sintomi, quando sono riflessi
attraverso una storia, acquistano peso e cionondimeno
distanza. Schemi di vita unilaterali diventano multidimensionali, e le variazioni apportate dalla narrazione diventano
tutte parti della nostra esperienza.
Ma è anche vero proprio il contrario, quando prendo,
come una certa parte di me fa sempre, il racconto troppo
egotisticamente, troppo personalmente. In questo caso sono
troppo inflazionata dalla natura archetipica del materiale, e
il materiale a sua volta è rimpicciolito perché si adatti ai
bisogni del mio Io. C’è anzi un aspetto regressivo della
poiesis, un mezzo con il quale io posso soltanto rafforzare
la mia miopia, con il quale posso tralasciare di vedere la
fantasia nel suo errante aspetto autonomo, come non proprio «mia». Quando la guardo nella sua grandezza archetipica, i giudizi crollano. In nessun modo posso dire che questo personaggio è una persona buona, questa è cattiva, questa figura «fa la mossa sbagliata», o accorgermi di «quanto
era inconscia». I personaggi sono inconsci. Data la disposizione, essi fanno tutti quel che devono fare; e dati i personaggi, la situazione deve essere qual essa è.
In conclusione, il modo con cui trattiamo il racconto è lo
stesso con cui trattiamo la nostra psiche. Ascoltare la storia
del sogno come allegoria morale, con un messaggio per un
comportamento giusto o sbagliato (progressivo, regressivo),
significa assidersi a giudizio al di sopra delle nostre anime.
Quando tuttavia consideriamo il racconto come archetipico,
tutti i personaggi diventano preziose entità soggettive, sia
minori (solo un frammento di, non un’identità) che maggiori
(con maggiore risonanza archetipica), di qualsiasi nostro
punto di vista particolare, ristretto e riguardante l’Io.
Amplificazione. Una modalità con cui ci avviciniamo
alla narrazione in analisi è l’amplificazione. Amplificare un
sogno significa tentare, attraverso analoghi culturali, di renderlo più sonoro, ricco di echi e più ampio. A prima vista
può sembrare che questo processo richieda soprattutto un
bagaglio di conoscenze culturali e una certa dose di intuizione e di fortuna. A un esame più attento scopriamo che il
processo è più selettivo e coerente.
Quando ci chiediamo quel che abbiamo fatto in un’amplificazione, scopriamo prima di tutto delle somiglianze.
Scopriamo che una figura o il tema di un sogno, in una
qualche essenziale maniera, è simile a una figura o a un
tema mitico. La comparazione che abbiamo fatto fa sì che
ci spostiamo da un’immagine personale a una collettiva e
culturale; ci siamo spostati da qualcosa di più ristretto a
qualcosa di più esteso, da qualcosa di completamente conosciuto (nel senso che è a portata di mano) verso qualcosa di
piuttosto sconosciuto (di ampia portata). La chiave sembra
essere questa qualità di essenziale somiglianza. Mentre una
somiglianza puramente casuale ci porterebbe fuori strada –
come l’enorme quantità di amplificazione usata a volte, a
danno del sogno effettivo – una somiglianza d’essenza
rimarrebbe necessariamente in contatto con l’immagine del
sogno, la relazione con la quale sarebbe espressa nel similitudine («quasi» o «come»), in modo tale da essere parallela
piuttosto che sostituire l’effettiva immagine del sogno.
Elaborazione. I sogni sono come nodi nei quali le implicazioni si condensano, nodi che noi elaboriamo cogliendo
l’immaginale
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parole chiave e, trattandoli come immagini, ne spieghiamo i
significati impliciti. Andare verso il West in un sogno significa andare verso la libertà, il nuovo, la morte, il tramonto,
la «natura», andare in senso orario, estroversione… Quando
il sognatore elabora o fa associazioni, c’è sempre il pericolo
di sopravvalutarle, di renderle determinanti. Tendiamo a
dimenticare che le sue osservazioni derivano probabilmente
dal punto di vista conscio; sono cioè egosintoniche, il che
non vuoi dire che siano irrilevanti, ma che sono limitate.
Nella maggior parte dei casi l’elaborazione effettuata
dal sognatore ci dice di più riguardo al sognatore che non al
sogno. Veniamo a sapere da questa elaborazione la situazione dell’Io e i costrutti attraverso i quali egli vede se stesso.
Diciamo che l’amico Giovanni appare in un contesto al
quale il sognatore dà gli attributi associativi di pigrizia,
malizia e mancanza di determinazione. Da ciò possiamo
supporre che l’ideale dell’Io è non-pigro, non-infido e ben
determinato. Da un punto di vista molto più importante
però impariamo che il sognatore vede alla luce di questi
costrutti. Dicono poco del sogno, perché dopo tutto sono
elaborazioni coscienti, ma ci dicono molto sulla relazione
dell’Io con il contenuto «amico-Giovanni».
Un’eccessiva sollecitudine verso il materiale associativo
ci può portare a un’ulteriore difficoltà, in cui possiamo perdere, rivolti al punto di vista conscio, le sottigliezze di una figura del sogno. In questo modo perdiamo l’occasione di dissolvere una fissità conscia, espressa dall’associazione, e per di
più rischiamo di irrigidirla ulteriormente. L’Io e «l’amicoGiovanni» diventano ancor più fermamente radicati nelle
posizioni che hanno stabilito per se stessi e l’uno per l’altro.
Ripetizione. Questa è un’altra caratteristica che attira la
nostra attenzione quando ascoltiamo o leggiamo un sogno,
e da cui traiamo delle implicazioni. Con ripetizioni intendo
somiglianze di qualsiasi tipo. Nello stesso sogno possiamo
trovare ripetizioni di aggettivi – varie cose chiamate «grandi» o «verdi»; o di verbi: correre, precipitarsi, affrettarsi; o
somiglianze nella forma: la rotondità di uno pneumatico, la
superficie rotonda di un orologio, e così via. Oppure il
sogno può presentare ripetizione come ricorrenza di un
tema, per esempio quello del movimento dal basso all’alto.
Nel sogno la segretaria non ha tempo e quindi un tizio deve
parlare al «capo»; un dolore al ginocchio è ora diventato un
mal di testa; qualcuno viene promosso a scuola. L’insieme
di queste ripetizioni mostra un tema (movimento verso l’alto) interno al sogno. Questo movimento non può essere
messo in discussione – non possiamo dire che potrebbe non
apparire – senza tradire il livello dell’immagine del sogno.
La cosa migliore che possiamo fare, e non è poco, è di porre
in rilievo la ripetizione e le sue coordinate: «capo», mal di
testa, promozione scolastica. Tutte queste cose hanno a che
fare con un’idea archetipica di più alto, e ognuna di esse
porta con sé sia i benefici che i danni di tutte le altre.
Riesposizione. Il modo più sicuro per mantenere le implicazioni aderenti all’immagine è di riesporre il sogno e le sue
frasi dando loro una nuova inflessione. Con il termine di riesposizione intendo una sfumatura metaforica che sappia fare
da eco o che rifletta il testo al di là della sua esposizione lette-
rale. Si può fare questo in due modi: il primo è di sostituire
alla parola effettiva sinonimi ed equivalenti (vedi sopra a
«Elaborazione», dove il movimento verso il West diventa il
movimento verso la libertà, la morte, ecc…). Il secondo, di
riesporre semplicemente con le stesse parole il testo, ma
accentuando la qualità metaforica implicita nelle parole stesse. La frase letterale «sto guidando» diventa «io sto guidando», oppure «io sto guidando», a seconda di quale senso
metaforico vogliamo mettere in rilievo. Senza una riesposizione tendiamo ad essere presi dall’aspetto esteriore del
sogno e a trarre facili conclusioni da esso, non riuscendo mai
a entrare veramente dentro la psiche o il sogno. Quando siamo
completamente in difficoltà con un sogno, non ci può essere
meglio da fare che ripeterlo, lasciarlo risuonare di nuovo,
ascoltarlo finché non si apra un varco a una nuova chiave.
III. IPOTESI
In nessun altro campo i pregiudizi, le interpretazioni sbagliate, i giudizi di valore, le idiosincrasie e le proiezioni, si manifestano più apertamente e spudoratamente che in questo particolare campo di ricerca,
tanto che si stia osservando se stessi che il proprio prossimo. ln nessun
altro campo come in psicologia l’osservatore interferisce più drasticamente nell’esperimento5.
Fin qui abbiamo parlato della nostra interpretazione riferendoci all’effettivo testo del sogno (Immagine) e alle
Implicazioni che si possono trarre da esso. Prendiamo ora
in considerazione una terza categoria, l’Ipotesi, che più si
allontana dal testo effettivo del sogno e che di conseguenza
è più esposta alle personali predilezioni, alle opinioni e alle
intuizioni del singolo analista. Sotto il termine Ipotesi possiamo porre qualsiasi affermazione di causalità, ogni perché di questa o quella mossa interpretativa; e parimenti
qualsiasi generalizzazione fatta sulla base del sogno, qualsiasi valutazione, prognosi, qualsiasi uso del tempo passato
o futuro (questo era o questo sarà), così come qualsiasi
consiglio diretto, che riguardi la situazione di vita dell’analizzando.
Così come nell’immagine tutti gli attributi descrittivi
sono intrecciati e vanno a formare un unico contesto, e così
come la nostra discussione sull’implicazione si accentra
sull’esame del sogno come racconto, così le sue ipotesi
implicano quell’unico atteggiamento da cui derivano. Questo atteggiamento è di sentirsi assolutamente obbligati ad
avere un effetto sull’analizzando, a dargli qualcosa, una
qualsiasi cosa da portarsi via. E sembra, abbastanza curiosamente, che quanto più gli altri due metodi hanno fallito –
cioè, quanto più noi abbiamo fallito nella nostra risposta
immaginativa al sogno – tanto più insistente è la nostra sensazione che ora dobbiamo realmente stabilire la connessione. Sfortunatamente il nostro insuccesso con l’immagine e
l’implicazione è dovuto probabilmente proprio alla nostra
trascuratezza della psiche, alla nostra perdita di realtà immaginale e di senso dell’anima. E quando questo avviene,
come sembra inevitabile, la nostra prima mossa per recuperare l’anima è quella di proiettarla dovunque, e poi di pretenderne la realtà. Quando si perde il delicato movimento
della metafora, tendiamo a chiamare in causa sostitutivi più
forti e più letterali.
l’immaginale
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Sembra adesso che il sogno possa essere reso effettivamente rilevante soltanto connettendolo a un concetto di
realtà più semplicistico, procedimento questo che va a
discapito dell’immagine, la cui realtà immaginale non può
più essere percepita. Abbiamo perso così la nostra pietra di
paragone dell’immagine come psiche e della psiche come
immagine, e anche quella che deve essere la nostra premessa, cioè che niente può essere più rilevante o reale dell’immagine stessa del sogno. Tentiamo in modo disperato di
mettere in relazione il sogno con la fantasia collettiva di
una realtà che chiamiamo vita, relazioni, il mondo quotidiano. Ma, piuttosto curiosamente, questo movimento diventa
spesso un procedere verso la magia. Perché, perdendo il
vero potere dell’immagine, deriviamo il nostro potere da
una connessione magica con il mondo della materia costruito dall’lo. Per magia qui intendo: interpretare gli aspetti
impersonali del mondo secondo le mie personali intenzioni
e i miei interessi (servendomi dei sogni per la prognosi, la
diagnosi, le predizioni, le connessioni segrete…). Una
forma moderna di pensiero magico è il pensiero causale.
Causalità. Il sogno come Immagine non fa asserzioni
causali. Gli eventi accadono in relazione l’uno all’altro, ma
questi eventi si integrano come in pittura o scultura, senza
rapporti causali. Quando nelle nostre interpretazioni facciamo asserzioni causali, come a volte può essere utile fare,
non parliamo più dell’immaginazione a partire dall’immaginazione, ma dell’immaginazione a partire da una serie di
ipotesi proprie della fisica. Il modo in cui lo facciamo fa
differenza nella nostra interpretazione. Del frammento di
sogno «Sono in una stanza con il signor X quando improvvisamente le luci si spengono», si potrebbe dire:
a) Il signor X determina lo spegnersi delle luci. (In rozzi termini analitici, ciò significherebbe che la mia ombra X,
con tutte le caratteristiche sue proprie, causa incoscienza.
Dopo aver detto questo, procederemmo a focalizzare la
nostra attenzione soprattutto sull’agente, l’ombra X.)
b) Oppure X è il risultato dello spegnersi della luce. (In
questo caso l’incoscienza è una precondizione per la
comparsa di X, e così dirigeremo la nostra attenzione
sullo stato inconscio come agente.)
Prendiamo un altro esempio:«Io e il mio fidanzato stiamo correndo sulle montagne, sopra una slitta trainata da
cavalli. Giungiamo di fronte alla casa di mia madre. Lei ci
vede e sbatte la porta così forte che i cavalli, presi dal panico, ci trascinano giù per un’altura, ad andatura terrificante».
La relazione causale più evidente è fornita qui dall’Io del
sogno – la madre che sbatte la porta causa panico nei cavalli. Ma prendere questo come base per l’interpretazione del
sogno, significa ignorare l’immagine nel suo insieme. Io e il
mio fidanzato che andiamo in slitta sulla neve della montagna, potrebbe essere visto anche come causa del fatto che
mia madre sbatta la porta, oppure come causa del panico
dei cavalli e del loro correre verso il basso. Se concediamo
eguale riconoscimento a ogni aspetto del sogno, comprendiamo che tutti gli eventi sono connessi e che si costellano
simultaneamente l’un l’altro. Dal punto di vista analitico è
quindi la situazione nel suo insieme che dobbiamo intuire,
non l’uno o l’altro aspetto che, considerato da un punto di
vista causale, tenderebbe a escludere il resto. Forse è questo
il reale pericolo del pensiero causale e la ragione per cui
Jung ci mise in guardia da esso. Quando a qualcosa viene
data priorità come causa principale, ogni altra cosa diviene
secondaria, semplici aspetti, la cui intenzionalità non è
maggiore che se fossero palle da biliardo. Di conseguenza
la finalità viene attribuita solo alla causa (o cause) iniziale,
e il resto cade in uno stato senza anima, senza movimento o
intenzionalità.
Valutazione. Questa si riferisce a qualsiasi affermazione
negativa-positiva, a qualsiasi giudizio di valore, che siano
riferiti a un sogno o a una parte qualsiasi di esso. A livello di
immagine il criterio della valutazione non può essere applicato, perché l’immagine semplicemente è. Mia madre che conficca aghi su di me (come immagine) non è né positiva né
negativa; semplicemente è. Nell’Implicazione tuttavia, con la
sua enfasi narrativa, i personaggi assumono una certa qualità,
se non proprio buona o cattiva almeno d’aiuto o d’ostacolo.
Mia madre sta ascoltando me, il protagonista. Questo però è
così solo perché ho l’idea di me stesso come protagonista, e
di conseguenza sono portato a considerare gli altri come
aiuto od ostacolo. Qualsiasi idea valutativa sul comportamento di mia madre che conficca gli spilli – «mia madre è un personaggio negativo», oppure «tutto ciò è per il mio bene» – è
pura e semplice ipotesi. Nel nostro sogno iniziale, con i sette
esempi interpretativi, potremmo con egual ragione supporre
che sia bene che la sognatrice stia sdraiata, oppure che questo
atteggiamento sia pura passività; o ancora che l’uomo sconosciuto rappresenti l’intellettualizzazione che la porta in alto e
fuori strada, oppure un Animus positivo che la conduce nelle
regioni sconosciute della sua psiche. Alcune di queste ipotesi
riteniamo riflettano le nostre proiezioni specifiche sul sogno,
oppure le nostre idee su tali cose in genere.
Generalizzazione. Un sogno è l’esposizione specifica di
una particolare costellazione di personaggi e ambienti,
cosicché qualsiasi tentativo di generalizzazione a partire da
esso è un fare ipotesi. Molto di quel che facciamo in psicologia ha a che fare con la generalizzazione. Esaminiamo un
avvenimento o un fatto specifico e immediatamente cerchiamo di dargli un qualche significato generale, di adattarlo a un contesto più ampio. Tendiamo, sulla base di un
singolo sogno, a dire che il sognatore è questo o quel tipo di
persona, o che ha questo o quel problema. Gli procuriamo
un’identità «operativa». Le generalizzazioni sono estremamente utili fino a che ci rendiamo conto che sono semplici
ipotesi più o meno acute; però molto di quel che ricaviamo
da esse possiamo realizzarlo anche tramite l’amplificazione.
Con l’amplificazione richiamiamo l’attenzione su paralleli,
patterns di significato. Tuttavia nell’amplificazione il particolare non viene perso di vista, non è inghiottito dal generale, ma gli viene posto a fianco, come una seconda melodia
nella medesima tonalità. Motivi particolari di un sogno possono senza difficoltà andare paralleli a quelli mitici e tuttavia senza essere sussunti da questi.
Specificazione. Abbastanza connesso alla generalizzazione è qualcosa che potrebbe sembrare a prima vista un
l’immaginale
12
suo opposto. Invece di ampliare il contesto del sogno, la
specificazione riguarda la sua delimitazione al fine di una
disamina specifica. Il sogno si focalizza sull’uno o l’altro
interesse del sognatore. Diciamo: «Questo sogno ha a che
fare con l’analisi, oppure con la tua relazione con tuo padre,
col tuo lavoro, col tuo matrimonio…», alludendo con questo al fatto che il sognatore dovrebbe fare qualcosa riguardo
a queste situazioni e che il sogno sta dando delle indicazioni. Infatti discutiamo del sogno come se fosse un’entità teologica; che conosce come un Dio onnisciente, che si prende
cura come il Dio del Nuovo Testamento, che crea come il
Dio del Vecchio Testamento, ma che tuttavia la pensa proprio come te o me. Il sogno si interessa di tutte le piccole
cose di cui ci interessiamo noi – dove andare, cosa fare – e
poi ci corregge, quando abbiamo fatto quello che non
dovremmo fare o abbiamo preso decisioni sbagliate. Se specifichiamo il sogno in un messaggio, il sogno viene antropomorfizzato e divinizzato. Sia che questa tendenza venga
considerata come una secolarizzazione dell’istinto religioso, uno spostamento, oppure una nuova fonte inesauribile di
significato, questa tendenza è del tutto conforme ai nostri
pregiudizi teologici. Ma qualsiasi posizione prendiamo
rispetto a questa questione teologica, dal punto di vista psicologico una cosa rimane certa: tutte le conclusioni specifiche che noi traiamo appartengono al campo dell’ipotesi. Il
sogno non dà un consiglio specifico; lo facciamo noi, appoggiandoci come sostegno al sogno.
*
Quando ripensiamo a queste ipotesi, ci si accorge che la
maggior parte di ciò che effettivamente facciamo in terapia
cade all’interno di questa categoria. Possiamo quindi presumere che l’analisi del sogno sia estremamente personale, al
punto che queste interpretazioni ci dicono di più su colui che
interpreta che non sul materiale in esame. E in realtà è così,
come sappiamo dalle sette diverse interpretazioni con cui
abbiamo iniziato. Se l’interpretazione del sogno è così soggettiva, ci potremmo chiedere com’è che funziona davvero.
Proprio qui sta il tranello – perché l’interpretazione funziona. Quel che la fa funzionare deve basarsi su qualcosa di
diverso dall’immagine del sogno e dalle sue implicazioni.
Dato che la relazione tra l’immagine del sogno e le nostre
ipotesi è così tenue, non siamo più nella situazione di poter
dichiarare che le nostre interpretazioni siano basate sul
sogno. La loro validità deve derivare da un’altra sorgente,
che presumo di poter chiamare abilità terapeutica.
Vuoi dire forse che abbiamo percorso un circolo completo, per ritornare poi al pragmatismo con il quale abbiamo
iniziato e al quale abbiamo tentato di sfuggire? Se le nostre
interpretazioni sono sostanzialmente ipotesi e queste hanno
successo in virtù dell’abilità terapeutica, allora forse dobbiamo sostenere la nostra abilità pratica con una teoria delle
terapia, distinta per esempio dalla teoria dei sogni e non una
volta ancora camuffata con essa. Siamo partiti fiduciosamente in questa direzione, tentando di riconoscere e distinguere tra i nostri procedimenti riguardo ai sogni.
Nel ripensarci possiamo anche chiederci perché gran
parte delle cose che facciamo con i sogni sia un’ipotesi.
Nonostante la ricchezza interna dell’immagine del sogno, o
forse proprio a causa di essa, ci sembra di prestare troppo
poca attenzione a questa categoria. Potrebbe darsi che facciamo delle ipotesi proprio perché non siamo capaci di
immaginare? Il sogno ci confonde con la forza delle sue
immagini e noi generalmente ci troviamo in difficoltà a
rispondere con pari forza. La nostra immaginazione non è
allenata e non possediamo un’adeguata epistemologia dell’immaginazione, in modo da incontrarci con l’immagine
del sogno al suo stesso livello.
Il training analitico ci insegna più che altro come fare
ipotesi sui sogni e come elaborare le loro implicazioni.
Impariamo imitando le ipotesi che fanno i nostri analisti sui
nostri stessi sogni. Quel che non impariamo è una psicologia dell’immagine paragonabile a ciò che studenti di archeologia, iconografia, estetica, o esegesi dei testi imparerebbero sull’immagine nei loro campi. Del resto non sappiamo
neanche cominciare a scoprire quella che potrebbe essere
una psicologia dell’immagine, finché in psicologia continueremo a servirci di quelli che consideriamo i nostri scopi
terapeutici. Forse sarebbe più appropriata l’altra strada circolare: scoprire quello di cui l’immagine ha bisogno e da
questo far derivare la nostra terapia.
Ma coltivare l’immaginazione e sviluppare una sua epistemologia è impresa piena di rischi. Da una parte dobbiamo riconoscere la nostra storica stentatezza nei confronti
dell’immaginazione (come Casey ha dimostrato)6 cosicché,
quando iniziamo a immaginare in risposta alle immagini del
sogno, della letteratura o di altro, non ci sorprendiamo di
fronte alla povertà e alla soggettività delle nostre risposte.
D’altra parte, come a compensare l’iconoclastia della nostra
tradizione, vi è un’indifferenziata glorificazione delle immagini che non porta né alla precisione né a una relazione psicologica con esse.
Forse l’unica strada fra queste due limitanti alternative è
una via negativa, una psicologia dell’immagine che parta
dal riconoscimento di procedimenti non appropriati. In questo saggio abbiamo tentato un tale approccio. Il nostro
intento è stato quello di elaborare un metodo di consapevolezza interpretativa, e di chiarire così qualcosa della confusione derivante dalle immagini primarie della psiche – quelle che si presentano nei sogni. Riflettendo sui nostri procedimenti interpretativi di fronte ai sogni, possiamo ricavarne
una certa differenziazione, rendendoci conto di quando non
stiamo dando all’immaginale ciò che gli è dovuto.
Traduzione di Bruno Minuti
gentilmente concessa dai «Quaderni della Biblioteca
Alleanza per la Fondazione Individuale»
NOTE
C.G.. Jung, CW, vol. 17, par. 162.
C.G. Jung (1921), «Tipi psicologici», in Opere, vol. VI, p. 451 s.
3.
C.G. Jung, CW, vol. 17, par. 162.
4.
C.G. Jung (1945/1948), «L’essenza dei sogni», in Opere, vol. VIII, p.
317.
5.
C.G. Jung, CW, vol. 17, par. 160.
6.
Vedi E. Casey, Verso un’immaginazione archetipica, «l’immaginale», 2,
1984 [N.d.R., «Babele», 32, gennaio-aprile, 2006].
1
2.
In libreria
C.G. Jung
Lettere, 1906-1961
in 3 volumi
[email protected] - www.magiedizioni.com
l’immaginale
14
L’immaginale al di là
della vita
ALFREDO SACCHETTI
Antropologo
l’immaginale, anno II, n. 2, 1984
«Scartafacci d’Oggi», Yerba Buena (Tucumán), 4 dicembre 1983. Dialogo di Alfredo Sacchetti (antropologo) con Benjamìn Toledo (psichiatra), alle falde
delle Ande de La Aconquija, nella regione dell'antico Tucumán, nel luogo in cui si incontrarono, lottarono e soffrirono molte razze di indigeni e di bianchi e dove ora abitano i loro discendenti. Un insieme di voci.
O
ggi ho avuto, a Tucumán, un’interessante conversazione con Benjamìn Toledo, eminente psichiatra e
mio amico, sull’immaginale in noi stessi, quella presenza esistenziale e ontologica che un tempo veniva chiamata archetipica, propria dell’individuo, in un senso quasi
paradigmatico1. E ci siamo chiesti qualcosa sul suo destino e
sulla sua eventuale immortalità.
Tutto ciò, naturalmente, mira a non confondere l’oggetto
o, per meglio dire, il soggetto dell’immaginale con ciò che è
semplicemente immaginario o fantastico.
Non so più a chi di noi due appartengano queste idee. Tuttavia, ciò che è importante è che rimangano vive come esperienze uniche e che rispondano a una dinamica di apertura verso
il mondo, come la Weltoffenheit di Arnold Gehlen2. Probabilmente ci porremo in contrasto con il neopositivismo del suddetto autore, ma tutto ciò che rimane di questa apertura è valido e reale: come quando, all’alba, apriamo una finestra sulle
Ande illuminate dai primi raggi del sole, sentiamo il canto degli
uccelli, respiriamo profondamente, diciamo «buon giorno», o
non diciamo niente, perché le parole sono superflue.
Innanzi a quella natura penetrante e profumata, mistica e
calda, in prossimità del tropico australe, si apre il mondo
intero, a prescindere dalla latitudine in cui ci si trova, e sembra di sentire le voci più strane provenienti da tutti i continenti, talvolta espressioni di gioia, altre volte pianti prolungati, ovvero canti al Signore.
Probabilmente è questo tutto il dramma dell’esistenza,
una sorta di mundus imaginalis del quale ci parla Dario V.
Caggia, secondo l’antico significato del Thesaurus Linguae,
Latinae3. Tuttavia, noi lo sentiamo dentro, come qualcosa di
presente e ontologico che «è lì»: così come se quelle voci
lontane geograficamente venissero captate da un potente
apparecchio a onde corte, si sovrapponessero a una baraonda continua e fosse impossibile distinguerle per comprendere il loro linguaggio o per stabilire una sorta di dialogo con
esse: poiché dietro quella confusione vi sono sicuramente
degli esseri che godono o soffrono, cantano o gridano disperati in una strana catarsi. Vorremmo comprenderne qualcosa.
Sarà, dunque, meglio chiudere nuovamente quella finestra e vedere se è possibile sintetizzare, isolandola, una di
quelle voci, nella tranquillità del mio pensatoio. E mi rendo
conto di essermi inebriato di aria e di profumi campestri, e
che ora percepisco meglio. Vedo persino l’immagine fisica
di ognuno dei miei amici, non importa se si trovano realmente in questo continente australe o in Africa, in Asia o nell’antico mondo mediterraneo ove nacquero i miei avi. È
come un’eidofania4 di tutti loro, con aspetti caratteristici che
un tempo mi affascinarono ma che ora non so, né mi domando, se continuano ad essere così come li videro i miei occhi.
Eppure li vedo, sono qui presenti insieme a me, perché
sento le loro voci, parlo con loro, mi rispondono: il nuovo
dialogo avviene in un nuovo miracoloso incontro.
Sto sognando? No. È una fantasia? Neppure; perché è
coerente, profonda, essenziale. E allora?
Probabilmente è un reincontrarsi di anime. Lo diciamo
con enfasi, quasi senza volerlo, e poi ci rendiamo conto che
noi non vogliamo usare così, semplicemente quella parola,
senza averne proposto una spiegazione psicologica e, di
conseguenza, epistemologica ed esistenziale. Non vogliamo
così semplicemente sfuggire alla nostra naturale tendenza
professionale per la ricerca. Scorgiamo, dunque, quel concetto di immaginale eidofanico di cui si è accennato ma in senso
dinamico, tangibile, e ci sembra che quel nuovo dialogo è di
per sé una vivencia (esperienza di vita), una vivencia rinnovata nel tempo e nello spazio. Pertanto formuliamo messaggi, percepiamo psicofanie5 di ogni genere e, talvolta, vere
teofanie: tutte manifestazioni che nascono spontaneamente
dall’essere e che trascendono i momenti passati. Il dialogo
diviene eterno, ricerca valori e difetti, sia particolari che universali. Direi, però, che non ci conduce a un’assiologia ma
semplicemente a una situazione di fatto, in quanto sento la
necessità di fermarmi, riposare e meditare sul bene e sul
male, sul sacro e sul profano, su ciò che è vivo e su ciò che è
morto, sul vero e sul falso… e guardo stupefatto. Non ho
ancora operato una scelta. Sto qui e ascolto perché quelle
voci risuonano in me, pregnanti, ed esigono una risposta.
Continuo, dunque, quella vivencia nel tentativo di divenire protagonista del teatro dell’immaginale. Assumo, pertanto, posizioni concrete, fisso un comportamento, scrivo a
un amico o salgo rapidamente in automobile, o in aereo per
recarmi a tenere una lezione o una conferenza. È come svegliarsi per incanto. La nostra meditazione odierna non deve,
tuttavia, varcare la soglia dell’esistenziale.
Vogliamo sapere qualcosa di più, e possibilmente, molto
di più di ciò che è accaduto, perché fa parte della nostra vita e
si ripete quotidianamente. Non vi sarà qualcosa di immortale?
l’immaginale
15
Quando mi trovo di fronte a questa parola mi vengono i
brividi, perché mi rendo improvvisamente conto che il dialogo che avevo avviato con Luigi Fantappiè e Niels Bohr (il
matematico e il fisico), Canto Petrocchi (il paleontologo
africanista), Sergio Sergi (l’antropologo) – e potrei continuare con un lungo elenco – non è fantasia, l’ho già detto,
eppure questi amici sono già morti. E vero che ho altri amici
vivi, lontano da qui, che non so cosa facciano in questo
momento… sebbene percepisca le loro voci, talvolta vigorose. Cosa accade in questo mondo irreale e quasi paradossale
nell’incanto della mia esistenza?
Dapprima, ho oltrepassato lo spazio dei continenti e dei
mari, ora questo paradosso si ingigantisce poiché sto oltrepassando il tempo e ho quasi la sensazione che se non lo
facessi non varrebbe la pena di vivere, perché continuo a
cercare «l’oro del tempo», di cui ci ha parlato André Breton6.
È come se il senso della vita fosse presente in questo dialogo perenne, in questo desiderio di conoscere non solo quello che accade attorno a me ma anche più lontano, a Buenos
Aires, a Cordoba, a Rio de Janeiro o a Belem, a Philadelphia
o a Chicago, a Roma o a Napoli, a Barcellona o a Madrid, a
Lisbona o a Oporto, poiché in questi luoghi e in tanti altri ho
degli amici o, Dio mio, li ho avuti.
Devo essere sicuramente sveglio dato che Benjamìn, il
mio amico qui presente, è d’accordo, acconsente e in questo
momento la segretaria mi porta il primo numero della rivista
«L’immaginale» appena arrivata dall’Italia con i nomi noti
di Dario V. Caggia, Beppino Disertori, Marcella Piazza e
altri7, filosofi e neuropsichiatri illustri del nostro tempo.
Cosa vuol dire tutto ciò? Sto scavando nei miti e nei
misteri che si trovano effettivamente nelle tradizioni di tutti
i popoli? Probabilmente. Ma, in realtà, la meditazione mi
esalta ancor di più, perché la sento realmente dentro e gli
amici che credevo morti non sono scomparsi: il loro immaginale vive con noi, palpita come noi, perché è immortale –
immortale fino a quando esisteranno uomini sulla Terra o
fino a quando ci sarà Dio tra noi, perché ho paura di pensare all’aldilà, alla fine di tutto questo.
Ricordo che nella Sardegna dei nuraghi i pastori di un
tempo vagavano con i loro greggi fra antiche torri, tumuli
funerari e resti di antichi castra, credendo ancora nel mitologema dei loro avi sull’«esistenza atemporale». Durante le
mie ricerche antropologiche mi invitarono a sperimentare
quella vita dormendo negli antichi nuraghi8. Avrei, così, vissuto fuori dal tempo e mi sarei pure reso conto, essi dicevano, del senso della mia esistenza. Ne parlai poi a Roma,
negli anni Quaranta, con uno dei più illustri studiosi di mitologia, Karl Kerényi9, in conversazioni indimenticabili. Egli
mi diede la spiegazione psicologica, sulla quale conveniva
pure il mio maestro di Storia delle Religioni, Raffaele Pettazzoni10: in tutto il mondo arcaico mediterraneo si credeva
che il tempo scomparisse dalle nostre dimensioni ontiche
nell’ora in cui il sole è nel punto più alto. Il sole, che con il
suo percorso ci indica il trascorrere del tempo, si ferma e
allora io, come l’Epimenide cretese, vivo fuori dal tempo, in
armonia con la interpretatio graeca, con quella dei Sette
Dormienti di Efeso o dell’antico Kronos iberico.
Ma, allora, è mito o realtà?
Ancora una volta esigiamo una risposta a quel dialogo
perenne che ci parla di immortalità: è dunque l’immaginale
di tutte quelle presenze dell’anima che si riflette sulle pendici delle nostre Ande?
Me lo fa pensare Pasquale Magni quando nella sua rivista dal titolo significativo di «Responsabilità del Sapere»
(1983), afferma che la luce accesa sulle montagne dell’antico Tucumán11 è visibile anche da Roma. Egli è stato da noi
per parlarci del suo nuovo atteggiamento epistemologico,
dell’homo solaris12 che si manifesta in un dialogo chiaro tra
logica mentis e logica entis, quest’ultima intesa forse come
riflesso dell’immaginale di cui abbiamo parlato13.
Se l’immaginale come eidofania risponde dunque a una
logica entis della persona – presente e immortale – al di là
della vita, grazie alla quale il dialogo continua, ci domandiamo se tutto questo non costituisce forse un archetipo, una
sorta di consentium gentium, come fu concepito da C.G.
Jung14. Se ne discute con Benjamìn Toledo. Ma, in realtà, se
così fosse, non vi sarebbe dialogo ma semplicemente un
patrimonio ereditato o acquisito dalla cultura dei nostri avi.
La nostra sarebbe stata, infatti, una pura illusione o un paradosso sarcastico della vita. Non può esistere un dialogo
innanzi a una pura ideologia o atteggiamento teoretico.
Noi, di converso, parlavamo di eidos: di un’immagine
concreta, di voci sonore, come quelle captate dalla radio o
quelle emesse dagli uccelli che spiano dai rami degli alberi:
tutte armonie dell’essere che richiedono la propria presenza
e che si identificano per la loro tipologia, al di là dello spazio e del tempo, e si riconoscono quando si è avuta la fortuna di convivere nel bios dell’esistenza.
È per questo motivo che non prediligo la parola archetipo, di coniazione junghiana, sebbene ne faccia uso, ma non
desidero generalizzarla. Preferisco distinguere l’archeofania
pura dalla tipofania. La prima manifestazione è una semplice eredità di un patrimonio comune senza volto; la seconda
è la reale permanenza di un essere da me rappresentato o che
mi trovo innanzi; è qui, e non può morire. Forse è stato, ma
continua a vivere e dialogare con me. Non so se resta, tuttavia, il suo corpo mortale: ciò che meno mi importa e che probabilmente non ho mai amato in quanto tale.
Ebbene, sarebbe opportuno chiarire ancora una volta che
senso ha l’immortalità di quell’immaginale che ci affascina
nelle nostre meditazioni. Potrebbe essere quella menzionata
dallo scrittore argentino Borges, che occupa anche un posto
d’onore nella magnifica opera siciliana di Antonio Buttitta Il
carretto racconta? In altre parole, cos’è che garantisce quell’immortalità?
Lo leggiamo, insieme a Benjamìn, su un testo di Borges,
dove l’autore dice: «Ho dedicato gli ultimi vent’anni alla poesia anglosassone. Conosco a memoria molte poesie anglosassoni, L’unica cosa che non conosco è il nome dei poeti. Ma
cosa importa? Cosa importa se io, ripetendo le poesie del IX
secolo, sento qualcosa che qualcuno sentì in quel tempo? Egli
vive in me in quel momento, io sono quel morto. Ognuno di
noi, in un determinato momento, è tutti gli uomini, tutti gli
uomini morti precedentemente. Non solo quelli che hanno il
nostro stesso sangue […] Lo stesso può dirsi per la musica e
per il linguaggio. Il linguaggio è una creazione, una sorta di
immortalità. Io sto usando la lingua spagnola. Quanti morti
spagnoli stanno vivendo in me? Il mio parere o il mio giudi-
l’immaginale
16
zio non hanno importanza; non hanno importanza i nomi del
passato […] ma, piuttosto, l’immortalità, la nostra immortalità. Quest’immortalità non ha motivo di essere individuale
(sic), può prescindere dal fatto incidentale dei nomi e dei
cognomi, può prescindere dalla nostra memoria. Perché supporre di continuare in un’altra vita con la nostra memoria,
come se io continuassi a pensare per tutta la vita alla mia
infanzia, a Palermo, ad Androguè o a Montevideo? Perché tornare sempre su queste cose? È un espediente letterario; posso
dimenticare tutto questo e continuare a esistere, e tutto questo
vivrà in me anche se io non lo nomino. La cosa più importante è forse quella che non rammentiamo in modo preciso. Le
cose importanti le ricordiamo, forse, senza rendercene conto.
[…] Per concludere, dirò che credo nell’immortalità: non nell’immortalità individuale, ma in quella cosmica. Continueremo ad essere immortali, al di là della nostra memoria sopravvivono le nostre azioni, i nostri gesti, i nostri atteggiamenti,
tutta quella parte meravigliosa della storia dell’universo –
anche se non lo sapremo mai, ed è meglio non saperlo»15.
In questa lunga citazione vi sono delle verità, ma è anche
implicito un paradosso antropologico inaccettabile e assurdo.
Cos’è immortale per Borges? Senz’altro non quello che abbiamo chiamato l’immaginale della persona. E allora, tutto ciò
che riguarda la memoria di azioni, gesti e atteggiamenti può
solo passare nella presenza cosmica, fuori dal tempo.
Io non accetto questa distruzione ontologica e non comprendo come, in tal modo, sia possibile continuare il dialogo
dell’aldilà quando, per converso, l’unica cosa che mi assicura
l’immortalità è quella comunicazione interpersonale che definisco intersistemica dal punto di vista psicogenetico16. Naturalmente non nego la memoria delle azioni, ma non è tutto.
Non è solo il ricordo di qualcosa di passato, morto o
scomparso nella lontananza. È il presente e l’attivo, è ciò che
mi illumina di nuovo, ciò che vive in me, ciò che permane in
me e io sono capace di percepirlo e trasmetterlo: è una presenza ontica e immaginale, una nuova eidofania dell’essere.
Borges non riesce a sentire ciò, sebbene abbia ragione
quando afferma che non ci interessa il ricordo dei nomi: questi sarebbero nomina che si perdono a causa della loro arbitrarietà originaria. È vero, ma talvolta servono anche per fare
un concreto riferimento a tutto un insieme di modalità sincretiche17 che definiscono l’essere individuale. Se così non fosse
resterebbero soltanto delle immagini isolate, atteggiamenti
circostanziali, e si perderebbe l’insieme scenico di una vita. Il
dialogo si spezzerebbe, ancora una volta, in frammenti senza
senso. E io so che così non è. Che grande scenografia quella
della Genesi quando Dio presenta ad Adamo tutti gli animali
che ha creato, e gli dice: «Tu darai loro dei nomi e quelli
saranno i loro veri nomi»!18 «I loro veri nomi»: vuol dire che
sono già qualcosa di più di nomina, che hanno già un riferimento sistemico e ontologico, sono già il riflesso di una realtà.
Benjamìn condivide, «perché lo vediamo», dice, «persino nella continuità del pensiero schizofrenico, quando il
delirio non è in grado di rompere la continuità immaginale,
la dinamica personale: lo potrà condurre verso assurde
realtà, ma il dialogo in quanto tale sopravvive come un paradossale teatro di esseri privi di umanità, talvolta sarcastico e
drammatico, ma reale, allucinante, coerente con se stesso».
L’individuo, allora, si isola dal mondo – rifletto io – e con-
tinua a vivere, malato, come un immaginale onirico in tutta la
sua dissolutezza19: si spaventa, gode, fa strane smorfie, ma il
tutto molto coerente con il suo mondo perverso. Tuttavia, la
dinamica psicogenetica è sempre la stessa: è cambiato soltanto il palcoscenico della vita, la dimensione della sua presenza.
E il problema dell’immortalità?, insisto io.
Forse implica, nella sua complessità, la tipologia del
Systema in tutte le sue tetradiche strutture ontiche: quella
biogenetica formativa e funzionale della macchina corporea,
quella intuitiva spazio-temporale di presenza dell’uno, quella associativa e sacrale e, infine, quella valutativa ed epistemologica: è tutto l’universo implicito della persona, che
abbia o non abbia nome.
Una simile struttura sembrerebbe molto semplice – osserva Benjamìn – perché, essendo tetradica fa pensare al mandala tibetano20, quelle forme universali che tu hai studiato e che
sono presenti nella cultura andina21. Queste conducono sempre
verso il centro ontologico dell’essere. Come si spiega, allora,
l’insieme di voci che prima sentivamo, il tumulto del loro
incontro, le migliaia e migliaia di ricordi personali, le sensazioni di presenze concrete che ci affascinano o ci turbano?
Io rispondo deciso: si spiegano con quella chiara progressione geometrica che inizia con l’uno-persona, continua con
le sue due facce dell’universo ontologico (logica entis) e dell’universo esistenziale (logica mentis) (sono 2); poi passa alla
suddetta divisione tetradica (sono 4), e così via fino ai due
aspetti analitici di ogni dimensione (sono 8); le disposizioni
di introversione o estroversione psicogenetica delle quali
parlava Jung (sono 16); le tendenze epagogiche aristoteliche
rivolte verso i poli del particolare e dell’universale (sono 32),
del meriston o dell’ameres; la ricerca assiologica dei valori e
delle rispettive enantiofanie (sono 64); le dinamiche consce e
inconsce (sono 128), e infine tutte le possibili versioni del
carattere dell’Io, fino all’infinito (sono ∞).
La progressione si compie, inesorabile, fatidica, con una
rapidità stupefacente, spettacolare, e il palcoscenico della
vita o dell’aldilà che cerchiamo si popola di personaggi insospettati, così, come per incanto, come quando nel cielo nero,
australe, di quest’antico Tucumán compaiono milioni di stelle. Anche tra queste deve esistere un dialogo, a modo loro,
se si rispettano nella loro armonia cosmica.
«Probabilmente solo l’uomo è capace di ribellarsi nel suo
universo esistenziale ed è capace di genocidi», dice Benjamìn.
È vero. È questo il dramma di quella che si è preteso di
chiamare libertà e della dignità che ne deriva. Ma forse questa è la vera ragione che dovrebbe animare il dialogo, poiché
quando l’armonia cosmica si allaccia alla libertà dell’uomo
– o quello stato che credetti tale – può divenire amore, amore
senza querimonie, come diceva l’autore del Martin Fierro
con la sua saggezza creola delle pampas del sud22.
Ora sì che possiamo riaprire la finestra perché, fuori, in
quel frastuono di voci e canti, sappiamo per certo che esistono anime che vagano e ci ascoltano, in agguato tra le
foglie degli alberi fioriti di Tucumán.
Sarà un’allucinazione?, chiede qualcuno, e Benjamìn
riflette.
Ancora una volta: sarà retorica?
Non so cosa vogliono dire quelle parole nella loro essenza ultima. Non sono esistenzialista in senso filosofico, tutta-
l’immaginale
17
via, ho la certezza che si tratta di una vivencia mia. Non
posso tradurre vivencia in nessuna lingua, poiché è l’essere
qui presente, che guarda con la sua coscienza… come quei
volti di pietra viva che appaiono come sfingi nella poesia di
Trakl interpretata da Heidegger.
VARIAZIONI SUL TEMA
• L’immaginale, come una sorta di «biotipo» dell’anima, non è qualcosa di esclusivamente esistenziale, né la persona nella sua totalità. Non
è neppure l’archetipo in senso junghiano ma, piuttosto, l’archetipo proprio, il proprio paradigma basico, come se si facesse un’ipotesi tipologica individuale, come se io rappresentassi realmente una tipofania di
questo e non un semplice esemplare, così come la biotipologia e la statistica trattano il corpo e le sue funzioni.
• Il mio dialogo, allora, non si stabilisce con una persona reale, viva sì,
ma già ridotta a un paradigma. L’immaginale di Juan, ma non Juan che
vive e sta scrivendo in questo momento, seduto nel suo studio di Belém,
vale a dire il suo archetipo che non ha né maschera, né contingenza, né
condiscendenza: potrebbe essere quello di ieri o quello di domani.
• Esiste un pericolo: potrei non conoscere abbastanza bene Juan per scoprire il suo immaginale: credo in lui, parlo con colui che pensavo fosse
Juan, probabilmente con un altro Juan, che non è il mio amico Juan.
• È vero. Ma è importante?
• E vi è anche un paradosso: probabilmente quel Juan di domani non è
il Juan di oggi. Può darsi che sia un altro.
• E inoltre: sto parlando della sua immortalità, l’immortalità di qualcuno
che, deve ancora essere e non è, tuttavia vive in me.
• È questo il vero Juan cui mi riferisco. Ha l’anima o l’immaginale della
sua anima, ovvero l’archeofania presente di ciò che sarà. Non lo so.
• Quest’altro Juan – che è una semplice manifestazione ontica dell’anima – come persona, lo conosce solo Dio.
• Tutto ciò mi fa pensare all’immagine come categoria. Molti sono i filosofi che hanno trattato l’argomento: da Cartesio a Hume, da Spinoza a
Leibniz, da Sartre a Bachelard a Husserl e tutta la scuola dell’esistenzialismo o della fenomenologia dei giorni nostri. Non è questo il luogo adatto per rifiutare atteggiamenti che non trovano spazio in queste pagine.
Ciò che interessa è stabilire che la categoria di quest’immagine – quella
dell’immaginale dell’uomo – non è una mera idea né un modello, ma
un’autentica espressione di un qualità presente che non sfugge alle
nostre percezioni poiché risveglia in noi una sorta di familiarità necessaria, immanente e profonda in tutte le dimensioni psicogenetiche dell’essere: e rivela un universo nel quale siamo consci di essere protagonisti.
Traduzione di Maria Rosaria Buri
NOTE
Definizione del Thesaurus Lingua Latinae, poi scomparsa nelle lingue volgari.
2.
A. Gehlen, Der Mensch, Frankfurt, 1974.
3.
D.V. Caggia, L’immaginale, «L’immaginale», Rassegna di psicologia
analitico-esistenziale, analisi immaginale e archetipologica, n. 1,
Lecce, 1983.
4.
È l’eidos come forma, aspetto, specie o natura della personalità nella
sua «standardizzazione», secondo il concetto di G. Bateson e l’uso, in
Naven: A survey of the problems suggested by a composite picture of a
culture of a New Guinea tribe drawn from three points of view, 2a ed.
Stanford, 1958.
5.
A. Sacchetti, Psicofanie, Portugal, Junta Distrital do Porto, 1966.
6.
Cfr. «L’immaginale», Rassegna già citata.
7.
Ibidem.
8.
A. Sacchetti, Astrazione e simbolismo nell’ornamentazione. A proposito dell’artigianato sardo, «Rivista di Etnografia», vol. XVI, Napoli,
1962.
9.
K. Kerényi, Miti e misteri, Torino, Einaudi, 1950.
10.
R. Pettazzoni, La religione primitiva in Sardegna, Piacenza, 1912.
La citazione è importante, sebbene io, oggi, dubiterei circa la diretta
eredità africana che il Maestro sosteneva.
11.
P. Magni, Rassegne di «Responsabilità del Sapere», Roma, 1982.
12.
P. Magni, Homo solaris, Roma, Il Fuoco, 1982.
13.
P. Magni, Per una nuova epistemologia, «Folia Humanistica», XIX,
209, Barcellona, 1981.
14.
C.G. Jung, Psicologia e alchimia, Torino, Boringhieri, 1981.
15.
A. Buttitta, Il carretto racconta, Palermo, Giada, 1982.
16.
A. Sacchetti, Prospezioni storiche del mio «Systema» psicogenetico,
«Atti dell’Accademia Roveretana degli Agiati», Rovereto, 1983.
17.
Il concetto di sincretismo (e l’opposto di diacretismo) culturale è
stato introdotto in occasione di un Simposio sull’Antropologia d’America, che si è tenuto a Tucumán (1982) presso I’Universidad del Norte
Santo Tomas de Aquino ( UNSTA ) sotto gli auspici della Fundacion
Genus.
18.
Genesi, 2, 19.
19.
Ci riferiamo alla dissoluzione psicogenetica di coniazione jacksoniana ripresa in considerazione da B. Disertori e Marcella Piazza nel
Trattato di psichiatria e socio-psichiatria, Padova, Liviana, 1970.
20.
G. Tucci, Teoria e pratica del mandala, Roma, Astrolabio, 1949.
21.
A. Sacchetti, Uomini e dei sul tetto d’America, Genova, Silva, 1966,
Vedi anche Forme mandaliche nel mondo andino, «L’Universo»,
XLVI, 6, Firenze, 1966.
22.
A. Sacchetti, Mito, parodia e libertà, dal Don Chisciotte al Martin
Fierro, Rovereto, «Atti dell’Accademia Roveretana degli Agiati»,
1981.
1.
I.I.F.A.B. - Istituto Italiano di Formazione in
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fondato nel 1990
Affiliato all’I.I.B.A. - Istituto Internazionale di Analisi Bioenergetica - Fondatore: Alexander Lowen
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l’immaginale
18
Technè astrologica.
Studio sulla Carta Natale
di J. Hillman
PIA VACANTE
Dottoressa in Storia e Filosofia (CT), socia CIDA (Centro Italiano di Astrologia)
V
orrei qui «attualizzare», attraverso un lavoro di ermeneutica astrologica, i principi teorici esposti in un
mio precedente articolo, apparso su «Babele» 33 (p.
20), dal titolo: Breve introduzione alla disciplina astrologica.
La scelta di fare un lavoro ermeneutico sulla Carta Natale
di Hillman nasce anzitutto come ringraziamento personale a
un grande Pensatore, e, volutamente, l’interpretazione non
toccherà la sua vita privata, bensì tenderà a evidenziare le sincronie tra la sua personale combinazione archetipica, configurata nella Carta Natale, e il suo Pensiero.
Ho inserito il grafico natale di Hillman per consentire di
visualizzare, sia da un punto di vista strettamente tecnico, che
immaginale, i contenuti che saranno discussi.
Con l’ausilio delle tecniche astrologiche, evocheremo le
trame della vocazione-missione che «anima» la sua Carta
Natale. Nel rispetto di questa prospettiva di lettura, sarà privilegiato l’asse del Fato, e nell’interpretazione saranno utilizzate le Stelle Fisse, definite da me e da un mio caro amico
«le Moire dell’Anima».
Le stelle fisse, a causa del loro movimento lentissimo
(percorrono circa 1° di longitudine ogni 72 anni), costituiscono la rete necessaria (Ananke), su cui si innestano le dinamiche archetipiche dei «pianeti erranti»1, alias il mondo di
Psiche, che è intessuto (riferisce Kerenyi che tutte e tre le
Moire erano Klothes, filatrici, anche se solo una di loro si
chiamava Cloto), in ogni sua «immagine» dal filo di Ananke
e dalle sue numerose personizzazioni, le «straniere residenti»
(Hillman, 1991, p. 123).
Quando una o più stelle fisse entrano in aspetto sinergico con uno o più pianeti-archetipi di una Carta Natale si attiva la necessaria «luce simbolica della stella [... che] è un
raggio che illumina una zona della mente e ci fa risuonare
note, sentimenti, idee» (Gambassi, 2003), e aggiungerei altresì la patologizzazione intrinseca al nucleo di significati
archetipici della stella e del pianeta (o dei pianeti) che entrano in sinergia.
Fatte queste premesse chiarificatrici, vi auguro buona lettura.
La nascita di Hillman avviene sotto l’egida di uno Yeros
Gamos celeste: Sole e Luna (Anima e Animus) in novilunio in
Ariete, scandiscono un nuovo punto di partenza (Ariete), il rilascio di un nuovo seme, di un nuovo logos, che darà inizio a
un nuovo ciclo (aspetto di novilunio).
È di notevole importanza soffermarsi sul fatto che la nascita in questione avviene durante un novilunio (con uno scarto di pochi secondi).
Se in astrologia la Carta Natale di ciascuno rappresenta il
progetto del proprio Daimon, la cosiddetta Carta di Luna
Nuova Prenatale (cioè una Carta eretta per il momento esatto
del 1° novilunio precedente la propria data di nascita), rappresenta lo specifico progetto dello Spirito, entro il quale il
proprio Daimon è chiamato a operare. In un caso come quello che ci accingiamo a indagare, cioè il caso in cui una nascita avviene durante un novilunio, le istanze del Sé coincidono
perfettamente col progetto più largo nel quale si è inseriti,
cioè col progetto del novilunio in questione.
Uomini di grande levatura sono nati durante la fase di novilunio, e in genere si tratta di personaggi accomunati dal fatto di essere stati dei pionieri, degli iniziatori, che hanno indicato nuovi percorsi al Pensiero, che hanno lasciato profonde
tracce dei loro ideali personali nel sociale di appartenenza, o
addirittura arricchito il patrimonio culturale dell’intera umanità. Valgano come esempi Freud, Marx, Nasser, il presidente egiziano fautore del nazionalismo arabo o panarabismo, il
profeta persiano Bab, che a metà del 1800 fu nella sua patria
il promotore di nuove forme di religiosità, e passò attraverso
il martirio, e, per finire, la regina Vittoria, simbolo vero e proprio di un’epoca, che incarnò e inaugurò uno stile espresso da
un codice estetico e comportamentale ben preciso.
Di fronte ai due luminari (Sole e Luna), in opposizione2,
si erge Spica, stella fissa di prima grandezza della costellazione Virgo, la cui luce simbolica è legata ai Misteri Eleusini,
alla fecondità, alla medicina, al concetto di «prendersi cura»,
concetto ulteriormente scandito dalla congiunzione3 di
Kirone (che evoca la dialettica del guaritore-ferito) ai due luminari, ai quali si oppone, altresì, la stella Arcturus (stella fissa della costellazione Bootis, che troviamo congiunta al Sole
natale di Nietzsche), che conferisce ricchezza e onori, nonché notorietà sociale e professionale. Anche i simboli dei
gradi sabiani su cui poggia il novilunio, indicano un elevatissimo grado di fecondità, simboleggiato da una donna incinta, «il cui bambino assumerà varie forme emotive e culturali» (Rudhyar, 1973, p. 59).
Secondo l’astrologia classica, in ogni oroscopo il rapporto soli-lunare, qualsiasi esso sia, produce le polarità conosciute come Tyche (Parte di Fortuna) e Daimon (Parte di
Spirito), che rappresentano, rispettivamente, l’autorealizza-
l’immaginale
19
Figura 1. La Carta Natale di James Hillman
zione materiale e sociale, e l’Opus contra naturam, cioè il
percorso evolutivo ascendente, il cui movimento conduce dalla materialità all’Anima.
Nel caso di novilunio, Tyche e Daimon sono congiunti
all’Ascendente, e così è nel nostro caso.
L’Ascendente viene posto dall’astrologia classica, «come
datore della vita e dello Spirito, ond’è chiamato timone»
(Picard, 1997, p. 129). Ma cosa evoca l’Ascendente in questo
caso? L’Ascendente cade in Gemelli, dunque sull’asse della
conoscenza (Gemelli-Sagittario). L’Ascendente, Tyche e
Daimon sono sinergicamente in aspetto a una particolare rete
stellare, che fa capo al Centro Galattico a cui è congiunto il
Punto di Illuminazione, opposto polare della Parte di Fortuna4.
Il Centro Galattico5, astronomicamente conosciuto come
A Sagittarius, è una radiosorgente, una «stella nera», che, dagli antichi (dalla mitologia cinese all’indiana, alla greca, e via
dicendo), veniva immaginata come il Cuore pulsante dell’Anima del mondo, la Via degli dèi e delle anime, il Tempio della Sacralità Universale, e il pensiero va subito a L’anima del
mondo e il pensiero del cuore»5.
Oltre al Centro Galattico, la rete stellare suddetta, comprende stelle fisse come Betelgeuse, stella fissa della costellazione Orione e congiunta all’Ascendente, la cui luce simbolica evoca l’ingresso del Tempio della Conoscenza, la porta simbolica della Casa della Fratellanza, e Zavijava, stella
fissa della costellazione Virgo, che rappresenta la «Mente della Donna Celeste», la Mente nel suo significato di guida interiore. Anche Kirone (la cura), oltre ad essere congiunto ad
Alrischa, stella fissa della costellazione Pisces che evoca i legami d’Anima tra l’umano e il Divino, è in aspetto di Grande
Trigono6 con il Centro Galattico e con Regulus (una delle
quattro stelle regali dell’astrologia classica), che rappresenta
il cuore, il cuor di Leone (costellazione a cui appartiene la
stella): «Per il coeur de lion, il compito della coscienza risiede allora nel riconoscere il costrutto archetipico del suo pensiero: che le sue azioni, i suoi desideri, le sue appassionanti
convinzioni sono tutte immaginazioni – creazioni dell’himma
– e che quanto esso sperimenta come vita, amore e mondo, è
la propria enthymesis che all’esterno si manifesta come macrocosmo» (Hillman, 1993, p. 48).
L’atteggiamento nei confronti dell’Anima viene indicato
dagli aspetti astrologici di Plutone-Ade.
Plutone è congiunto a Sirio, «la stella ardente», della costellazione Canis Major, la stella fissa più luminosa del cielo.
La luce simbolica di Sirio evoca, secondo gli antichi astrologi, Hermes, o il dio egiziano Anubi, figure legate alla funzione di psicopompo, guida di anime.
Plutone intrattiene un aspetto di trigono con Venere, che è
congiunta al Medio Cielo, traduco: la vocazione (Medio
Cielo) di Hillman sono i valori (Venere) inferi (Plutone, il
principio alchemico di morte e rinascita), ed è proprio il mito di Ade e Persefone (Plutone trigono a Venere) che costella
questa configurazione astrologica, che in Re-visione della psicologia diventa: «Ade, Persefone e una psicologia della morte», da cui traggo le seguenti parole: «Qui la morte è il punto
di vista “al di là” e “al di sotto” della preoccupazione della vita, è deletteralizzata, non più morte medica ed escatologia teologica di paradiso e inferno. La morte nell’anima non è vissuta come proiezione nel tempo [...] essa è simultanea alla vita di ogni giorno, così come Ade sta fianco a fianco con suo
fratello Zeus. La ricchezza di Ade-Plutone si riferisce in termini psicologici alle ricchezze che vengono alla luce allorché
si riconoscono le interiori profondità dell’immaginazione»
(Hillman, 2000, p. 348).
Nella nostra Carta Venere è inoltre congiunta alla stella
fissa Deneb della costellazione Cygnus, che conferisce straordinarie capacità di apprendimento, e alla stella fissa
Sadachbia (costellazione Aquarius), «la fortuna (o la stella)
delle cose nascoste», che evoca la possibilità di accedere alle
conoscenze psichiche e spirituali, celate agli occhi della comune coscienza profana.
Oltre al fatto che la congiunzione al grado di Venere al
Medio Cielo denota la vocazione estetica: «La bellezza è una
necessità epistemologica; è il modo in cui gli dei toccano i nostri sensi, raggiungono il cuore, e ci attirano nella vita. La bellezza è anche una necessità ontologica, che fonda le particola-
l’immaginale
20
rità sensibili del mondo. Afrodite dà uno sfondo archetipico alla filosofia della “singolarità”, e consente al cuore di trovare
l’intimità con ogni evento particolare in un cosmo pluralistico.
Per il mondo pervaso di anima anche noi siamo oggetti dell’aisthesis, inspirati esteticamente dall’Anima Mundi, da lei
percepiti, forse persino espirati esteticamente, come immagini,
da un himma ardente nel cuore» (Hillman, 1993, pp. 71-72).
Il novilunio in congiunzione a Kirone in 11° Casa testimonia della diffusione nel sociale, nel mondo, della prospettiva archetipica e del «prendersi cura» delle figure immaginali
che risiedono e governano la nostra anima. Tutto ciò viene ulteriormente rafforzato dalla congiunzione di Giove alla stella
fissa Nashira (costellazione Capricornus), che evoca il mito
del «portatore di buone notizie», dell’apostolo, del diffusore
del Dharma, di colui che diffonde nel mondo la conoscenza
che è stato in grado di tirar fuori dal profondo (Nashira), e del
maestro (Giove) dell’Anima (ancora Giove).
La prometeica e combattiva forza trasformativa opera nel
profondo (Marte in Acquario, in 8° Casa, Casa cosignificante del segno Scorpione), avanzando instancabilmente nei territori conoscitivi (Marte congiunto a Giove e membri entrambi del Quadrato a T), e si indirizza al «prendersi cura di»
(con tutte le implicanze che ne derivano, ma che qui non possiamo discutere), stimolata e attivata dal quintile7 che si crea
tra Marte (forza e autodeterminazione) e Kirone (la cura).
Il tutto gestito da un Mercurio Prometeico (cioè una mente lungimirante), da una «supermente» scattante (congiunzione Mercurio-Urano8), e da una mente rivolta verso il profondo,
impegnata con notevole sforzo nella costruzione di nuove
strutture di coscienza (larga quadratura calante9 MercurioPlutone). Mercurio inoltre è congiunto a Deneb Kaitos, la coda della balena, stella fissa della costellazione Cetus, che rappresenta il «potere della coda», la forza del rivolgimento, nonché congiunto a Zaniah, stella fissa della costellazione Virgo,
che indica la trasgressione, e il suo stile di pensiero e di scrittura ad esso speculare, ne sono la manifestazione fenomenica.
Nella Carta che stiamo discutendo, parecchie sinergie tra
pianeti e stelle indicano, in senso destinale, la fatica del percorso, a cui l’uomo Hillman, solo con se stesso, ha dovuto fare fronte: per esempio, Sole e Luna sono congiunti a Baten
Kaitos, stella fissa della costellazione Cetus, che dà tendenza
a esaurimenti nervosi, Venere è opposta a Thuban, stella fissa della costellazione Draco, che dà carattere solitario, orgoglioso ed emotivo, Saturno è congiunto a Unukhalai, collo del
serpente, stella fissa della costellazione Serpens che conferma
ancora i pericoli dell’esaurimento nervoso, e ricordiamo infine l’ascendente in Gemelli (sistema nervoso) e la forte enfasi sull’asse 3°-9° Casa (asse Gemelli-Sagittario).
L’iniziazione al mondo infero avviene, nella nostra Carta,
attraverso modalità potenzialmente e altamente trasformative,
che consentono l’ingresso in campi più elevati, o profondi, e
la cui attivazione si può manifestare fenomenicamente attraverso crisi personali tanto massacranti, quanto degne di essere sacralizzate.
La configurazione astrologica più pregnante, per quanto
riguarda questa tematica, è il Quadrato a T.
La configurazione astrologica detta Quadrato a T, riguarda la dialettica tra l’attività (i due quadrati) e l’equilibrio
(l’opposizione). È una configurazione che dà forza e motiva-
zione in prospettiva di una meta, il rischio è quello di sprecare le energie per mancanza di equilibrio. È un gioco di forze
che possono implodere conflittualmente, o esprimersi, anche
creativamente, nel mondo fenomenico.
In questo caso la manifestazione fenomenica che chiamiamo
«crisi», funge da elemento catartico-rigenerativo (Saturno in 6°
Casa e punto focale del Quadrato a T), grazie al quale è possibile
guadagnare vasti territori al mondo della conoscenza (l’opposizione del Quadrato a T si svolge sull’asse 3°-9° Casa), ma attraverso rapporti «ombra» molto tormentati con cui l’uomo
Hillman ha dovuto fare i conti in maniera intensa e problematica. E a questo proposito è emblematicamente significativa, in
questo oroscopo, la posizione di Lilith-Luna Nera-Ecate.
Secondo Kerenyi, Ecate non può essere considerata un archetipo come gli altri, in quanto essa non ha un suo topos ben
preciso, poiché quando nel nascente Olimpo vennero distribuite «le dignità e le onoranze» (cioè in altri termini il sistema
delle Dignità e Debilità planetarie), Zeus, onorandola sopra
tutte le altre divinità, le permise di mantenere la triplice dignità
che ella possedeva come divinità pre-olimpica, e cioè il prendere parte alle questioni che riguardavano il cielo, il mare, la
terra, e probabilmente anche gli inferi, data la sua somiglianza a Persefone, anche lei monogenes, figlia unica, come Ecate.
«La valenza erotica nera di Ecate deve essere assunta come un’espressione essenziale dell’intera psiche. Dobbiamo
vedere in Lilith-Luna Nera, al di là del significato biologico,
l’aspetto spirituale del demoniaco e del suo significato numinoso» (Sicuteri, 1978, p. 140).
Nella nostra Carta, Ecate insidia Nettuno10 (al quale è congiunto): il regno delle ombre lunari, dei deliri allucinatori,
dell’angoscia divorante, gioca a costringere l’uomo in quel
«buio in cui tutte le vacche sono nere», funge da deterrente all’impeto conoscitivo (Ecate opposta alla congiunzione GioveMarte in 9° Casa11), graffia, in aspetto di quadratura, con le
sue unghie nere e i piedi sporchi di fango, il punto Vertex (l’ascendente dell’Anima) e Saturno (la struttura ossea e psicologica), e la crisi sopravviene, tra i meandri terrifici del velo
di Ecate, che copre tutte le cose, perfino quelle invisibili.
La via che la Carta propone in vista di un buon utilizzo del
Quadrato a T la ricaviamo dai seguenti elementi: le crisi catartico-purificatorie (Saturno in 6° Casa) fungono da strumenti per l’evoluzione spirituale della persona (congiunzione
di Saturno alla stella fissa Hadar-Agena della costellazione
Centaurus), che potenzialmente è in grado di acquisire conoscenza dei fattori strutturali (archetipici), da cui emanano tutte le manifestazioni fenomenico-esistenziali (simbolo sabiano
del grado su cui poggia Saturno).
La riuscita dell’opera comporta altresì la tematica dello
scontro-incontro (opposizione Saturno-Algol) con Al Ghul, il
mostro, il drago, stella fissa della costellazione Perseus, il cui mito è quello di Perseo che mostra la testa di Medusa. La stella,
considerata dagli antichi astrologi tra le più malefiche del cielo,
è una binaria a eclissi, e poiché entrambe le stelle da cui è composta si occultano a vicenda secondo certi ritmi temporali, da qui
trae origine l’idea di Algol-decapitazione. Algol rappresenta il
conflitto tra la parte luminosa e quella oscura della psiche, la lotta col mostro, il tesoro da conquistare, la principessa da liberare:
il Pensiero Riflesso (Atena salva Perseo dalla pietrificazione mostrandogli la testa di Medusa riflessa in uno scudo lucente) è la
l’immaginale
21
chiave che il mito propone, così come la «visione in trasparenza»
è il personale modo hillmaniano di superamento dell’eclissi
(Algol): «Delle cinque pulsioni istintuali che Jung prende in esame (fame, sessualità, attività, riflessione, creazione), la nozione
di riflessione – “piegarsi all’indietro” e “volgersi verso l’interno”
dando le spalle al mondo e ai suoi stimoli per dedicare l’attenzione a immagini ed esperienze psichiche – è quella che più si
avvicina alla sua nozione di Anima [...] Ovvero come si esprime
Jung: “la riflessione è un atto spirituale che va in direzione opposta a quella del processo naturale; l’atto per cui ci fermiamo, richiamiamo alla mente una cosa, ci formiamo un’immagine, e ci
poniamo in relazione con ciò che abbiamo veduto. Essa va dunque intesa come atto del diventare coscienti” [...] Da questi brani emergono conseguenze di vasta portata. Essi indicano nientemeno che una visione completamente diversa del fondamento archetipico della coscienza. Se il “divenire coscienti” ha le sue radici nella riflessione, e se l’istinto riflessivo rimanda all’archetipo dell’Anima, allora la coscienza stessa può essere più profondamente concepita come fondata sull’Anima, anziché sull’Io»
(Hillman, 1989, pp. 113 e 117).
La chiave che ci può permettere di comprendere meglio il
significato del Quadrato a T, è il simbolo sabiano del grado
vuoto e opposto al Midpoint Vertex-Saturno, entrambi pianeti focali della configurazione. Il simbolo dice testualmente:
«l’ispirazione spirituale che viene all’individuo nel superamento delle crisi» (Rudhyar, 1973, p. 72), e dice ancora che
come Noè ricevette il messaggio della colomba, dopo aver affrontato una crisi collettiva, così, il modo in cui viene affrontata la crisi personale, «risultante da sconvolgimenti emotivi
o dall’irruzione di forze e di impulsi inconsci nella coscienza»
(ibidem, p. 73), può condurre «al messaggio dello Spirito
Santo che annuncia una Nuova Legge» (ibidem).
Al di là del letteralismo delle parole appena citate, le immagini del simbolo rimandano alla potenzialità intrinseca di rendere se stessi (in questo caso attraverso un certo modo di fruire
le «crisi») una sorta di canale aperto, un punto focale attraverso cui le forze Trans-personali annunciano una Nuova Legge alla coscienza personale, cioè nuove prospettive di Pensiero, e che
nella fattispecie ri-aprono al «Pensare» (uso il termine Pensare
nel senso strettamente heideggeriano) possibilità antiche, e pur
sempre attuali nell’Anima: trattasi ovviamente della prospettiva
archetipica, che, fenomenicamente, si manifesta attraverso la vitalità psicologica che anima la sua opera.
Tornando a Ecate-Luna Nera, (che grande rilievo possiede
nella Carta in questione), secondo il Kerenyi, la dea trimorfa
Ecate-Lamia-Empusa, oltre che con i piedi di fango, veniva raffigurata con i sandali di bronzo, in qualità di tartaruchos (padrona del Tartaro) e, infine, nel suo aspetto di dea luminosa, essa indossava sandali d’oro: ancora una volta ritorna il tema della via archetipica che conduce dal profano al sacro, dalla materia all’Anima, ecco Eleusi e Persefone e Ade, ecco la trasformazione della psiche, di cui voglio che sia lui stesso a parlare:
«Poiché questo mito è al centro del principale culto misterico
greco di trasformazione psicologica, quello di Eleusi, la violenza di Ade sull’anima innocente è una necessità centrale per
la trasformazione psichica» (Hillman, 2000, p. 268).
Questo è l’aspetto numinoso di Ecate-Luna Nera, una numinosità che richiede per essere resa attuale (nel senso aristotelico del termine), un vero e proprio addestramento alla
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l’immaginale
22
concentrazione totale, e una focalizzazione interiore di energia e di coscienza in vista di un’autorealizzazione spirituale
(simbolo sabiano del grado su cui poggia Lilith-Ecate).
Attraversando luoghi psichici tormentati e faticosissimi,
con estrema disciplina (Saturno in 6° Casa), l’immagine di
Ecate con i piedi pieni di fango può trasmutarsi nella Lamia
con i calzari d’oro.
La Sacralità del pensiero hillmaniano trova qui le sue radici destinali, la sua personale Epistrophè. La Spiritualità nell’opera hillmaniana permea di sé ogni cosa, aleggia dentro e
fuori, sopra e sotto, è sfuggente e inafferrabile alla concettualizzazione, e percepibile soltanto con l’«intuizione noetica».
Il senso della devozione e del rilascio, topoi psichici su cui
è possibile dipanare la matassa del quadrato a T (asse 6°-12°
Casa), trovano espressione in parole come queste: «Le mie
fantasie e i miei sintomi mi rimettono al mio posto. Non si
tratta più di sapere a quale luogo appartengono, a quale Dio,
ma a quale luogo appartengo io, su quale altare posso lasciare me stesso, entro quale mito la mia sofferenza si trasformerà
in devozione» (Hillman, 1972, p. 194).
Mercurio e Urano, in Decima Casa costituiscono alleati archetipici di grande rilievo (entrambi sono in trigono a Saturno)
all’Opus contra naturam proposto dal quadrato a T: una mente (Mercurio) scattante, instancabile, che procede a ritmi inarrestabili (Urano), e che così appare nel mondo (la congiunzione tra i due pianeti si verifica in Decima Casa).
Ma c’è ancora di più: il simbolo sabiano di Mercurio narra della sacra identità di Atman e Brahman (l’Anima personale e l’Anima del mondo), e configura un tipo di individuo che,
oltre ad essere un’immagine della Totalità dal punto di vista
dell’ambiente in cui vive, è «anche un agente attraverso cui la
Totalità può esprimere se stessa in un atto di risonanza e di liberazione creative» (Rudhyar, 1973, p. 47), che consentono (e
questo è il simbolo sabiano di Urano) di trasformare la falce di
Luna Nuova (ricordiamo il novilunio tra Sole e Luna) in Luna
Piena, anzi nella più Piena fra tutte le Lune.
L’esperienza esistenziale e immaginale hillmaniana ci indica la Via che conduce alla Luna Piena della coscienza.
«Sia la Luna Nuova che la Luna Piena costituiscono degli
inizi. La Luna Nuova è il punto di partenza del ciclo della “vita”,
la Luna Piena svela il regno dell’“identità spirituale” dell’uomo,
della sua immortalità individuale» (Rudhyar, 1985, p. 36).
NOTE
I sette pianeti dell’astrologia classica – Sole, Luna, Mercurio, Venere,
Marte, Giove, Saturno – che si muovono molto velocemente in relazione alle
costellazioni: dai tredici gradi circa che percorre giornalmente la Luna sull’eclittica, all’indugiare di Saturno su un determinato grado eclittico anche
fino a un mese e mezzo, nel caso in cui, su quel grado, il moto diretto del
pianeta si converte in retrogrado o viceversa.
2.
Consiglio di immaginare l’aspetto astrologico di opposizione come una
sorta di aut-aut, un vero e proprio faccia a faccia tra le funzioni psichichepianeti coinvolti, che può risolversi in una realizzazione integrativa, oppure
in una frustrante frattura.
3.
L’aspetto astrologico di congiunzione indica forme di cooperazione tra le
funzioni psichiche indicate da due o più pianeti che hanno lo stesso grado di
longitudine, o che si trovano a pochi gradi di longitudine l’uno dall’altro.
4.
Secondo D. Rudhyar il Punto di Illuminazione è la potenzialità insita in ciascun essere umano di percorrere la «via cosciente».
5.
Il Centro Galattico, nell’Uranografia è circondato dalle costellazioni di
Ofiuchus (alchimia, medicina), Scorpio (profondità psichica), e Sagittarius
(conoscenza).
6.
Il trigono è un aspetto astrologico che simboleggia un libero fluire tra le
funzioni psichiche rappresentate dai corpi celesti coinvolti.
7.
Il quintile è un aspetto astrologico che offre l’utilizzo di illimitate capacità
creative, e che si riscontra con frequenza in individui altamente creativi.
8
Mercurio rappresenta la mente umana e i suoi processi; Urano, ottava superiore di Mercurio, simboleggia la Mente Universale, la Ragione Illuminata.
9
La quadratura calante indica una fase del rapporto tra due pianeti-funzioni
psichiche, in cui vengono esperite forme di crisi non nell’attività o nell’azione, bensì nella coscienza, e, grazie ad esse, l’individuo tende a costruire,
con notevole sforzo, forme nuove di coscienza, relativamente alla visione
che è stata interiorizzata durante la fase di opposizione.
10.
L’archetipo Nettuno ha a che fare con l’«unificazione», l’unione di Atman
e Brahman, o, se preferiamo il linguaggio plotiniano, è l’attualizzarsi dell’Epistrophè.
11.
Ricordo che la 9° Casa veniva così considerata dagli antichi astrologi: «ciò
che è degli dèi, e i sogni e l’espatrio....Quando il Sole, passata la culminazione,
declina verso occidente, muta da una regione all’altra. Perciò a questa Casa
furono attribuiti i viaggi e quelli lunghi, giacché questa Casa è sopra l’orizzonte. Ora poiché la scienza si fonda sulla continua ricerca e sul moto incessante
dell’anima, la Casa nona fu chiamata Casa della sapienza, della legge e dei
sogni, quasi anima che muta da luogo a luogo» (Picard, 1997, pp. 134-135).
1.
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nel trattamento di varie patologie
e disturbi.
• Attribuiti 17 (diciassette) Crediti Formativi ECM
Il workshop è rivolto a psicoterapeuti.
Il certificato rilasciato dall’EMDR Institute, Inc.
abilita alla sua applicazione clinica
Per informazioni: Dott.ssa Isabel Fernandez
Tel.Fax 0362/55.88.79 – 338/34.70.210
e-mail: [email protected]
www.emdritalia.it
BIBLIOGRAFIA
ACAMPORA E., Le stelle fisse, Milano, Armenia, 1988.
DE LONGCHAMPS M.T., I nodi lunari e la luna nera. Il loro significato
astrologico, Roma, Mediterranee, 1997.
GAMBASSI M., Conoscere le stelle. Studio astronomico e astrologico, Torino, Edizioni Federico Capone, 2003.
HILLMAN J., Il mito dell’analisi, Milano, Adelphi, 1972.
Anima. Anatomia di una nozione personificata, Milano, Adelphi, 1989.
La vana fuga dagli dèi, Milano, Adelphi, 1991.
L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Milano, Garzanti, 1993.
Re-visione della psicologia, Milano, Adelphi, 2000.
KERENYI K., Gli dèi e gli eroi della Grecia, Milano, Il Saggiatore, 2002.
PICARD E., Le case astrologiche derivate, Milano, Xenia Editori, 1997.
RUDHYAR D., Il ciclo delle trasformazioni. Una reinterpretazione astrologica dei simboli sabiani, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1973.
Il ciclo di lunazione. Una chiave per la comprensione della personalità, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1985.
SICUTERI R., Astrologia e mito, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1978.
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JEAN KNOX
ARCHETIPO, ATTACCAMENTO, ANALISI
CLAUDIO WIDMANN (a cura di)
IL RITO
La psicologia junghiana e la mente emergente
In psicologia, in patologia, in terapia
IMMAGINI DALL’INCONSCIO – ISBN: 978-88-7487-218-3
IMMAGINI DALL’INCONSCIO – ISBN: 978-88-7487-213-8
C 24,00 – FORMATO: 14,5X21 – PAGG. 224
C 22,00 – FORMATO: 14,5X21 – PAGG. 312
uesto volume rappresenta il primo esauriente tentativo di
integrare alcuni aspetti della psicologia analitica con le
nozioni provenienti dalle neuroscienze e dalla psicologia in
generale.
L’obiettivo principale è rappresentato dall’aggiornamento del
concetto di archetipo sulla base dei risultati derivati da indagini
sperimentali e da studi basati sull’osservazione. Inoltrandosi
negli ambiti delle scienze cognitive, della psicologia evolutiva e
della teoria dell’attaccamento, l’autrice interpreta in una prospettiva nuova la teoria e la pratica junghiane. Ne deriva una dettagliata e ben documentata proposta di revisione e reinterpretazione della natura dell’archetipo, del suo funzionamento psichico
e del suo contributo al processo di cambiamento nel corso della
terapia analitica. «La mente e i significati non esistono a priori»,
afferma Jean Knox, «ma derivano da processi evolutivi e dall’esperienza delle relazioni interpersonali. Gli archetipi che emergono nel corso delle prime fasi dello sviluppo psichico costituiscono il fondamento per l’evoluzione dei significati essenziali
secondo i quali gradualmente costruiamo i modelli mentali del
mondo circostante, organizzando le esperienze quotidiane in
schemi che potranno poi guidare le nostre future aspettative di
vita in tutti gli aspetti, incluse quelle relazionali».
Lo studio sull’emergenza del significato simbolico nella mente
umana, sia nel corso dello sviluppo che durante il processo analitico offre, infine, una cornice per l’integrazione della psicologia
junghiana nella prospettiva evolutiva.
«I
Q
l rito non appartiene a nessun ambito specifico dell’esistenza», scrive Claudio Widmann, «Non è esclusivo del sacro né del
profano, non è prerogativa dell’uomo religioso né di quello secolare; non è fenomeno unicamente soggettivo, né unicamente collettivo, non ha scopi solamente propiziatori né solo gratulatori. Il rito
appartiene alla normalità e alla patologia; è presente nelle culture
arcaiche e nella civiltà postindustriale; è praticato da persone ingenue e superstiziose e da persone intellettuali e razionali. Il rito è
dell’uomo». Nell’antropologia, con i suoi riti agrari, nella patologia,
con rituali ossessivi eseguiti negli ospedali psichiatrici, nella terapia, con il setting rigoroso della stanza dello psicoanalista, nei
momenti cruciali dell’esistenza, con i riti di nascita e di morte, quelli di passaggio all’età adulta, il matrimonio, l’ingresso e l’uscita dall’attività lavorativa... la vita dell’uomo è satura di comportamenti
rituali. La loro estensione è universale e la loro presenza attraversa
i tempi. Avvolti da una particolare tonalità emotiva, i riti trasfigurano le persone, luoghi, oggetti e azioni della quotidianità. Attraverso
il rito l’individuo entra in una dimensione che lo sovrasta, e fa esperienza delle realtà transpersonali. La maschera e il travestimento
trovano nel rito le loro ragioni storiche e soprattutto psicologiche.
Gli autori dei saggi qui raccolti, in un excursus che attraversa diversi ambiti dell’esperienza umana, del rito analizzano il suo carattere
simbolico, le sue potenzialità strutturanti, trasmutative e terapeutiche.Dimostrano come il rito accompagni l’evoluzione psichica individuale e collettiva e come la molteplicità dei riti partecipi alla
formulazione dell’identità dell’uomo.
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NOVITÀ GENNAIO–APRILE
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SONU SHAMDASANI
JUNG E LA CREAZIONE DELLA PSICOLOGIA MODERNA
NATHAN SCHWARTZ-SALANT – MURRAY STEIN
TRANSFERT E CONTROTRANSFERT
(a cura di)
Il sogno di una scienza
IMMAGINI DALL’INCONSCIO – ISBN: 978-88-7487-214-5
IMMAGINI DALL’INCONSCIO – ISBN: 978-88-7487-156-8
C 35,00 – FORMATO: 16,5X24 – PAGG. 448
C 18,00 – FORMATO: 14,5X21 – PAGG. 224
er troppo tempo la figura di C.G.Jung è rimasta bersaglio di opinioni e interpretazioni che hanno avuto poco a che vedere con
la realtà dei fatti. Occultista, ciarlatano, profeta, misogino, scienziato,
ateo, razzista, apostata freudiano, psichiatra e antipsichiatra, gnostico, mistico, guaritore…
A che cosa si deve una tale proliferazione degli «Jung»?
È possibile che si tratti sempre della stessa persona?
Dopo decenni di creazione di miti intorno alla sua figura,
la domanda – chi era C.G. Jung? – si fa davvero pressante.
Jung ha creato una scienza che è nel contempo una chiave di lettura della psiche umana, la più ad ampio raggio che si sia mai vista
in Occidente. Una delle figure più controverse del panorama intellettuale occidentale è, in realtà, uno dei suoi personaggi più
importanti.
Il lavoro di Sonu Shamdasani rappresenta, paradossalmente, il
primo e sicuramente più esaustivo lavoro sulla formazione della
teoria psicologica di Jung,sulla sua importanza nella creazione della
moderna psicologia, sull’influenza che il suo pensiero ha avuto nello
sviluppo delle scienze umane e nella storia sociale e intellettuale del
XX secolo.
Il volume apre nuove prospettive su tutta la psicologia odierna e il
ricco e finora inedito archivio utilizzato dall’autore costituisce una
base per ogni futura valutazione dell’opera junghiana.
na delle premesse basilari al rapporto terapeutico era, per Jung,
l’incontro tra la malattia del paziente e la parte sana dell’analista.Questa interazione che richiede un confronto,necessita di un’interpretazione dei vissuti di transfert e controtransfert al fine di
elaborare e integrare i contenuti del paziente.
Nell’affrontare questi concetti cruciali della relazione terapeutica, gli autori dei saggi qui raccolti cercano di vincere molte
delle resistenze e rimozioni ancora presenti nel mondo analitico.
Sorprendentemente, questo argomento così fondamentale non è
sufficientemente dibattuto, come se tutta la psicologia analitica
dovesse ancora fare chiarezza sul grande mare di inconscietà (per
citare l’espressione di uno degli autori), rappresentato in analisi da
questi due processi psichici di enorme importanza per la cura.
La ricchezza delle argomentazioni e delle prospettive qui proposte,
la franchezza nell’esposizione delle lacune esistenti, la vasta scelta
delle situazioni cliniche e le amplificazioni teoriche rendono questo
volume un prezioso strumento di riflessione e di lavoro. A distanza
di anni dalla pubblicazione de La psicologia della traslazione, il più
significativo studio di Jung relativo al transfert, le diverse riflessioni
sui processi transferali/controtransferali riportano alle più recenti
ricerche e a una possibile apertura e confronto con le altre scuole
psicoanalitiche. Ne deriva un contributo che va oltre la stanza d’analisi, un vero arricchimento nei termini umanistici generali.
P
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ANTONIETTA DONFRANCESCO – MICHELE ANGELO VENIER
IL GESTO CHE RACCONTA
(a cura di)
NATHAN SCHWARTZ-SALANT – MURRAY STEIN (a cura di)
PROCESSI ARCHETIPICI IN PSICOTERAPIA
Setting analitico e Gioco della Sabbia
IMMAGINI DALL’INCONSCIO – ISBN: 978-88-7487-219-0
IMMAGINI DALL’INCONSCIO – ISBN: 978-88-7487-156-8
C 20,00 – FORMATO: 14,5X21 – PAGG. 250
C 20,00 – FORMATO: 14,5X21 – PAGG. 256
uesto libro collettaneo è stato scritto da alcuni analisti junghiani che hanno introdotto nel loro setting analitico il
Gioco della Sabbia. La trasformazione del setting analitico tradizionale ha stimolato una più acuta attenzione a certi temi
classici, rinnovati dallo «spiazzamento» che porta a concepire il
Gioco della Sabbia come uno strumento preverbale, da poter
utilizzare all'interno di uno spazio codificato.
Estraneo al setting tradizionale e invadente per la sua visibilità,
il Gioco della Sabbia ha provocato riflessioni e confronti su
tematiche condivise da chiunque si rivolga con interesse alla
vita più segreta della psiche.Tra i temi trattati: funzione del setting; primi incontri; elaborazione del controtransfert; ridefinizione di «agito»; processo simbolico; attenzione al corpo del
paziente e a quello del terapeuta; ridefinizione dell'ascolto
analitico; relazione con i sogni.
Due contributi presentano il punto di vista più attuale delle
neuroscienze sulla memoria e relativamente alla percezione
dell'altro, nonché la teoria di Wilma Bucci del Codice Multiplo,
per l'osservazione della comunicazione emotiva del paziente.
na raccolta di saggi sull’utilizzo delle dinamiche archetipiche nel corso della psicoterapia. Il soggetto stesso dell’analisi, la psiche del paziente, si basa sugli archetipi: forme tipiche,
originarie ed ereditarie di esperienze psichiche ricorrenti.
Il complesso rapporto tra analista e paziente è fondamentalmente ispirato e condizionato dal processo archetipico.
Quando, in un modo o nell’altro, qualcosa nella vita non funziona, sono sempre gli archetipi a essere chiamati in causa.
Depositari dei modelli di comportamento umano, gli archetipi
possono riportarci, per così dire, sulla strada giusta.
Dove si rivolge la forza vitale del paziente? In quale direzione
tentano di portare il paziente le sue energie originarie? In che
modo l’analista riesce ad allinearsi all’archetipo in questione?
L’ottica che seguono gli autori è quella di affrontare i processi
archetipici non solo all’interno dell’analisi junghiana, ma anche
negli altri indirizzi psicoterapeutici, come per esempio quello
di Winnicott o di Balint, con incursioni nei nuovi ambiti di ricerca psicoanalitica, tra cui quello sul sistema affettivo archetipico di Stewart.
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L’ATELIER GRAFO-PITTORICO
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Istituto di Ortofonologia
Servizio di Psicoterapia per l’Infanzia e l’Adolescenza
CORSO QUADRIENNALE
DI SPECIALIZZAZIONE IN
PSICOTERAPIA DELL’ETÀ EVOLUTIVA
AD INDIRIZZO PSICODINAMICO
Decreto MIUR del 23.07.2001
•
Anno accademico 2007-2008
• Direttrice: Dott.ssa Magda Di Renzo
L’obiettivo del corso è di formare psicoterapeuti dell’età evolutiva,
dalla primissima infanzia all’adolescenza, in grado di utilizzare strumenti
inerenti la diagnosi, il trattamento psicoterapeutico e la ricerca clinica.
LA FORMAZIONE PREVEDE
ORIENTAMENTO DIDATTICO DEL QUADRIENNIO
(artt. 8 e 9 del D.M. MIUR n. 509/1998)
• Una conoscenza approfondita delle teorie
degli autori che hanno contribuito storicamente
all’identificazione delle linee di sviluppo
del mondo intrapsichico infantile e adolescenziale.
1.200 ore di insegnamento teorico, 400 ore
di formazione pratica, di cui: 100 ore di lavoro
psicologico individuale, 100 ore di supervisione
dei casi clinici, 200 ore di formazione personale
in attività di gruppo e laboratorio. Le 400 ore
di tirocinio saranno effettuate presso le strutture
interne o presso strutture esterne convenzionate.
• Una padronanza di tecniche espressive che
consentano di raggiungere ed entrare in contatto
con il paziente a qualunque livello esso si trovi,
dalla dimensione più arcaica a quella più evoluta,
al fine di dar forma a una relazione significativa.
Le ore di formazione individuale previste
dal programma si effettueranno durante il corso
di studi. Previa accettazione del Consiglio
dei Docenti, la formazione individuale può essere
svolta anche con psicoterapeuti esterni alla scuola.
• Una competenza relativa alle dinamiche
familiari e al loro trattamento in counseling.
• Una conoscenza della visione dell’individuo e
delle sue produzioni simboliche nell’ottica della
psicologia analitica di C.G. Jung.
REQUISITI PER L’AMMISSIONE
Diploma di Laurea in Psicologia o in Medicina e il superamento delle prove di selezione
NUMERO DEGLI ALLIEVI
15
SEDE DEL CORSO
Istituto di Ortofonologia, via Alessandria, 128/b – 00198 Roma
PER INFORMAZIONI E DOMANDA D’ISCRIZIONE
Istituto di Ortofonologia, Via Salaria, 30 – 00198 Roma
tel. 06.88.40.384 – 06.85.42.038 fax 06.8413258 – [email protected]
www.ortofonologia.it – [email protected]
QUESTIONI DI PSICOTERAPIA DELL’ETÀ EVOLUTIVA
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ISTITUTO DI ORTOFONOLOGIA – ROMA
con la collaborazione scientifica dell’UNIVERSITÀ «CAMPUS BIO-MEDICO» – Roma
Corso quadriennale di Specializzazione in Psicoterapia
dell’Età Evolutiva a indirizzo psicodinamico
L’
esistenza della scuola di psicoterapia infantile, che rappresenta la concretizzazione di 30 anni di lavoro con il mondo
dell’infanzia, costituisce anche per noi un nuovo percorso di studio e di ricerca. Nonostante il notevole impegno di
molti a favore dell’universo infantile, riteniamo che molto si debba ancora fare per fornire una risposta concreta di aiuto al
bambino che si trova a vivere oggi in un contesto così difficile e complesso, e soprattutto così diverso da quello che ha segnato l’infanzia di noi terapeuti. Ci sembra che oggi l’impegno più importante di chi lavora con i bambini sia quello del confronto e della collaborazione tra adulti.
Un confronto che permetta di superare, senza rinnegarle, le posizioni che hanno fondato il nostro fare terapeutico per
adattarlo alle nuove richieste che arrivano dai bambini, dalla famiglia, dalla scuola.
Un confronto che aiuti a divenire più consapevoli dei propri strumenti terapeutici al punto da poterli mettere a disposizione di altre professionalità senza rischiare confusive sovrapposizioni.
Un confronto, ancora, che favorisca nuovi impegni di studi e ricerche per rispettare i «luoghi» del bambino, ma anche
per dare sempre maggiore dignità a quelli abitati dall’adulto.
La rubrica QUESTIONI DI PSICOTERAPIA DELL’ETÀ EVOLUTIVA è uno spazio di riflessione che ospita
contributi provenienti da diverse aree culturali o da differenti indirizzi, ma che hanno tutti l’obiettivo
comune di una psicoterapia a misura di bambino. Attendiamo i vostri interventi.
Il bullismo tra senso di
inadeguatezza e onnipotenza
MAGDA DI RENZO
Analista junghiana, responsabile del Servizio di Psicoterapia dell’Età Evolutiva
dell’Istituto di Ortofonologia di Roma
Relazione presentata al Convegno ARPEA
«Per parlare di… adolescienza. Gli adulti di fronte a una nuova sfida», svoltosi a Teramo il 3 marzo 2007
I
n questo intervento vorrei porre la mia attenzione soprattutto sulla natura relazionale del fenomeno «bullismo», per comprenderne il senso psichico più profondo
sia in riferimento ai reali rapporti tra coetanei sia in relazione alla dinamica interna che abita tanto la vittima quanto
l’aggressore.
Come è stato ormai sottolineato da più parti, per comprendere il fenomeno del «bullismo» bisogna prendere in
considerazione il bullo, la vittima e lo spettatore quali personaggi che concorrono, attraverso modalità differenti ma a volte complementari, alla messa in atto del comportamento aggressivo.
Il bullo manifesta la propria aggressività in modo diretto
(attraverso comportamenti fisici o atti verbali) o in modo indiretto (attraverso comportamenti di denigrazione o esclusione) e svolge per lo più le proprie azioni nell’ambiente scolastico scegliendo spesso come vittima predestinata un compagno di classe. Generalmente si differenzia il bullo dominante – con le sue caratteristiche di aggressività, forza, opposizione alle regole che ne fanno un progettatore ed esecu-
tore di atti di violenza – dal bullo gregario che assume per lo
più la funzione di «sobillatore» e che si pone come seguace
del primo. Ne condivide cioè gli obiettivi, ma non è in grado
di prendere iniziative violente né è capace di portare avanti
un’azione da solo.
La vittima viene invece identificata come passiva-sottomessa o provocatrice. Nel primo caso si tratta del classico
bambino un po’ isolato dal contesto classe, che non è in grado di reagire in nessun modo all’attacco del bullo e che arriva a colpevolizzarsi del proprio comportamento senza riuscire a parlarne per il timore che la violenza aumenti. Nel secondo caso si tratta del bambino che in qualche modo provoca gli attacchi degli altri e qualche volta prova a reagire con
gesti aggressivi che non riescono però mai ad avere la meglio
su quelli del bullo.
Nella categoria dello spettatore troviamo invece i sostenitori del bullo (coloro cioè che assistono alla violenza ridendo
o anche solo guardando), i difensori della vittima (che tentano di interrompere l’atto o che comunque tentano di consolare la vittima) e la cosiddetta «maggioranza silenziosa» che
QUESTIONI DI PSICOTERAPIA DELL’ETÀ EVOLUTIVA
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tenta di rimanere fuori dalla situazione non prendendo posizione in alcun modo.
Prima di addentrarmi in riflessioni che riguardano la dinamica psichica, vorrei chiarire un aspetto che spesso divide
l’opinione pubblica e cioè il fatto che l’episodio di bullismo di
cui ci stiamo occupando va differenziato dai comportamenti
goliardici, da sempre presenti in età adolescenziale.
Per quanto riguarda infatti il fenomeno dell’attacco a un
esponente del gruppo vissuto realmente o emotivamente
come più debole possiamo dire che si tratta di un qualcosa
di universale che ha a che fare con il bisogno del gruppo di
ridefinire di tanto in tanto la propria forza e supremazia.
L’alleanza necessaria per sferrare un attacco all’esterno ha
infatti lo scopo di far sperimentare ai vari rappresentanti del
gruppo il senso di appartenenza e di coesione. Il fatto che
l’attacco venga perpetrato nei confronti delle persone più
deboli è funzionale a definire un senso di identità e di differenziazione da ciò che viene avvertito come estraneo. I
ragazzi sentono la necessità di ribadire la propria identità
con azioni considerate trasgressive dal mondo degli adulti,
e per questo si lanciano in «bravate». È ovvio che in ogni
epoca questi fenomeni hanno assunto connotazioni diverse
sia in riferimento all’ambiente socio-culturale sia in relazione alla tipologia dei vari rappresentanti del gruppo. Ciò
che è certamente cambiato oggi, e che connota l’atto di bullismo, è la modalità attraverso la quale viene espressa l’aggressività. I rapporti che attualmente uniscono gli adolescenti sono infatti caratterizzati da una maggiore distanza
emotiva e questo rende più efferata l’aggressione nei confronti soprattutto dei deboli, perché non ci sono quei vincoli
affettivi che consentono di moderare la propria istintualità.
Più che a «bravate», quindi, oggi assistiamo a veri e propri
atti anti-sociali, nei quali sembra che i ragazzi abbiano perso il senso di responsabilità. Dalle ricerche campionarie
svolte da Telefono Azzurro ed Eurispes su una popolazione
di ragazzi dai 12 ai 18 anni emerge che un terzo degli intervistati ha partecipato in qualche modo a fenomeni di bullismo e che il 17% ha avuto una parte attiva in azioni di minaccia o violenza. Questi dati confermano l’entità del fenomeno e fanno protendere per una spiegazione più complessa, che va oltre la manifestazione di una normale prova
di forza adolescenziale.
Ed è proprio su questo aspetto che vorrei interrogarmi per
riflettere sul senso che oggi assume l’aggressività dei ragazzi, sia nei confronti di se stessi sia verso il gruppo dei pari.
Mettendo a confronto la tipologia del bullo con quella della vittima, alcuni autori hanno sottolineato il fatto che il bullo, a differenza della vittima, non soffre di insicurezza e di
bassa autostima e che ha piuttosto bisogno di dominare sugli
altri senza provare la minima empatia. Se sul piano descrittivo questa constatazione del comportamento appare corretta,
credo che a livello intrapsichico la dinamica sia più complessa e che tutti i partecipanti al fenomeno condividano in fondo
lo stesso nucleo complessuale.
Vorrei innanzitutto distinguere, con Guggenbühl-Craig,
un tipo di violenza in presenza di Eros, da un tipo di violenza
che si svolge invece in assenza di Eros perché ritengo che proprio questa distinzione ci aiuti a cogliere la differenza tra la
classica bravata e il fenomeno del bullismo. La violenza in
presenza di Eros è, infatti, quella che consente di mettere l’aggressività al servizio di comportamenti adeguati socialmente
ed eticamente e che favorisce empatia nella misura in cui mette a confronto delle forze che possono essere considerate paritetiche. Uno scontro di tipo adolescenziale favorisce in
realtà un incontro a un livello più profondo nella misura in cui
permette il riconoscimento dell’altro come superiore o inferiore in quel determinato ambito senza che si metta in atto un
rifiuto radicale né una totale idealizzazione. La violenza in assenza di Eros, invece, si concretizza in atti distruttivi che si
alimentano di se stessi perché lo scopo perseguito è univoco,
non toccato da quell’ambivalenza che permette di rimanere in
contatto anche con la parte amorevole di se stesso. La violenza in presenza di Eros è, dunque, quella che un individuo
può esercitare per difendersi o proteggere un altro da una sopraffazione o che è funzionale al riconoscimento di un diritto o di un dovere (come molte delle azioni educative che gli
adulti devono esercitare nei confronti dei bambini) mentre la
violenza in assenza di eros è quella che persegue solo i suoi
scopi senza porsi degli obiettivi sociali educativi o relazionali, una violenza cioè che viene esercitata sull’altro in quanto
oggetto e non in quanto individuo.
Nella relazione bullo-vittima manca innanzi tutto la simmetria del rapporto per cui entrambi i partecipanti condividono quell’area che oscilla senza soluzione di continuità tra
impotenza e onnipotenza come se non ci fosse mai la possibilità di immaginare una trasformazione delle forze psichiche
messe in campo. Una sorta di scissione che attribuisce a uno
dei componenti del rapporto tutta la polarità opposta a quella
dell’altro e che depriva entrambi del senso di umiltà che aiuterebbe l’uno a chiedere aiuto e l’altro a porgerlo. Una scissione in cui sembra convivere anche quella maggioranza silenziosa che non trova la forza di sollecitare cambiamenti, come se quell’azione fosse una necessità ineludibile, una sorta
di iniziazione a un mondo anestetizzato che non sembra accorgersi di nulla. Ragazzi che si trovano in campi di battaglia
dove gli adulti non sembrano avere accesso per l’incapacità a
contenere un’aggressività agita, forse perché non sufficientemente elaborata, o a contrapporsi con una violenza che sia
piena di Eros per porre limiti e confini al servizio di una convivenza sociale. È in questo senso che anche il bullo può essere considerato, a livello profondo, un insicuro, un individuo
incapace di far fronte all’inadeguatezza al punto da rimuoverla completamente a favore di una prepotenza che persegue
solo il fine della supremazia sull’altro.
Questa considerazione mi sembra particolarmente importante per le implicazioni che ha sul piano educativo e terapeutico e per la possibilità di continuare a immaginare
nuovi percorsi almeno da parte degli adulti. Considerare il
bullo solo come un individuo incapace di sintonizzarsi con
le emozioni dell’altro e proteso solo alla supremazia, significa continuare a rimanere in quell’ottica di scissione
che determina appunto il fenomeno nella sua complessità e
che non consente di trovare soluzioni più radicali al problema. Né appare proficuo considerare la vittima solo come
un individuo incapace, insicuro e ansioso perché questo significherebbe ignorare, da una parte, l’aggressività repressa di cui è portatrice e, dall’altra, la dimensione di onnipotenza presente nell’atto di non chiedere aiuto. Ma tutto ciò
QUESTIONI DI PSICOTERAPIA DELL’ETÀ EVOLUTIVA
29
può significare anche, a mio avviso, deresponsabilizzare gli
adulti dal loro ruolo educativo e contenitivo. I dati rilevanti emersi nelle ricerche ci impongono una riflessione che
non spinga verso atteggiamenti di tipo costituzionalistico,
ma che chiami in causa l’ambiente ristretto della famiglia e
quello più allargato della società. Dovremmo forse interrogarci sui modelli che, in quanto adulti, proponiamo ai nostri
ragazzi e comprendere in che modo spingiamo verso comportamenti anestetizzati che ignorano la presenza di emozioni e affetti.
Per la prima volta, per esempio, nella storia dell’umanità
lo sviluppo della tecnica non è gestito dai padri ma dai figli
e questo crea una mancanza di contenimento per i ragazzi.
Lo sviluppo incessante dei mezzi di comunicazione aumenta
sempre più il dislivello e spesso gli adulti non sanno porsi come modelli né, tantomeno, come argini. Nell’avventurarsi
verso nuovi territori i ragazzi sono soli e non sono in grado
di gestire le proprie emozioni al cospetto di strumenti che si
propongono come seducenti ed eccitanti. Diventare registi
delle proprie azioni, invadere la privacy dell’altro, sconfiggere virtualmente il nemico con azioni aggressive, essere
costantemente in relazione con più persone senza un confronto diretto sono tutte operazioni funzionali a garantire la
propria supremazia senza sforzo e responsabilità. Senza sottolineare il concetto ormai chiaro della pericolosità di non
saper adeguatamente distinguere il mondo reale da quello
virtuale. Credo che i genitori e, per quel che possono gli insegnanti, dovrebbero porre seri limiti all’uso sconsiderato di
comunicazioni virtuali per aiutare i ragazzi a crescere emotivamente, oltre che cognitivamente. L’uso, per esempio, di
videogiochi che portano i ragazzi a imitare comportamenti
violenti dovrebbe essere impedito nell’infanzia e permesso
limitatamente nell’adolescenza. Nella pratica clinica incontro spesso ragazzi che cadono preda di vere e proprie crisi di
rabbia incontenibile dopo avere giocato per ore con lo stesso videogioco in cui bisogna ammazzare un numero sconsiderato di persone per passare al livello successivo. Credo
che il dato si commenti da solo.
L’incremento della comunicazione a distanza ha sicuramente ridotto la possibilità di incontri più intimi che richiedono necessariamente vicinanza. La contraddizione è quindi
solo apparente, perché la facilitazione caratterizzata da incontri virtuali in cui si può non essere se stessi protegge da
quei sentimenti di inadeguatezza o vergogna che si possono
sperimentare in un incontro reale. L’idea di poter raggiungere chiunque e in qualsiasi momento alimenta il senso di onnipotenza di cui i ragazzi sono portatori e impedisce il sano confronto con il limite. I ragazzi che vivono una parte considerevole del loro tempo in una realtà virtuale non sperimentano la
possibilità di sopportare la frustrazione e rischiano di rispondere con la violenza ogni volta che non riescono a soddisfare
immediatamente una loro esigenza. L’incapacità di tollerare la
frustrazione credo che sia la principale carenza dei nostri ragazzi e la responsabile di molte storie di disagio psichico e di
devianza. L’insicurezza, la vergogna, il pudore e la preoccupazione sono sentimenti indispensabili per venire a patti con
se stessi e con la vita, ma sembra che oggi anche gli adulti abbiano paura di farli sperimentare ai propri figli in nome di un
presunto ideale di felicità.
Innanzitutto ritengo che servirebbe una maggiore solidarietà tra adulti, per indicare linee educative che siano coerenti. Troppo spesso genitori e insegnanti si trovano in posizione
di contrasto, sovrapponendosi confusamente nei ruoli e lasciando spazio alle pretese o alle proteste dei ragazzi che trovano facili scappatoie a molte delle loro azioni. Mi riferisco in
particolare al fatto che quando gli insegnanti assumono una
posizione forte nei confronti di azioni violente vengono spesso accusati dai genitori quali persecutori del ragazzo.
L’educazione del comportamento inizia molto presto, perché
i bambini hanno bisogno di essere protetti dalla loro stessa aggressività. Permettere a un bambino, come purtroppo accade
sempre più spesso, di reagire con violenza non penalizzandolo ma anzi incoraggiandolo per la sua forza significa non aiutarlo a capire che la comunicazione passa attraverso comportamenti più evoluti come il linguaggio verbale. Non è un caso che i disturbi del linguaggio siano in continuo aumento,
proprio in una società che sembra aver fatto della comunicazione il suo obiettivo supremo. L’apprendimento alla comunicazione deve partire dalle prime relazioni affettive e deve
poter proseguire lungo tutto l’arco dello sviluppo. La comunicazione necessita di pause, si accresce attraverso le possibili
incomprensioni e trova il suo massimo dispiegamento in un
contesto che abbia una buona significatività emotiva. Non è
possibile raggiungere un’adeguata maturazione se non ci si
confronta con i limiti imposti dalla presenza dell’altro e questa è la principale funzione educativa degli adulti.
c.i.Ps.Ps.i.a.
C E N T R O I TA L I A N O D I P S I C O T E R A P I A P S I C O A N A L I T I C A P E R L’ I N FA N Z I A E L’ A D O L E S C E N Z A
(Istituto di Formazione in Psicoterapia)
Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicoanalitica
per l’Infanzia e l’Adolescenza
(Riconosciuto dal MURST con Decreto del 16/11/2000)
SCADENZA ISCRIZIONI 30 GIUGNO 2007
Segreteria c.i.Ps.Ps.i.a.: Via Savena Antico, 17 – 40139 Bologna
tel./fax: 051/62.40.016; e-mail: [email protected]; sito web: www.cipspsia.it
QUESTIONI DI PSICOTERAPIA DELL’ETÀ EVOLUTIVA
30
Quando ci troviamo al cospetto di comportamenti fortemente aggressivi come quelli descritti in questi ultimi tempi
dalla cronaca possiamo sicuramente affermare che ci troviamo all’apice di una linea di condotta preesistente. A parte casi eccezionali in cui ci può essere una reazione improvvisa ed
eccessiva, il ragazzo che arriva a un gesto violento ha già sperimentato profondi sentimenti di inadeguatezza e ha sicuramente mostrato dei segnali che sono stati disattesi dall’ambiente. Questi segnali possono essere di varia natura, ma sono quasi sempre riconoscibili a un occhio attento. Come è stato evidenziato in storie diventate di dominio pubblico, alcuni
di questi ragazzi presentavano un’esagerata timidezza e una
forte chiusura nei confronti dei coetanei, mentre altri avevano presentato fin dai primi anni di scuola un comportamento
aggressivo. Nel primo caso si tratta di ragazzi che non riescono a confrontarsi con i coetanei utilizzando la giusta dose
di aggressività per rispondere alla critica o all’insensibilità e
quindi si uniscono a una banda «forte» per trovare un’identità
e riscattare il senso di insopportabile impotenza. Nel secondo
caso si tratta invece di ragazzi che non sono stati adeguatamente contenuti a tempo debito e che hanno fatto della violenza la strategia comunicativa per eccellenza. È chiaro che in
entrambi i casi sarebbe necessario un intervento dell’adulto
prima che il comportamento si esasperi oltre i limiti sopportabili dal ragazzo.
Di fronte a un comportamento violento sono necessarie
fondamentalmente una buona dose di empatia per il disagio
sottostante l’atto e un adeguato senso di responsabilizzazione
N ovum
per le conseguenze del comportamento violento. Questi atteggiamenti sono entrambi necessari per comunicare al ragazzo la gravità dell’atto senza condannarlo irrimediabilmente. Mi sembra che un problema oggi molto frequente tra
gli adolescenti e tra i bambini sia un’eccessiva inconsapevolezza del proprio operato in nome di una comprensione a oltranza da parte degli adulti. Per contenere realmente un ragazzo è necessario essere vicino alla sua emozione in modo
da stimolarlo a un’elaborazione e a una possibile riparazione
del danno. Perdonarlo o condannarlo troppo in fretta significa invitarlo a rimuovere i sentimenti penosi che si nascondono dietro il suo comportamento deprivandolo di una possibile trasformazione.
Sono quindi necessari interventi mirati nella scuola per
consentire ai ragazzi un’elaborazione dei propri vissuti proprio nel luogo dove si perpetrano le loro azioni negative.
Un’esperienza che stiamo conducendo da due anni in una
scuola media alla periferia di Roma ci ha fatto comprendere
quanto, al di là di possibili aspettative, i ragazzi siano pronti
a chiedere aiuto. Il nostro progetto iniziale riguardava soprattutto interventi in aula e un coinvolgimento degli insegnanti
con l’idea che i ragazzi di quell’età non avrebbero usufruito
dello sportello d’ascolto. Abbiamo invece dovuto potenziare
il nostro intervento con i ragazzi, che sono stati i primi a usufruire di uno spazio psicologico, aiutando anche gli adulti ad
avere fiducia in un ascolto più attento che potesse andare oltre le prestazioni e gli obiettivi frenetici di un apprendimento
senz’anima. ♦
Istituto di Ortofonologia
Novum è uno spazio culturale promosso dal Consiglio dei Docenti
della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia dell’età evolutiva
a indirizzo psicodinamico dell’Istituto di Ortofonologia.
È costituito dagli specializzandi, dai diplomati e dai docenti della Scuola.
Novum riceve anche il contributo scientifico e culturale di esperti del settore.
Lo scopo è quello di favorire lo scambio professionale, scientifico, informativo
tra i partecipanti e di convogliare ricerche, elaborati, articoli e materiali vari per
renderli condivisibili e disponibili sullo spazio in allestimento del sito dell’Istituto.
Annualmente è previsto un incontro di tutti i partecipanti su temi preordinati.
N o vum
L’adesione a Novum prevede la partecipazione ai Forum, la partecipazione gratuita ai convegni dell’Istituto e la possibilità di
partecipare ai futuri servizi che saranno attivati (ECM, etc.).
Sul sito (accesso protetto da password) verranno pubblicati gli abstract degli elaborati clinici dei diplomati della Scuola; saranno
disponibili video di eventi culturali e scientifici promossi dall’Istituto; è prevista l’apertura di una sala virtuale come forum di scambio
comunicativo e di un forum clinico; sarà approntata una sezione dedicata alla consultazione di materiale didattico e bibliografico; è in
progettazione una sezione che raccolga i lavori prodotti nell’ambito del seminario interdisciplinare su Cinema e Letteratura.
QUESTIONI DI PSICOTERAPIA DELL’ETÀ EVOLUTIVA
31
«Per parlare di…
adolescienza. Gli adulti
di fronte a una nuova sfida»*
I
l giorno sabato 3 marzo 2007 si è svolto a Teramo il 1°
Convegno organizzato dall’Associazione ARPEA (Associazione Romana di Psicoterapia per l’età Evolutiva e l’Adolescenza) dal titolo «Per parlare di… adolescienza. Gli adulti
di fronte a una nuova sfida». La scelta di questo tema è il risultato
del primo anno di attività dell’Associazione, che ha voluto porre l’attenzione su un’età particolare della vita. È l’età che crea più
preoccupazioni, più dubbi e più difficoltà al mondo degli adulti,
non solo ai genitori e alla famiglia più estesa, ma anche alle istituzioni, alla scuola, agli insegnanti, ai medici, agli psicologi, agli
psicoterapeuti e in generale a tutti coloro che si occupano di adolescenti. È stata volutamente inserita una «i» nella parola «adolescenza», perché crediamo che per la sua complessità e per gli
interrogativi che evoca possa essere considerata una nuova
scienza.
La giornata, ricca di interventi, ha visto il susseguirsi di relazioni relative ai diversi aspetti dell’adolescenza trattati da diversi punti di vista: «Le caratteristiche del comportamento alimentare in adolescenza» – dott. Pietro Campanaro, nutrizionista specialista in scienze dell’alimentazione del Centro
Regionale di Fisiopatologia della nutrizione di Giulianova
(TE); «Psicosomatica e psicoterapia analitica nell’adolescenza:
dal corpo ai sogni» – dott. Fausto Agresta, psicologo, psicoterapeuta, docente di psicosomatica, Facoltà di Psicologia (Prof.
M. Fulcheri), Università di Chieti; «Sull’adolescentologia: un
punto di vista medico» – dott.ssa Giuliana Ciarelli, pediatra di
base e adolescentologa, Teramo; «I servizi di fronte al disagio
mentale in Adolescenza» – dott. Renato Cerbo, Neuropsichiatria infantile, direttore Centro Regionale per le psicosi
infantili, Università-ASL, L’Aquila; «Il bullismo tra senso di
inadeguatezza e onnipotenza» – dott.ssa Magda Di Renzo,
analista junghiana, direttrice della Scuola di Psicoterapia
dell’Età Evolutiva, Istituto di Ortofonologia, Roma; «La distanza tra le reali motivazioni allo studio degli adolescenti e gli
insegnanti: siamo vecchi?» – dott.ssa Daniela Patriarca, insegnante Liceo Scientifico «A. Einstein», Teramo; «La disabilitadolescenza. Il disabile e il mito dell’adolescenza» – dott.
David Pizzi, assistente sociale specialista, Istituzione dei servizi Sociali, Vasto (CH); «Adozione e adolescenza» – dott.ssa
Clementina Salerni, psicologa, referente per l’area psicologica dell’ente autorizzato «In cammino per la famiglia», Chieti,
Centro «Il Piccolo Principe», Pescara; «Il linguaggio degli
adolescenti» – dott.ssa Anna Mammoli, psicologa, psicoterapeuta, Istituto di Ortofonologia, Roma; «Piercing e tatuaggi: la
manipolazione del corpo in adolescenza» – dott.ssa Mariella
Tocco, psicologa, psicoterapeuta dell’età evolutiva, responsabile del Servizio di diagnosi e valutazione ARPEA, Centro «Il
Piccolo Principe», Pescara.
Obiettivo del Convegno è stato quello di dare voce alle mille sfaccettature del mondo adolescenziale che il dott. Campanaro
ha paragonato a un caminetto o a una Ferrari «il corpo dell’adolescente ha bisogno di un adeguato rifornimento perché altrimenti il fuoco non arde o il motore si ingolfa» e che la dott.ssa
Ciarelli ha definito «entrata nel mistero… chiamata alla vita». «È
una fase positiva della crescita ma anche ad alto rischio di fallimento» sottolinea il dott. Cerbo e prosegue «non dobbiamo
aspettare l’adolescente ma dobbiamo raggiungerlo nei luoghi di
vita»; la dott.ssa Patriarca ci offre la possibilità di entrare nel
mondo degli adolescenti e sentire la loro voce, i loro pensieri leggendo qualche brano dai loro temi mentre il dott. Agresta sottolinea l’importanza del ruolo della famiglia.
La dott.ssa Di Renzo illustra un tema di attualità recente, il
bullismo, sottolineando l’incapacità dell’adulto di contenere
l’aggressività dell’adolescente facendosi portavoce di quanti,
guardando le immagini alla TV, hanno pensato: «Ma dove erano
gli adulti quando quei ragazzi maltrattavano il loro compagno?».
E cosa dire poi dell’adolescente disabile con le sue grandi
risorse, che il dott. Pizzi ha illustrato con un’immagine – «anche gli asini hanno le ali» – a indicare la straordinaria capacità
di questi soggetti di utilizzare le proprie risorse personali?
Quali risposte dare all’adolescente adottato, angosciosamente
alla ricerca della propria identità e delle proprie origini, descritto dalla dott.ssa Salerni? Cosa pensare di quegli «strani»
modi di esprimersi descritti dalla dott.ssa Memmoli – il linguaggio moderno degli sms e dei murales – e dalla dott.ssa
Tocco – i piercing e i tatuaggi?
Sono tanti gli interrogativi ai quali tale convegno ha cercato
di dare delle risposte, risposte che forse stiamo ancora cercando.
Questa giornata è stata sicuramente ricca di spunti di riflessione
soprattutto per noi adulti, genitori, professionisti, che abbiamo la
tendenza a mettere in discussione i comportamenti degli adolescenti e non pensiamo che probabilmente i primi a mettersi in discussione dovremmo essere proprio noi.
Con affetto ringraziamo i relatori intervenuti al Convegno, i
partecipanti, in particolare gli studenti adolescenti che hanno accolto il nostro invito, la Città di Teramo, la Provincia di Teramo
e l’Ordine degli Psicologi dell’Abruzzo.
* Il presente articolo è stato redatto da DANIELA CARDAMONI, psicologa,
corso quadriennale di specializzazione in psicoterapia dell’età evolutiva
dell’Istituto di Ortofonologia di Roma, presidente ARPEA; DANIELA
QUINTO, psicologa, psicoterapeuta dell’età evolutiva, vicepresidente
ARPEA; MARIELLA TOCCO, psicologa, psicoterapeuta dell’età evolutiva,
responsabile servizio di psicodiagnosi e valutazione ARPEA; SIMONA
TRISI, psicologa, psicoterapeuta dell’età evolutiva, responsabile servizio di psicoterapia ARPEA.
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ingresso
libro
Giornata
dei lettori
e delle letture
delle
U
n appuntamento da non mancare. Lo avevamo detto e
così è stato. «Ingresso lib(e)ro», l’evento culturale che
si è svolto a Roma il 24 marzo all’Auditorium di via
Rieti, ha richiamato tante persone attente e interessate, come si
conviene a una «Giornata dei lettori e delle letture». Un grande
evento per le Edizioni Magi che, per la prima volta dopo dieci
anni hanno organizzato, dalle 10 alle 23, una serie di tavole
rotonde con esperti e di presentazioni di novità editoriali.
Una scommessa e una sfida, questo evento, che ha richiesto il lavoro di tutti noi, dall’ufficio commerciale a quello
delle pubbliche relazioni e all’ufficio stampa, senza dimenticare l’impegno della redazione che ogni giorno segue in tutte
le fasi i nostri libri. Tutti insieme, sotto lo sguardo attento di
Federico Bianchi di Castelbianco e di Magda Di Renzo,
abbiamo accolto lettori, esperti e tutti coloro che hanno risposto al nostro invito a partecipare a questo evento. In tanti
sono venuti ad ascoltare gli esperti e gli autori dei nostri libri,
a partecipare con domande e interventi alle tavole rotonde.
Ed ecco che abbiamo potuto dare un volto ai nostri lettori:
insegnanti, docenti, pedagogisti, psicologi, assistenti sociali,
psichiatri, studenti universitari ma anche genitori e tante
donne, interessate alla nostra collana Parole d’altro genere.
Tra un dibattito e un altro è stato possibile fare uno spuntino e acquistare i nostri libri, dando un’occhiata anche alle
nostre novità e a tutta la nostra produzione editoriale. Per
premiare l’interesse dei lettori, è stato rilasciato un attestato
di partecipazione ed è stato dato in omaggio un libro in tema
con la sessione seguita. La formula scelta, quella delle tavole rotonde, ha consentito di mettere a confronto punti di
vista diversi e di dare spazio agli interventi del pubblico.
Di grande interesse le tematiche scelte: il rapporto genitori-figli, la sensibilità e la creatività femminile, le fasi dell’adolescenza. Molto seguito, in serata, l’incontro con i
principali esperti sul pensiero junghiano e i suoi sviluppi.
Non sono mancate le presentazioni di alcune novità e di due
riviste, «AeP Adolescenza e Psicoanalisi», organo ufficiale
Edizioni Magi
dell’A.R.P.Ad. e di «RPA», la Rivista di Psicologia Analitica
dell’Associazione Gruppo di Psicologia Analitica.
Ecco una sintesi delle varie sessioni:
I. PROFESSIONE GENITORE
Certi che «l’educazione di un figlio comincia dall’educazione
dei suoi genitori», abbiamo messo a confronto il parere di
alcuni nostri autori ed esperti sul nuovo concetto di famiglia,
sul ruolo dei padri, sul rapporto tra genitori e scuola. Di grande interesse il dibattito su bambini e pubblicità (professoressa
Maria D’Alessio). Si è parlato anche dei problemi dei bambini in ospedale (Michele Capurso) e di come i bambini vivono
gli adulti, insieme a psicologi e psicoterapeuti (Francesca
Emili, Flavia Ferrazzoli, Bruno Tagliacozzi). La dottoressa
Simonetta Matone, Sostituto Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale dei Minorenni di Roma, ci ha spiegato
perché Il tribunale non risolve. Una mamma – Mery La Rosa
– ci ha parlato dell’adozione e della sua allegra tribù, ripercorrendo tutte le tappe del suo percorso. A moderare la sessione e a parlare di «quel figlio che non arriva» la senatrice
Paola Binetti, autrice del libro Una storia tormentata. Il desiderio di maternità e di paternità nelle coppie sterili.
II. PAGINE AL FEMMINILE
Sul palco le donne che scrivono, che si occupano di cura e di
educazione, che si misurano con il tempo che passa, con il difficile rapporto col Potere. Abbiamo messo a confronto madri e
figlie e ascoltato le testimonianze di chi si trova, ancora oggi, ad
affrontare il tema della violenza sulle donne. Non è mancato
l’intervento di uno psicoterapeuta (Alessandro De Filippi) attento a queste tematiche, nell’ottica secondo la quale non può mai
venire meno il confronto con il Maschile. A moderare, Elena
Liotta, curatrice della nostra Collana «Parole d’altro genere»
che ha guidato il dibattito e gli interventi delle autrici Daniela
Lucatti e Geni Valle, della psicoanalista Carole Beebe Tarantelli
e della psicoterapeuta Renata Biserni.
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III. ADOLESCENZE, ETÀ SORPRENDENTI
Per indagare i passaggi dell’età in cui è più facile perdersi,
abbiamo passato in rassegna i passaggi non sempre lineari
dell’adolescenza, la ricerca dell’identità che passa attraverso
riti di iniziazione e del rischio e che si confronta con le regole
del gruppo. Tutto da esplorare il rapporto con l’immagine
allo specchio che cambia e che è spesso difficile da accettare.
Sotto la guida del professor Gianluigi Monniello, hanno
attraversato il pianeta adolescenza la professoressa Anna
Maria Di Santo, il neuropsichiatra infantile Italo Gionangeli,
l’analista junghiana Luisa Ruffa e lo psicoterapeuta Luca Vallario.
IV. INCONTRARE JUNG
Tutta dedicata al pensiero junghiano l’ultima sessione del
nostro evento, con un confronto a 360 gradi sulle teorie di
Jung: grazie agli interventi di noti esperti (Magda Di Renzo
moderatrice, Paolo Aite, Robert Mercurio, Luciano Perez,
Marcello Pignatelli, Luigi Turinese, Antonio Vitolo e Clau-
Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Mag
dio Widmann) è stato possibile riscontrare la grande attualità del suo pensiero. Si è parlato dei suoi viaggi in Africa,
in India e in America e delle sue Lettere, pubblicate di
recente in tre volumi in un’edizione di prestigio. Abbiamo
anche preso in esame quelle Immagini dall’inconscio come
sogni e fiabe su cui si basa la psicologia analitica. Si è parlato anche del gioco della sabbia e del rapporto tra l’uomo e
il suo destino. Tutti hanno avuto la possibilità di conoscere
Jung come persona e come psicologo. Lui che ha trattato la
psiche con l’occhio del ricercatore e come un «amante dell’anima».
L’articolo che segue è la trascrizione dell’intervento del
dottor Bruno Tagliacozzi, analista junghiano, psicoterapeuta
dell’Istituto di Ortofonologia di Roma alla sessione Professione genitore.
Rita Proto
Ufficio Stampa Edizioni Magi
Novità editoriali presentate:
Dal sentire all’essere
Il libro tratta di un approccio terapeutico (i Gruppi di Incontro, introdotti in Italia all’inizio degli anni Settanta) volto a potenziare le
facoltà fondamentali della persona (sensazioni-emozioni-sentimenti, cognizione, immaginazione) e a sviluppare una buona
capacità relazionale. Dopo aver ricostruito lo sfondo socio-culturale nel quale tale metodica ha avuto origine, l’autrice Maria Felice Pacitto, che è stata tra i primi a utilizzarla in Italia, ne ha illustrato il funzionamento e le possibilità di applicazione. Relatori
Giovanni Salonia, direttore della scuola di specializzazione in psicoterapia della Gestalt H.C.C. e Michele Festa, direttore CSU
Centro Studi Umanologia di Roma.
Omicida e artista, le due facce del serial killer
Come sarebbe andata se Hitler fosse stato accettato nell’Accademia di Belle Arti di Vienna? Da questa insolita domanda
parte Ruben De Luca, autore di questo testo che, per la prima volta, descrive i serial killer come artisti mancati, analizzandone le opere pittoriche. L’ipotesi innovativa è che si possa impostare un trattamento di arteterapia che trasformi la pulsione
distruttrice in un’energia creatrice. È intervenuta, oltre all’autore, Chiara Camerani, psicologa, presidente CEPIC, Centro Europeo di Psicologia, Investigazione e Criminologia.
Rivista «AeP Adolescenza e Psicoanalisi»
Organo ufficiale dell’A.R.P.Ad., l’Associazione Romana per la Psicoterapia dell’Adolescenza. Fondata da Arnaldo Novelletto, è
semestrale ed è l’unica dedicata alla psicoanalisi dell’adolescenza e alle sue espressioni nei contesti istituzionali. È aperta ai
contributi di altri gruppi italiani che si occupano di adolescenza. Ne hanno parlato Gianluigi Monniello, Direttore «AeP», Psicoanalista SPI, Sapienza Università di Roma, Adriana Maltese, Presidente A.R.P.Ad. Psicoanalista SPI, Sapienza Università di
Roma, Daniele Biondo, Ordinario A.R.P.Ad., Tito Baldini, Docente A.R.P.Ad., Psicoanalista SPI.
Affetto, trauma, alessitimia
Carole Beebe Tarantelli, psicoanalista e docente Sapienza Università di Roma e Luigi Scoppola, psichiatra libero docente
in Gerontologia e didatta S.I.P.P., hanno parlato del trauma psichico e del suo effetto più grave, l’alessitimia: la difficoltà di
riconoscere e descrivere i propri sentimenti. Analizzati a fondo i processi che sostengono il nostro equilibrio emotivo, gli
eventi che lo minano ma soprattutto le cure che cercano di ripristinarlo.
«Da ieri a oggi» Il pensiero di Carl Gustav Jung e la storia della «Rivista di Psicologia Analitica» presente in Italia dal 1970
Prima uscita ufficiale per RPA, la prima rivista italiana che ha voluto diffondere il pensiero di Carl Gustav Jung. Ha carattere
monografico ed è semestrale. La sua redazione è costituita da analisti dell’Internazionale Junghiana. Apre le sue pagine ad
altre scuole analitiche e pensatori di altre discipline. Sono intervenuti Paolo Aite, psichiatra, analista didatta junghiano, Marcello Pignatelli medico, analista junghiano e Angelo Malinconico, psichiatra, analista junghiano.
La fabbrica delle immagini
Cosa può comunicare un film? Quali sono le emozioni e i sentimenti che vuole rappresentare? Ne abbiamo parlato con
l’autrice Teresa Biondi, Adriana Berselli, costumista per le scene dello spettacolo, Flavio De Bernardinis, storico e critico di
Cinema, Sapienza Università di Roma, Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Chiamate in causa Antropologia e
Psicologia, per una storia sui generis del Cinema che analizza i modelli culturali rappresentati nella messa in scena filmica.
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Professione genitore:
dagli Egizi all’angolo piatto
BRUNO TAGLIACOZZI
Coordinatore della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia dell’Età Evolutiva a indirizzo psicodinamico
dell’Istituto di Ortofonologia, analista junghiano, CIPA – Roma
Relazione presentata alla tavola rotonda Professione genitore, nell’ambito della manifestazione
«Ingresso lib(e)ro. Giornata dei lettori e delle letture» a cura delle Edizioni Magi tenutasi a Roma il 24 marzo 2007
S
iamo ospiti della casa editrice Magi – che ringrazio per
l’invito a presenziare a questa tavola rotonda sulla Professione genitore – in un ambiente ricco di parole scritte
e di immagini. Non ho resistito alla tentazione di iniziare il mio
intervento parlandovi attraverso delle immagini: un film, Million Dollar Baby, del 2004, vincitore di quattro premi Oscar,
con attore protagonista e regista Clint Eastwood.
Million Dollar Baby è la storia di una giovane donna, Maggie, e di un uomo in età avanzata, Frankie. Lei è una cameriera
in cerca di un riscatto personale e sociale attraverso la boxe; lui
è il gestore di una scalcinata ma umanissima palestra di pugili.
Lei cerca un padre – prematuramente scomparso – l’unico in
famiglia con il quale aveva avuto un rapporto significativo; lui
cerca una figlia che non vede da anni e che ostinatamente
respinge le lettere sue al mittente. Un film che sobriamente, ma
con calore e sentimento tocca i temi fondamentali dei rapporti
generazionali. I due, insieme, arriveranno al successo, fino
all’evento tragico che segnerà la fine di un sogno e il definitivo
consolidarsi di una relazione profonda fra i due personaggi. Al
termine del film, la voce narrante chiuderà così l’ultima scena:
«Frankie non è mai più tornato. Non ha lasciato neanche un
messaggio, nessuno ha mai saputo che fine abbia fatto. Ho
sperato che fosse venuto a cercare te [la figlia naturale]. A
chiederti per l’ennesima volta di perdonarlo. Ma forse non
c’era rimasto più niente nel suo cuore. Spero solo che abbia
trovato un posto dove vivere in pace. Un posto in mezzo ai
cedri e alle querce. Sperduto tra il nulla e l’addio. Ma forse è
soltanto un’illusione. Ovunque si trovi adesso, ho pensato che
fosse giusto farti sapere chi era veramente tuo padre».
Perché ho voluto narrarvi questo film? Perché introduce
molto bene il tema di cui voglio parlarvi: la relazione tra genitori e figli. E questo film è una dimostrazione di quanto è
profonda questa esigenza e di quanto facilmente possiamo
disattenderla. Di quanto è più facile, a volte, ricostruire una
relazione da capo piuttosto che viverla con le persone giuste.
Fermiamoci qui e cancelliamo tutto. Torniamo alla realtà.
La storia del film è drammatica, ma proviamo a pensare se
nella vita di tutti i giorni potremmo trovarci in una situazione
simile. In una situazione, cioè, in cui stiamo ponendo i presupposti per vivere in maniera distorta il rapporto con l’altro, in
cui le fantasie e i desideri del genitore possono portare a non
vedere il figlio reale. E qui non posso non ricordare Jung quan-
do afferma che: «Gli influssi più forti che agiscono sui bambini non provengono affatto dall’atteggiamento cosciente dei
genitori, bensì dal loro sfondo inconscio. Ciò che di norma
influisce di più sul bambino a livello psichico è quella vita che
i genitori non hanno vissuto: quel pezzo di vita che eventualmente avrebbe anche potuto essere vissuto, se certi pretesti più
o meno sottili non l’avessero impedito. Si tratta di un aspetto
della vita a cui ci si è sottratti, magari con una pia menzogna.
Da qui si svilupperanno i germi più virulenti»2.
Un esempio pratico. Avete presente un padre alla partita di
calcio del figlio? Il primo pensa di essere il padre di Totti,
mentre il figlio non riesce a farsi una ragione del perché il
genitore non capisca le sue difficoltà, non lo aiuti, non lo
conforti invece di inveire contro di lui. È come se il padre
vedesse un’immagine diversa da quella del figlio reale, come
se avesse una benda sugli occhi, come se giocasse a moscacieca, mentre su quella benda si riflettono immagini interiori e
non il figlio reale.
Un altro esempio. Le aspirazioni scolastico-culturali di una
madre nei confronti di un figlio. Anche qui ci ritroviamo in una
situazione simile, in cui il bambino rischia di non essere visto:
la mamma vede nella sua benda Einstein, Aristotele o Piero
Angela, ma non riesce a prendere contatto con il bambino reale
che ha davanti a sé.
Fermiamoci nuovamente e cancelliamo tutto. Lasciamo
solamente l’immagine del genitore che gioca a moscacieca
con il bambino.
Cambiamo prospettiva e mettiamoci dalla parte del bambino. Il bambino si sente trasparente come quando ci si siede a
tavola, tutti intorno alla tavola e voi siete l’unica persona di
spalle al televisore…
Se il genitore è nel proprio mondo immaginario quando si
relaziona con il figlio, quale possibilità ha il bambino di farsi
sentire, di esprimere le sue paure, le sue angosce? Al bambino
non resta che seguire la stessa strada indicata dai genitori: la
fuga nell’immaginario. Così a un genitore che si rapporta con
un figlio immaginario farà da sponda un bambino che si relazionerà con genitori immaginari. Perché capite quanto è difficile rapportarsi con dei genitori che non ti capiscono rispetto a
dei genitori perfetti: immaginari ma perfetti! Pensate così a
tutte quelle patologie che vanno dal mentire patologico fino
alla pseudologia fantastica. L’impossibilità di un incontro reale
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sulle questioni fondamentali della vita: affetto, accudimento,
protezione, comprensione e la necessaria e conseguente fuga
dalla realtà.
Ma volevo lasciarvi un messaggio positivo e di speranza e,
quindi, andiamo a cercare un’alternativa che ci consenta di trovare o ritrovare un terreno sul quale instaurare un dialogo tra
genitori e figli.
Fermiamoci ancora una volta, cancelliamo tutto e ricominciamo da capo.
Dobbiamo individuare uno spazio nella vita quotidiana
all’interno del quale stabilire un contatto con il bambino reale e
non con quello immaginario. Proviamo a pensare alla nostra
giornata tipo.
Dov’è il bambino reale? Sicuramente è quello che dorme
nella sua stanza per circa 10 ore ogni notte. Quello sì è il bambino reale, ma purtroppo non sta in relazione con noi: dorme.
A scuola, allora, in quelle 8 ore è certamente sveglio. Ma anche
in questo caso il bambino reale non è in contatto con noi.
Facendo un rapido conto: 10 + 8 = 18 e 24 – 18 = 6: ci rimangono circa 6 ore per entrare in contatto con nostro figlio.
Inizia il pomeriggio. Certamente anche lui avrà bisogno dei
suoi tempi di recupero, da alternare fra un po’ di attività fisica,
di catechismo, qualche visita medica, un po’ di televisione, di
PlayStation, di Game Boy, ecc. Pazienza… però ci resta il
momento della cena: tutti insieme intorno a una tavola per
incontrarci. Però: il papà vuole ascoltare il telegiornale, la
mamma desidera vedere il suo programma preferito e i bambini mettono il muso se non vedono i cartoni. E magari siete
anche quello «trasparente» di spalle alla televisione…
Avete mai pensato che la nostra vita si svolge come quella
degli antichi Egizi raffigurata negli affreschi delle piramidi?
Loro non conoscevano le leggi della prospettiva. Noi sì, ma
usiamo sempre la prospettiva centrale, quella con il punto di
fuga al centro del foglio; tutti guardiamo verso il centro e i
nostri scambi comunicativi si svolgono perennemente di fianco: siamo di fianco quando si guarda la televisione, quando si
sta in macchina, quando si passeggia, nel confessionale della
liturgia cattolica e persino sul lettino dell’analista.
Per fortuna, rimangono ancora un’ora o due prima di andare a dormire. Ma siamo oramai tutti stanchi e assonnati. E ci si
addormenta come capita, ma sempre con lo sguardo fisso
verso il punto di fuga del televisore e rigorosamente di fianco.
Ma allora: dove possiamo recuperare il rapporto con il
nostro bambino reale?
Fermiamoci, cancelliamo tutto, ricominciamo da capo.
Il nostro bambino è lì, davanti a noi, tutti i giorni e siamo
noi a educarlo all’affettività e alla relazione, un’educazione che
non possiamo relegare a qualche guizzo di presenzialismo del
fine settimana. Non dobbiamo poi stupirci se l’adolescenza si
trasformerà da periodo critico a un periodo impossibile: il lasso
di tempo che intercorre fra l’infanzia e la pubertà è incredibilmente breve. Il rapporto con un figlio non si può rimandare nel
tempo o al tempo in cui sarà in grado di parlare e di risponderci o a tempi migliori: è un rapporto che va costruito subito,
ancor prima della sua nascita, con le fantasie – questa volta sì
necessarie – sull’arrivo di un figlio nella nostra vita. Non pensate che abbia troppo esagerato nel raccontarvi le 24 ore del
nostro ipotetico bambino. Purtroppo la quotidianità del lavoro
con i genitori mi costringe a questo duro realismo, pur lenito
dagli sforzi di tante mamme e tanti papà che riscoprono attraverso la riflessione e la consapevolezza la ricchezza del ruolo
genitoriale.
Entrare in contatto con il bambino reale significa smettere
di giocare a moscacieca, togliere la benda e guardare nostro
figlio negli occhi, con le sue debolezze e la sua forza. In un
contatto profondo fatto di ascolto e dialogo, di attenzione e
preoccupazione.
È un cambiamento di prospettiva di soli 180° rispetto al
vivere di profilo; praticamente un angolo piatto, se non fosse
che questo termine, «piatto», evoca una mancanza di profondità. Ma in realtà nel linguaggio matematico l’angolo piatto è
definito come «l’angolo i cui lati siano l’uno il prolungamento
dell’altro»2, e allora quale immagine migliore per rappresentare il rapporto tra genitore e figlio: l’uno è il prolungamento
dell’altro, restituendoci non solo il senso di un contatto diretto
e contestuale, ma anche una prospettiva storica di trasmissione
di valori ed esperienze attraverso le generazioni. E ancora, il
prolungamento presuppone anche il contatto fisico, il toccarsi,
l’abbracciarsi, il ritorno a modalità antiche di comunicazione
profonda con l’altro che hanno caratterizzato l’inizio della vita
e, soprattutto, l’inizio della vita di relazione alla nascita del
bambino.
Entrare nel campo visivo dell’altro, comunicare, stringere
un contatto fisico.
Fermiamoci definitivamente, ma questa volta non cancelliamo nulla.
NOTE
1.
Prefazione a F.G. Wickes, «Il mondo psichico dell’infanzia» (1931), in
Opere, vol. XVII, Lo sviluppo della personalità, Torino, Bollati Boringhieri,
1991, p. 42.
2.
Voce: «piatto», tratta dal Vocabolario della Lingua Italiana, edito dall’Istituto
della Enciclopedia Italiana.
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ono infallibili, di norma, i presupposti che tutte le famiglie siano
diverse, che scrivere i «manuali» per i genitori sia compito di
esperti, che non ci siano soluzioni uguali per problemi – apparentemente – uguali.
Ma quando una mamma (di tre figli maschi) decide di raccontare il
modo in cui ha organizzato la propria famiglia, le scelte che ha fatto
nelle situazioni problematiche, le sensazioni che l’hanno guidata
nelle delicate questioni dell’educazione giornaliera, e se questo racconto trasuda di logica, ironia, affetto, buon senso e santa pazienza,
ne viene fuori un qualcosa che supera di gran lunga il consiglio del
più esperto degli esperti.
Come fare per riuscire a sentirli tutti e tre mentre parlano contemporaneamente? Come dividere l’attenzione e l’affetto perché nessuno si senta geloso?
Come non farsi inghiottire dalle faccende domestiche e trovare il
tempo per stare insieme? Come ricavare del tempo per se stessi?
E poi, le autonomie personali, la scuola, i parenti, gli amici. La società
dei consumi e l’economia domestica. La qualità del tempo libero.
Questo vivace ritratto di una famiglia diventa, fin dalle prime pagine,
una fonte da cui non pochi genitori potranno attingere a piene mani.
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’elemento che più di ogni altro determina la percezione di una
malattia è il vissuto che la accompagna. Per poterlo comprendere è necessario dare direttamente «voce» al bambino, accogliendo le sue modalità espressive e ascoltandone le esperienze di ospedalizzazione. Solo così è possibile capire come il bambino vive e si
rappresenta la malattia, di cosa ha bisogno per affrontarla, quali
aspetti della relazione di aiuto sono per lui i più efficaci.
Nello svolgimento della ricerca,di cui questo libro riassume gli esiti,
si è scelto di ascoltare direttamente i bambini, andandoli a incontrare nel luogo di cura. Le forme espressive di grande libertà – il
disegno, la scrittura, la poesia – accompagnate dalla ricerca di amicizie, dal gioco e, soprattutto, dall’ascolto empatico da parte degli
adulti, hanno consentito ai bambini di rivelare i loro sentimenti.
Le risposte emotive del nucleo familiare, le modalità di erogazione
della cura e le caratteristiche del luogo in cui si affronta il processo
di guarigione, viste e narrate con gli occhi dei bambini malati, ci
consentono di vedere sotto una luce nuova alcune delle problematiche connesse all’ospedalizzazione in età pediatrica.
Oltre a offrire concreti spunti formativi e nuove conoscenze per aiutare quanti operano nell’ambito della malattia pediatrica e della
relazione di aiuto, i risultati di questa indagine hanno valenze riferibili a tutto il mondo dell’infanzia. Emerge con chiarezza che quando il bambino ha l’opportunità di esprimersi, impara ad avere meno
paura del proprio mondo interiore e riesce a far fronte anche ad
eventi eccezionali e ad emozioni penose. Ogni volta che interviene
attivamente su decisioni che lo coinvolgono, si abitua a fare altrettanto anche nelle situazioni ordinarie,imparando l’importanza della
partecipazione attiva nella società in cui vive. La capacità di far sentire la propria voce in modo costruttivo di fronte a un problema
diventa così uno strumento inestimabile nel suo processo di crescita.
L
a storia del cinema ci regala un grande numero di film che
contengono immagini e fatti provenienti da ogni parte del
mondo, raccontati da svariati punti di vista e, quindi, in grado di
divenire un compendio della cultura, della conoscenza e
dell’anima umana.
Il volume illustra i concetti che sottendono la costruzione del racconto filmico e le forme di rappresentazione attraverso immagini.
Dalle immagini nella mente alle immagini in movimento... La
capacità del cinema di riprodurre immagini mentali, modi di
pensare e comportamenti nei diversi ambienti culturali di appartenenza si concretizza nella creazione di una vera e propria
psico-antropologia filmica della contemporaneità, in grado di
mettere in scena le caratterizzazioni tipiche dei popoli e delle
nazioni e la multiculturalità e multietnicità, anche nell’ottica
della globalizzazione, con il conseguente annullamento delle
specificità culturali, delle differenze e dei contenuti originari.
Il volume, attraverso la prospettiva interdisciplinare dell’analisi
filmica – che permette l’approfondimento delle funzioni simboliche –, considera il prodotto filmico l’espressione e la rappresentazione dell’inconscio e dell’immaginario individuale e collettivo. Partendo dalla teoria moreniana che afferma la capacità
magica della riproduzione tecnica delle «immagini viventi» e
dall’analisi del linguaggio filmico, si prosegue alla scoperta degli
strumenti utilizzati dalla cinematografia per esteriorizzare l’inconscio, all’esame delle forme e delle tecniche del pensiero narrativo, della capacità di simulare attività mentali e di mettere in
scena l’essenza intima del pensiero dell’uomo correlato con le
azioni dell’ambiente.
Uno studio della commedia all’italiana, in chiusura del volume,
riassume ed esemplifica le tesi portanti dell’intera trattazione.
L
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CINEMA E LETTERATURA, UNA LETTURA PSICODINAMICA
38
Questa rubrica raccoglie i lavori di un seminario interdisciplinare che si occupa di opere cinematografiche e letterarie
in una prospettiva psicologica. Il seminario, considerato come propedeutico alla supervisione clinica, si svolge nel
primo biennio del Corso di Specializzazione in Psicoterapia dell’età evolutiva a indirizzo psicodinamico con l’obiettivo
di elaborare e condividere una narrazione dallo stesso punto prospettico, ma con una poliedricità di ascolti.
Qualcuno con cui correre
SERENA POLINARI
Psicologa, Specializzanda Corso Quadriennale di Specializzazione in Psicoterapia dell’Età Evolutiva
a indirizzo psicodinamico dell’Istituto di Ortofonologia – Roma
Qualcuno con cui correre (Mondadori, 2001)
di David Grossman
U
n cane corre per strada inseguito da un ragazzo»:
così inizia Qualcuno con cui correre, romanzo di
David Grossman, e così l’autore ci trascina in una
corsa a perdifiato per le vie di Gerusalemme dietro un cane
che si infila nei vicoli impervi del centro storico, passa veloce tra le bancarelle dei mercati senza darci nemmeno il tempo di chiederci dove stiamo andando. Lo seguiamo e basta.
Proprio come Assaf, il ragazzino che tiene il guinzaglio, cui è
stato affidato l’arduo compito di rintracciare il proprietario
dell’animale. Il cane, anzi la cagna, Dinka, conduce Assaf in
luoghi impensati, di fronte a strani e inquietanti personaggi,
attraverso cui, a poco a poco, come in un puzzle, si compone
il ritratto della misteriosa proprietaria: Tamar, una ragazza di
buona famiglia, fuggita da casa per salvare il fratello Shay,
musicista eccezionale, convinto che solo drogandosi può
suonare come Jimi Hendrix. Shay è caduto, da oltre un anno,
nella rete di un protettore mafioso, un personaggio che ospita in una grande casa ragazzi con aspirazioni artistiche e li
sfrutta, mandandoli a esibirsi in giro per Israele, accompagnati dai suoi scagnozzi che intascano i soldi lasciati in elemosina dal pubblico.
Piccola, determinata, con una voce bellissima, Tamar ha
elaborato un piano per far fuggire il fratello, ha preparato
una grotta in una valle solitaria, portandoci tutto il necessario per far fronte alle inevitabili crisi di astinenza di Shay.
Un piano audace in cui Assaf viene coinvolto prima ancora di aver incontrato la giovane, affascinato com’è da quella figura che a poco a poco prende vita nella sua mente e nel
suo cuore.
Tamar, fingendosi una ragazza sola e derelitta, inizia a
esibirsi, a cantare nelle vie di Gerusalemme e così viene avvicinata da due vecchietti che la conducono nella casa di
Pessah. Qui Tamar si scontra con una dura realtà, fra artisti
di strada e giovani dalla vita spezzata, mendicanti, prostitute e violenti sfruttatori. Sono giovani, adolescenti in fuga
dalle loro famiglie, dagli adulti di riferimento, dalle loro regole e imposizioni, ma anche e soprattutto da se stessi, dai
propri limiti, dalle proprie insoddisfazioni e frustrazioni.
«
La prima notte nella casa, Tamar viene aiutata da Shelly,
una ragazza fragile, con l’anima ferita, che le diventa amica,
le spiega le regole di quel posto orribile e la fa sentire un po’
meno sola. Inizia a esibirsi in strada agli ordini di Pessah e
dopo alcuni giorni, a cena, finalmente vede Shay: è magro,
deperito, l’ombra di se stesso, ma è ancora in grado, nonostante tutto, di comprendere il loro codice segreto, il loro alfabeto muto e così Tamar gli dice di essere lì per salvarlo.
Due giorni dopo il loro incontro, Tamar, animata da una
nuova forza, si introduce nell’ufficio di Pessah, fruga nella
sua agenda e scopre che lei e il fratello dovranno esibirsi nello stesso luogo, dopo nove giorni; è l’occasione che aspettava, quello sarebbe stato il momento giusto per la fuga, così
telefona all’amica Leah e le chiede di andarli a prendere con
la sua auto; purtroppo Tamar viene scoperta da Pessah e non
riesce a dire all’amica il luogo dell’appuntamento.
L’indomani, dopo essersi esibita, consegna a un uomo del
pubblico un foglietto di carta, in cui lo prega di aiutarla e di
telefonare a Leah.
Sei giorni prima della fuga, durante la cena, Pessah
chiede a Tamar di cantare, di far ascoltare la sua voce agli
altri ragazzi; dopo un momento di esitazione e sconcerto,
Tamar inizia a cantare e canta per l’unica persona che esistesse in quel momento, Shay; il fratello lascia la sala, ma
vi fa ritorno con la chitarra con cui intona i primi accordi di
Imagine; è un momento coinvolgente, emozionante, di
profonda condivisione; la musica li unisce e permette loro
di sentire, riconoscere e dar voce alla propria emotività; è
un episodio importante, fondamentale, perché spezza il silenzio tra i due fratelli e perché induce Pessah a farli esibire insieme in strada, facilitando così la loro fuga. Quella sera, Shelly entra in crisi, riflette su se stessa, sulla sua vita,
piange per la sua condizione, ma non trova la forza per reagire, così si lascia adescare da un trafficante di droga e con
lui trova la morte; è un duro colpo per Tamar, che perde una
compagna affettuosa e generosa ed è costretta a elaborare
un’altra difficile separazione.
Il giorno della fuga, durante la loro esibizione, Tamar richiama l’attenzione del pubblico su Miko, delinquente al servizio di Pessah, mentre ruba il portafogli a una vecchietta: in
pochi secondi la folla inizia a urlare, a muoversi, dando ai
CINEMA E LETTERATURA, UNA LETTURA PSICODINAMICA
39
due fratelli l’occasione di fuggire; Tamar e Shay corrono con
tutte le loro forze verso un futuro diverso, verso la libertà e
verso la macchina di Leah; riescono a raggiungerla grazie all’aiuto di Moshe Honigman, l’uomo disponibile e altruista a
cui Tamar aveva consegnato il biglietto, che aveva deciso di
dare il suo contributo fino alla fine e impugnando un fucile
riesce a bloccare Shishko, l’altro membro della banda che
quel giorno sorvegliava i ragazzi.
Una volta in macchina, Tamar può finalmente riabbracciare Leah e la sua figlioletta Noah, ma subito dopo si rende
conto di aver dimenticato Dinka; nella confusione, nel groviglio delle gambe, Dinka si era messa ad abbaiare, aveva perso l’orientamento e anche i suoi padroni. Un silenzio pesante
scende nell’abitacolo e un dolore e un’angoscia insopportabile colpisce Tamar, che perde Dinka proprio quando ritrova
Shay, cose se fosse stato necessario sacrificare qualcosa, qualcuno, per riaverlo.
Sarà Assaf a trovarla e si lascerà guidare per le vie di
Gerusalemme alla ricerca di Tamar: Dinka lo condurrà da
Teodora, da Matzliah e infine da Leah; attraverso i loro racconti, tassello dopo tassello, la storia di Tamar prende vita sotto gli occhi di Assaf, che, incredulo, scopre di essere catturato dalla figura di quella ragazza tanto dolce e determinata.
Leah conduce Assaf nella grotta, lì finalmente incontra
Tamar, le riconsegna Dinka e i due ragazzi vivono insieme i
giorni difficili del recupero di Shay, pronti a partire per correre lungo quel percorso magico che è l’amore, scoperto insieme a sedici anni.
ISCRA
S.R.L.
I protagonisti di questo libro sono, dunque, due adolescenti: Assaf, sedicenne timido e impacciato e Tamar, ragazza tanto decisa e dura, quanto dolce e triste.
ASSAF è un ragazzo molto fragile, insicuro, con poca autostima e fiducia in sé, che incontra molte difficoltà e problemi nel relazionarsi con i coetanei. La sua insicurezza lo
porta a evitare il confronto con gli altri e a subire passivamente le loro iniziative.
Il ragazzo, superate le riserve e i dubbi iniziali, decide di
correre dietro Dinka; ma cosa rincorre davvero Assaf?
Perché tanta ostinazione nella ricerca? E se fosse solo il pretesto per fuggire? O un confuso desiderio di correre incontro
alla vita? C’è un po’ di tutto questo nella sua mente inquieta
di adolescente; corre Assaf, e si sente invadere da una sensazione misteriosa e sconosciuta, dal piacere di una corsa verso l’ignoto. È una corsa che gli permette di conoscere a poco a poco Tamar, ma che soprattutto gli consente di conoscere se stesso, scoprire le proprie capacità, maturare una
nuova consapevolezza di sé; è un viaggio nella vita della ragazza, ma soprattutto un viaggio alla scoperta di sé.
TAMAR è una ragazza sicura e concreta, ma anche piena di
poesia e di paura; si rimane colpiti e affascinati dalla sua capacità sconfinata di amore, dalla sua capacità di entrare in relazione empatica con gli altri, dal suo dono di saper instaurare legami profondi e sinceri con le persone più diverse.
Tamar si trova però a dover affrontare da sola una situazione
difficile: di fronte a dei genitori incapaci di reagire al dolore
e fornire l’aiuto necessario e il giusto contenimento a Shay,
Istituto Modenese di Psicoterapia
Sistemica e Relazionale
Corso di Specializzazione in Psicoterapia
Sistemica e Relazionale
L’Istituto ha ottenuto il riconoscimento del M.I.U.R. con decreto del 10/10/1994 (G. Uff. n. 250)
Training di 4 anni accademici di 500 ore ciascuno
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CINEMA E LETTERATURA, UNA LETTURA PSICODINAMICA
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sente di doversi far carico della situazione, sente che deve essere lei a reggere e a salvarlo. Per fronteggiare tutto questo è
costretta a indossare una maschera, a strutturare un Falso Sé,
a mostrarsi dura, decisa, determinata, nascondendo la parte
più fragile e indifesa di sé. Prima di partire per questa avventura, Tamar si taglia i lunghi capelli e ciò rappresenta
simbolicamente la ridefinizione della propria immagine.
Per comprendere fino in fondo la psicologia di questi due
personaggi, che sembrano compensarsi, è necessario analizzare il rapporto con la famiglia d’origine, con le loro figure
parentali.
La famiglia di Assaf è molto presente e solida. La mamma è descritta come ansiosa e iperprotettiva, al punto da non
facilitare il processo di separazione-individuazione di Assaf,
che sembra essere ancora nella fase di idealizzazione, non
ancora pronto a mettere in discussione i suoi genitori.
I genitori di Tamar sono borghesi, istruiti, razionali, ma
poco capaci di manifestare affetto e soprattutto di comprendere i bisogni dei figli; è una famiglia, oserei dire, abbandonica, costituita da quattro persone sole, in cui è poco presente la comunicazione e la condivisione. Di fronte alla crisi
adolescenziale di Shay, al suo ricorso alla droga, i genitori restano svuotati e paralizzati, incapaci di reagire e di porsi come figure autorevoli in grado di sostenerlo e aiutarlo.
SHAY è un adolescente inquieto, aggressivo, prepotente,
insofferente a qualsiasi regola e imposizione, ma è anche
estremamente fragile e vulnerabile; si droga, nell’illusione di
aumentare così le proprie capacità personali e relazionali e so-
prattutto per fuggire da se stesso, dalla sofferenza, dalle difficoltà e dalla solitudine che caratterizzano il passaggio all’età
adulta. È lui a telefonare a Tamar e a chiederle di aiutarlo, ma
quando se la trova davanti ha paura, ha paura di seguirla nella fuga, ha paura di introdurre anche il minimo cambiamento
nella sua vita distrutta. Come psicologi ci troviamo spesso di
fronte persone che ci chiedono di aiutarle, ma che, di fatto,
non facilitano il nostro lavoro, non collaborano, perché hanno trovato un equilibrio, anche se nella sofferenza, e temono
di spezzarlo, perdendo sicurezza e stabilità.
Tutto il romanzo, pur nel realismo dei particolari, sembra
sospeso in un’atmosfera fantastica ed è costruito con i più
classici ingredienti della fiaba: c’è una principessa in jeans e
t-shirt, che verrà salvata da un cavaliere coraggioso, c’è il
cattivo da sconfiggere, che assomiglia a un orco crudele, ci
sono i geni buoni, che aiuteranno i protagonisti nella loro impresa: ricordiamo Teodora, Karnaf, Leah, Moshe Honigman.
Non manca nemmeno un cane un po’ magico, che fin dalle prime righe appare come il catalizzatore di tutti i sentimenti
positivi: DINKA, un personaggio circolare del libro, che consente l’incontro tra Assaf e Tamar, l’unione tra il maschile e il
femminile. Rappresenta un punto di riferimento per entrambi,
è l’alter ego sia di Tamar che di Assaf, è la parte intuitiva, più
istintiva, più coraggiosa, la spinta a fare, ad andare avanti.
La prima persona da cui Dinka conduce Assaf è
TEODORA: un’anziana suora che da oltre 50 anni vive in clausura in un ospizio, in attesa dei pellegrini dall’Isola di
Liksos, in Grecia, suo paese natale. Circa settant’anni prima
CINEMA E LETTERATURA, UNA LETTURA PSICODINAMICA
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che Teodora nascesse, il capo del suo villaggio aveva deciso
di costruire a Gerusalemme un ospizio per accogliere gli abitanti dell’isola che si recavano in pellegrinaggio in Terra
Santa; l’edificio doveva essere custodito da un’unica suora,
scelta a sorte tra le ragazze dell’isola. La prescelta fu
Teodora, ma dopo due anni trascorsi nell’ospizio, giunse la
notizia che un terribile terremoto aveva ucciso tutti gli abitanti del suo villaggio.
Per comprendere il suo personaggio è importante tornare
proprio a questo punto della sua storia, alla sua adolescenza,
ai suoi 16 anni, quando improvvisamente perde tutti. Si ritrova sola, senza più punti di riferimento, a poter scegliere il
proprio destino, il proprio futuro. Non aveva più senso restare in quella casa, in attesa di qualcuno che non sarebbe
mai arrivato; ha la possibilità di scegliere liberamente la propria strada, di cambiarla, ma Teodora è sola e spaventata da
un mondo che non conosce e così sceglie di continuare a vivere nel ruolo che le era stato assegnato. Non si sente pronta ad affrontare il mondo e così lo porta, un pezzetto alla volta, nella sua stanza: legge libri, studia, impara l’ebraico antico e moderno, intrattiene una corrispondenza con intellettuali, filosofi e scrittori; ma il suo mondo è fatto solo di parole, descrizioni, personaggi e vicende scritte.
A Teodora Assaf racconta dei suoi genitori, del loro
viaggio negli Stati Uniti, per andare a trovare la sua sorella
maggiore Reli, orafa di successo, trasferitasi lì un anno prima perché sentiva il bisogno di più libertà e spazio. Le parla
di Muki, la sorellina di 3 anni, della sua dolcezza e tenerezza e di Roy, il suo miglior amico, con cui, negli ultimi tempi, aveva tante difficoltà a relazionarsi per i suoi atteggiamenti da leader, che il nostro protagonista, insicuro e fragile,
non era in grado di gestire e frenare.
La suora racconta, invece, ad Assaf del primo incontro
con Tamar e di come quella ragazza aveva saputo risvegliare
in lei il ricordo della sua adolescenza, del suo villaggio, dei
suoi amici, della sua mamma sempre indaffarata e stanca, impossibilitata a stare sola un minuto con lei. Tamar le ricorda la
Teodora sedicenne, vivace, spigliata e irrequieta, le ricorda i
suoi genitori che non avevano saputo combattere per lei, così come quelli di Shay non erano stati in grado di farlo per lui.
Verso la fine del romanzo, per aiutare Tamar, che tanto l’aveva colpita per la sua determinazione e il suo coraggio,
Teodora, dopo 52 anni, trova la forza di uscire, di affrontare il
mondo e così attira su di sé l’attenzione di Pessah, che stava inseguendo Assaf e Dinka, permettendo ai due di arrivare da Leah.
LEAH, cara amica di Tamar, è proprietaria di un ristorante, ha una vita difficile alle spalle, una figlia adorabile da crescere e un carattere generoso e leale. Sostiene Tamar durante tutta l’avventura, spedendo le lettere che la ragazza aveva
preparato per tranquillizzare i suoi genitori, facendole cantare da alcuni artisti di strada Happy Birthday nel giorno del
suo compleanno, aiutandola nella fuga, portando da lei Assaf
e Dinka, ma soprattutto non facendole mai mancare il suo affetto e la sua presenza. Leah è per Tamar un punto di riferimento importante, un porto sicuro da cui partire e a cui approdare nei momenti di difficoltà, è quella base sicura che la
ragazza non trova nei genitori.
Anche Assaf ha un amico che lo sostiene e lo consiglia
durante i giorni della ricerca: è KARNAF, l’ex fidanzato di
Reli, di cui è ancora tanto innamorato, grazie al quale verranno arrestati Pessah e i suoi uomini.
SOFFERMANDOSI A RIFLETTERE...
Qualcuno con cui correre è un romanzo avventuroso, incalzante, commovente, in grado di illuminare il mistero dell’adolescenza, inoltrandosi con sicurezza nelle sue difficoltà e
nelle sue chiusure, per mostrarci la generosità e le grandezze di cui è capace.
Il libro esplora l’adolescenza, un periodo di transizione,
di crisi, caratterizzato da trasformazioni corporee, psicologiche, relazionali, che richiede all’individuo un’elaborazione
del proprio senso di identità. Molte difficoltà e disagi di questa fase del ciclo vitale possono insorgere o essere rafforzati
proprio da questa ricerca di un nuovo modo d’essere nel
mondo.
L’adolescente acquisisce nuove capacità cognitive, a cominciare dalla capacità di riflettere sui propri pensieri, di immergersi in una nuova dimensione temporale attraverso cui
ha accesso al presente, al passato e al futuro. Deve al contempo tollerare il dubbio, la solitudine, la tristezza e l’angoscia che da tutto ciò scaturiscono; vive nella continua ambivalenza tra l’essere una persona indipendente e ribelle, che
reclama la sua autonomia, e il bisogno di profonda dipendenza in ambito familiare.
Assaf, come molti sedicenni, sente da un lato una certa riluttanza ad abbandonare le sicurezze del mondo infantile, e
dall’altro un irresistibile richiamo verso il mondo degli adulti, che però avverte come sconosciuto, complesso e inquietante. Sia verso il proprio passato infantile, che ormai svanisce, che verso i propri genitori, c’è un misto indefinito di voglia di distacco e di rassicurazione.
Nel difficile compito di costruzione della propria identità
l’adolescente è chiamato a separarsi dai propri genitori, a
metterli in discussione, ad abbandonare o ridefinire i loro valori, le loro idee, le loro regole, elaborando il lutto che accompagna qualsiasi perdita.
L’area psichica del libro è proprio quella della separazione. Tamar, è costretta a vivere separazioni dolorose: da Shay,
da Shelly, da Dinka, ma, come ogni adolescente, anche dai
propri genitori e dall’immagine di se stessa bambina.
Il rimodellamento della personalità dell’adolescente dovrebbe diventare uno stimolo per il rimodellamento della famiglia: i genitori dovrebbero accompagnare il figlio nel processo di separazione, trovare rimedio al vuoto che egli inevitabilmente lascia, dare il giusto peso al suo comportamento ribelle, impulsivo, incoerente, ambivalente, alle sue richieste di
libertà e alle sue esigenze di guida, controllo e sostegno.
Il libro ci offre lo spunto per riflettere sulle ulteriori difficoltà che gli adolescenti incontrano quando tutto questo
non avviene, quando i genitori non sono in grado di porsi come figure affidabili, forti, autorevoli, in grado di fornire il
giusto sostegno e contenimento, o quando si pongono come
eccessivamente protettivi e limitanti.
Qualcuno con cui correre ci immerge nell’adolescenza,
nelle sue difficoltà e contraddizioni, senza farci mai dimenticare, però, che questa età contiene in sé aspetti evolutivi e
creativi. ♦
FARE PSICOLOGIA
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Psicoanalisi e telepatia
Introduzione all’articolo di Istvan Hollòs
«Psicopatologia dei problemi telepatici quotidiani» (1933)
– Che sarà pubblicato sul prossimo numero –
MARCO ALESSANDRINI
Psichiatra, psicoanalista, responsabile dell’Unità territoriale del Centro di Salute Mentale della ASL
di Chieti, Professore a contratto presso la Facoltà di Medicina e la Facoltà di Psicologia dell’Università di Chieti
U
na breve introduzione ai rapporti tra psicoanalisi e
telepatia non può esaurire i nodi che questo tema solleva. È però possibile accennare ad alcuni aspetti
generali e individuarne i possibili risvolti in termini di tecnica
psicoterapeutica. Infatti, come scriveva già Georges Devereux
nel 1953, studi di questo genere non sono «…contributi di
psicoanalisti riguardo a problemi di parapsicologia. Sono
invece, specificamente, studi psicoanalitici dei cosiddetti
“fenomeni-psi”, e devono quindi essere considerati essenzialmente come contributi alla teoria e alla pratica della psicoanalisi clinica» (Devereux, 1953, p. IX).
Non devono tuttavia neppure essere trascurati i risvolti che
queste teorie hanno in termini di responsabilità individuale.
Esse infatti rendono possibile ipotizzare un «contatto» tra
menti all’interno del quale l’individuo, che in questa prospettiva sarebbe influenzato da atmosfere psichiche interpersonali –
gruppali e collettive –, a sua volta e inconsapevolmente le
influenzerebbe. Non si tratta perciò di svelare soltanto eventuali influssi «telepatici», preriflessivi e nascosti, tra paziente e
analista nel loro incontro ben delimitato e peculiare, quanto
anche una possibile e più vasta rete di contatto inter-psichico
tra tutti gli individui della comunità umana, i quali in questo
senso sarebbero corresponsabili, sebbene inconsapevolmente,
di tensioni o conflitti che pervadono momenti storici e persone.
Riguardo al solo primo aspetto, ovvero la pratica della psicoanalisi clinica, l’articolo di Hollòs (che sarà pubblicato sul
prossimo numero), e che per la prima volta compare in traduzione italiana, è unanimemente considerato paradigmatico.
Esamina infatti il possibile verificarsi di fenomeni telepatici
nello specifico ambito della relazione tra paziente e analista. In
sostanza, si occupa dell’ipotetico intervento della telepatia nei
fenomeni di transfert-controtransfert, seguendo in questo la
strada che Freud aveva dischiuso appena qualche anno prima.
È bene però premettere che Freud aveva esaminato soltanto il possibile emergere, nei sogni notturni dell’analista, di
contenuti «trasmessi telepaticamente» dal paziente. Sempre
Freud, inoltre, quasi per mitigare la portata delle proprie ipotesi, si era chiesto se questi contenuti eventualmente ricevuti
dal terapeuta per via telepatica non si limiterebbero a concorrere al formarsi del sogno secondo un’unica modalità, la stessa dovuta ai cosiddetti resti diurni, vale a dire fornendo il solo
materiale di rivestimento per il desiderio inconscio. Egli infatti valutava con scetticismo l’idea che questi contenuti potessero invece influenzare il desiderio inconscio stesso. In altri ter-
ISTVÁN HOLLÒS: BREVE NOTA BIOGRAFICA
Medico ungherese, psichiatra e psicoanalista, István Hollòs
nasce a Budapest nel 1872, dove muore nel 1957. Proveniente da una modesta famiglia ebrea, è fondatore, nel 1913,
insieme a Sándor Ferenczi, Sándor Rado, Hugo Ignotus e
altri, della Società Psicoanalitica Ungherese. Di questa è inizialmente vicepresidente e poi, dal 1933 al 1939, presidente.
Già in questo periodo esercita come psicoanalista. È anche
vicino ai circoli letterari, ai fermenti artistici dell’epoca. Nel
1918 effettua un’analisi personale a Vienna con Paul Federn,
analista già rinomato per la specifica attenzione rivolta a
pazienti psicotici.
Le psicosi sono anche il principale campo di interesse di
Hollòs, il quale diventa direttore del più importante manicomio del paese, soprannominato «Casa Gialla» e situato a
Lipotmezö, nelle vicinanze della capitale. Nel frattempo, traduce in ungherese due opere di Freud, L’interpretazione dei
sogni (insieme a Ferenczi) e L’Io e l’Es (insieme a Géza
Dukes). Viene però presto destituito dall’incarico nel 1925,
sotto il regime antisemita di Miklós Horthy, e nel 1944, insieme alla moglie, sfugge fortunosamente alla morte durante un
tentativo di deportazione. A salvarlo insieme ad altri ebrei, è il
diplomatico svedese Raoul Wallenberg, e in quell’occasione
Hollòs ha un’intensa esperienza interiore che amerà interpretare come intervento di «segni dal cielo».
Egli riprende l’attività di psicoanalista, e nella Società
Ungherese lavora al fianco di Imre Hermann. Ormai anziano,
ha un episodio delirante. Termina i suoi giorni ricoverato nella
«Casa Gialla», alla quale, nel 1927, poco dopo la sua destituzione, aveva dedicato uno straordinario resoconto di esperienze cliniche, il romanzo-saggio I miei addii alla Casa Gialla
(pubblicato in Italia dalle Edizioni Magi nel 2000).
mini, Freud riteneva che non potessero «inserirsi» direttamente in profondità e causare, del desiderio inconscio, oltre al
semplice «rivestimento» anche l’insorgenza e il contenuto.
Ecco pertanto che egli, ribadendo le proprie esitazioni, in conclusione precisava che il suo «atteggiamento personale rispetto a questa materia continua a essere riluttante e ambivalente»
(Freud, 1921, p. 349).
Da questi pochi accenni è tuttavia già chiaro che nel parlare di questo argomento emergono almeno due nodi cruciali.
FARE PSICOLOGIA
43
Un primo nodo è la natura delle relazioni interumane, delle
quali la relazione terapeuta-paziente è soltanto una variante,
sebbene talmente particolare da rendere più evidenti le dinamiche in gioco. Ecco perciò che proprio in rapporto all’ipotesi della telepatia è necessario domandarsi se alla percezione
razionale e cosciente di una netta separazione tra la mente di
due o più individui non sfugga una sottostante condizione di
contatto, o addirittura di non-separazione. Un secondo nodo,
derivazione diretta di quello appena detto, riguarda la delimitazione della mente, in particolare la conformazione e i confini dell’inconscio. In pratica vengono chiamate in causa non
solo le relazioni dell’inconscio con le persone esterne, vale a
dire con l’inconscio degli altri individui, ma le relazioni che
l’inconscio potrebbe intrattenere con l’intera realtà esterna,
inclusi gli oggetti materiali e gli accadimenti concreti.
Riguardo a entrambi questi temi l’articolo di Hollòs propone una spiegazione precisa, estrapolandola da un nutrito
elenco di esempi clinici. L’autore rileva che i contenuti rimossi del paziente sembrano riemergere, in seduta, nelle libere
associazioni che in quel momento occupano la mente dell’analista. La sola spiegazione possibile, negli esempi da lui
esaminati, sembra perciò appunto l’inconsapevole trasmissione dei contenuti per via telepatica, dall’inconscio del paziente
all’inconscio dell’analista, del quale ultimo, poi, i contenuti
raggiungerebbero la coscienza tramite il canale preconscio
che genera le libere associazioni. Hollòs inoltre, in ciò differenziandosi nettamente da Freud, considera anche la possibilità inversa, vale a dire il possibile affiorare, nelle libere associazioni del paziente, di contenuti rimossi dell’analista.
Riguardo invece al vero e proprio meccanismo di una
simile comunicazione telepatica, la spiegazione che Hollòs
propone si appoggia a una sorta di metafora neurologica.
Egli accenna a un’ipotetica «conduzione» di impulsi tra il
sistema nervoso del paziente e il sistema nervoso dell’analista. In sostanza, la sua è una variante, più dettagliata e ardita,
di quel «dialogo degli inconsci» di cui già parlava, più d’ogni altro psicoanalista, il collega e amico Ferenczi, anch’egli
ungherese. Infatti quest’ultimo, sia pure non riferendosi ai
fenomeni telepatici, scriveva che «…gli inconsci di due persone si capiscono e si lasciano capire reciprocamente a
fondo, senza che la coscienza di entrambi ne abbia sentore»
(Ferenczi, 1915, p. 151).
Ma volendo aggiornare e migliorare l’ipotesi di Hollòs,
sorge spontaneo chiedersi con quale esatto meccanismo, in
effetti, potrebbe avvenire il «dialogo tra inconsci». Soprattutto,
va da sé domandarsi se l’ipotetico «passaggio» di contenuti
psichici da una mente all’altra potrebbe verificarsi soltanto
attraverso una supposta via telepatica. Ma anche qualora l’ipotesi di questa via fosse la più accettabile, rimarrebbe poi inevitabile interrogarsi più a fondo sull’eventuale meccanismo dell’ipotetica via telepatica. Infatti la spiegazione fornita da Hollòs, relativa a una «conduzione» di impulsi, tra un individuo e
l’altro, per il tramite del rispettivo sistema nervoso, sembra
semplicemente sostituire alla parola «inconscio» la parola
«sistema nervoso», lasciando in realtà irrisolto il problema.
In effetti se questo, più in generale, non è altro che il tema
dell’empatia (Einfühlung) – il «sentire-con» il paziente, l’immedesimarsi in lui – è però qui interrogato l’esatto meccani-
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FARE PSICOLOGIA
44
smo di questo «sentire» gli altri. La vera domanda, insomma,
riguarda la natura della mente e dei rapporti tra menti. D’altronde, la stessa definizione classica del termine «telepatia»
solleva apertamente la questione. Si consideri infatti che in un
recente e aggiornato manuale la definizione suona come
segue: «Telepatia: Comparsa simultanea di un identico pensiero (contenuto psichico) nella mente di due o più individui
distanti e non esposti a un medesimo stimolo sensoriale»
(Biondi, 2004, p. 137 – il corsivo è mio).
*
Tentando una schematizzazione, si può dunque dire che su
questo argomento le posizioni psicoanalitiche si suddividono
in due grandi orientamenti. Un primo orientamento è esemplificato dall’articolo che Paul Schilder scrisse in risposta alle
tesi di Hollòs. Secondo Schilder, «…anche qualora l’analista
parli molto poco, egli, nondimeno, ha modi caratteristici di
espressione e di pensiero; questi vengono percepiti dagli analizzandi nel [loro] sistema Inconscio, per lo più tramite identificazione» (Schilder, 1934, p. 224). In altre parole, questo
orientamento ritiene che tra gli esseri umani la cosiddetta
comunicazione non-verbale, complessa e incessante sebbene
abitualmente inosservata e inconscia, sia responsabile di uno
scambio di informazioni ben maggiore di quanto comunemente viene supposto. Pertanto, il cosiddetto «contagio emotivo» tra persone (Hatfield et al., 1994) non deriverebbe da trasmissioni «telepatiche», vale a dire dal passaggio di contenuti
psichici da una mente all’altra attraverso canali diversi da
quelli sensoriali, bensì da una comunicazione mediata proprio
dai canali sensoriali, sebbene su un piano non-verbale e inconscio. Da questo punto di vista la moderna etologia, per esempio, e soprattutto la cosiddetta «etologia umana», ha molto da
insegnare (Eibl-Eibesfeldt, 1984).
Il secondo orientamento ritiene invece che la comunicazione tra menti si svolga su un ipotetico piano non sensoriale.
Ma in questo caso le teorie psicoanalitiche si dividono in due
gruppi. Da un lato, alcune suggeriscono che specifiche funzioni non sensoriali, prima fra tutte l’intuizione, siano abbinate ai
canali sensoriali, potendo perciò recepire, pur sempre per via
sensoriale, anche ciò che tuttavia non è affatto sensoriale. Si
tratterebbe pertanto di un «sentire» che pur mediato dalla sensorialità travalicherebbe di gran lunga quest’ultima, essendo
legato a una sorta di facoltà intuitiva inconscia. In sostanza,
alla sensorialità fisica sarebbe sempre inconsapevolmente
affiancata una funzione cognitiva di tipo intuitivo ed emotivo.
Rientra allora in questo ambito, per esempio, la teoria kleiniana dell’«identificazione proiettiva» (e non è certo un caso
che la Klein abbia effettuato la propria prima analisi personale
con Ferenczi). Secondo questa teoria, un contenuto inconscio
del paziente, un contenuto di per sé non-sensoriale, può essere
«inviato» all’analista, e letteralmente «evacuato» in quest’ultimo, attraverso gli scambi comunicativi sensoriali, sia verbali
che non-verbali.
A ben vedere, comunque, anche così formulata questa teoria, e l’intero gruppo di eventuali altri analoghi modelli, è solo
un’amplificazione delle teorie che rientrano nell’orientamento
precedente, quello preconizzato da Schilder. Si limita infatti a
estendere la natura e l’ampiezza delle comunicazioni per via
sensoriale, aggiungendo a queste un sottile e più vasto risvolto
di tipo intuitivo e non-sensoriale.
Ben altro sostiene invece il gruppo di teorie secondo cui la
natura stessa della mente deve essere concepita in termini
diversi da quelli abituali e correnti. La mente stessa, infatti,
può essere immaginata come non racchiusa entro i soli confini
fisici del corpo, oppure come connessa con i processi organici
e corporei in grado tale da porsi in continuità con la fisicità
materiale del mondo esterno. In entrambi questi casi, pertanto,
la comunicazione tra menti avverrebbe per via non-sensoriale,
tramite una effettiva, sottostante non-separazione tra interno
ed esterno e tra psiche e materia, inclusa la materia del mondo
esterno.
Ecco allora, per esempio, le considerazioni di Bion, secondo il quale «la nostra pelle è utile come metodo per dire quali
sono i limiti della nostra composizione fisica, della nostra anatomia e fisiologia. È improbabile [però] che questo costituisca
un’adeguata descrizione dei limiti della nostra mente» (1977,
p. 207).
Qui perciò la mente non può più essere identificata con il
solo corpo, né con la materialità e i confini di quest’ultimo. Di
conseguenza, volendo estremizzare, secondo questo modello
è pertanto possibile che le menti «si tocchino» tra loro direttamente e concretamente, nel momento stesso in cui invece i
corpi, con la propria ingannevole delimitazione, offrono
un’ovvia e visibile impressione di separazione e distanza.
Si spiega dunque in questo modo perché, nel caso specifico della relazione analitica, in questo caso ispirandosi non
solo a Bion ma alla fisica quantistica, teorie recenti abbiano
creato il concetto di «campo bipersonale»: un inconscio
«comune» alle due persone – specificamente il terapeuta e il
paziente –, nel senso di un unico campo di forze che conterrebbe l’attività mentale inconscia di entrambi i componenti
della coppia. È quanto d’altronde lo stesso Bion afferma in
altra forma, vale a dire quando ipotizza un’area della mente da
lui chiamata «protomentale»: un’area unitariamente psichica e
fisica, e inoltre transindividuale, ossia situata o «espansa» al
di là dei limiti fisici e psichici dell’individualità conscia.
Lungo questa medesima scia è inevitabile menzionare
anche la teoria di Matte Blanco (1988). Secondo questo autore la realtà, e quindi anche la mente o l’individualità, rivelano
una diversa conformazione a seconda della logica che l’osservatore adotta. Così, se «guardata» con gli occhi della logica della coscienza, basata sul principio di non-contraddizione, la mente appare interna all’individuo e distinta dal corpo,
ma se «guardata» con gli occhi della logica non-aristotelica,
la logica dell’inconscio, la mente potrà apparire come estesa
all’esterno dell’individuo e addirittura coincidente con la
materia e con il corpo.
Anche Lacan, a sua volta, sia pure limitandosi a spunti
più occasionali e meno dettagliati, sostiene che ogni significante – sia esso un sogno, il racconto di un sogno, un gesto,
un suono, un silenzio e via dicendo – è di per sé il sapere dell’inconscio. Ecco perciò che il significante, così inteso,
«…rimbalza da un soggetto all’altro al punto che la sequenza
delle ripetizioni, la catena dei significanti, ossia la girandola
degli elementi già ripetuti o da ripetere… non appartiene a
nessuno in particolare. Non c’è struttura a sé, né c’è inconscio a sé» (Nasio, 1992, p. 27).
FARE PSICOLOGIA
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Come conseguenza immediata e cruciale, questi orientamenti concettuali implicano dunque che la tecnica psicoterapeutica si allarghi a una lettura attenta dell’intera realtà dell’incontro analitico: la realtà materiale della stanza, gli accadimenti concreti che si verificano nell’ambiente durante la seduta, e via dicendo. E tutto ciò, in conclusione, è ancora più evidente qualora si consideri un’ulteriore teoria appartenente in
fondo, nonostante le sue assolute peculiarità, al medesimo
filone di pensiero: la teoria della «sincronicità» proposta da
Jung (1951, 1952).
Quest’ultimo infatti sostiene che l’archetipo, quale forza
generativa che orienterebbe la psiche dalle profondità dell’inconscio, ha una natura «psicoide», ossia psicofisica, e che perciò sarebbe in grado di imprimere significato psicologico a
elementi e accadimenti materiali, anche qui travalicando le
comuni delimitazioni tra mente e corpo e tra interno ed esterno. L’innovazione introdotta da questa teoria è però appunto
l’attenzione al «significato»: un avvenimento interno (per
esempio un pensiero dell’analista) può rivelarsi connesso a un
avvenimento esterno (per esempio un gesto o una frase del
paziente) da uno stesso significato affettivo. Il significato
affettivo sarebbe di origine archetipica e perciò deriverebbe
dall’inconscio «psicoide», capace, in quanto tale, di creare un
reale, psicofisico contatto tra analista e paziente, scavalcando
così la delimitazione e la separatezza tra i loro corpi fisici.
In questo senso, e più in generale, quando tra due eventi
non sembra poter esistere un rapporto di causa ed effetto,
eppure essi appaiono collegati in maniera «significativa» e non
casuale, il legame sarebbe stato indotto e creato dal significato
stesso, il quale quindi avrebbe agito – se è accettabile un ossimoro – come una sorta di «causa acausale». In pratica il significato, tramite il livello psicofisico o «psicoide» da cui deriverebbe, sarebbe in grado di influenzare la materia esterna, e perciò – si potrebbe aggiungere – potrebbe influenzare eventualmente anche l’inconscio psicofisico di un altro individuo.
Si può infine notare che proprio entro l’ottica di quest’ultima teoria, la teoria junghiana della sincronicità, potrebbe rientrare più specificamente, sia pure con la sua veste semplicistica, l’ipotesi formulata da Hollòs riguardo a una «conduzione»
di impulsi, tra due individui, da un sistema nervoso all’altro.
A
e adolescenza
P e psicoanalisi
Organo ufficiale dell’A.R.P.Ad.
(Associazione Romana per la Psicoterapia dell’Adolescenza)
AeP (già Adolescenza e Psicoanalisi)
rivista fondata da Arnaldo Novelletto
Direttore – Gianluigi Monniello
*
Come già detto, l’evidente complessità di questi modelli non
può essere qui riassunta, ma soltanto accennata. E se essi
sono, comunque, nient’altro che modelli, il loro scopo resta
tuttavia rendere ragione di fenomeni clinici e umani che si
propongono comunemente all’attenzione, sebbene soltanto
come coincidenze «insolite» e inspiegabilmente non casuali.
È vero tuttavia, proprio da un punto di vista psicoanalitico,
che queste speculazioni, questi modelli, potrebbero anche
derivare soltanto da un desiderio fusionale non risolto, da un
bisogno di appagare bisogni simbiotici e di alleviare, in questo modo, il sentimento di finitezza e di solitudine a cui tutti
siamo sottoposti. Il confronto con l’irrimediabile alterità di
coloro che incontriamo, e con l’alterità del mondo e degli
eventi, è anche il confronto con l’estraneità di ciascuno rispetto a se stesso, con l’ignoto, la precarietà e l’impotenza che
abitano in fondo il proprio stesso esistere. Le suddette teorie
Abbonamento annuale (2 numeri): a 30,00
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FARE PSICOLOGIA
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potrebbero allora esprimere soltanto l’inconscio bisogno di
negare e compensare questa costitutiva ferita narcisistica. È
altrettanto vero, come sottolinea Hollòs, che queste variegate
ipotesi teoriche potrebbero anche provenire dal riemergere
inconscio di un bisogno infantile di «meraviglioso».
Io però credo che l’interesse per questi temi sia mosso, nei
casi migliori, dalla constatazione dell’effettiva complessità
dell’identità umana e delle relazioni interpersonali che concorrono a formarla. E che questo interesse derivi anche dalla
reale sensazione che pur restando inevitabilmente confinati,
noi tutti, nella caducità e nell’isolamento della propria mente,
questa sia però in costante e vertiginoso interscambio con le
menti altrui, effettivamente inserita in «atmosfere emotive»
appartenenti a contesti più ampi, quali la propria famiglia, la
propria città, il proprio gruppo etnico-sociale, fino all’intero
momento storico e culturale.
Tuttavia non penso che quest’area di studi debba necessariamente condurre a una qualche «teoria» certa e definitiva.
Deve piuttosto stimolare a osservare se stessi, e il mondo che
ci circonda, con mente aperta anche a una logica diversa da
quella razionale, basata – direbbe Matte Blanco – sul principio di non-contraddizione. Se poi ciò servisse anche soltanto a
sentirsi responsabili, nel nostro essere profondo e nell’agire
quotidiano, di un’«atmosfera emotiva» che potrebbe ripercuotersi, a propria insaputa, su altri a noi vicini o a noi lontani,
questo sarebbe già un risultato enorme. Perché il tema della
«telepatia», dopo tutto, se sfrondato dall’alone di magia o di
meraviglioso che lo riveste, diventa una radicale interrogazio-
ne sul principio della responsabilità individuale. O meglio, sul
principio dell’apporto che l’individuo può dare a tutto ciò che
di transindividuale e di irrimediabilmente ignoto lo attraversa
e lo trascina, attraversando e trascinando, insieme a lui, anche
gli altri.
BIBLIOGRAFIA
BION W.R. (1977), «Seminari brasiliani», in Il cambiamento catastrofico,
Torino, Loescher, 1981.
BIONDI M., La ricerca psichica. Fatti ed evidenze degli studi parapsicologici,
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del comportamento, Torino, Bollati Boringhieri, 1993 e 2001.
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VIII, op. cit.
MATTE BLANCO I. (1988), Pensare, sentire, essere, Torino, Einaudi, 1995.
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concerning I. Hollòs’ article, «Imago», 20, 1934, pp. 219-224 (anche in:
Devereux, op. cit.).
FARE PSICOLOGIA
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Evento migratorio
e reazione psicogena acuta
Il caso di un rifugiato politico eritreo
FILIPPO SCIACCA
Dirigente Psicologo SPDC di Agrigento
L’
esperienza clinica che mi accingo a descrivere, avvenuta presso l’Unità di Psichiatria (SPDC) di Agrigento
dove lavoro in qualità di Dirigente Psicologo, mette
in evidenza alcuni interessanti aspetti psicopatologici della persona immigrata.
Il caso di T.R., infatti, mi ha permesso di conoscere più a
fondo una grave condizione psicopatologica determinata dall’evento migratorio vissuto come trauma.
T.R. è stato ricoverato nel SPDC tra l’agosto e il settembre
del 2004, ma è stato difficoltoso poter raccogliere i suoi dati
anagrafici, clinici e le notizie sul suo contesto di vita. Di certo,
evidenziava in maniera esponenziale e amplificata i problemi e
gli aspetti psicologici di un giovane migrante.
Era sbarcato a Lampedusa da uno dei famosi barconi della
«speranza»; sbarchi di immigrati che già da parecchi anni, soprattutto nei mesi estivi, fanno cronaca per le condizioni spesso drammatiche in cui avvengono. Gli immigrati sono accolti
dapprima nel sovraffollato Centro di Accoglienza dell’isola, poi
portati in nave a Porto Empedocle per essere sottoposti ai controlli delle forze dell’ordine di Agrigento; infine sono smistati
in altri Centri di Accoglienza, o rimpatriati.
NOTIZIE ANAMNESTICHE SUL CASO
Le notizie anamnestiche su T.R. sono apparse, fin da subito, scarne e povere di informazioni.
T.R. è un giovane eritreo di 24 anni, celibe, che, giunto a
Porto Empedocle è stato urgentemente ricoverato presso
l’Unità Operativa di Medicina dell’Azienda Ospedaliera «S.
Giovanni di Dio» di Agrigento per malnutrizione, dimagrimento, disidratazione e attacchi di panico. Fu chiesta anche la
consulenza degli operatori dell’Unità di Psichiatria (S.P.D.C.), allocata nello stesso Ospedale, poiché T.R. evidenziava restringimento del campo di coscienza e un comportamento bizzarro
caratterizzato da immobilità o da movimenti afinalistici. Inoltre
non parlava e perciò è stato considerato sordomuto, o disfonico (infatti fu richiesta visita ORL). Si stava via via creano l’idea,
la sensazione, l’immagine che T.R. fosse un paziente irrecuperabile.
Viste la particolare condizione sintomatologica e la difficile gestione del paziente nel reparto di Medicina fu deciso il suo
trasferimento presso il SPDC. Il ricovero è durato 45 giorni e, durante questo periodo, c’è stata anche l’attivazione dei Servizi
Sociali dell’Azienda Ospedaliera e del Comune di Agrigento
per stabilire il luogo che lo avrebbe ospitato dopo le dimissioni. Infatti T.R. non poteva essere ospitato presso il locale Centro
di Accoglienza perché non era considerato clandestino, ma rifugiato politico.
A partire dalle scarne notizie si ricostruirà, infatti, che il motivo della migrazione di T.R. era dovuta al fatto di essere stato
renitente al servizio militare eritreo, di essere fuggito per evitare la guerra come altri giovani eritrei suoi coetanei. La guerra tra Eritrea ed Etiopia, scoppiata nel 1998 per il controllo
delle terre a Sud comprese tra i fiumi Tacazzé e Mareb, è un
conflitto sulla delimitazione di un confine e non una guerra etnica, religiosa, tribale o causata da uno scontro di potere. Per
tale motivo i villaggi sono rastrellati alla ricerca di giovani
che non abbiano assolto agli obblighi di leva e gli studenti sono bloccati dalla coscrizione obbligatoria. C’è molto malcontento, e chi può fugge perché il rischio più grande per i
giovani soldati eritrei non è il nemico etiopico, quanto gli
stenti e le malattie che hanno decimato la gioventù di questo
paese.
QUADRO CLINICO E SINTOMATOLOGIA
Visti la difficile condizione psico-fisica di T.R. e, soprattutto, il
fatto che non parlava, ho inizialmente osservato con attenzione
i segni clinici e i suoi comportamenti. Evidente appariva il dimagrimento, la disidratazione, il blocco psicomotorio (stava
ore sdraiato per terra o fermo in una posizione), il restringimento del campo di coscienza. L’espressione del volto era perplessa, sofferente e triste.
Il quadro clinico, in base ai parametri dell’ICD 10, evidenziava quindi una reazione psicogena acuta da stress grave, determinata dallo shock subito dall’evento migratorio (e quindi
dallo shock culturale) con manifestazioni di:
– stupor, caratterizzato da grave rallentamento psicomotorio
e mimico-gestuale, scarso contatto visivo, mutismo senza
diretta risposta agli stimoli. Non comunicava neanche con
il non verbale. Permaneva, tuttavia, il riflesso di orientamento e con gli occhi seguiva le modificazioni oggettuali
dell’ambiente;
– catatonismo con assunzione di posture bizzarre;
– negativismo e disbulia: compiva azioni motorie di significato opposto od opponeva resistenza alle istruzioni (per
esempio, se messo a letto si buttava subito per terra);
– stereotipie afinalistiche ed ecoprassia, con imitazione ripe-
Sappiamo ormai tanto dell’autismo, ma quanto conosciamo del
bambino autistico?
Sappiamo ormai quello che fa e quello che non fa, ma quanto
comprendiamo del significato profondo dei suoi comportamenti?
Sappiamo ormai quello che prova e quello che non prova, ma
quanto condividiamo del suo vissuto emotivo?
Riteniamo che la diagnosi di Disturbo Generalizzato
dello Sviluppo non possa essere esaustiva di una costellazione
di comportamenti così complessa e rischi un’eccessiva
omogeneizzazione che non consente la definizione
di un intervento terapeutico mirato.
Scopo del convegno è quindi la ridefinizione dei comportamenti
del bambino con autismo per evidenziarne l’individualità non
solo in termini di compromissione, deficit o mancanza, ma
anche in termini di potenzialità presenti. Verrà prospettata
una nuova lettura del «mondo autismo» basata sulla conoscenza
dei singoli bambini con i loro stati mentali, emotivi e affettivi,
e verranno portati dati quantitativi e qualitativi per sostenere
l’efficacia di un approccio diagnostico e terapeutico che integri
le diverse aree dello sviluppo in una visione globale.
I dati delle ricerche presentate riguardano un ampio campione
di bambini con diagnosi di autismo e un ulteriore campione
di oltre 50 bambini seguiti nel progetto Tartaruga che verrà
presentato nell’ambito del convegno.
27-28 OTTOBRE 2007 - ROMA
Dalla diagnosi alla terapia: percorsi di comunicazione e relazione
XII CONVEGNO NAZIONALE
Aut. G.R.L. – accreditato con il S.S.N - Associato FOAI – Accreditato presso il MIUR per i Corsi di Aggiornamento
per Insegnanti – Provider ECM accreditato presso il Ministero della Salute rif. n. 6379 per Corsi d'Aggiornamento
per Psicologi e Operatori Socio-Sanitari – Accreditato per la formazione superiore presso la Regione Lazio
Diagnosi e terapia dei disturbi della relazione, della comunicazione,
del linguaggio, dell’udito, dell’apprendimento e ritardo psicomotorio
Istituto di Ortofonologia
Vaglia postale o assegno bancario
Istituto di Ortofonologia, via Salaria, 30 – 00198 Roma; tel. 06.88.40.384 – 06.854.20.38, fax: 06.84.13.258, [email protected]
INFORMAZIONI E ISCRIZIONI: SEGRETERIA ORGANIZZATIVA
Sono stati richiesti al Ministero della Salute crediti ECM e al Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica le autorizzazioni quale Corso d’Aggiornamento,
all’esonero dall’insegnamento. Verrà rilasciato l’attestato di partecipazione.
Convenzioni card Magieoltre.
studenti universitari 1a laurea: +20,00 €
oltre il 30 giugno 2007: +30,00 €
intestato all’Istituto di Ortofonologia
Centro Congressi Frentani, via dei Frentani 4 – Roma
entro il 30 giugno 2007: 90,00 €
studenti universitari, 1a laurea: 50,00 €
MODALITÀ DI PAGAMENTO
SEDE DEL CONVEGNO
QUOTA DI PARTECIPAZIONE
Relatori: Équipe del Servizio di Psicologia e Psicoterapia dell’Istituto di Ortofonologia. Responsabile Magda Di Renzo
È prevista la partecipazione di alcuni ospiti
PERCORSI TERAPEUTICI
Presentazione del progetto «Tartaruga»
Il lavoro d’équipe come antidoto alla frammentazione della comunicazione
L’approccio al mondo emotivo del bambino autistico: l’intervento psicoterapico
Musicoterapia: i suoni di un silenzio che comunica oltre la parola
L’arcaico contatto con l’acqua e con gli animali in un contesto significativo: la terapia di gruppo in acqua e la pet-therapy
Il contatto come definizione del limite corporeo nella terapia con il bambino autistico: il massaggio pediatrico, l’intervento
psicomotorio e l’approccio osteopatico
L’intervento logopedico tra costruzione del pensiero e concezione linguistica
Entrare nel mondo del bambino: la terapia domiciliare
Il coinvolgimento della famiglia nel progetto terapeutico: counseling ai genitori individuale e di gruppo, seminari informativi
e gruppi di incontro
Scuola e setting terapeutico: confronto e scambio tra due contesti significativi del bambino
PERCORSI DIAGNOSTICI
Autismo e psicosi: un itinerario attraverso concezioni, definizioni e trattamenti
Percorsi diagnostici e terapeutici: l’importanza di un progetto individuale
L’osservazione dei comportamenti nell’autismo: dall’anamnesi alla valutazione clinica
Autismo e affetto: dalla consapevolezza primaria alla condivisione dei propri vissuti emotivi
Autismo e concezioni della mente: la comprensione dei propri e altrui stati mentali ed emotivi
Comunicazione e linguaggio: l’importanza della condivisione di significati
Stereotipie, manierismi, interessi sensoriali insoliti: come comprenderne il significato attraverso un approccio relazionale
PROGRAMMA
FARE PSICOLOGIA
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titiva dei movimenti (per esempio, camminava seguendo o
affiancandosi agli operatori).
La psicologia culturale e la letteratura transculturale individuano l’incidenza dei problemi della migrazione, quali traumi,
chock culturale, vissuti di sradicamento, distacco dalla famiglia
e dal mondo degli affetti. La migrazione è un cambiamento così profondo che può produrre molta sofferenza sulla psiche della persona, sul suo funzionamento, tanto più se la migrazione è
stata forzata o ambivalente.
La migrazione allora diventa un trauma che genera stress
psichico, sentimenti di impotenza, perdita dell’autostima, emozioni intense e spesso congelate, che emergono, dissociate dalla parola, sotto forma di sensazioni somatiche e reazioni comportamentali. Beneduce descrive bene in alcuni suoi scritti le
conseguenze psichiche e sociali della guerra1. Esiste, infatti, un
legame tra guerra, migrazione, disagio psichico e manifestazioni psicopatologiche. La migrazione rappresenta un’esperienza
traumatica e di crisi.
INTERAZIONI OPERATORI-PAZIENTE
Vista la particolare condizione psicopatologica e le difficoltà di
comunicazione, inizialmente gli operatori del reparto si sono
adoperati per cercare di stabilire con T.R. un minimo contatto,
anche attraverso il non verbale, al fine di renderlo più collaborativo. Successivamente sono stati invitati come mediatori
due connazionali eritrei che parlavano la stessa lingua: soprattutto un giovane, chiamato Michele, che risiedeva da tempo ad
Agrigento e una ragazza che veniva in reparto saltuariamente.
Anche con loro T.R. non sembrava mostrare ascolto e non manifestava feedback alle loro domande e ai loro discorsi. Si
rinforzava in tutti gli operatori, dunque, l’idea che T.R. fosse
sordomuto.
Credo che gli sforzi effettuati per interagire con T.R. hanno
fatto emergere e riconoscere in tutti gli operatori la complessità
del fenomeno e la necessaria sensibilità nel sapere stimolare e
aiutare. Soprattutto con gli stranieri profughi questa sensibilità
deve essere particolarmente vigile, e quando non siamo in grado
di aiutarli dobbiamo chiaramente riflettere su questa inadeguatezza e assumere una posizione attiva nella ricerca di alternative.
Il caso di T.R. è stato affrontato nelle discussioni di équipe.
Veniva inoltre somministrata terapia psicofarmacologica. Nella
mia interazione con T.R. ho mantenuto un atteggiamento di accoglienza, di pazienza, ma nel contempo di stimolo attraverso
la gestualità, lo sguardo e il sorriso. Ho utilizzato in modo massiccio la comunicazione non verbale. Gradualmente egli, a partire dai suoi movimenti e comportamenti mimetici (seguirmi
mentre camminavo, entrare nella mia stanza, sedersi, ecc.), ha
manifestato più collaboratività.
Posso affermare che per strutturare strategie di intervento in
questa situazione di interazione transculturale non si possono
applicare delle soluzioni precostituite ed è necessario uscire dagli schemi operativi consueti.
INTERVENTI EFFETTUATI E RISULTATI OTTENUTI
La progressiva e maggiore disponibilità a collaborare di T.R. mi
ha permesso di fare alcuni iniziali tentativi di interazione con
l’uso della penna, o matita, e dei fogli.
Usando la scrittura ho provato a fargli brevi domande in lingua inglese per verificare se la conoscesse. Con mia sorpresa,
afferrando a stento la penna, T.R. iniziò a scrivermi le risposte
in inglese. Solo molto tempo dopo mi fu anche possibile farlo
disegnare (disegno della casa, dell’albero, ecc.).
Tramite questo intervento ho potuto finalmente raccogliere
le notizie anamnestiche mancanti.
Innanzitutto T.R. non sapeva dove si trovasse, cioè in
Italia. Ha iniziato a scrivere la sua età e di essere nato nel villaggio di Sesewe. Aggiungo che in Eritrea il fenomeno dell’urbanizzazione è modesto, rimanendo il villaggio un’unità sociale molto vivace. È di religione cristiano-copta. I suoi genitori
sono viventi e risiedono a Sesewe. Ha 3 fratelli (di cui due maggiori) e 2 sorelle, e alcuni di loro vivono in un altro villaggio di
montagna, Segheneiti a Sud-Est di Asmara, dove T.R. ha frequentato la scuola secondaria. Gli piace studiare e mi ha risposto che le sue materie preferite sono soprattutto la matematica,
poi la chimica, la storia e la geografia.
Dal modo in cui mi forniva le informazioni e dai contenuti
espressi ho potuto costatare che le sue funzioni cognitive apparivano integre. Ha ringraziato i dottori, affermando che non
avrebbe mai dimenticato il loro aiuto: «Dio è il creatore del
mondo e al secondo posto ci sono i dottori».
Scriveva sempre più spesso del suo corpo e della sua salute, che sentiva progressivamente migliorare. Alla domanda su
quali fossero i suoi problemi riferiva di non stare bene economicamente e di avere necessità di soldi, di essere renitente al
servizio militare eritreo. Aggiungeva di avere degli amici a
Genova.
Ma alle domande che gli ponevo sui suoi problemi, sulle
sue emozioni, sui suoi pensieri, manifestava difficoltà a rispondere. Come se non riuscisse a identificare bene o a rappresentare la propria sfera psichica e il pensiero. A ogni mio
tentativo di approfondimento degli aspetti psichici mi rispondeva laconicamente che, adesso, la sua testa era libera. Con più
facilità, invece, parlava del suo corpo: «Tutto il mio corpo sta
migliorando». Oppure mi rispondeva alle domande sui piatti tipici eritrei o sui suoi sport preferiti: volley e calcio.
Progressivamente T.R. ha cominciato, finalmente, a usare la voce, parlando dapprima in inglese e poi, con i suoi
amici mediatori, nella sua lingua. La presenza confortante di
due connazionali che fungevano da mediatori ha favorito il
superamento del trauma migratorio. Essi gli hanno dato supporto e rassicurazione, riducendo il sentimento di estraneità
e permettendo l’espressione verbalizzata di bisogni, paure e
dubbi.
Ma nel contempo, questo suo progressivo miglioramento,
ha aiutato gli operatori a modificare l’idea, la sensazione e l’immagine di non recuperabilità che si era già costruita intorno a
T.R. Dopo la dimissione è stato in grado di raggiungere i suoi
amici di Genova, in precedenza contattati dal Servizio Sociale,
che sono stati disponibili a ospitarlo.
I risultati ottenuti hanno mostrato l’efficacia della corretta
presa in carico dell’alterità culturale, attraverso un atteggiamento capace di entrare in contatto con le manifestazioni psicopatologiche, anche quelle considerate più difficili.
Un’ulteriore considerazione, in conclusione, va fatta su
questo caso. E cioè che le risposte fornite da T.R. hanno fatto
emergere, al di là dei risultati ottenuti dagli interventi, un altro
FARE PSICOLOGIA
51
dato interessante: la difficoltà che egli aveva a rappresentarsi e
descrivere la propria vita psichica e la tendenza a esperire e a
comunicare la sofferenza nella forma di sintomi somatici e a
parlarne soltanto in tal senso.
Questa difficoltà poteva giustificare la forma tutta non-verbale e analogica con cui il suo disagio si estrinsecava, la scelta
di una via somatica, di un «linguaggio del corpo»?
Mi sono posto la questione se questa difficoltà, oltre ad essere stata determinata dalla condizione psicopatologica da lui
vissuta e dal lento recupero delle sue capacità, potesse essere
connessa a una particolare concezione culturale di rappresentare la vita psichica, la salute e la malattia. Era come se T.R.,
pur avendo studiato e individuando nella testa e nel cervello la
sede dei processi mentali, non sapesse esprimere e definire con
chiarezza i contenuti psichici; il suo vissuto non era messo a
fuoco e riconosciuto, ma rimaneva vago e nebuloso. Le manifestazioni della sua vita psichica non potevano altrimenti essere espresse e spiegate se non attraverso il filtro del corpo e la
sofferenza somatica.
Tale difficoltà di riconoscere ed esprimere verbalmente la
sofferenza interna è segno caratteristico dell’alessitimia, che significa letteralmente «affetto senza parole» (dal greco a-,
lexis- [discorso, parola], thymòs [affetto, emozione]) e definisce
propriamente l’incapacità di comunicare verbalmente le emozioni. Nella definizione di Sifneos, introdotta per la prima volta nel 1972, l’alessitimia è un disturbo affettivo-cognitivo che
descrive alcune caratteristiche dei pazienti psicosomatici, ma
che oggi si ritiene essere una caratteristica di molte patologie
psichiche. Si tratta di una dimensione psicopatologica trans-nosografica, ma che trova il suo ancoraggio nella fase pre-verbale dello sviluppo psico-affettivo dell’infans, corrispondente a
una modalità di funzionamento psichico sia regressivo sia costituzionale che determina il blocco degli affetti in caso di situazioni traumatiche.
In essa si colgono quattro caratteristiche fondamentali: incapacità a identificare e verbalizzare le emozioni e i sentimenti, limitazione dell’attività immaginaria, «pensiero concreto» con scarsa elaborazione dei vissuti, ricorso all’azione o
alla somatizzazione per evitare i conflitti o per esprimere le
emozioni.
L’alessitimia può essere primaria oppure secondaria, dovuta a stress (è presente, infatti, nei disturbi post-traumatici da
stress), età o cultura. In quest’ultimo caso – dovuto a fattori
culturali – il problema non risiede tanto nella mancanza di
espressione delle emozioni e dei vissuti, ma nella scarsa distinzione, nelle culture non occidentali, della sfera affettiva da
quella somatica.
Presso le culture tradizionali la salute consiste di una componente fisica e di una componente emozionale che sono solo
in parte differenziate, e più la cultura è tradizionale, minore è la
distinzione fra malattia fisica e disturbo psicologico. In occidente questa concezione è stata progressivamente soppiantata
da un netto dualismo mente-corpo attribuendo un significato di
salute e benessere all’espressione individuale e verbalizzata dei
vissuti psichici2. La persona non solo dovrebbe essere capace di
parlare delle proprie emozioni ma dovrebbe saper utilizzare un
idioma relativo al conflitto intrapsichico o interpersonale per
esprimere la propria sofferenza. La riluttanza a comportarsi in
questo modo deve essere interpretata come un deficit psicolo-
gico, l’alessitimia, caratterizzato da un’incapacità a mentalizzare e a esprimere simbolicamente le emozioni; somatizzazioni e alessitimia sono considerate espressioni patologiche o
quantomeno poco evolute.
Gli studi transculturali, invece, evidenziano le profonde
differenze che esistono nell’esperienza e nell’espressione
degli affetti, soprattutto nell’espressione corporea della sofferenza, che minimizza le componenti psichiche ed emotive.
In culture ove verbalizzare le emozioni negative è considerato
disdicevole, espressione di individualismo inaccettabile, o stigmatizzato, l’espressione della sofferenza attraverso il corpo diviene l’unico mezzo comunicativo possibile, utilizzando peraltro dei meccanismi connaturati alla nostra specie.
I risultati di una recente ricerca condotta da Dion (1996) su
un campione di 950 studenti di entrambi i sessi, distinti per etnia, mostrano che i segni specifici dell’alessitimia sono significativamente maggiori nel gruppo di studenti non occidentali.
Già nel 1963 gli psicoanalisti francesi Marty e M’Uzan avevano sottolineato l’importanza dell’uso del concetto di «pensiero concreto» (pensée operatoire) per designare un tipo di
funzionamento mentale che non appartiene esclusivamente ai
pazienti psicosomatici, ma che è connaturato nell’uomo.
Nella maggior parte delle persone tale «pensiero concreto»
o «alessitimico» non sarebbe il risultato di resistenze, ma si tratterebbe di un pensiero cosciente, che tenderebbe verso un deficit della capacità simbolica, che non si rappresenta un legame
evidente tra il dato somatico e l’attività fantasmatica.
NOTE
1.
Vedi in particolare R. Beneduce, Bambini fra Guerra e Pace: il caso di
Eritrea ed Etiopia. Uno studio sui bambini che hanno bisogno di particolari misure di protezione, Firenze, ICDC-UNICEF e Cooperazione Italiana, 1999,
pp. 1-45.
2.
Preciso, tuttavia, che fin dalle origini greche della nostra cultura il rapporto psiche/soma era rappresentato anche in modo indistinto e olistico, come
per esempio nei poemi omerici, nella scuola medica di Ippocrate, nelle concezioni filosofiche di Democrito, di Epicuro e poi di Lucrezio in cui la psiche
è fortemente connessa al corpo, nella concezione fisica della psiche di
Aristotele. Tali rappresentazioni della vita psichica erano in contrasto – sempre in ambiente greco-romano – con la visione dualistica di Pitagora, di
Empedocle, di Platone e, più in là, del cristianesimo.
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NOVITÀ GENNAIO–APRILE
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Psiche e trauma
Prefazione all’edizione italiana
di Carole Beebe Tarantelli
HENRY KRYSTAL
AFFETTO, TRAUMA, ALESSITIMIA
Con un contributo di John H. Krystal
COLLANA: PSICHE E TRAUMA – ISBN: 978-88-7487-201-5
bili e quindi inaccessibili al pensiero
opo la promulgazione, in GerC 44,00 – FORMATO: 16,5X24 – PAGG. 480
metapsicologico e clinico. Anna
mania occidentale, delle leggi
Freud aveva proposto una definiziod’indennizzo per risarcire le vittime
ne che distingueva il trauma in
del regime nazista per gli effetti
senso stretto da altri tipi di espepermanenti delle persecuzioni subirienza, per quanto dolorosi fossero, e
te, si riunì negli Stati Uniti un grupche era il punto di partenza per un
po di psichiatri e psicoanalisti (alcuriesame del trauma. «Penso che l’eni dei quali sopravvissuti essi stessi
pisodio sia stato perturbante? Che
ai campi di sterminio) per tentare di
sia stato importante nell’alterare il
dare una formulazione teorica a ciò
corso dello sviluppo successivo? Che
di cui erano stati testimoni nelle
sia stato patogeno? Oppure intendo
migliaia di interviste condotte con
traumatico nel senso stretto del terle vittime. L’orrore dei racconti sulla
mine, cioè sconvolgente, distruttivo,
sopravvivenza nei ghetti e nei
causa di disgregazione interna per
campi di sterminio della Germania
avere interrotto il funzionamento
nazista erano indescrivibili, come lo
dell’Io e la sua mediazione?»
erano i postumi sintomatici presen([1964]; 1979, p. 729). Era evidente
tati dai pazienti vent’anni dopo la
che un riesame era essenziale poiloro liberazione. Gli studiosi hanno
ché, se gli psicoanalisti dovevano
per di più scoperto che le reazioni
essere in grado di trattare gli effetti
traumatiche delle vittime dei nazisti
sulla mente umana delle esperienze
erano dello stesso ordine di quelle
estreme, era essenziale capirli. L’imosservate da Robert Lifton (1968)
plicita speranza era inoltre che, se
studiando i sopravvissuti alla
l’effetto di eventi così estremi e
bomba atomica di Hiroshima. In
massicci come i campi di sterminio nazisti e la bomba atomica
altre parole, hanno riscontrato che il trauma psichico massiccio
fossero stati studiati utilizzando un rigoroso livello intellettuale
aveva come risultato dei postumi sintomatici riconoscibili che,
e fenomenologico, sarebbe stata anche la premessa per potersi
nonostante l’attenzione prestata dopo la prima guerra mondiaimpegnare su tipi più comuni di esperienze traumatiche, quali la
le alle nevrosi traumatiche belliche, non erano stati ancora stuviolenza sessuale, i maltrattamenti, le aggressioni, ecc.
diati adeguatamente come fenomeno a sé stante. Dai loro sforIl problema concettuale con cui si sono scontrati Krystal e
zi nacque un libro, Massive Psychic Trauma (1968), curato da
gli altri psicoanalisti che hanno scritto Massive Psychic Trauma
Henry Krystal.
era lo stesso nel quale s’imbatté Freud una volta abbandonata
Gli autori hanno constatato che le teorie psicoanalitiche del
la teoria della seduzione (la teoria della situazione intollerabitrauma erano inadeguate, sia a livello fenomenologico che
le) a favore del ruolo della fantasia nella vita psichica (la teoria
metapsicologico, a spiegare le reazioni che avevano riscontrato,
degli impulsi inaccettabili), cosicché l’idea dell’origine traumae che, se la teoria doveva dare ragione dell’esperienza vissuta sul
tica della nevrosi scomparve, almeno per un certo periodo, dal
palcoscenico della storia, l’effetto sulla mente del trauma catasuo pensiero. Il conflitto tra visione «oggettiva» e «soggettiva»
strofico doveva essere riesaminato. Segnalando l’inadeguatezza
del trauma è intrinseca alla riflessione su di esso. La domanda
delle interpretazioni contemporanee del trauma, seguivano
è: come può la nostra teoria dare ragione degli effetti del «trauAnna Freud (1967), la quale temeva che il termine venisse
ma esterno» (Freud, 1920) senza tradire la nostra conoscenza
impiegato in un senso così impreciso da rischiare di diventare
delle dinamiche della patogenesi e il ruolo attivo della mente
confuso e quindi inutile. Gli psicoanalisti tendevano infatti a
nel dare forma alla reazione all’esperienza? Se, per esempio, il
designare come traumatica ogni esperienza patogena, persino
trauma psichico fosse semplicemente il risultato di eventi
quella meramente conturbante. Perché per esempio, si chiedeva
obbiettivamente sconvolgenti, la domanda diventerebbe ineviKrystal, Masud Khan (1974) parla di «trauma cumulativo» e non
tabilmente: come quantificare l’intensità di stimolo necessaria
di sovrapposizione di esperienze patogene? Il risultato dell’ima definire un evento abbastanza sconvolgente da provocare un
precisione terminologica e concettuale era che le esperienze
trauma, che è, forse, una domanda assurda? Per il DSM-III, per
estreme non avevano alcuna specificità, diventando così invisi-
D
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GENNAIO–APRILE
53
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fare un esempio, il trauma è provocato da «un agente stressante riconoscibile che provochi dei sintomi importanti di angoscia
in quasi tutti» (1982, p. 111), che potrebbe essere classificata
una non-definizione. In una visone puramente esterna del trauma, come quella del DSM-III, il ruolo della mente nell’elaborare e
dare una forma soggettiva alla reazione è praticamente irrilevante. Esiste d’altro canto un problema reale riguardo al fatto
se stimoli puramente intrapsichici, per quanto raccapriccianti
per l’Io, siano in realtà paragonabili agli effetti di uno stimolo
esterno sconvolgente, come l’essere testimoni della distruzione
di tutta la propria famiglia in un campo di sterminio o l’essere
torturati o stuprati. Da uno dei due punti di vista, l’evento traumatico è irrilevante e l’impotenza inerme della vittima meramente soggettiva. Dall’altro, l’insistenza sull’«agente stressante
oggettivo» si appropria della possibilità di pensare alle sottigliezze della risposta soggettiva al trauma.
Freud stesso ha ritenuto necessario reintrodurre l’idea di
trauma, in quanto situazione intollerabile, in Inibizione, sintomo e angoscia (1926), in cui riappare la vecchia teoria dell’impotenza inerme dell’Io e l’origine traumatica delle nevrosi. Negli anni successivi alla pubblicazione di Massive Psychic
Trauma, Henry Krystal ha elaborato una teoria della dinamica
psichica del trauma che prende quell’idea come punto di partenza.
Krystal ha infatti sviluppato un preciso e sistematico
modello metapsicologico e fenomenologico del trauma catastrofico che costituisce i capitoli centrali di questo importante
libro. A suo modo di vedere, come è stato per Freud dopo il
1926, la chiave della natura traumatica di un evento è l’esperienza soggettiva di impotenza inerme o l’incapacità di evitare
il pericolo implicito in esso. DesPres, uno studioso dell’Olocausto, rappresenta con un’immagine il senso di totale inermità
provocato dalla situazione traumatica: «la prima condizione di
un evento estremo è che non c’è via di scampo, nessun posto
in cui andare salvo la tomba» (1976, p. 7). Il problema cruciale,
per Freud, era stato se «l’impotenza motoria dell’io» – l’incapacità di allontanarsi dalla situazione traumatica (per esempio
con la fuga) – diventasse o meno «un’impotenza psichica» (p.
168), ovvero l’incapacità di strutturare una difesa che potesse
allontanare l’io dalla situazione che minaccia di travolgerlo.
Krystal porta il ragionamento di Freud un passo oltre: l’essenza
della situazione traumatica è che il pericolo è soggettivamente
riconosciuto come inevitabile e che ci si arrende a esso; ciò provoca una condizione di impotenza fisica e psichica. Ne risulta
che lo stato emotivo della vittima si trasforma da ipervigile e
iperattivo (o ansioso, che segnala che la minaccia è stata registrata e ci si sta difendendo contro di essa) in uno di blocco
progressivo delle emozioni accompagnato da un’inibizione
anch’essa progressiva delle sensazioni fisiche e delle funzioni
mentali fino a raggiungere uno stato catatonico. In altre parole, la risposta al trauma catastrofico è una regressione repentina, in quanto gli affetti si risomatizzano (o si deverbalizzano).
Se la reazione traumatica è provocata dall’esperienza soggettiva di resa di fronte a un pericolo sopraffacente, il risultato ultimo di essa, se non è bloccata, è la morte psicogena. In altre
parole, la vittima «cede» completamente e si arrende alla pul-
sione di morte, cosicché non riesce più a contrastare «l’inerzia
propria dell’organismo vivente» (Freud, 1920, p. 222).
Che cosa succede, si domanda Krystal, alle persone che si
arrendono al pericolo inevitabile, ma non muoiono? Ha constatato che il sintomo più tenace delle vittime di traumi è una
depressione diffusa, spesso grave, accompagnata da un’ansia
anch’essa persistente e grave, che può portare a un restringimento del campo vitale con sintomi di stanchezza, riduzione
della vitalità, anedonia o, nei casi più gravi, con i disturbi
cognitivi e affettivi dell’alessitimia. La reazione al trauma può
essere considerata un tentativo di regolare la risposta emotiva
che è la reazione all’evento sopraffacente: la minaccia del
ritorno di un’angoscia senza limiti può trasformare gli affetti in
emergenze, e l’ottunderli nel tentativo di tollerarli può portare a un blocco cognitivo e affettivo. Per citare Krystal: «Dopo
aver vissuto la morte, nessuna creatura rimarrà più la stessa: il
senso di sicurezza o persino la fede non saranno mai più completamente recuperati. È come se quest’incontro avesse fornito uno sfondo oscuro sul quale dipingere il resto della vita» (p.
158). Le vittime di un trauma catastrofico possono cioè manifestare un disturbo affettivo che dura per tutta la vita. Ciò ha
portato Krystal alla ricerca racchiusa nella prima e terza parte
del libro. Al fine di capire il trauma e i disturbi affettivi che provoca, infatti, aveva bisogno di una teoria degli affetti valida
che, com’è noto, è una delle aree più problematiche della teoria psicoanalitica. Krystal esamina, nei capitoli di apertura del
libro, l’aspetto motivazionale degli affetti. Sviluppa poi una
teoria genetica di essi, tracciandone l’evoluzione dalle emozioni indifferenziate (o precursori degli affetti) dell’infanzia attraverso il complesso processo della strutturazione fisiologica e
psicologica che permette una crescente differenziazione e tolleranza degli affetti fino, e attraverso, l’importantissima fase
evolutiva adolescenziale.
Nella parte finale del libro, Krystal riferisce sul suo importantissimo contributo allo studio dell’alessitimia, una sindrome
in cui le emozioni sono indifferenziate, vaghe, aspecifiche e vissute primariamente a livello somatico. Il paziente alessitimico
vive gli affetti in modo indifferenziato e non riesce a distinguere tra stati di stanchezza, tristezza, fame o malattia. Krystal ha
constatato che l’alessitimia può derivare da un arresto dello
sviluppo genetico dell’affetto e che può inoltre essere uno dei
principali postumi post-traumatici laddove vi sia stata una
regressione affettiva massiccia. I problemi che spesso accompagnano questo disturbo sono l’indebolimento della capacità
di avere cura di sé e l’anedonia.
Ho insistito sulla visione del trauma psichico massiccio di
Krystal e sul disturbo dell’affettività che ne è il principale
effetto a lungo termine. Proprio riconoscendo e studiando la
devastazione emotiva di chi sia stato gravemente traumatizzato, si è reso conto che, per guarire dal trauma, le emozioni
negative di odio e terrore, che ne sono l’eredità più frequente,
devono essere controbilanciate da affetti in uguale misura
positivi. Questo libro non è quindi soltanto un’analisi della resa
al trauma e della paralisi emotiva che Krystal considera la sua
conseguenza più importante. È anche un libro sull’amore e
sulla guarigione.
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FARE PSICOLOGIA
54
«Io conto e te ti nascondi!»
Conversazioni tra bambini e animali come fattore di sviluppo del linguaggio1
RENATO CORSETTI 2
GIANLUCA PANELLA3
Facoltà di Psicologia 1, Università di Roma «La Sapienza»
INTRODUZIONE
Q
uesto articolo affronta un campo ancora poco
esplorato finora negli studi sull’acquisizione del
linguaggio nell’infanzia: il contributo degli animali
domestici allo sviluppo linguistico del bambino.
Sono chiari i rapporti di familiarità e di intenso affetto che
si instaurano tra bambini e animali, già in età precedente alla
produzione delle prime parole. Le terapie con l’ausilio di
animali domestici (AAT) che rientrano nell’oramai nota Pet
Therapy4, oggi mirano a un recupero globale in soggetti con
diverse patologie (autismo, plurihandicap, ipovedenti e non
vedenti, sindrome di down, epilessia, disturbi d’ansia e di stress,
cardiopatie, morbo di Parkinson e Alzheimer, ecc…), mentre
non sono presenti oggi delle terapie mirate esclusivamente al
recupero delle abilità linguistiche negli utenti di queste cure. Se
la terapia con gli animali apporta dei benefici a un certo tipo di
utenza patologica, ci siamo chiesti se la presenza di uno
stimolo, quale l’animale, nella vita di bambini sani non possa
facilitare il loro sviluppo delle capacità linguistiche.
Abbiamo, perciò, voluto indagare quanto la presenza di
questo «interlocutore» privilegiato, induca il bambino a voler
comunicare di più e quindi quale sia l’esito di questa
maggiore comunicazione relativamente allo sviluppo del
linguaggio.
I dati raccolti, che si riferiscono essenzialmente al tipo di
frasi prodotte dai soggetti, indicano un effetto positivo sull’andamento dello sviluppo della capacità di produzione di frasi via
via più complesse, come si vedrà più in dettaglio in seguito.
CENNI SULLO SVILUPPO LINGUISTICO DEL BAMBINO
Nel corso degli ultimi decenni abbiamo assistito al modificarsi
dei paradigmi di riferimento e delle teorie sull’acquisizione del
linguaggio da parte del bambino. Noi crediamo che l’approccio
attuale, che definiremmo integrato – quell’approccio, cioè, che
tiene conto sia delle abilità specie-specifiche, sia dei prerequisiti dello sviluppo organico e dello sviluppo delle abilità cognitive generali, sia del contributo fondamentale dell’ambiente, come pure dell’altrettanto essenziale contributo attivo del soggetto che sta imparando – possa contribuire a far avanzare gli studi in questo settore più delle precedenti visioni che tendevano a
sottolineare il contributo di un solo fattore (Corsetti, 2003).
L’acquisizione del linguaggio nel bambino si presenta come
lo snodarsi di una serie di fasi, che si succedono in un determinato ordine, condiviso da molti bambini. Al tempo stesso, que-
sto processo è caratterizzato da numerose variazioni individuali che riguardano non solo i tempi, ma anche i modi e le strategie di apprendimento. Tutto questo è ben noto e non necessita di
ulteriori osservazioni in questo articolo. Basti dire che sono state individuate dagli studiosi del settore una serie di stadi o tappe cosiddette «universali» dell’acquisizione del linguaggio che
sembrano ritrovarsi in tutti i bambini indipendentemente dalla
lingua cui sono esposti e che stanno imparando. Non si possono
tacere gli studi comparativi, a parere di chi scrive molto fecondi di risultati, fra l’acquisizione in più lingue (crosslinguistic in
inglese) a partire dai lavori di Slobin (1985). Questi studi indicano le differenze tra la serie di tappe di acquisizione in dipendenza delle caratteristiche di funzionamento della lingua in questione. In sintesi, le cose più frequenti e più regolari vengono
imparate prima, ma esse non sono le stesse nelle varie lingue.
Intorno ai ventiquattro mesi, variazioni individuali a parte, generalmente i bambini cominciano a combinare le parole in frasi. E questo è, a parere degli studiosi di sviluppo del
linguaggio infantile, un fatto fondamentale. Tuttavia la capacità di combinare simboli è strettamente collegata alla quantità di vocaboli posseduta: le cento parole sembrano rappresentare una «soglia minima» per passare alla frase, ma data la
variabilità individuale, non vi è un numero minimo stabilito di
parole per poter determinare la capacità combinatoria del
bambino e poi è importante sottolineare lo stile d’acquisizione del bambino che può essere di tipo olistico o analitico5.
Verso i tre anni il bambino costruisce correttamente le frasi semplici e affermative ed è sempre in questo periodo che il
bambino inizia a usare i pronomi io, tu, egli; si pone dunque
in rapporto con l’interlocutore (Francescato, 1970).
Parisi (1977) sostiene che le strutture frasali vengono acquisite dal bambino all’incirca alla stessa età, indipendentemente dall’ambiente socio-culturale in cui cresce. In genere,
la lunghezza media delle frasi prodotte da un bambino è considerata uno degli indici più importanti e attendibili del suo
sviluppo linguistico. In pratica, verso i tre-quattro anni molti
bambini possiedono le strutture sottostanti a tutte le frasi di
una lingua e la differenza rispetto agli adulti sta eventualmente nella frequenza d’uso di queste strutture.
LA RICERCA
La ricerca è stata effettuata su un campione di 36 soggetti, sani, tutti figli unici, residenti in provincia di Roma, scelti in base al sesso, all’età anagrafica e al livello socio-culturale.
FARE PSICOLOGIA
55
TABELLA 1.
SOGGETTO
1
2
3
4
5
6
SESSO
M
M
M
F
F
F
ETÀ
TABELLA 3.
LIVELLO
2; 11, 28
2; 8, 12
2; 7, 1
2; 4, 13
2; 11, 20
2; 10, 5
SOCIO-CULTURALE
A
M
B
A
M
B
SOGGETTO
SESSO
ETÀ
M
M
M
F
F
F
4; 2,
4; 0,
4; 0,
4; 1,
4; 1,
4; 3,
13
14
15
16
17
18
TABELLA 2.
SOGGETTO
7
8
9
10
11
12
SESSO
ETÀ
M
M
M
F
F
F
3; 7,
3; 4,
3; 5,
3; 6,
3; 4,
3; 5,
SOCIO-CULTURALE
23
4
20
8
25
10
A
M
B
A
M
B
TABELLA 4.
LIVELLO
23
6
26
2
15
22
LIVELLO
SOCIO-CULTURALE
A
M
B
A
M
B
Il gruppo sperimentale è formato da 18 soggetti che posseggono animali domestici (cani, gatti, criceti, conigli, papere, galline, uccellini, ecc…) e il gruppo di controllo da 18 soggetti senza animali nell’ambiente domestico.
Il gruppo sperimentale è stato suddiviso in 3 gruppi: il primo
comprende 6 soggetti di cui 3 maschi e 3 femmine di età compresa tra i 2 anni e 6 mesi e i 3 anni (età media di 2 anni e 10 mesi), il secondo è composto da 6 soggetti, di cui 3 maschi e 3 femmine di età compresa tra i 3 e i 4 anni (età media di 3 anni e 5
mesi), e il terzo comprende 6 soggetti di cui 3 maschi e 3 femmine di età compresa tra i 4 anni e i 4 anni e 6 mesi (età media
di 4 anni e 2 mesi). Inoltre ogni gruppo sperimentale è suddiviso in 2 soggetti (1 maschio, 1 femmina) di livello socio-culturale
basso (B), 2 di livello medio (M) e 2 di livello alto (A).
Il gruppo di controllo è composto con le stesse caratteristiche di quello sperimentale.
Nelle tabelle che seguono sono riportate le caratteristiche
dei 18 soggetti del gruppo sperimentale (sesso, età e livello
socio-culturale: alto, medio, basso) per ogni sottogruppo.
In tabella 1 sono riportate le caratteristiche dei 6 soggetti
del Gruppo 1, nella 2 le caratteristiche dei 6 soggetti del
Gruppo 2, nella 3 quelle dei 6 soggetti del Gruppo 3.
La raccolta dati è stata così svolta: sono stati fatti degli incontri individuali con i soggetti, della durata di 45 minuti ciascuno, durante i quali veniva fatta un’audioregistrazione del
linguaggio spontaneo prodotto dal bambino in interazione con
il ricercatore e l’animale domestico (quest’ultimo era presente nel solo caso del gruppo sperimentale, ovviamente).
In seguito sono state trascritte le registrazioni ed è stata effettuata la categorizzazione degli enunciati (seguendo in linea
di massima la categorizzazione di Taeschner, Volterra, 1986,
con adattamenti. Vedi anche Corsetti, 2004). La nostra categorizzazione considera: le parole singole (PS), i sintagmi (SIN),
le frasi nucleari complete e incomplete (FNC, FNI), le frasi ampliate con modificatore e avverbiale e incomplete (FACA,
FACM, FAI), le frasi complesse inserite implicite ed esplicite,
relative e incomplete (FCII, FCIE, FCR, FCI), le frasi binucleari
subordinate, coordinate e incomplete (FBS, FBC, FBI).
Per ogni soggetto è stata redatta una scheda di analisi con
le frequenze e il rispettivo grafico di riferimento concernente
GR/TF
PS
SIN
G1S
9
12 10 26
FNI
FNC
FAI
FCI
FCII
FCIE FCR FBI
FBC FBS
4
4
12
4
4
4
13
11 10
G1C 18 23 19 16
8
3
Gr = Gruppi; Tf = Tipologia frasale
3
6
3
3
2
5
9
FACA FACM
4
4
la distribuzione frasale, le frequenze medie di ogni gruppo, e
infine i confronti delle frequenze medie tra i vari soggetti
traendo delle conclusioni che hanno confermato l’ipotesi di
partenza, ovvero che la presenza di un animale domestico influenza positivamente lo sviluppo linguistico (misurato attraverso la struttura frasale) dei soggetti nelle varie fasce d’età.
Seguono le tabelle riassuntive dei confronti delle frequenze medie di ogni gruppo sperimentale e di controllo (tabelle 4, 5 e 6).
Dopo aver osservato che la presenza dell’animale domestico influenza in maniera positiva lo sviluppo linguistico in
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56
TABELLA 5.
GR/TF
PS
G2S
13 17 16 23
SIN
FNI
FNC
FAI
19
FACA FACM
TABELLA 7.
FCI
FCII
FCIE FCR FBI
FBC FBS
DG/TF
PS
SIN
G1SG1C
-9
G2SG2C
G3SG3C
4
7
16
5
5
4
17
11
7
G2C 18 20 13 17 18
5
Gr = Gruppi; Tf = Tipologia frasale
4
13
4
3
3
11
5
5
TABELLA 6.
GR/TF
PS
G3S
12 10
SIN
FNI
FNC
FAI
8
21
10
FACA FACM
FCI
FCII
FCIE FCR FBI
FBC FBS
6
7
10
6
5
6
11
14 12
G3C 19 15 15 15 10 4
Gr = Gruppi; Tf = Tipologia frasale
4
9
5
3
5
9
8
8
tutti e tre i gruppi, si è voluto vedere in quale dei gruppi tale
presenza risultasse maggiore.
I confronti effettuati mettono in evidenza una differenza
tra gruppi: il primo gruppo sperimentale (età media 2 anni e
10 mesi), evidenzia una differenza tra le frequenze medie, con
il gruppo di controllo, maggiore rispetto al secondo e al terzo
gruppo; il secondo gruppo sperimentale (età media 3 anni e 5
mesi), evidenzia una differenza tra le frequenze medie, con il
gruppo di controllo, simile al terzo gruppo (età media 4 anni
e 2 mesi).
La presenza dell’animale, quindi, influenza maggiormente lo sviluppo linguistico nei bambini del primo gruppo sperimentale, i più giovani. La tabella 7 riassume le differenze tra
le frequenze medie del gruppo sperimentale e di controllo.
DISCUSSIONE DEI RISULTATI E CONCLUSIONI
In base all’analisi effettuata della struttura frasale dei gruppi
sperimentale e di controllo è emerso che il gruppo sperimentale (con presenza dell’animale), in tutte le fasce di età
prese in considerazione, ha formulato un maggior numero di
frasi meglio strutturate (frasi nucleari complete, complesse e
binucleari) rispetto al gruppo di controllo (assenza dell’animale).
La presenza dell’animale domestico ha influito positivamente sulla strutturazione delle frasi emesse nell’arco dell’audioregistrazione libera. Il gruppo di controllo ha riportato
dei valori di frequenze medie maggiori per quanto concerne le
parole singole, i sintagmi e le frasi nucleari incomplete nel
gruppo 1 (età media di 2 anni e 10 mesi); le parole singole, i
sintagmi e le frasi ampliate con avverbiale nel gruppo 2 (età
media di 3 anni e 5 mesi); e le parole singole, i sintagmi e le
frasi nucleari incomplete nel gruppo 3 (età media di 4 anni e 2
mesi). In sostanza, quindi, il gruppo di controllo produce più
parole singole o sintagmi e meno strutture più complesse.
Inoltre i confronti effettuati mettono in evidenza una differenza tra gruppi: il primo gruppo sperimentale (età media 2
anni e 10 mesi), evidenzia una differenza tra le frequenze medie, con il gruppo di controllo, maggiore rispetto al secondo e
al terzo gruppo; il secondo gruppo sperimentale (età media 3
anni e 5 mesi), evidenzia una differenza tra le frequenze medie, con il gruppo di controllo, simile al terzo gruppo (età media 4 anni e 2 mesi).
Quindi la presenza dell’animale indicativamente sembra che
influenzi maggiormente lo sviluppo linguistico nei bambini piccoli, di età compresa tra i 2 anni e 6 mesi e i 3 anni (età media 2
FNI
FNC
FAI
FACA FACM
FCI
FCII
FCIE FCR FBI
FBC FBS
-11 -9
10
1
1
1
6
1
1
2
8
7
6
-5
-3
3
6
1
-1
3
3
1
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-7
-5
-7
6
0
2
3
1
1
2
1
2
6
4
Dg = Differenze tra i gruppi Tf = Tipologia frasale
anni e 10 mesi), probabilmente a causa di una maggiore intensità di rapporto e comunicazione con l’animale rispetto all’interazione con altri componenti della famiglia, o estranei.
BIBLIOGRAFIA
ANTINUCCI F., Le strutture della sintassi, Bari-Roma, Laterza, 1970.
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2001.
CASELLI M.C., CASADIO P., Il primo vocabolario del bambino, Milano,
Franco Angeli, 1995.
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CORSETTI R., Appunti di psicopedagogia del linguaggio e della comunicazione, Roma, Kappa, 2003.
Indicazioni per l’utilizzo del sistema di analisi del linguaggio Childes,
Roma, Kappa, 2004.
FRANCESCATO G., Il linguaggio infantile: strutturazione e apprendimento,
Torino, Einaudi, 1970.
GIOVANARDI C., GUALDO R., Inglese-Italiano – 1 a 1 – Tradurre o non tradurre le parole inglesi?, San Cesario di Lecce, Manni, 2003.
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PARISI D., Sviluppo del linguaggio e ambiente sociale, Firenze, La Nuova
Italia, 1977.
SLOBIN D.I. (a cura di), The crosslinguistic study of language acquisition. Vol. 1:
The data, Hillsdale, New Jersey-London, Lawrence Erlbaum Associates,
1985.
TAESCHNER T., VOLTERRA V., Strumenti di analisi per una prima valutazione
del linguaggio infantile, Roma, Bulzoni, 1986.
NOTE
Questo articolo è basato su una ricerca effettuata per una tesi di laurea discussa nella Facoltà di Psicologia 1, Università di Roma «La Sapienza», nel
luglio 2004, relatrice la professoressa Traute Taeschner. La frase «Io conto e
te ti nascondi!» è la frase di un bambino al suo animale domestico, registrata nel corso della ricerca.
2.
Renato Corsetti, professore nella Facoltà di Psicologia 1, Università di
Roma «La Sapienza», ha curato l’impostazione della tesi e, in parte, la redazione di questo articolo.
3.
Gianluca Panella, laureato in psicologia dello sviluppo e dell’educazione
nella Facoltà di Psicologia 1, Università di Roma «La Sapienza», nel luglio
2004 si è occupato dell’impostazione della ricerca, della raccolta dei dati e
della successiva analisi. È specializzando nel Corso in Psicoterapia dell’Età
Evolutiva a indirizzo psicodinamico dell’Istituto di Ortofonologia di Roma.
4.
Non esiste ancora un equivalente sufficientemente stabilizzato per la locuzione Pet Therapy. Varie proposte sono apparse negli ultimi anni: terapia
dolce con gli animali, terapia con gli animali domestici, cuccioloterapia, ecc.
Vedi in Giovanardi e Gualdo (2003, p. 228).
5.
I bambini olistici con un numero di parole anche basso, possono talvolta
produrre enunciati di più parole che però risultano costituiti in genere da «frasi fatte» (per esempio, Va via, Ecco mamma), che sembrano riproduzioni memorizzate per intero, piuttosto che frasi analizzate nelle loro parti componenti. Viceversa, i bambini definiti analitici iniziano a comporre le frasi quando il loro vocabolario tende ad essere numericamente più alto; queste risultano combinazioni non rigide, più produttive, e costituite da parole già in precedenza analizzate e usate come parole «singole» con quella ricchezza comunicativa e informativa descritta in precedenza come capacità di mettere in
relazione parti della realtà (Caselli, Casadio, 1995, p. 27).
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FARE PSICOLOGIA
58
L’«ospicologo»
e lo sportello d’ascolto
LUCIANA CERRETI
FLAVIA FERRAZZOLI
ANNA MAMMOLI
BARBARA ZERELLA
Psicoterapeute, Istituto di Ortofonologia – Roma
C
osa significa lavorare come psicologhe (o forse
dovremmo dire «ospicologhe») nello sportello d’ascolto di una scuola media inferiore?
Questa è stata la prima domanda che ci siamo poste
quando ci è stato proposto di partecipare a un progetto di
prevenzione e di ascolto presso una struttura scolastica i
cui studenti erano dei preadolescenti. Diverse sono state
le riflessioni che hanno seguito il quesito appena riportato, a posteriori possiamo sicuramente considerarle necessarie per la progettazione e l’organizzazione del lavoro
che ci saremmo prestate a compiere.
Siamo un’équipe di psicologhe psicoterapeute dell’Istituto di Ortofonologia che dal dicembre 2005 opera
presso una scuola media inferiore alle porte di Roma.
La scuola è inserita in una realtà urbanistica di periferia, e ciò implica una serie di disagi legati a questa condizione quali, per esempio, la carenza di strutture ricreative
e di aggregazione per bambini e ragazzi. Inoltre, si riscontra in maniera forte l’esigenza di creare un tessuto sociale
che integri le diverse culture, dal momento che nel quartiere sono presenti numerose famiglie straniere.
Il primo punto che abbiamo dovuto affrontare in coincidenza dell’inizio di questo lavoro è stato quello di riflettere attentamente sul ruolo che saremmo andate a ricoprire. La nostra formazione di psicoterapeute ci consente di
sperimentarci con un lavoro basato sulla relazione significativa con il «paziente» e – per la strutturazione ben definita di spazi e tempi, stabiliti in rapporto alle necessità del
caso, – ci permette di constatare lo sviluppo del «viaggio
terapeutico» intrapreso con l’altra persona. Lavorando
presso uno sportello scolastico, invece, il ruolo che ci
veniva chiesto di ricoprire era quello del consulente psicologico: incontrare i ragazzi che avessero richiesto un
colloquio, in un tempo decisamente limitato e con bassissima frequenza. In fondo avremmo lavorato in uno sportello d’ascolto e non presso uno studio di psicoterapia e,
come spesso si sente dire nel gergo degli «psi», questa
organizzazione strutturale degli incontri ci avrebbe «protetto», nonché indicato, di non aprire porte o finestre di
esperienze o ricordi di vita che per il tempo e il luogo in
cui operavamo non avremmo potuto chiudere, ovvero elaborare.
Questa piccola difficoltà iniziale si è poi trasformata
in un punto di forza nel nostro lavoro. Più volte, riportan-
do i casi riscontrati a scuola nello spazio di riflessione che
l’équipe si ritagliava per una mattina a settimana, la nostra
voglia di andare oltre il limite della consulenza, l’esigenza di effettuare un intervento più esteso ci ha permesso di
fare considerazioni che, in caso contrario, sarebbero rimaste in ombra e di poter lavorare, per quanto fosse possibile
in quello spazio, sulle reazioni personali suscitate dagli
incontri svolti a scuola. La mattina che ci serviva e che
utilizziamo tuttora per organizzare il nostro lavoro, da noi
chiamato «spazio di riflessione», non coincide con un
momento di supervisione bensì rappresenta un’occasione
di passaggi di informazioni tra tutti i componenti dell’équipe, tra cui la coordinatrice e la responsabile del progetto. È anche un momento nodale del nostro lavoro in cui è
possibile dare libero spazio alle fantasie, ai pensieri, alle
considerazioni sulle situazioni vissute a scuola, che danno
forma alla vera e propria parte operativa del nostro lavoro, ovvero attività e incontri con tutte le figure che sono
presenti nella struttura scolastica (ragazzi, professori,
insegnanti di sostegno, assistenti, infermieri, collaboratori) e che vi gravitano intorno (genitori, nonni, fratelli) o
che occasionalmente hanno a che fare con l’istituzione
scuola (assistenti sociali, rappresentanti di cooperative e
associazioni).
La prima volta che abbiamo varcato la soglia della
scuola, dove avremmo tenuto lo sportello d’ascolto, siamo
state colpite positivamente dalla grande struttura che ci
avrebbe accolto e dai numerosi lavori fatti dai ragazzi
affissi sui muri sotto forma di murales e cartelloni. Eravamo molto emozionate e curiose allo stesso tempo, e abbiamo pensato che frequentare quella scuola ci sarebbe piaciuto molto!
Ma come sarebbe stato l’impatto con i professori? E
con i ragazzi?
L’incontro di presentazione avuto con i docenti è stato
molto breve e colloquiale. I presenti ci hanno illustrato
l’organizzazione scolastica rispetto agli spazi e ai tempi,
riferendoci anche i principali obiettivi affrontati e raggiunti nelle varie classi attraverso il loro lavoro. D’altro
canto, noi abbiamo illustrato il nostro ruolo all’interno
della scuola, che non avrebbe rappresentato una sovrapposizione o sostituzione al loro ma, al contrario, avrebbe
avuto una funzione di collaborazione e di integrazione
con il loro lavoro.
FARE PSICOLOGIA
59
Nonostante queste premesse, avevamo considerato che
sarebbe servito del tempo per concretizzare tale collaborazione e per superare difficoltà quali: il timore che i ragazzi usufruissero dello sportello d’ascolto a scapito della
didattica e anche la difficoltà a entrare in sinergia con il
corpo docente nel perseguire obiettivi comuni e strategie
di intervento. Possiamo affermare con soddisfazione che,
con il trascorrere delle settimane, lo scambio con i professori è avvenuto più di frequente e questo ci ha dato la possibilità di instaurare un rapporto caratterizzato da stima e
fiducia reciproca.
Abbiamo potuto incontrare per la prima volta lo sguardo dei ragazzi quando siamo passate nelle classi per presentare l’attivazione del nuovo servizio presso la loro
scuola. Alcuni di loro sembravano stupiti dalla nostra presenza, altri annoiati, altri infastiditi, altri ancora molto
interessati.
Nel presentarci abbiamo cercato di stuzzicare la loro
fantasia sulla figura dello psicologo e sulla presenza di
uno sportello d’ascolto nella loro scuola. Dopo pochi
istanti di imbarazzo, sottolineato da un momentaneo silenzio, i ragazzi hanno riferito liberamente le loro considerazioni. Molti di loro hanno fatto riferimento a trasmissioni
televisive in cui hanno potuto ascoltare interviste e riflessioni fatte da alcuni psicologi, altri hanno ricordato telefilm o film in cui c’era un attore che interpretava questo
ruolo. Pochi sono stati i ragazzi che hanno riportato di
aver incontrato direttamente uno psicologo, se non perché
si trattava di un amico di famiglia o perché avevano conoscenti che hanno usufruito di un servizio psicologico.
Dopo aver chiarito quali fossero le nostre competenze
e quale sarebbe stato il nostro ruolo all’interno della loro
scuola, non sono mancate diverse espressioni maliziose
sui volti di alcuni alunni. I loro sguardi esprimevano un
chiaro pensiero: grazie all’attivazione dello sportello d’ascolto sarebbe stato più semplice trovare un escamotage
per perdere qualche lezioncina. Questo sorriso si è spento
qualche minuto dopo, quando abbiamo chiarito le modalità di prenotazione per eventuali colloqui: i ragazzi di
volta in volta avrebbero dovuto segnare il loro nome su di
un foglio per poi essere chiamati da noi psicologhe negli
orari più congeniali in relazione all’organizzazione del
nostro lavoro.
La nostra aspettativa rispetto alla frequentazione dei
ragazzi allo sportello era molto bassa rispetto a quella che
poi si è verificata essere la loro richiesta. Lo sportello d’ascolto ha riscosso un gran successo fra gli alunni, infatti
ben il 60% dei ragazzi si è rivolto a noi almeno una volta.
All’inizio immaginavamo di dover concedere agli alunni
un po’ di tempo per «studiarci» e per poterci conoscere e
invece, sin dalle prime settimane di attività, sono state
numerose le iscrizioni per i colloqui. Alcuni di loro
mostravano una grande curiosità nello scoprire lo sportello sia come luogo che come funzione.
Diverse e curiose sono state le fantasie che ci hanno
riportato a riguardo e che ricordiamo con simpatia: «Mi
aspettavo di trovare un vetro che ci dividesse proprio
come è sistemato negli uffici postali», oppure, «e adesso
che sai qual è il mio problema mi dai l’indicazione per
risolverlo?». Alcuni ragazzi, una volta entrati allo sportello, ci chiedevano cosa fare o dire, altri, incuriositi dalla
nostra professione, ci chiedevano quale era stato il nostro
percorso di studi. Nei primi incontri la maggior parte dei
ragazzi hanno preferito essere accompagnati da un compagno di classe che potesse sostenerli nel parlare con noi
o che magari avrebbe riportato una situazione di interesse
comune alla loro. Con il trascorrere delle settimane, i
ragazzi hanno manifestato una maggiore fiducia nei nostri
confronti, manifestata dalla frequentazione più assidua in
cui si presentavano singolarmente. Le tematiche riportate
sono state le più disparate, da quelle che appaiono più
banali (ma che per noi mai lo sono) a quelle più serie
legate a sofferenze familiari, a problemi di salute e difficoltà relazionali.
Molti hanno trovato in questo spazio per loro un porto
sicuro, dove poter essere ascoltati e accettati senza giudizio. Alcuni hanno scoperto la possibilità di intraprendere
un viaggio personale, altri vorrebbero saltare la lezione di
turno, ma il più delle volte è servita una «scusa non troppo seria» per farsi chiamare e poi ci si è aperti. I ragazzi
scoprono un mondo nuovo, l’esistenza di alternative. La
capacità di dire di no e di ragionare con la propria testa.
In un mondo frenetico e ad «alta funzionalità» i ragazzi
trovano nello sportello d’ascolto uno spazio in cui in cui
correre non è consigliato e in cui è possibile sentirsi forte
partendo dalla descrizione dei propri limiti e dal racconto
di quelle esperienze ricordate come sbagliate.
In conclusione vorremmo farvi partecipi di alcune
risposte simpatiche, curiose e assolutamente veritiere date
dai ragazzi rispetto alla nostra richiesta di conoscere quali
fossero le loro riflessioni e considerazioni riguardanti la
figura dello psicologo e l’attività dello sportello, attivo
ormai da quasi due anni nella loro scuola.
• Chi è lo psicologo?
«L’opsicologo è uno che ti ascolta!».
«Lo spigologo è una persona a cui gli devi dire come ti
senti tu!».
«L’ospicologo è Barbara e Luciana».
«Lopsicologo è una persona laureata in spsicologia!».
• Cos’è lo sportello d’ascolto?
«È una porta che ci si parla!».
«È una porta che tu vai e lì trovi l’opsicologo e nessuno ti
può sentire».
«È un aiuto per noi ragazzi».
«È lo studio del lospsicologo».
«È tipo un cassetto dei segreti e ti aiuta a ragionare».
• Cosa non è in grado di fare uno psicologo?
«Lo psicologo non è in grado di fare una cosa come risolvere solo lui i problemi, ci vuole sempre il tuo sforzo!».
• Con quali strumenti lavora?
«Con la bocca».
«Con la comunicazione e la gentilezza».
«Lo strumento è l’ascoltare».
• Ti fa paura lo psicologo?
«No, perché è una persona normale, mica un mostro!».
• Cambieresti qualcosa dello sportello?
«Sì, che a ogni visita ti danno una barretta di cioccolata!». ♦
FARE PSICOLOGIA
60
La Psicologia della Salute
in un Ospedale di Malattie
Infettive
Nuove strade verso il cambiamento
ALBERTO VITO
Psicologo, Responsabile U.O. Psicologia Ospedaliera A.O. Cotugno (Na),
Componente Commissione Nazionale Lotta all’AIDS – Ministero della Salute (Roma)
MARTINA LUPOLI, LILIANA TIZZANO
Psicologhe, borsiste, U.O. Psicologia Ospedaliera A.O. Cotugno (Na)
GIUSEPPE NARDINI, GIUSEPPE VIPARELLI
Psichiatri Dirigenti, U.O.C. Psichiatria di Consultazione A.O. Cotugno (Na)
INTRODUZIONE
L’
attuale Psicologia Ospedaliera, libera dal meccanicismo del modello clinico bio-medico, trova oggi la
sua maggiore ispirazione teorica nei principi della
Psicologia della Salute, a sua volta influenzata dalla Teoria
Generale dei Sistemi; da tali presupposti teorici stanno nascendo nuovi modi di operare in ambito sanitario.
L’obiettivo di questo contributo è proprio quello di illustrare, attraverso l’analisi sintetica dei principi teorici fondanti la Psicologia Ospedaliera e attraverso la descrizione
delle attività dell’U.O. di Psicologia Ospedaliera dell’A.O.
Cotugno, il nostro tentativo quotidiano di rendere operativi i
principi della Psicologia della Salute, trasferiti all’interno del
contesto «ospedale di malattie infettive».
DALLA PATOGENESI ALLA SALUTOGENESI: NUOVI
SPAZI PER LA PSICOLOGIA DELLA SALUTE
La Psicologia della Salute è reputata uno dei più importanti
contributi della psicologia scientifica in ambito sanitario.
Essa trova i suoi presupposti teorici in un nuovo paradigma
che antepone il concetto di «salutogenesi» a quello di «patogenesi», focalizzando l’attenzione sulla promozione della salute piuttosto che sulla lotta alla malattia.
Nella «promozione» della salute l’obiettivo diventa lo
sviluppo della persona, dei gruppi, delle comunità, in una visione attenta alle dinamiche interne ed esterne ai sistemi in
cui le vicende di questo sviluppo prendono forma. Questo
presuppone un passaggio dal vecchio modello «biomedico»
al nuovo modello «bio-psico-sociale»; ovvero il passaggio
dalla scissione tra mente e corpo, all’assunzione generale che
ogni condizione di salute o di malattia sia la conseguenza
dell’interazione tra fattori biologici, psicologici e sociali
(Engels, 1977, 1980; Schwartz, 1982).
Tale modello contiene un forte riferimento al concetto di
sistema, inteso come un’entità dinamica le cui componenti
sono in continua e reciproca interazione in modo da formare
un’unità o un tutto organico (von Bertalanffy, 1968).
L’opzione sistemica comporta sia la specificità di ciascun livello di organizzazione, sia la necessità di indicare in modo
netto la natura delle relazioni e dell’interdipendenza tra i livelli di interazione.
Questi nuovi orientamenti teorici hanno notevoli ricadute sul piano operativo e organizzativo, ma tale cambio di prospettiva non è affatto di facile realizzazione. Tant’è vero che,
ancora oggi, lo stato di salute di una persona viene definito
più sulla base di indicatori di morbilità e mortalità, piuttosto
che su indicatori di vitalità.
Nonostante queste difficoltà, tuttavia, in Italia si assiste
al costante proliferare di iniziative scientifico-culturali in
grado di segnare la tendenza verso un cambiamento importante. Tra di esse, ci appaiono di particolare rilievo: l’apertura di tre scuole universitarie di specializzazione quadriennale in Psicologia della Salute (Roma, Torino, Bologna); di
un dottorato di ricerca (Firenze) e di alcuni corsi di perfezionamento; oltre alla realizzazione di varie iniziative congressuali e alla nascita della Società Italiana di Psicologia
della Salute (SIPSA) e della Società Italiana di Psicologia
Ospedaliera e Territoriale (SIPSOT).
Anche la nuova denominazione del Ministero della
Sanità, che dal 2003 ha preso il nome di Ministero della
Salute, è un segno che anche sul piano istituzionale lentamente viene recepito questo cambiamento di prospettiva.
Sembra dunque che questo nuovo modello teorico sia ormai condiviso a livello nazionale, sanitario, sociale e di comunità anche se si è ancora lontani da una sua piena realizzazione sul piano operativo.
FARE PSICOLOGIA
61
UN CONTESTO OBBLIGATO PER LA PROMOZIONE
DELLA SALUTE: LA PSICOLOGIA IN OSPEDALE
La Psicologia della Salute sta esercitando una notevole influenza sugli psicologi operanti in ambito clinico-medico; in
particolare, ciò avviene nell’ambito ospedaliero. L’obiettivo
della Psicologia Ospedaliera è legato oggi proprio alla volontà
di accrescere la dignità dei pazienti cui l’ospedale, a causa della sua organizzazione meccanicistica, ha per molti anni negato la dimensione soggettiva, biografica, affettiva e sociale.
Tale modalità organizzativa, anteponendo le necessità
del sistema a quelle dell’individuo, provoca una regressione e
un appiattimento del paziente, impedendogli gran parte dei
contatti affettivi, sociali e lavorativi, formandolo all’idea
della malattia come cosa «altra da sé». A questo approccio, si
è contrapposto il modello bio-psico-sociale che apre la strada
a un «nuovo» modo di considerare il servizio sanitario, più vicino alle persone e più attento alle loro esigenze.
L’ingresso della Psicologia nella struttura ospedaliera ha
permesso una visione più complessa della persona malata la
cui specifica patologia rappresenta soltanto un’interfaccia,
seppur essenziale, di un ben più articolato insieme di componenti diverse e indipendenti tra loro.
Inoltre, in un’ottica sistemica, per «prendersi cura» della persona è tuttavia indispensabile risolvere il problema dell’integrazione delle competenze e dei rapporti fra i vari specialisti all’interno del sistema dell’offerta, e successivamente quello dell’interazione con il sistema della domanda. Non è concepibile un’apertura dialogica reale verso la domanda dell’utente senza un’evoluzione chiara dell’organizzazione interna al sistema dell’offerta, che valorizzi le specificità di ogni singola disciplina.
Sia pur in diversa misura è presente, ai vari livelli specialistici, la paura di una maggiore apertura alla domanda dell’utente. «Chi offre servizi sembra disperatamente ancorato al
timore di perdere potere nel momento in cui il servizio non sia
più orientato alla tecnica ma all’utenza» (Carli, 1996).
In Italia l’ingresso dello psicologo nella struttura ospedaliera è avvenuto solo di recente rispetto ad altri paesi occidentali, a tutt’oggi si possono contare almeno 37 strutture
complesse di Psicologia Ospedaliera attualmente attive, di
cui ben 12 nella sola Regione Piemonte. Tale dato indica una
crescita a macchia di leopardo, legato a sforzi in singole
realtà più che a un riconoscimento condiviso a livello generale della sua importanza (dati SIPSOT).
I servizi offerti vanno dall’ambito clinico quale psicodiagnosi, counseling e psicoterapia, all’ambito formativo fino ad
arrivare alla ricerca applicata alla realtà ospedaliera.
La Psicologia della Salute nelle Malattie Infettive
Come già detto, il contributo della psicologia ha consentito
un’attenzione sempre maggiore alla componente soggettiva
del paziente, creando le condizioni per una visione più ampia
dell’assistenza alla persona malata. D’altro canto, invece, i
progressi della medicina hanno permesso la guarigione da
molte malattie e hanno consentito che diverse patologie, un
tempo mortali, assumessero un decorso cronico.
Queste due discipline, strettamente correlate tra loro,
possono dunque contribuire in modo sinergico al miglioramento generale della qualità della vita delle persone malate.
In particolare la Psicologia, focalizzando la sua attenzione sulla relazione operatore-paziente, tenta di operare dei
cambiamenti il più possibile stabili non solo nelle aree dell’espressione sintomatica, della sofferenza psichica e dei
pattern di comportamenti disturbati; ma anche rivolgendosi alla promozione della crescita e dello sviluppo verso una
maturazione personale. Compito dell’intervento psicologico
è inoltre quello di aiutare a ridurre il più possibile lo stress
aggiuntivo – legato alla percezione della malattia, alle strategie che si utilizzano per affrontarla e alle sue ricadute relazionali – che costituisce una conseguenza indiretta della
patologia. Un discorso specifico riguarda le malattie infettive e a trasmissione sessuale, come l’HIV, che ancora oggi sono altamente stigmatizzate socialmente. I progressi nel
campo farmacologici, in particolare con l’avvento dei farmaci antiretrovirali, hanno trasformato radicalmente il decorso dell’infezione da HIV che oggi va considerata alla stregua di una patologia cronica, ponendo ancor più in primo
piano le questioni legate alla qualità della vita dei pazienti e
dei loro familiari.
La qualità della vita non può più essere legata a parametri «oggettivi» ma va ricondotta all’esperienza soggettiva
del singolo individuo che è in grado di valutare il proprio livello di benessere; essa costituisce uno dei più importanti
parametri per valutare la «salute» di un malato cronico.
Secondo Taylor S. (1997) è molto importante studiare la
qualità della vita del malato cronico, per valutare quanto la
malattia ostacoli lo svolgimento delle normali attività di vita quotidiana, in particolare le attività professionali, sociali
e personali; inoltre è necessario valutare l’impatto del trattamento sulla qualità della vita, per verificare che il trattamento non sia più nocivo del disturbo stesso.
Tra le varie fasi di adattamento del paziente alla nuova
condizione una delle più importanti è quella della «comunicazione della diagnosi», cui possono seguire diversi gradi di
adattamento emotivo che vanno dagli stati di smarrimento e
incredulità iniziali ai tentativi di adattamento e riorganizzazione successivi o, al contrario, di negazione e di rifiuto della malattia e, conseguentemente, delle terapie e delle strategie di prevenzione dell’ulteriore diffusione del virus.
È proprio su questi tentativi di adattamento che si inserisce l’intervento psicologico mirato a favorire il processo di
accettazione e reazione alla patologia e a migliorare la collaborazione con l’équipe curante per una giusta aderenza terapeutica.
Tali malattie si diffondono all’interno di una relazione
sessuale, ma che quasi sempre è anche affettiva ed emotiva,
in cui l’altro riveste un ruolo assai significativo, e pertanto
anche l’intervento sanitario, di prevenzione e di cura, deve
essere rivolto al sistema relazionale del paziente.
Lo psicologo avrà l’obiettivo di promuovere comportamenti e stili di vita orientati alla salute psichica, attraverso
l’individuazione delle aree di disagio, e potenziare le risorse individuali e familiari. Infine, va ricordato che ai progressi nel campo farmacologico non sono corrisposte modifiche altrettanto forti nell’immaginario collettivo relative alla persona sieropositiva, che tuttora rischia di essere oggetto di discriminazioni dolorose. In tal caso, il ruolo dello psicologo può svolgere una funzione particolarmente utile.
FARE PSICOLOGIA
62
Attività dell’U.O. di Psicologia Ospedaliera
dell’A.O.D. Cotugno
L’Unità Operativa di Psicologia Ospedaliera si è costituita di recente all’interno dell’Ospedale Cotugno, ed è collocata all’interno della U.O. complessa di Psichiatria di Consultazione ed
Epidemiologia Comportamentale. L’U.O. è stata strutturata dopo
una più lunga presenza, maturata in circa dieci anni di attività,
degli psicologi all’interno del contesto ospedaliero; e adotta una
modalità operativa che coniuga una duplice attenzione sia alla
componente strettamente organica delle patologie, sia alla componente psicologica che talvolta rappresenta una risposta reattiva alla scoperta della malattia, evocando risposte non sempre
funzionali al trattamento farmacologico e terapeutico.
Le aree di intervento clinico di pertinenza del Servizio sono diverse, tra cui una parte cospicua, sebbene non esclusiva,
è dedicata proprio ai pazienti affetti da HIV. Per essi è stato
messo a punto uno specifico modello di intervento psicologico, in cui l’assistenza è proposta sin dal momento in cui l’infezione viene diagnosticata e per tutto il percorso della malattia. La connotazione di cronicità, che sempre di più assume
l’infezione, ha spostato l’obiettivo dell’intervento psicologico dall’elaborazione del vissuto di morte imminente a un intervento diverso e complesso teso a stimolare l’adozione di
nuovi stili di vita e la modifica delle proprie aspettative.
La persona sieropositiva va aiutata a convivere con l’infezione da HIV e con le complesse questioni psicologiche che
essa pone. Il rapporto con il proprio partner, con i propri genitori, con i propri figli, con i propri amici, la progettualità
personale, i desideri e le paure sono le tematiche che può affrontare con lo psicologo il quale, nel rispetto della libertà delle scelte individuali, favorirà un processo di presa di coscienza delle sue dinamiche interne. È inoltre importante individuare le risorse e gli affetti su cui il paziente sieropositivo può
contare e mettere insieme le disponibilità e i contributi di aiuto che le persone che lo circondano possono fornirgli per creare intorno a lui un nuovo supporto sociale. La partecipazione
dei familiari al trattamento psicologico rappresenta una risorsa fondamentale per migliorare la qualità della vita sia delle persone sieropositive sia di coloro ad esse più vicine.
Un intervento specifico è rappresentato dalla consulenza
alla coppia, in cui uno dei componenti o tutti e due sono sieropositivi. Esso si propone di favorire la presenza nella coppia di regole di funzionamento e di convinzioni che consentano un equilibrio armonico e il rispetto di norme preventive.
Un’area peculiare della consulenza psicologica consiste
nell’intervento finalizzato a migliorare l’aderenza a protocolli
farmacologici complessi. L’aderenza terapeutica deve essere
considerata un fenomeno comportamentale complesso, influenzato da molti fattori e favorito da un supporto psicologico.
Un intervento psicoterapeutico è pure proposto ai pazienti
«worried well», ovvero coloro che si sottopongono più volte al
test HIV e che nutrono una paura eccessiva di aver contratto l’infezione, mostrando una forte dimensione ipocondriaca.
Ma, oltre che ai pazienti HIV, l’intervento psicologico può
essere rivolto a tutti i pazienti dell’ospedale, a prescindere
dalla patologia organica di base, sia ricoverati, sia in regime
di day-hospital che in trattamento ambulatoriale.
Durante il ricovero, l’intervento dello psicologo consiste
in consulenze nei reparti, che avvengono su richiesta del me-
dico, o del paziente stesso e dei suoi familiari. Talvolta lo psicologo condivide l’intervento di consulenza con lo psichiatra
e, insieme a questi, valuta il proseguimento dell’intervento.
La consulenza è un intervento a breve termine, focalizzato sul
problema, che tuttavia talvolta prosegue con una presa in carico più strutturata.
Inoltre, è attivo un servizio ambulatoriale che eroga trattamenti di psicoterapia breve (sino a 16 sedute) con orientamento sistemico-relazionale. Il trattamento ambulatoriale è rivolto sia agli ex degenti dell’ospedale che a pazienti esterni,
che possono afferire al Servizio mediante richiesta del medico curante. È stata recentemente condotta una ricerca volta a
conoscere la percezione dei pazienti in merito all’attività psicoterapeutica svolta in un ambulatorio collocato all’interno di
un ospedale di malattie infettive («Babele», n. 22), da cui è
emerso che i diversi pazienti avvertivano il contesto plurispecialistico ospedaliero più contenitivo e protettivo nei confronti di strutture quali i SER.T. e i D.S.M., che seguono prevalentemente pazienti con patologie facilmente riconoscibili.
Gli interventi ambulatoriali possono schematicamente essere suddivisi in: a) interventi di tipo consulenziale, di breve
termine, focalizzati sul problema, che possono talvolta proseguire con una presa in carico più strutturata; b) trattamenti di
psicoterapia breve, a cui può seguire l’invio ad altra struttura.
Dallo scorso aprile è attivo presso l’ospedale il centro per
la cura del tabagismo, indirizzato sia al personale dipendente
dell’ospedale, sia ai pazienti che si rivolgono al servizio per
altre cure. È rivolto principalmente ai dipendenti perché gli
operatori sanitari occupano un ruolo particolarmente importante nelle campagne antifumo e il loro comportamento, nei
confronti del fumo, ha una particolare importanza per la ricaduta sul resto della popolazione. Svolgendo questa attività ci
siamo resi conto che essa può rappresentare una modalità indiretta di presa in carico delle problematiche dei dipendenti
dell’ospedale, che può intervenire positivamente sul fenomeno complesso del burn-out che caratterizza molto spesso la
cura di pazienti il cui carico emotivo diventa difficilmente sostenibile e gestibile.
Pertanto uno degli obiettivi da perseguire, accanto alla cura del tabagismo, è una funzione di sostegno ai dipendenti che
permetta loro di rendere più facilmente esplicite le difficoltà
eventualmente connesse alla loro attività professionale, evitando nel contempo alla nostra équipe triangolazioni interne
all’organizzazione ospedaliera. Il Centro opera secondo un
approccio integrato che tiene conto tanto delle problematiche
psicologiche connesse con l’abitudine del fumo, tanto degli
aspetti fisici che il tabagismo comporta. Il problema viene affrontato in primis attraverso incontri individuali, condotti da
uno psicologo, con una finalità informativa sui costi-benefici
dell’abitudine al fumo. Successivamente viene appositamente adibito uno spazio in cui è possibile approfondire la storia
personale di ogni fumatore e le abitudini legate al fumo.
Si è rivelata utile la somministrazione di un questionario appositamente strutturato per misurare il grado di dipendenza del
paziente. I colloqui prevedono un’analisi della motivazione al
trattamento, con una prima fase di auto-osservazione cui fa seguito il programma vero e proprio di disassuefazione. Le strategie operative si indirizzano secondo il modello cognitivocomportamentale. Infine, si svolgono incontri di gruppo tesi al-
FARE PSICOLOGIA
63
la condivisione degli obiettivi e alla discussione delle difficoltà
legate alla decisione di smettere di fumare, con l’intento di
rafforzare la motivazione e ridurre le ricadute, mantenendo una
stabilità nel tempo del programma di disassuefazione.
All’intervento psicologico, ove richiesto, si affianca la
consulenza di uno psichiatra, del pneumologo e dell’oncologo, al fine di valutare l’entità dei danni prodotti fino a quel
momento, e di concordare gli appropriati trattamenti farmacologici. Attualmente è in corso una ricerca che prevede, mediante la somministrazione di un questionario a oltre 400 persone, di conoscere gli atteggiamenti nei confronti del tabagismo di tutti i dipendenti dell’Azienda.
Di recentissima apertura è lo sportello d’ascolto psicologico per gli stranieri, un’iniziativa nata a seguito dell’emergenza Tsunami, che ha colpito le popolazioni del sud-est asiatico. Questo intervento si inscrive nell’ottica più ampia di
un’individualizzazione dei bisogni e della cura dei pazienti,
attraverso interventi improntati alle caratteristiche non solo
della persona, ma anche e soprattutto del suo contesto di vita.
Ecco perché in collaborazione con il servizio di Psichiatria, si
sono offerte consulenze gratuite ai parenti delle vittime dello
Tsunami, che risiedono nel nostro territorio, e che a seguito
della catastrofe potevano aver sviluppato una Sindrome Post
traumatica da Stress.
L’attenzione verso i pazienti immigrati è proseguita e nei
giorni scorsi è stato firmato un Protocollo d’Intesa con
l’Assessorato ai Servizi Sociali del Comune di Napoli, che
prevede la pubblicizzazione tra le popolazioni immigrate residenti nel Comune dello sportello d’ascolto psicologico e la
possibilità di sottoporsi gratuitamente e in anonimato al test
HIV presso l’ospedale, anche per gli stranieri privi di permesso di soggiorno. Inoltre, il Comune metterà a disposizione dei
mediatori culturali, che per alcune ore a settimana affiancheranno gli operatori sanitari della nostra Azienda.
Formazione
Accanto a tutte le attività di ordine puramente clinico, molto
spazio è destinato anche all’attività formativa. La scelta di portare avanti l’attività formativa è legata alla promozione di un
modello culturale, affinché attraverso l’esperienza pratica si
possano meglio sedimentare quegli aspetti strettamente legati al
modello teorico di riferimento che sottende le attività cliniche.
Il Servizio è riconosciuto idoneo per lo svolgimento dei tirocini pre-laurea e post-laurea e ospita laureati delle Facoltà
di Psicologia sia dell’Università di Roma che di Caserta.
Inoltre offre la propria attività di ricerca e supervisione a progetti di tesi psicologica. Sono anche attive alcune convenzioni con alcune scuole di specializzazione riconosciute dal MURST per i tirocini degli allievi ai Corsi quadriennali di abilitazione alla psicoterapia.
L’attività di supervisione è indirizzata sia ai tirocinanti che
agli psicologi convenzionati che operano all’interno del
Servizio di Ospedalizzazione Domiciliare, che assiste prevalentemente pazienti con AIDS, oncologici o con gravi patologie epatiche. Generalmente si articola in incontri di gruppo, a
cadenza mensile, in cui si lascia ampio spazio alla discussione ed elaborazione dei dubbi e delle problematiche connesse
alla gestione del paziente.
Inoltre, il servizio partecipa alle lezioni dei Corsi AIDS per
gli operatori del sistema sanitario sia a Napoli che nelle altre
città della regione Campania. Sono promosse attività seminariali e convegni, in collaborazione con la Società Italiana di
Psicoinfettivologia. Nell’anno 2004 è stato tenuto il ciclo di
seminari di psicologia ospedaliera: «Prendersi cura: Aspetti
psicologici e relazionali nel trattamento terapeutico del paziente ospedaliero. Il contesto delle malattie infettive in epoca SARS» (accreditato ECM) e i seminari clinici «L’identità del
Terapeuta», rivolti a psicoterapeuti in formazione. La partecipazione a tali attività era gratuita.
Ricerca
Il Servizio svolge anche attività di ricerca, di concerto con il
Servizio di Psichiatria di Consultazione e promuove collaborazioni nazionali. Fine ultimo è cercare una conferma delle
ipotesi teoriche che emergono attraverso il lavoro strettamente clinico. A tal fine, le attuali aree di ricerca si sono focalizzate sulla comunicazione medico-paziente, l’aderenza ai
trattamenti farmacologici complessi, la psicologia ospedaliera, la psico-oncologia.
Attualmente sono attivi quattro progetti di ricerca finanziati dall’Istituto Superiore di Sanità, approvati all’interno del
V Programma Nazionale di ricerca sull’AIDS, su tematiche riguardanti l’impatto della diagnosi di sieropositività, sulle dinamiche familiari, le caratteristiche psicologiche delle coppie
con partner sieropositivo, i fattori di rischio di contrarre l’infezione HIV per i pazienti psichiatrici gravi, gli aspetti psicosociali nel reclutamento dei volontari nelle sperimentazioni
per il vaccino. Su tali progetti, i cui responsabili scientifici sono i responsabili del servizio di Psichiatria e dell’U.O. di
Psicologia sono impegnati 14 borsisti, di cui 10 psicologi.
Il Responsabile del Servizio, infine, è componente della
Commissione Nazionale per la lotta contro l’AIDS e le altre
malattie infettive istituita dal Ministero della Salute.
BIBLIOGRAFIA
BATESON G., Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1977.
BERTALANFFY VON L., Teoria dei sistemi, Milano, Mondadori, 1971.
BERTINI M., Psicologia e Salute, Roma, Nis, 1988.
Da Panacea a Igea: verso il delinearsi di un cambiamento di paradigma nel panorama della salute umana, Milano, Franco Angeli, 2001.
BRAIBANTI P., Pensare la salute, Milano, Franco Angeli, 2002.
ENGELS G.L., The need for a new medical model, «Science», 196, 1977, pp.
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GADAMER H.G., Dove si nasconde la salute, Milano, Cortina, 1993.
MARINIELLO A., NARDINI G., VITO A., STARACE F., Aspetti relazionali e
comportamenti di salute in coppie eterosessuali con infezione da HIV, in
«Psicologia della Salute, Milano, Franco Angeli, 3, 2002, pp. 91-110.
MAURIELLO S., VITO A., STARACE F., La percezione del contesto negli utenti di un servizio, «Babele», 22, 2002, pp. 66-68.
NARDINI G., CAFARO L., DE MICCO A., TIZZANO L., VIPARELLI G., VITO A.,
STARACE F., Valutazione delle problematiche psichiatriche e degli
aspetti psicosociali nelle epatopatie croniche, in «Psichiatria di
Consultazione», Roma, Edizioni CIC, VIII, 1, gennaio-marzo 2005.
TAYLOR S.E., Health Psychology, New York, McGraw-Hill, 1995.
VITO A., NARDINI G., «L’evoluzione dell’assistenza psicologica nell’assistenza da HIV», in Infezione da HIV: Repertorio delle Sperimentazioni terapeutiche, «Positifs», IX, 2003, pp. 57-58.
FARE PSICOLOGIA
64
La psicologia
come professione
SIMONE PESCI
Reflector
Docente dell’ISFAR Post-Università delle Professioni di Firenze
Presidente della SIR (Società Internazionale di Reflecting)
L
a legge che istituisce e garantisce, dopo lunghe e
aspre battaglie, la professione di psicologo, offre a
questo specialista possibilità notevoli che spaziano in
vari ambiti di applicazione.
La professione di psicologo comprende l’uso degli
strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte
alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito. Per
esercitare la professione di psicologo è necessario
aver conseguito l’abilitazione in psicologia mediante l’esame di Stato ed essere iscritto nell’apposito albo professionale. […] L’esercizio dell’attività
psicoterapeutica è subordinato a una specifica formazione professionale, da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in psicologia o in medicina e chirurgia, mediante corsi di specializzazione
almeno quadriennali che prevedano adeguata formazione e addestramento in psicoterapia, attivati ai
sensi del decreto del Presidente della Repubblica
10 marzo 1982, n. 162, presso scuole di specializzazione universitaria o presso istituti a tal fine riconosciuti con le procedure di cui all’articolo 3 del
citato decreto del Presidente della Repubblica
(Legge 56/89, artt. 1-3).
La Legge 56/89 stabilisce chi è e che cosa fa lo psicologo,
indica i destinatari del suo intervento professionale e come
può raggiungere la sua abilità/abilitazione professionale. Per
di più istituisce l’Ordine degli Psicologi.
Dalla Legge appare chiaro che lo psicologo ha molte
possibilità di intervento e per esplicare la sua professionalità
ha il diritto e il dovere di entrare in possesso delle abilità che
gli consentano di svolgere a pieno la sua professione. Questo testo fondamentale, dunque, dovrebbe essere incorniciato in tutte le camerette degli studenti di psicologia in modo
che questi, nel loro percorso formativo, prendano coscienza
e pretendano quegli strumenti teorici e tecnici capaci di
implementare la giurisprudenza.
Le università si impegnano fortemente a garantire un
bagaglio teorico importante agli studenti di psicologia; non
sempre però questo bagaglio teorico è accompagnato da una
conoscenza applicativa, che spesso viene circoscritta all’anno di tirocinio che traghetta lo studente all’Esame di Stato,
sempre che gli enti convenzionati si impegnino nel potenziare la professionalità dei tirocinanti anziché obbligarli
spesso in lavori impropri, niente affatto conformi alle disposizioni legislative.
In realtà, nelle università, in buona fede o per calcoli di
convenienza, non sempre si respira un clima che porti lo studente alla coscienza della sua professione. «Non vi fate illusioni, ragazzi: avete da studiare! Ora dovete fare cinque anni
di università e poi altri quattro di specializzazione, se volete
far qualcosa». Una frase che è abbastanza usuale, utilizzata
dai docenti per far credere agli studenti che la laurea in psicologia, pur con la conseguente abilitazione professionale,
non garantisca una professione, e quando parlano di interventi psicologici facilmente li confondono con le psicoterapie relegando il ruolo dello psicologo a quello che prima
veniva chiamato testista.
La psicologia applicata deriva i suoi strumenti dai dati e
dalle scoperte, in specie, della psicologia generale e sperimentale che si occupano della ricerca in ambito psicologico
e forniscono le «notizie» utili all’applicazione. La psicologia
applicata volge l’attenzione a diversi ambiti del sociale che
in generale possiamo raggruppare in quelle che sono definite Psicologia del lavoro e delle Organizzazioni e Psicologia
Clinica e dello Sviluppo. Considerando la legge 56/89 e lo
schema di riferimento (schema 1) si capisce come l’intervento psicologico, che applica le conoscenze psicologiche
all’aiuto di singoli, gruppi, organismi sociali e comunità, è
diverso e non per questo più o meno efficace, rispetto alla
psicoterapia che invece si basa per la maggior parte su teorie (ipotesi) sulla personalità, più o meno confermate dalla
ricerca, su teorizzazioni che spesso prendono le caratteristiche di metapsicologie.
È utile distinguere, ma ciò che più conta è che gli studenti di psicologia hanno il diritto e il dovere di conoscere
ciò che possono fare, perché lo possono fare, e come farlo.
Se il sapere (e parte del saper fare) può essere fornito dall’università, al tirocinio e a occasioni formative post lauream si dovranno demandare il saper fare vero e proprio e
una formazione per il saper essere.
Gli psicologi già iscritti all’Albo professionale e i laureati in psicologia hanno il diritto di acquisire abilità operative adatte a soddisfare con professionalità ed efficacia
quanto previsto dall’Ordinamento della professione.
FARE PSICOLOGIA
65
Psicologia Generale
e Sperimentale
Teorie (ipotesi)
della Personalità
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Reflecting
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Psicologia applicata
Lavoro
e Organizzazioni
Clinica
e Sviluppo
Psicoterapia
Schema 1
Lo psicologo deve poter acquisire una formazione che
sia occasione per accrescere la capacità di servizio, saper
prestare una deontologica attenzione alla persona e innalzare le proprie competenze per svolgere la libera professione o
un qualificato lavoro dipendente.
Il percorso formativo, universitario o, più facilmente,
postuniversitario, deve essere teso a far acquisire abilità concrete nell’utilizzo di modalità di accoglienza e conoscitive
della persona (anamnesi, scopia semiotica, ecc.); a far conseguire competenze operative specifiche per la scelta appropriata di metodi e tecniche diagnostiche nelle differenti
situazioni di patologia o di disagio e di valutazione delle
risorse; a far assumere modalità per l’elaborazione delle
informazioni fino alla formulazione diagnostica; a rendere
capaci di realizzare interventi abilitativi, riabilitativi e di
sostegno psicologico; a far apprendere i metodi, le tecniche
e gli ausili per favorire nelle persone un equilibrio psicologico e relazionale.
Alla luce di queste considerazioni gli psicologi, se avranno consapevolezza dei propri mezzi e sufficienti capacità nel
saper fare, potranno agire con competenza e professionalità
sul mercato del lavoro, ritrovando o confermando lo spazio
che meritano nella società e diventando esempio di scienza
applicata al benessere, senza invidia o avversione nei confronti di nessun’altra categoria professionale, poiché padroni del loro bagaglio teorico e pratico. ♦
ARTELIEU
ASSOCIAZIONE ITALIANA STUDI
SULLE PSICOPATOLOGIE DELL’ESPRESSIONE
E ARTETERAPIA
Corso di formazione
in arteterapia plastico-pittorica
Il percorso di formazione in Arteterapia è rivolto a persone che intendono
avvalersi dell’arte visiva in ambito terapeutico, educativo, preventivo,
assistenziale, riabilitativo, in relazione alla propria professionalità, come
mezzo di riarmonizzazione della persona, al fine di garantire e generare
una migliore qualità della vita individuale e sociale.
Corso biennale con frequenza nei week-end
sede del corso: Pescara
ARTELIEU presenterà sabato 7 luglio 2007 a Pescara un convegno sul tema:
«Le artiterapie per colorare la vita»
Relatori: prof. J. Pierre Royol, dott.ssa L. Grignoli, dott. C. Merini
Evento E.C.M. per psicologi, patrocinio Ordine Psicologi Abruzzo
Ingresso gratuito su prenotazione (entro 23 giugno)
www.artelieu.it
Per informazioni [email protected] Tel. 0854914348 cell. 3472952894
Collana diretta da Guido Pesci e Simone Pesci
La collana assume il compito di divulgare i principi e le modalità con cui
facilitare l’individuo a riflettere, a meditare su di sé, sul proprio essere e sul
proprio esistere utilizzando le proprie risorse. Essa intende destare e
sviluppare nuovi modelli di vita e di pensiero, organizzare nel sociale un’azione
di riscatto contro i fraudolenti tentativi del persuadere, del guidare e del
consigliare, estendere nella socialità nuove tutele per una vita più vera e più
libera. La collana si propone di fornire i mezzi per aiutare la persona a innalzare
l’edificio della propria personalità, discernere ogni aspetto dell’universalità che
le appartiene, muoversi nella propria interiorità e conoscere se stessa, fino a
creare così una società pensante e armoniosa.
G. PESCI – S. PESCI – A. VIVIANI
REFLECTING
Un metodo per lo sviluppo del Sé
ISBN:
88-88232-58-3
C 9,00 – FORMATO: 15,5X21 – PAGG. 120
l metodo Reflecting si basa sul principio
che è possibile giungere a una
comprensione profonda di noi stessi
solamente per mezzo della riflessione. Esso
respinge ogni procedimento che si affida
all’incoraggiamento, alle istruzioni, alle
interpretazioni e ai buoni consigli, per offrire
invece un aiuto esclusivo e indispensabile a promuovere la riflessione. Perché
la persona possa essere aiutata in questo suo procedere, e possa trovare
nella riflessione un contributo alla propria crescita, il metodo fa appello a
tutti i contenuti espressivi e comunicativi andando oltre l’utilizzo della
parola come frammento della comunicazione. L’obiettivo di questo nuovo
metodo è quello di favorire un’evoluzione positiva sfruttando le risorse
personali. È un modo per analizzarsi, conoscersi e proporsi in direzione di
una crescita che agevoli il coraggio di affrontare i rischi e le delusioni
esistenziali e che favorisca lo sviluppo delle proprie potenzialità fino a
raggiungere la libertà di essere se stessi.
I
SIMONE PESCI (a cura di)
MANUALE DI REFLECTING
ISBN:
88-7487-286-0
C 11,00 – FORMATO: 15,5X21 – PAGG. 128
li autori si propongono di dare una
risposta operativa e formativa a quanti
intendono seguire un percorso di aiuto a
favore di persone in difficoltà. Il manuale –
che segue in collana il libro Reflecting. Un
metodo per lo sviluppo del Sé – conferma
l’animata concezione che alla terapia occorre
una svolta. Non è accettabile che molti operatori siano convinti di possedere
risposte per gli altri, di interpretare per gli altri, incoraggiare, indirizzare, dare
consigli e considerare tutto questo terapia. La terapia deve abbandonare il
protagonismo della parola usata per conoscere, liberare, condurre l’altro;
quella parola-farmaco sulla quale si è costituita la sovranità terapeutica, che
si propone di alimentare gli spazi di silenzio con domande e affermazioni,
con spiegazioni e conclusioni. La persona, per il Reflector, non ha bisogno di
un insegnante tecnico, di un interprete poliglotta, di una schiavitù segreta
della propria psiche, di un’influenza esercitata da qualcuno su di lei, poiché
necessita di una totale indipendenza nelle relazioni. Il Reflecting è un modo
di porsi di fronte all’altro per fornirgli gli strumenti adatti alla riflessione. Il
Reflector, infatti, non dà risposte, ma aiuta a riflettere.
G
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NOVITÀ GENNAIO–APRILE
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Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi
Parole d’altro genere
Lecturae
ELENA LIOTTA
A MODO MIO
JEAN-FRANÇOIS VÉZINA
LA NECESSITÀ DEL CASO
Donne tra potere e creatività
La sincronicità negli incontri che ci trasformano
PAROLE D’ALTRO GENERE – ISBN: 978-88-7487-224-4
LECTURAE – ISBN: 978-88-7487-220-6
C 18,00 – FORMATO: 13X21 – PAGG. 168
C 20,00 – FORMATO: 13X21 – PAGG. 224
n saggio che si snoda tra le peculiarità del pensiero femminile, la spiritualità delle donne, i loro modi di esercitare il
potere, la loro naturale propensione alla creazione delle condizioni di base, all’accudimento, alla sensibilità ambientale, a vedere
anche altro... E oltre.
Non ci si accorge nemmeno più del fatto che il modo di pensare
degli uomini si è imposto incondizionatamente nell’educazione
collettiva. Fino a diventare l’unico possibile, anche per le donne.
L’educazione scolastica e quella universitaria non mostrano nessuna sensibilità nei confronti delle donne, della loro vita e delle loro
esigenze. Come anche il mondo del lavoro, della cultura, della politica e dell’economia. E anche se ci sono donne che pensano di
interpretare le esigenze delle altre donne, continuano a usare –
senza accorgersene – categorie maschili.
Un buon inizio, scrive l’autrice, è pensare che c’è qualcosa di incontaminato, un nucleo di libertà nel cuore di ogni donna. Quel qualcosa che non ha bisogno di poggiarsi sui grandi sistemi di pensiero
creati da alcuni grandi uomini, quel qualcosa che senza sfide né
presunzioni permette a ciascuna donna di pensare la sua realtà e
agire in modo autentico, partendo da sé. Se si vuole che le donne
siano più presenti nella vita della comunità, occorre che i loro suggerimenti vengano ascoltati, che si dia fiducia ai loro presentimenti, che vengano accolte le loro emozioni e che le loro idee, per
quanto divergenti o apparentemente impossibili, vengano realizzate non meno di tante assurdità prodotte dagli uomini.
he cosa sarebbe la psicologia se Jung non avesse incontrato
Freud? Che cosa sarebbe la filosofia se Sartre non avesse
incontrato Simone de Beauvoir?
Che cosa sarebbe la nostra vita se non avessimo incontrato
quell’autore, quell’uomo o quella donna?
È lecito chiedersi se la vita simbolica, oltre che nei sogni, si
manifesti anche nella realtà sotto forma di coincidenze significative?
Due avvenimenti non collegati da nessuna causa, ma che tuttavia, accadendo simultaneamente, creano un senso per la persona che ne è soggetta... la sincronicità è senza dubbio uno dei
fenomeni psichici più affascinanti.
Questo libro, della sincronicità indaga innanzitutto la sfera relazionale. Parla degli incontri, sincronistici appunto, che fanno sì
che persone, autori e opere si presentino nella nostra vita in
momenti determinanti, acquisendo così un valore simbolico di
trasformazione. Vengono esaminati i processi psichici che si
manifestano sotto forma di motivi tematici o di inclinazioni che
ci attirano e ci conducono impercettibilmente verso una persona, un lavoro oppure un paese.
L’autore spiega in che modo possiamo approfondire il senso di
un avvenimento sincronistico e, per creare ipotesi interpretative,
fa ricorso anche a metafore tratte dalle scienze della complessità e dalla teoria del caos.
U
C
www.magiedizioni.com
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GENNAIO–APRILE
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Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi
Psicologia clinica
MARIA FELICE PACITTO
DAL SENTIRE ALL’ESSERE
I Gruppi d’Incontro, un approccio umanistico-fenomenologico-esistenziale
ai temi della sofferenza psichica e della crescita psicologica
PSICOLOGIA CLINICA – ISBN: 978-88-7487-211-4
C 20,00 – FORMATO: 14,5X21 – PAGG. 296
G
ruppi d’Incontro, un approccio terapeutico introdotto in Italia agli
inizi degli anni Settanta e finalizzato a facilitare la scoperta dell’interezza dell’organismo umano (emozioni, sentimenti, sensazioni, capacità
immaginativa), a favorire lo sviluppo di modalità comunicative soddisfacenti, a trovare un senso all’esistenza elaborando un progetto di vita,
sono il tema principale di questa trattazione.
Gli strumenti e le soluzioni operative di questo metodo sono sorretti da un
articolato sostrato teoretico. Il libro fa la storia dei Gruppi d’Incontro e della
Psicologia Umanistica, movimento all’interno del quale essi si sono sviluppati; della Psicologia Umanistica vengono ricostruiti lo sfondo culturale
americano e le connessioni con la filosofia fenomenologico-esistenziale e
con quella ermeneutica, sorte in Europa. Le trame filosofiche si intrecciano anche con i riferimenti alla ricerca psicologica contemporanea d’avanguardia (Infant Research) e a quella neuropsicologica (Damasio, Gallese),
mettendo in evidenza come le nuove scoperte in questi ambiti confermino intuizioni filosofiche, assimilate e fatte proprie dalla psicoterapia.
Dei Gruppi d’Incontro, indirizzati non solo alla persona afflitta da disagio
psichico o a chi affronta una problematica esistenziale, ma anche a chiunque voglia vivere in maniera più consapevole e piena, l’autrice presenta
gli obiettivi, l’intera procedura e la quasi totalità degli esercizi tradizionalmente utilizzati.
FABIO CARBONARI
INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO
PSICOLOGIA CLINICA – ISBN: 978-88-7487-222-0
C 12,00 – FORMATO: 14,5X21 – PAGG. 112
na rapida guida di riferimento alle
principali teorie inerenti lo sviluppo
umano (psicologia dello sviluppo, comportamentismo, psicoanalisi, epistemologia genetica, cognitivismo, neuroscienze
cognitive, approccio evoluzionista, ecologico, ecc.).
Senza pretese di esaustività, l’autore
guida il lettore in un percorso organico
di avvicinamento a una materia piuttosto
complessa.
Pur essendo unico e ben definito l’oggetto di studio – l’essere umano in evoluzione – sono molteplici gli approcci conosci-
U
tivi. Data l’articolazione stessa della
mente umana, questa non può essere
mai descritta da un’unica teoria, la quale
risulterebbe riduttiva, ma si può tentare
di spiegarla tramite la ricerca di sinergie
tra punti di vista e approcci diversi.
Tale articolazione non significa, quindi,
conflittualità interna alla disciplina psicologica, quanto capacità di rendere conto
della complessità umana.
In tal senso il libro fornisce al lettore
gli strumenti per avvicinare e comprendere i processi evolutivi nelle loro specificità e la persona nella sua globalità.
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COUNSELING PER I GENITORI
68
Responsabili del servizio
DOTT. FEDERICO BIANCHI DI CASTELBIANCO
DOTT.SSA MAGDA DI RENZO
Équipe composta da:
DOTT.SSA ANTONELLA BIANCHI - DOTT.SSA MARIA CARDONE - DOTT.SSA FLAVIA FERRAZZOLI
DOTT.SSA MARIA LUISA RUFFA - DOTT. BRUNO TAGLIACOZZI - DOTT.SSA ELIANA TISCI
DOTT. CARLO VALITUTTI - DOTT.SSA PAOLA VICHI
I
l counseling rivolto ai genitori sta sempre più assumendo, nel nostro servizio, connotazioni peculiari in riferimento
ai progetti terapeutici che rispondono all’esigenza del singolo bambino. La forma di aiuto rivolta ai genitori è contestualizzata in base a due parametri fondamentali: i problemi del bambino e la capacità del genitore di contenere, elaborare, predisporre nuove risposte nel rispetto delle singole personalità dei genitori e delle problematiche presenti.
Rispettando i livelli dei singoli genitori e le problematiche della famiglia vengono cioè proposti interventi mirati ad
affrontare specifici temi educativi o riflessioni sullo stile educativo, o elaborazioni di nodi complessuali che influenzano il rapporto con i propri figli nella convinzione che il bambino non può oltrepassare i limiti psicologici che gli
vengono inconsapevolmente imposti dai genitori. A tale proposito è risultato palese come la risoluzione di problematiche individuali/coniugali/genitoriali a qualsivoglia livello di approfondimento abbia consentito al bambino di attuare quel salto di qualità all’interno del suo specifico programma terapeutico, se non la sua definitiva risoluzione.
Accanto al counseling individuale è stata sempre più potenziata l’attività di gruppo. I gruppi dei genitori sono organizzati in parallelo alle attività terapeutiche di gruppo rivolte ai bambini. Due spazi terapeutici compresenti (la coincidenza degli orari favorisce la partecipazione dei genitori) che migliorano la comunicazione e la relazione tra i vari
partecipanti e fanno della stanza di terapia un luogo di interazione sociale, oltre che di elaborazione individuale e
collettiva. Un luogo, quello del gruppo, che consente di aprire a una dimensione collettiva di riflessione e condivisione del proprio vissuto problematico, spesso sentito come unico e indeclinabile e che si avvale del ruolo dello psicoterapeuta conduttore quale attivatore e fluidificatore della comunicazione, in grado di restituire ai singoli e all’intero gruppo il significato e il valore di una rinnovata consapevolezza.
Inoltre il lavoro parallelo dei due gruppi favorisce una migliore comprensione delle relazioni genitori-figli e uno scambio di importanti informazioni e riflessioni tra tutti i componenti dell’équipe terapeutica.
Il counseling come spazio
per una «triplice alleanza»
MARIA CARDONE
Psicologa e Psicoterapeuta, Istituto di Ortofonologia – Roma
È
possibile pensare al counseling rivolto ai genitori come a
una sorta di «spazio» dai molteplici significati e sfaccettature. Questo lavoro con i genitori, che affianca e si svolge in parallelo al trattamento del bambino o dell’adolescente, ha
come obiettivo generale quello di aiutare i genitori a investire in
modo adeguato i loro sforzi e le loro risorse nel percorso terapeutico del figlio, così che questa sinergia possa garantire nel
tempo il successo del trattamento stesso. Tale obiettivo, però, è
raggiungibile solo a patto che nel counseling si crei un particolare «spazio» mentale, affettivo e relazionale che permetta ai genitori di pensare, accogliere e comprendere i bisogni del figlio, sollecitando risposte adeguate nei suoi confronti. Il terapeuta che lavora con i genitori, in altri termini, cerca di ricostruire il figlio reale nella mente della madre e del padre, tentando da una parte di
coinvolgerli in un processo di comprensione empatica e, dall’altra, di attivare o di riattivare una «genitorialità positiva». Lo spa-
zio del counseling, quindi, si configura come uno spazio di sostegno e di contenimento all’interno del quale il genitore deposita prima ed elabora dopo una complessa costellazione di vissuti,
dubbi, conflitti, difese, fantasie e aspettative. È sempre all’interno di questo spazio che il genitore può esprimere fino in fondo le
sue richieste di aiuto, può sentirsi accolto nella sua ferita narcisistica legata al fatto di avere un figlio che ha bisogno di aiuto, può
sentirsi contenuto nel suo senso di vergogna e nei profondi vissuti
di incompetenza che lo portano a considerarsi responsabile del
sintomo del figlio. Commenti ricorrenti dei genitori che denotano chiaramente questi vissuti di inadeguatezza sono, per esempio: «È colpa mia se mio figlio sta male», «Con mio figlio ho sbagliato tutto», «Sono proprio una frana come genitore».
Il counseling è anche uno spazio d’incontro nel quale il genitore proietta sul terapeuta un ideale di competenza e di conoscenza totale rispetto all’allevamento del figlio e, proprio grazie
COUNSELING PER I GENITORI
69
a questa proiezione, si trova a vivere delle inevitabili regressioni che devono essere adeguatamente gestite dal counselor.
Attraverso la relazione con il terapeuta, il genitore può apprendere nuovi stili comunicativi, può sperimentare modalità relazionali più adeguate e gratificanti, può attribuire nuovi significati
alle esperienze vissute e condivise con il figlio. In questo spazio
di relazione, quindi, oltre al disagio e alla frustrazione si può sperimentare anche il cambiamento, oltre alla consapevolezza dei
propri limiti e fragilità ci si sente anche rinforzati nelle capacità
personali e della coppia genitoriale.
In virtù di tutti questi aspetti, lo spazio del counseling rappresenta quello che Winnicott (1971) definisce uno «spazio potenziale», uno spazio cioè dove la genitorialità si pone come area
intermedia tra il genitore e il bambino.
In uno spazio così definito, un posto di rilievo spetta all’alleanza terapeutica, perché è questo il prerequisito essenziale per
attuare un processo attivo e positivo di cambiamento e di trasformazione. Il concetto di alleanza terapeutica subisce una particolare estensione e ampliamento nell’ambito del lavoro con i
genitori in quanto lo scenario degli interlocutori si allarga: bambino/adolescente, madre, padre, terapeuta del bambino/adolescente. Il clinico si trova così costantemente a chiedersi dove deve collocarsi psichicamente e con chi deve stabilire l’alleanza. La
reale difficoltà e la sfida continua per il counselor che lavora con
i genitori, infatti, è proprio quella di mantenere la stessa distanza (emotiva e psichica) rispetto ai genitori e al bambino o all’adolescente, concedendosi allo stesso tempo una completa libertà
affettiva per sperimentare l’intera gamma di sentimenti controtransferali che inevitabilmente si attivano nel setting. A volte è
difficile evitare di identificarsi con l’una o con l’altra parte, oppure a volte si può sentire il forte impulso a diventare una sorta
di avvocato difensore che può di volta in volta schierarsi a favore del bambino/adolescente, o della madre, o del padre, o della
coppia genitoriale nel suo insieme. Per fronteggiare tutto ciò è
necessario più che mai lavorare utilizzando in modo consapevole il transfert e il controtransfert, modulandoli adeguatamente.
Nel counseling con i genitori il terapeuta deve sempre tenere a mente la centralità della relazione genitore-figlio e, di conseguenza, l’atteggiamento terapeutico deve essere caratterizzato
da un profondo rispetto per tale relazione nella sua complessa
mutualità. In questo delicato lavoro il terapeuta, secondo me, deve sempre sapere dove e quando fermarsi perché solo così può
evitare un senso di onnipotenza, e può scongiurare il pericolo di
manipolazioni e invasioni, più o meno inconsapevoli, di ruoli e
di setting. È opportuno, inoltre, avere un dialogo continuo e costante con tutti gli operatori coinvolti nel trattamento del bambino o dell’adolescente, evitando così il rischio di pericolose scissioni e collusioni. In questo senso, è come se parte del lavoro terapeutico con i genitori si svolgesse al di fuori del setting stesso.
Ricapitolando, possiamo affermare che lo spazio del counseling si configura, in realtà, come uno spazio per una «triplice
alleanza», nel senso che il counselor, oltre a creare l’alleanza terapeutica con i genitori, deve stabilire una sorta di alleanza interna anche con il bambino/adolescente e con il suo terapeuta.
Solo così sarà possibile la ricomposizione delle varie esperienze
in un quadro coerente e potenzialmente positivo per tutti gli interlocutori coinvolti.
Vorrei proporre, a questo punto, una breve situazione clinica
che racchiude in modo emblematico quanto fin qui descritto.
Da circa un anno seguo in counseling la signora S. con una
frequenza quindicinale. Qualche volta ho avuto modo di incontrare anche il marito, da solo o insieme alla moglie. Il loro bambino di tre anni e mezzo, Giulio, presenta problemi dello spettro
autistico ed è stato inserito in un particolare progetto terapeutico
che prevede settimanalmente la terapia ambulatoriale, la terapia
domiciliare, la nuototerapia, la pet-therapy e, inoltre, vengono
programmati incontri sistematici con la scuola materna dove il
bambino è inserito. Giulio ha una sorella maggiore di sette anni
che la signora S. ha avuto da un precedente matrimonio.
L’educazione di Giulio è stata particolarmente rigida per quanto
riguarda gli orari e le modalità dei pasti e del dormire, ed emerge chiaramente la difficoltà di entrambi i genitori a rapportarsi
con il figlio, a comprendere i suoi bisogni e a rispondervi in modo adeguato.
Quando ho incontrato la prima volta i signori S., mi ha subito colpito la dinamica interna della coppia e il loro modo di comunicare. Il marito si pone come il più competente tra i due, ten-
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COUNSELING PER I GENITORI
70
de a svalutare la moglie e a trattarla con sufficienza, spesso l’interrompe bruscamente mentre parla, prendendo lui la parola. È
molto difeso rispetto alla possibilità di frequentare il counseling,
dice che non potrà venire agli incontri per motivi di lavoro, ma
mi assicura che la moglie vi parteciperà perché «ne ha bisogno».
I pochi incontri ai quali è stato presente anche lui avevano un carattere «ufficiale», nel senso che era venuto per parlare di cose
importanti (per esempio, della diagnosi e del progetto terapeutico del figlio), come se implicitamente considerasse la moglie
poco attendibile e incapace di occuparsi di questi temi. Il signor
S., inoltre, focalizza tutta la sua attenzione sulla mancanza di linguaggio di Giulio, trascurando o minimizzando le altre evidenti difficoltà, come per esempio le sue continue stereotipie motorie e la forte chiusura rispetto alla relazione. Per quanto riguarda la moglie, invece, mi colpisce il fatto che lei cambi completamente atteggiamento a seconda se è da sola o in presenza
del marito. Quando sono presenti entrambi, la signora S. è molto più timorosa nel parlare, chiede quasi il permesso al marito,
e anche ciò che dice è sempre misurato, descrive la realtà in modo molto edulcorato, quasi non vedesse le reali difficoltà di
Giulio. Quando è da sola, invece, pur continuando ad avere un
tono di voce decisamente infantile, esprime però più liberamente i suoi pensieri e le emozioni, mostrando anche una certa
sensibilità nel comprendere il significato profondo di alcuni
comportamenti del figlio.
La prima fase del lavoro con la signora S., dopo aver chiarito le modalità e gli obiettivi dei nostri incontri, si è focalizzata
sulla spiegazione e, soprattutto, sull’accettazione emotiva della
diagnosi di autismo. Questa è stata una fase particolarmente delicata. Da una parte emergevano i profondi vissuti di sofferenza,
di colpa e di inadeguatezza della signora man mano che prendeva consapevolezza dei problemi e delle difficoltà di Giulio.
Dall’altra c’erano i miei vissuti controtransferali, altrettanto forti, soprattutto di irritazione per il suo modo di parlare e per una
sorta di «aggressività passiva» che emergeva dal suo modo di fare, modo di fare che era anche fortemente manipolatorio (la signora, infatti, era meno fragile e indifesa di quanto volesse fare
intendere). Queste reazioni controtransferali, condivise anche da
tutti gli altri operatori coinvolti nel trattamento di Giulio, potevano facilmente distorcere l’alleanza terapeutica con la madre e
potevano portarmi a degli interventi molto direttivi, trasformando così lo spazio del counseling in uno spazio in cui dare semplicemente indicazioni educative e pedagogiche. Ma, sicuramente la signora S. non aveva bisogno solo di questo.
Successivamente il lavoro del counseling è proseguito con
l’obiettivo specifico di aiutare la madre di Giulio a riconoscere i
segnali comunicativi, i bisogni e i desideri del figlio in modo da
rispondervi in modo sintonico. I genitori di Giulio, come ho già
accennato prima, tendevano a dare da mangiare al bambino o a
metterlo a letto a orari rigidamente prestabiliti, ignorando i segnali che lui poteva dare in questa direzione. La stessa cosa succedeva con le attività ludiche, nel senso che proponevano a
Giulio giochi che lui non gradiva affatto, o che non erano adatti
per quel determinato momento (per esempio, gli proponevano
giochi molto movimentati quando era stanco e assonnato). Lo
stesso tipo di difficoltà si riscontrava anche nella capacità dei genitori di riconoscere e di prendersi cura di un malessere, fisico o
emotivo, del bambino. La madre, inoltre, tendeva molto ad anticipare le richieste del figlio, a sovrapporsi a lui e a utilizzare mo-
dalità comunicative molto ridondanti ed eccessive che, probabilmente, ancora di più suscitavano in Giulio una chiusura rispetto alla relazione. La totale assenza di linguaggio del bambino rendeva, ovviamente, difficoltosa ogni modalità comunicativa e di interazione con gli altri e, come spesso accade con l’autismo, aveva creato una sorta di circolo vizioso annullando tutti
quei rinforzi positivi che gratificano il genitore e lo avvicinano
ancora di più al bambino.
L’obiettivo del counseling, quindi, era quello di aiutare la signora S. a superare il suo senso di frustrazione e a rapportarsi a
Giulio come a un individuo dotato di intenzionalità, di pensieri
propri e di specifici bisogni fisiologici ed emotivi.
Man mano che la donna esprimeva il suo disagio e il suo sentirsi inadeguata come madre e come individuo, si evidenziava
una sorta di regressione che la spingeva sempre di più ad affidarsi
allo spazio del counseling e a esplicitare una chiara richiesta di
aiuto, proiettando su di me un’ideale funzione materna. In questo spazio la signora S., attraverso la mia presenza costante e accogliente, ha potuto fare l’esperienza di essere accolta, contenuta e sostenuta. Simbolicamente è come se avessi «preso in braccio» la mia paziente e mi fossi presa cura totalmente dei suoi bisogni. Questa regressione, ovviamente, ha attivato anche una forte dipendenza e in varie occasioni è come se mi fossi trovata di
fronte a una bambina piccola, e non a una donna adulta.
In questa fase del lavoro con la signora S. è stato fondamentale il poter vivere quella «triplice alleanza» di cui parlavo prima.
Oltre a prendere simbolicamente in braccio la signora, infatti, dovevo riuscire anche ad allearmi con i bisogni emotivi del figlio e
ad accogliere le richieste concrete fatte dai vari operatori coinvolti nel trattamento di Giulio. Tutto ciò ha evitato che il counseling si trasformasse in una terapia personale della madre.
La particolare dimensione affettiva e relazionale del counseling, unita al lavoro terapeutico su obiettivi mirati, ha gradualmente portato a un cambiamento positivo, attivando nella signora S. una migliore capacità di prendersi cura di Giulio, di «ascoltarlo» e di rispettare i suoi tempi e i suoi desideri. La qualità della relazione tra madre e figlio sta notevolmente migliorando, la
signora S. inizia a vivere in modo più sereno e gratificante il suo
ruolo genitoriale e sempre di più riesce ad attribuire un significato ai comportamenti di Giulio e a sostenerlo nel suo percorso
terapeutico. La signora S., inoltre, si mostra sempre più attiva e
autonoma rispetto alla mia figura, come se avesse interiorizzato
lo spazio terapeutico del counseling e, di conseguenza, la sua capacità di riflettere e di lavorare sulle varie tematiche prosegue anche fuori dal setting, tra un incontro e l’altro.
Nonostante tutti questi significativi miglioramenti, il lavoro
terapeutico con la signora S. (e anche con Giulio) sarà ancora
lungo e complesso. Credo, però, che una tappa importante sia
stata raggiunta e ora si inizierà a lavorare su altri obiettivi specifici, potendo contare su questa «funzione materna» ritrovata.
BIBLIOGRAFIA
BINETTI P., BRUNI R., Il counseling in una prospettiva multimodale, Roma,
Edizioni Magi, 2003.
GIANNAKOULAS A., FIZZAROTTI SELVAGGI S., Il counselling psicodinamico,
Roma, Borla, 2003.
TSIANTIS J., BOETHIOUS S. B., HALLERFORS B., HORNE A., TISCHLER L. (2000),
Il lavoro con i genitori, Roma, Borla, 2002.
PROSPETTIVE PEDIATRICHE
71
Le caratteristiche
del comportamento alimentare
in adolescenza
PIETRO CAMPANARO
Medico Chirurgo-Nutrizionista, Specialista in Scienze dell’Alimentazione,
Collaboratore del Centro Regionale di Fisiopatologia della Nutrizione Giulianova – ASL Teramo
I
dati riguardanti il sovrappeso-obesità e i DCA (Disturbi
del Comportamento Alimentare) in adolescenza sono
abbastanza preoccupanti; circa un adolescente su cinque
ha problemi in tal senso. Nonostante le varie campagne di
informazione sulla corretta alimentazione e l’insegnamento
nelle scuole, non si assiste a un miglioramento della situazione. È come se le argomentazioni sull’alimentazione, seppur proposte e trattate in maniera scientifica e corretta, non
riescano a penetrare e a modificare alcuni comportamenti errati degli adolescenti per quanto riguarda il rapporto con gli
alimenti; sembra addirittura che si parlino lingue diverse!
Occorre allora immedesimarsi nel linguaggio degli adolescenti, a volte semplice e immediato, in altre molto complesso, per proporre temi di alimentazione corretta ed equilibrata stimolando la loro intelligenza attraverso riflessioni
«alla loro portata».
L’adolescenza è un periodo della vita compreso tra i 12 e
i 19 anni. Studi recenti parlano di un allungamento di questo
periodo tra i 9 e 24 anni, importantissimo per i cambiamenti
che si verificano nella persona; è la fascia di età più ricca di
cambiamenti a livello fisico, psichico ed emotivo, è l’età d’oro per fare prevenzione; un corretto «investimento» durante
l’adolescenza è un «bene» che dura tutta la vita.
Si può ben capire quanta importanza abbia l’alimentazione in questo periodo che seppure con alcune mediazioni, non
deve mai essere lasciata al caso. Volendo provare a definire
che cos’è l’alimentazione potremmo dire che è «l’introduzione di alimenti scelti, preparati e ingeriti in forme e modalità diverse, atte a soddisfare le esigenze energetiche e nutrizionali dell’organismo». Ecco la chiave di lettura: soddisfare
le esigenze dell’organismo con alimenti vari, preparati in forme accettabili e accettate dagli adolescenti, ascoltare le loro
esigenze e propone un’alimentazione «giusta» per loro, al
passo con i loro ritmi e con i loro tempi.
Tuttavia occorre fare molta informazione perché la «materia adolescente» si plasmi e diventi consapevole delle basi
di una corretta alimentazione; un adolescente, anche se apparentemente refrattario, ha molta voglia di «recepire», basta
parlare il suo linguaggio!
Osserviamo le immagini che seguono, accompagnate dalle domande. Apparentemente sono tre banali domande che,
rafforzate dalle immagini, attirano subito la curiosità dell’adolescente e stuzzicano la sua intelligenza a dare una risposta
o comunque, nella peggiore delle ipotesi, non lo lascia «re-
– Si può avere un bel fuoco che brucia senza mettere legna
nel caminetto?
– Si può costruire una casa senza cemento?
– È corretto mettere il Diesel in una Ferrari?
frattario e indifferente» di fronte all’argomento, sarà portato a
chiedersi che cosa gli voglia dire chi ha proposto queste domande.
Il corpo di un adolescente è come un caminetto che ha bisogno di tanta legna per «bruciare» molto, di tanto cemento
per costruirsi solido ed è anche come una Ferrari che ha bisogno del giusto «carburante» per andare a 300 all’ora.
Semplici considerazioni, banali se vogliamo, che spingono alle prime riflessioni su concetti molto più complessi riguardanti i fabbisogni di un adolescente, il metabolismo, ecc.
•
Quando si salta un pasto (specie la colazione) non si mette la legna e il corpo non ha energia da bruciare.
PROSPETTIVE PEDIATRICHE
72
•
•
Quando non si introducono abbastanza minerali e vitamine la struttura non viene su solida.
Quando gli alimenti che si mangiano sono sbagliati il
«motore» si ingolfa e la macchina non corre velocemente.
Altre considerazioni che mettono in evidenza in maniera
molto semplice gli errori fondamentali più comuni dell’alimentazione di un adolescente e lo fanno riflettere sulla propria alimentazione. È giunto il momento di chiarire e approfondire per i più «curiosi» alcuni di questi concetti fondamentali espressi.
Cominciamo dal metabolismo. Tutta la complessità della
materia può essere riassunta in pochi sintetici concetti: il metabolismo è l’energia utilizzata da un individuo a riposo, in
uno stato termico neutrale, a digiuno da 12-14 ore, in condizioni di totale rilassamento psicologico e fisico, esso corrisponde al 60-75% della spesa energetica totale ed è l’energia
utilizzata dall’organismo per compiere i lavori interni necessari al mantenimento del corpo, cioè quello che l’organismo
consuma per mantenersi «acceso al minimo». Ma per potersi
mantenere «acceso al minimo» un organismo, come il fuoco,
ha bisogno di un «minimo di legna».
Affrontiamo ora la questione dei fabbisogni di un adolescente. Quasi tutti hanno una cultura sulle diete, quasi nessuno sa quali sono i propri fabbisogni. Il fabbisogno di energia
di un adolescente dipende dalla fascia di età:
MASCHI
13-15 anni
16-17 anni
18-20 anni
2550
2800
3050
FEMMINE
2150
2200
2150
Fonte LARN (Livelli di Assunzione Raccomandabili di Nutrienti
per la popolazione italiana)
Tanti adolescenti che stanno a «dieta» introducono molto
meno del fabbisogno quotidiano per paura di ingrassare (il
fuoco non arde), altri molto di più, ma alimenti non utili ai
fabbisogni dell’organismo (il motore si ingolfa con un carburante non adatto).
Arriviamo al punto dell’alimentazione equilibrata; molto
si è detto e molto si è proposto per promuovere un modello di
alimentazione equilibrata. Anche in questo caso, semplificando al massimo, possiamo dire che l’alimentazione equilibrata deve essere caratterizzata da una giusta proporzione tra
i nutrienti:
Carboidrati
Grassi
Proteine
55-60%
25-30%
10-15%
e da una corretta ripartizione dei nutrienti nell’arco della
giornata:
tico? Niente di più semplice! Basta alimentarsi prevalentemente con pane, pasta, riso, biscotti, fiocchi di cereali (carboidrati 55-60%), non mangiare troppi secondi (proteine 1015%), un secondo nell’arco della giornata può bastare, e fare
un po’ attenzione ai condimenti (grassi 25-30%) con qualche
trucchetto e senza nulla togliere al gusto.
Fare una buona colazione, un buon pranzo e una cena non
troppo pesante. Poche e semplici regole per attuare un’alimentazione equilibrata e una corretta ripartizione dei nutrienti, il resto lo fa l’organismo dell’adolescente che con il
suo metabolismo può andare a «300 all’ora»!
Le proposte di alimentazione per un adolescente non devono mai essere impositive, conviene invece indicare delle
corrette tracce da seguire, lasciando allo stesso le scelte da effettuare senza vietare i «cibi da adolescenti». Di seguito sono
riportate alcune «tracce» per i vari momenti della giornata e
alcune considerazioni sugli errori più comuni.
COLAZIONE
•
•
Liquidi: latte, tè, caffè, latte di soia, latte di riso, succo
(migliorano la funzionalità intestinale, reintegrano la perdita di liquidi durante il sonno).
Alimenti prevalentemente carboidrati: pane, fette biscottate, cereali, dolci casalinghi, biscotti casalinghi, ecc.
(danno energia per affrontare la giornata).
Saltare la colazione o prendere solo un caffè crea un notevole stress al corpo, non fa attivare correttamente il metabolismo riducendo il consumo calorico, predispone a una fame e a un assorbimento maggiore nei pasti successivi.
SPUNTINO DEL MATTINO E MERENDA
•
•
Liquidi: tè, caffè, succo.
Alimenti: piccolo panino, crackers, barretta di cereali, biscotti da forno, gelato piccolo, yogurt gelato.
Reintegra il calo fisiologico delle energie, contribuisce ad
attenuare la fame a pranzo e a cena.
PRANZO
•
Primo: (piatto prevalente) pasta, riso, minestra, pasta e legumi, o pane in equivalenza al primo per chi fa pranzo al
sacco.
• Secondo: se occorre piccoli quantitativi.
• Contorno: (importantissimo e preferibilmente crudo) insalata, ortaggi, verdure cotte.
• Pane: modeste quantità.
• Frutta: di stagione, modeste quantità (1 frutto).
Errori più comuni del pranzo:
– consumare prevalentemente secondi (le proteine affaticano la digestione);
– mangiare solo primo e frutta (tende a far ingrassare).
CENA
Colazione e spuntino mattina
Pranzo e merenda
Cena
15-25%
40-45%
35-40%
Concetti molto complessi da far paura perfino a un matema-
•
•
•
•
Secondo: (piatto prevalente) carne, pesce, uova, affettati,
formaggi, ecc., in rapporto alla struttura fisica.
Contorno: (importante) insalata, ortaggi, verdure cotte.
Pane: quantità medie.
Frutta: di stagione, modeste quantità (1 frutto).
PROSPETTIVE PEDIATRICHE
73
La pizza può sostituire una cena completa.
Gli errori più comuni della cena:
– consumare prevalentemente carboidrati (affatica la digestione);
– mangiare grosse porzioni di secondo (aumenta l’apporto
di grassi e le proteine non utilizzate vengono trasformate
in grasso).
molto zuccherine, consumarne una quantità elevata è come
mangiare tanti dolci, conviene berne al massimo 1-2 bicchieri o 1 lattina al giorno.
ALCUNI TRUCCHI ALIMENTARI «GIUSTI»
L’hamburger è meglio senza sottiletta o formaggio e con poche salse (più è «carico» più è difficile da digerire e ingolfa il
motore).
Per chi pratica attività fisico-sportiva è importante che prima
dell’attività (60-90 min.) vengano introdotte energie sotto forma di carboidrati (maltodestrine) per favorire la prestazione
fisica, il consumo di energia e di grassi e preservare la massa
muscolare: pane e marmellata o cioccolata, crostata di frutta,
dolci da forno sono l’ideale.
Sicuramente i dolci e la cioccolata non sono da colpevolizzare, vanno considerati gratificazioni e si possono consumare facendo attenzione a non eccedere nelle quantità e soprattutto dopo aver garantito all’organismo tutti i nutrienti
fondamentali. Non ci si deve «saziare» con i dolci! ♦
I.I.W. ISTITUTO ITALIANO WARTEGG
Fondatore e Presidente: Prof. Alessandro Crisi
Nella scelta delle salse per insaporire un alimento meglio il
ketchup (100 calorie per 100 grammi) che la maionese (650
calorie per 100 grammi).
L’I.I.W. propone in ambito Clinico, della Selezione, dell’Orientamento e della
Ricerca una nuova modalità di interpretazione del Test di Wartegg
completamente originale e innovativa rispetto a quella proposta dal suo
ideatore Ehrig Wartegg. Tale metodica che, a partire dal 2002 è stata
introdotta nei Reparti Selezione della Marina Militare, dell’Esercito
Italiano e della Polizia di Stato, si avvale anche di specifici software
realizzati per soddisfare le diverse esigenze di ciascun ambito di applicazione.
L’I.I.W. opera a Roma offrendo i seguenti servizi:
1. ATTIVITÀ DIDATTICA
Accreditato presso il Ministero della Sanità, oltre alla formazione specifica
sul nuovo metodo d’interpretazione del Wartegg, l’I.I.W. organizza corsi di
formazione per Psicologi e Psichiatri su:
• l’uso clinico di una Batteria di Test (Prove Grafiche, Wartegg, M.M.P.I.-2
e W.A.I.S.-R);
• singoli test quali il Rorschach; la WAIS-R; l’MMPI-2.
La pizza meglio mangiarla a cena, possibilmente con le verdure e non abbinarla alle patatine fritte, il tutto diventa troppo difficile da digerire e tende a far ingrassare.
2. APPLICATIVO
L’I.I.W. mette in vendita il materiale per l’utilizzo della nuova metodica e
precisamente:
• schede per la somministrazione individuale o collettiva (copyright IIW);
• software per la valutazione computerizzata del test in ambito Clinico, della
Selezione e dell’Orientamento (copyright IIW).
3. SERVIZIO DI SCORING
Possono essere inviati protocolli Wartegg che l’I.I.W. provvede a siglare per
poi stilare un profilo computerizzato differenziato per il contesto Clinico,
della Selezione o dell’Orientamento.
Le bevande gassate (coca, aranciata, gassosa, ecc.) sono
Maggiori informazioni possono essere richieste presso:
Segreteria: 06.56.33.97.41 (il Ma, Me e Ve h 16-19)
www.wartegg.com
email: [email protected]
PROSPETTIVE PEDIATRICHE
74
La disabilità vista da un
medico degli adolescenti
GIUSEPPE RAIOLA
U.O.S. di Auxoendocrinologia e Medicina dell’Adolescenza, U.O. di Pediatria,
A.O. «Pugliese-Ciaccio» – Catanzaro
L
e testimonianze dei genitori e di tutti coloro che quotidianamente agiscono in favore dei disabili favoriscono
una maggiore consapevolezza delle varie problematiche
che si debbono affrontare in un’epoca, quale la nostra, d’iperindividualismo esasperato. È chiaro come lo sforzo da fare sia
quello di favorire processi d’integrazione in un ambiente
costruito intorno al concetto di «normalità».
Le prove alle quali sono sottoposti i genitori di ragazzi
diversamente abili sono dure ed estremamente difficoltose, non
solo per le insuperabili «barriere mentali» della nostra società,
ma anche per i conti che ognuno di loro deve fare con i sensi di
colpa. Si avverte l’inquietudine che pervade queste famiglie e
quella sensazione di sentirsi reciprocamente inadeguati.
Ognuno di questi ragazzi ha una sua identità, delle peculiarità, delle insperate risorse, ma anche dei limiti; comunque
ognuno di loro è una risorsa, con una propria storia di vita, un
proprio percorso evolutivo, una modalità relazionale, una rete
di legami, una propria organizzazione e un proprio equilibrio,
che per quanto diversi o destrutturati sono comunque i suoi. Si
dovrà prendere coscienza che la persona diversamente abile ha
una sua elaborazione della realtà che non è ridotta rispetto alla
nostra, ma strutturalmente diversa. Assodato ciò, le famiglie,
sostenute dalla società, dalle istituzioni, devono iniziare questo
lungo e tortuoso cammino intrapreso con la volontà di rendere
autonomo il ragazzo. Ma la tentazione di caricare sulle proprie
spalle il ragazzo con tutto il fardello di difficoltà e amarezze è
grande! Forse sarebbe più comodo, meno frustrante o forse
darebbe la sensazione di giusta espiazione della «presunta»
colpa.
Inoltre, questi genitori conoscono molto bene il valore di
un cammino condiviso, fatto di brusche o impercettibili accelerazioni, ma anche d’interminabili rallentamenti; ma tutto
ciò deve essere fatto necessariamente «insieme» con la speranza che anche gli altri capiscano e accettino. Ma perché gli
altri accettino è necessario che avvenga una rivoluzione culturale nella società, alla cui base deve esservi «l’integrazione» e la responsabilità sociale; la società deve essere consapevole del fatto che il diversamente abile o viene collocato al
suo centro o non sta da nessuna parte. Senza assunzione di
responsabilità sociale, oltretutto, non può esistere cura della
persona con «disabilità», che viene quindi vissuta come
costo, problema; senza cura delle relazioni verso la persona
diversamente abile non c’è responsabilità sociale, ma azione
adempitiva di cose dovute e servizi necessari.
Sullo sfondo di questo progetto emerge la volontà di
prendersi cura della disabilità non come un problema, ma
come una dimensione della vita; ciò ha permesso di ridisegnare il valore dell’umanità del singolo, che non può mai
essere svincolata dalla sua dimensione sociale.
È ormai evidente come l’elevata qualità deve contraddistinguere l’impegno dell’associazionismo e del volontariato;
solo attraverso la qualificazione di questi soggetti si potrà
garantire ai nostri ragazzi un adeguato supporto «abilitativo»
in grado di permettere un loro graduale e stabile inserimento
sociale.
Il mio lavoro mi porta, quotidianamente, a incontrare giovani con malattie e con disagi più o meno gravi; grazie all’insegnamento quotidiano fornitomi da questi ragazzi (e dalle
loro famiglie) ho imparato a considerare la sofferenza e le
difficoltà come maestre di vita, ragion per cui i malati, le persone diversamente abili, ma anche i poveri e persino i tossicodipendenti, appaiono come entità, come centri di sapere. E
allora, chi più soffre più sa.
Da diversi anni collaboro con alcune associazioni di
volontariato la cui attività è volta all’assistenza di giovani
soggetti con disabilità; l’essermi inoltrato in questo particolarissimo settore ha contribuito notevolmente alla mia crescita
professionale e umana. Per tutto ciò sono a loro molto grato.
Credo che il miglior modo per concludere questo mio breve
intervento sia quello di citare una bellissima frase di Mario
Capanna tratta dal libro Speranze: «È giunto il momento di
considerare il presente in base al futuro, più che in relazione al
passato!».
Solo così daremo corpo ai sogni e ai diritti dei nostri
ragazzi. ♦
APPROCCIO PSICOPEDAGOGICO ED ESPERIENZE CLINICHE
77
Il mondo sconosciuto
della Pet Therapy
Le Terapie Assistite con il cane: definizione, metodologia e finalità
FRANCESCA ALLEGRUCCI
Responsabile scientifico dell’ANUCSS (Associazione Nazionale Utilizzo del Cane per Scopi Sociali)
BARBARA SILVIOLI
Psicologa dell’età evolutiva, ANUCSS
L
a tendenza dell’uomo a servirsi degli animali per gli
scopi più disparati e a vivere a stretto contatto con essi
è diffusa in tutte le culture e società. Tale tendenza è legata al principio del benessere psico-fisico, che ha come punto d’origine il rapporto affettivo che l’animale è in grado di instaurare con l’essere umano.
Il rapporto uomo-animale alle origini fu favorito dalla somiglianza delle rispettive strutture sociali, in quanto entrambi
vivevano in gruppi e cacciavano gli animali, formando vere e
proprie bande.
Varie sono le ipotesi che cercano di spiegare come siano
nati i primi contatti tra l’uomo e il cane; quella più accreditata ipotizza un incontro casuale, probabilmente durante la caccia, con dei lupacchiotti che una volta portati nella dimora
umana avrebbero interagito con l’essere umano, e in particolare con i bambini e da lì sarebbe cominciata la prima domesticazione. In effetti diversi sono i documenti storici dai quali
è possibile affermare che la relazione tra l’uomo e il cane è basata su un legame atavico, legame che coinvolge diversi
aspetti: cane come collaboratore per la caccia e quindi per la
sopravvivenza della specie, cane come oggetto da venerare
avente funzioni magiche e propiziatorie, cane come compagno
con cui avere uno scambio affettivo sereno e gratificante.
ESORDI DELLA PET-THERAPY
La storia dell’utilizzazione degli animali come coadiuvanti alle normali terapie mediche può essere fatta risalire già al tempo della preistoria. Il gran numero di animali citati nella mitologia e i numerosi dipinti di domesticazione degli animali provano che l’interazione tra l’uomo e l’animale in realtà non è
frutto di nuove scoperte ma che tale rapporto è esistito da sempre.
I primi resoconti documentati risalgono al 1792 quando in
Inghilterra, presso il York Retreat Hospital, lo psicologo
William Tuke, insieme ad alcuni suoi collaboratori, incoraggiò
i suoi pazienti malati di mente ad accudire gli animali per potenziarne l’autocontrollo e lo scambio affettivo. Nel 1942 il
Pawling Army Air Force Convalescent Hospital utilizzò gli
animali da compagnia, ritenendoli efficaci nel modulare positivamente lo stato psichico dei pazienti. Nel 1970 presso
l’Ospedale Psichiatrico Infantile del Michigan venne adottato
un cane come sostegno psicologico per i bambini ricoverati.
La Pet-Therapy nasce in America grazie al neuropsichiatra
infantile Boris Levinson, il quale notò che la presenza del proprio cane aveva effetti positivi durante le sedute con i suoi piccoli pazienti. Documentò il modo in cui l’animale da compagnia fungeva da «ponte» tra il professionista e il paziente, favorendo il costituirsi di un’alleanza terapeutica e fornendo al
paziente la motivazione a partecipare attivamente al processo
terapeutico stesso. L’animale forniva al bambino la possibilità
di proiettare il proprio mondo interiore, difficilmente esprimibile, ed era occasione di scambio affettivo e di gioco che rendevano più gradito l’incontro terapeutico.
Grandi personalità nel campo della ricerca psicologica ed
etologica, come Bowlby e Lorenz, sottolineano l’importanza
dello scambio affettivo ed emozionale per il benessere e la salute di un individuo, e sono proprio queste le variabili principali che entrano in gioco nella relazione uomo-animale.
Secondo Guttaman gli animali esercitano un effetto positivo anche a livello dei processi comunicativi, aiutando il bambino a superare il delicato passaggio dal linguaggio orale al
linguaggio scritto.
Molti psicologi hanno compiuto osservazioni per verificare l’utilità pratica dell’impiego della Pet-Therapy. In un’indagine condotta negli Stati Uniti, su oltre 400 psicoterapisti la
maggior parte di essi ha affermato di avere utilizzato tale approccio, soprattutto con i bambini. Bernard (1989) ha rilevato,
su bambini mentalmente ritardati, l’effetto maggiormente stimolante della presenza di un cane rispetto a un giocattolo.
Analogamente Pellettier (1989) ha ipotizzato come la presenza di un animale familiare potesse determinare in bambini affetti da Sindrome di Down uno sviluppo significativo di comportamenti sociali positivi verso l’animale e una diminuzione
significativa di comportamenti sociali negativi.
Il meccanismo che entra in gioco in questi casi è semplice:
l’animale, attraverso il gioco e la comunicazione non verbale,
esercita sui bambini difficili, nei momenti più critici dello sviluppo, una funzione sia educativa che terapeutica.
DIFFERENZE TRA AAA, TAA, EAA
Pet Therapy – in italiano Uso Terapeutico degli Animali da
Compagnia (UTAC) – è un termine generico che indica un supporto ai metodi di cura che interessano alcune patologie con
l’ausilio degli animali. Tale termine, se da un lato ha il vantaggio di essere breve e facilmente memorizzabile, nasconde ambiguità che possono dare adito a fraintendimenti concettuali:
APPROCCIO PSICOPEDAGOGICO ED ESPERIENZE CLINICHE
78
non fa capire bene chi sia il fruitore della terapia, se l’uomo o
l’animale, e può far pensare che si utilizzino esclusivamente
animali da compagnia come cane o gatto. In realtà in questo tipo di interventi «l’elemento terapeutico» è la relazione che l’animale è in grado di instaurare con l’essere umano e l’uomo è
il «fruitore» dell’intervento. Gli animali utilizzati negli interventi sono molteplici e variano a seconda delle specifiche esigenze (cavallo, delfino, cane, animali da cortile, gatto, ecc.).
La Pet Therapy si presenta sotto diverse forme: le Attività
Assistite con gli Animali (AAA), le Terapie Assistite con gli
Animali (TAA), l’Educazione Assistita con gli Animali (EAA).
Non sempre la linea di confine tra queste tipologie risulta chiara. Sebbene diverse ricerche abbiano dimostrato che il contatto con gli animali – per gli input emotivo/sensoriali gioiosi e
rilassanti che offre – di per sé può avere effetti terapeutici dal
punto di vista psicofisiologico, non sempre si può parlare di
Pet Therapy. Da questo punto di vista anche l’adozione di un
animale domestico ha un risvolto «terapeutico», che costituisce un apprezzabile plusvalore, ma non si tratta di Pet Therapy.
Altra confusione molto diffusa è quella che ha indotto a definire «terapie» iniziative che, per l’assenza di una precisa intenzionalità terapeutica e delle necessarie figure professionali, si pongono piuttosto nel campo delle «attività» con animali (Giuseppini, 1997).
ATTIVITÀ ASSISTITE CON GLI ANIMALI (AAA)
Le Attività Assistite con gli Animali (AAA) consistono in attività
di tipo ricreativo e rieducativo che mirano a migliorare la qualità della vita incrementando, per mezzo dell’animale, lo stato
generale di benessere di alcune categorie di persone. Per esempio gli anziani o i malati terminali soffrono spesso a causa della solitudine in cui il loro status li costringe. Un animale in questo caso offre amicizia, compagnia, è fonte di allegria e spesso
stimola e motiva al gioco e alle passeggiate che, a loro volta, facilitano i contatti sociali. L’AAA si esprime in una varietà di
azioni condotte da professionisti, paraprofessionisti e volontari in associazione con animali che presentano determinate caratteristiche e criteri (ovviamente il personale deve possedere
specifiche conoscenze sugli animali e sulla popolazione con cui
interagisce). L’AAA può essere sia attiva-diretta, prevedere
cioè il contatto fisico con l’animale, che attiva-indiretta.
Nell’ultimo caso la persona, pur non toccando l’animale, trae
ugualmente benefici dalla sua presenza, dall’osservarlo e/o dai
suoni da lui emessi. A tal riguardo ricordiamo gli esperimenti
condotti presso studi dentistici dove l’introduzione di un acquario, in alcuni casi, ha addirittura evitato il ricorrere all’anestesia nel curare i pazienti: la varietà dei colori, il rincorrersi dei
pesci, il simpatico suono prodotto dalle loro bollicine provoca,
infatti, uno stato di relax profondo e intenso.
Gli obiettivi principali delle AAA sono quelli di favorire la
socializzazione e fornire agli utenti un momento di svago e divertimento.
A differenza delle Terapie Assistite con gli Animali, le AAA
non hanno obiettivi specifici programmati per ogni sessione;
gli operatori, siano questi professionisti o volontari, non sono
obbligati a raccogliere informazioni durante gli incontri, che
vengono gestiti con spontaneità e la cui durata non è rigidamente programmata.
LE TERAPIE ASSISTITE CON GLI ANIMALI (TAA)
Le Terapie Assistite con Animali, sono interventi finalizzati a
curare la salute psicofisica degli individui. Si tratta di co-terapie
rivolte a persone con problemi fisici e/o psichici, da affiancare
ad altre cure. Viene precedentemente realizzato un progetto individualizzato, attraverso un’équipe multidisciplinare che collabora alla stesura, verifica e messa in opera del progetto stesso.
Tale intervento prevede innanzitutto la scelta dell’animale adatto in base allo scopo da raggiungere.
Le TAA sono interventi co-terapeutici che hanno lo scopo di
promuovere e migliorare le funzioni fisiche, sociali, emozionali e cognitive dell’uomo; gli animali vengono utilizzati a scopo
terapeutico, nelle scuole, nelle prigioni, negli ospizi, negli ospedali, nei programmi di recupero per tossicodipendenti o per la
riabilitazione di persone affette dal virus dell’HIV, da spina bifida, dal Morbo di Alzheimer, da sindrome di Down, da autismo,
ecc. Essendo obiettivo di una co-terapia quello di inserirsi all’interno di un progetto terapeutico più ampio, al fine di contribuire a migliorare alcuni deficit legati alla patologia, o ridurre gli
effetti negativi della salute del paziente, rispetto alle attività
svolte con l’ausilio degli animali (AAA), le Terapie Assistite con
gli Animali agiscono su una malattia che è stata diagnosticata seguendo un preciso protocollo terapeutico.
Dunque quello che distingue le Attività Assistite con gli
Animali dalle Terapie è che le seconde prevedono necessariamente la collaborazione di molteplici figure professionali (dal
neurologo al fisiatra, dallo psicologo al pedagogista, ecc.) che
sono in grado di sfruttare al meglio le potenzialità del cane, dell’utente e della loro relazione; prevedono, inoltre, la presenza di
una progettazione specifica in grado di garantire che l’attività tra
l’animale e l’utente non avvenga per caso, solo per il fatto che
essi interagiscono spontaneamente tra di loro. Centrale sarà
quindi il «come» essi interagiranno, in modo che i risultati ottenuti siano stati in un certo senso programmati e attesi. Infine, altra sostanziale differenza è che mentre i risultati delle AAA non
vengono misurati ed osservati empiricamente, nel caso delle TAA
è prevista la raccolta dei dati e la sperimentazione al fine di effettuare una valutazione in termini di processo e di esito.
EDUCAZIONE ASSISTITA CON L’AUSILIO DI ANIMALI
(EAA)
L’EAA è una forma di educazione mediata dall’animale di tipo prettamente ludico, costituita da incontri che coinvolgono
gli animali, appositamente preparati in contesti educativo-formativi. Per il bambino l’animale riveste un ruolo affettivo notevole, grazie alla capacità relazionale dell’animale stesso,
che permette un continuo scambio emozionale.
Con l’animale i bambini instaurano un rapporto mimico e
gestuale, riscoprendo la capacità non verbale di comunicazione e affinando la propria sensibilità e ricettività ai segnali
esterni di piacere e di stress del compagno di giochi; questi
rappresentano tutta una serie di fattori fondamentali anche
nella vita sociale tra coetanei e adulti, quindi necessari per una
strutturazione equilibrata della personalità.
ANIMALI IMPIEGATI IN PET THERAPY
Gli animali che vengono solitamente coinvolti nella Pet
APPROCCIO PSICOPEDAGOGICO ED ESPERIENZE CLINICHE
79
Therapy sono: asini, capre e mucche; criceti e conigli; uccelli; pesci; delfini; cavalli; gatti; cani.
•
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Criceti, conigli: sono animali molto diffusi nelle nostre case,
perché piccoli e gestibili molto facilmente. Osservare, accarezzare, prendersi cura di questi animaletti può arrecare
grande beneficio soprattutto ai bambini che stanno attraversando una fase difficile nella loro crescita.
Uccelli: in particolare è stato rilevato l’effetto benefico derivato dal prendersi cura di questi animaletti.
Pesci: è stato constatato che l’osservazione dei pesci di un acquario può contribuire a ridurre la tachicardia e la tensione
muscolare, avendo una forte capacità rilassante.
Delfini: in Pet Therapy occupano un posto privilegiato.
Risultano particolarmente efficaci per pazienti affetti da depressione e disturbi della comunicazione, e soprattutto per i
pazienti autistici, aiutandoli a uscire, almeno parzialmente dal
proprio isolamento. Purtroppo i costi proibitivi delle strutture e del mantenimento degli animali impediscono l’utilizzo
più ampio dei benefici di questa terapia.
Il contatto con i delfini stimola inoltre la motivazione, l’aumento di fiducia, la capacità motoria e comunicativa, la capacità di memorizzare e di elaborare concetti.
Non dimentichiamo inoltre che il luogo in cui viene effettuata
fornisce un feedback positivo cinestesico e di riduzione dello stress.
Cavallo: la terapia per mezzo del cavallo viene identificata
come ippoterapia. Con questo termine intendiamo un insieme di attività equestri eseguite con una finalità terapeutica,
diretta ai disabili fisici, psichici o con diverse problematiche
socio-relazionali.
Interessa diverse aree:
– sviluppo e potenziamento muscolare;
– orientamento spaziale;
– abilità visuo-spaziali semplici e complesse;
– integrazione relazionale.
Nell’ambito dell’ippoterapia si riconoscono generalmente quattro fasi denominate: 1) ippoterapia; 2) riabilitazione
equestre; 3) fase presportiva; 4) fase sportiva.
Non tutti i pazienti raggiungono la fase della riabilitazione,
data la gravità della loro disabilità.
Si distingue nettamente la pratica sportiva per disabili, che
non agisce specificatamente sulla menomazione e la disabilità, pur avendo un effetto favorevole sulla persona disabile.
Gatto: per le sue caratteristiche di indipendenza e facilità di
accudimento, lo si preferisce per persone che vivono sole e
che non sono agevolate negli spostamenti.
Cane: l’utilizzo del cane nella Pet Therapy è fortemente privilegiato poiché possiede caratteristiche che gli consento di
avere una grande capacità di relazionarsi con l’ambiente e
con l’essere umano in modo del tutto particolare.
POTENZIALITÀ DELL’IMPIEGO DEL CANE NEI
PROGRAMMI DI AAA E TAA
Laddove la capacità di comunicazione e/o di relazione tra uomo
e uomo sono compromesse, il contatto con l’animale – caratterizzato da immediatezza, spontaneità, assenza di giudizio o critica – permette al paziente di superare molti timori e percezioni
di inadeguatezza. La fiducia e l’apprezzamento incondizionato
che mostra il cane favorisce nel paziente lo sviluppo di un senso
di sé positivo.
L’aspetto più immediatamente corporeo del contatto ha un
importante effetto su tutto l’apparato psicomotorio. Giocare con
un cane significa essere stimolati a camminare o correre insieme
a lui, lanciare e recuperare oggetti, rincorrerlo, toccarlo, accarezzarlo. Significa anche relazionarsi con l’animale, tenendolo in
grembo, sedendosi o sdraiandosi vicino a lui, sentendo il calore
e la morbidezza del suo pelo, apprezzando i colori e gli odori del
manto, riuscendo a comprendere le espressioni e i diversi segnali che ci invia di gratificazione, di fastidio, di richiesta, ecc.
Si tratta di interazioni complesse, che coinvolgono l’apparato motorio-percettivo, così come quello emotivo-affettivo, che
sviluppano la consapevolezza del «proprio essere nel mondo» e
del proprio io-corporeo, favorendo l’evoluzione spontanea di capacità e conoscenze necessarie alla relazione.
Il cane, inoltre, è in grado di riconoscere la disabilità della
persona con handicap, e riesce pertanto a modulare naturalmente il suo comportamento in modo da rispettarne le caratteristiche,
esso è in grado di decidere quale comportamento adottare a seconda delle circostanze. A differenza dell’uomo, però, non dà un
giudizio di valore su tali diversità: il suo comportamento non è
influenzato da pregiudizi o implicazioni morali che possono condizionare negativamente i rapporti con gli umani. Certi aspetti
quali un’eccessiva salivazione, forti odori, stridii e vocalizzi particolari, stereotipie comportamentali – che solitamente generano
distanza nel rapporto tra esseri umani – sono elementi abituali nel
mondo comunicativo-relazionale dei cani e quindi non solo non
generano reazioni di rifiuto o fuga ma, spesso, ne catalizzano l’attenzione e l’interesse. La presenza dei deficit fisici, sensoriali e/o
psichici spesso non è d’ostacolo alla comunicazione, in quanto il
cane è capace di interagire a qualsiasi livello di gravità del soggetto e lo fa utilizzando soprattutto la corporeità e il linguaggio
non verbale.
A livello cognitivo il cane può essere utilizzato per stimolare un bambino a contare le sue zampe o il numero di volte in cui
riporta una palla; può insegnargli a rispettare i tempi di attesa tra
un esercizio e l’altro, ecc.
A livello motorio il cane può stimolare azioni quali il correre o il lanciare oggetti, può accrescere la consapevolezza dell’intensità del tocco e favorire il coordinamento oculo-manuale,
accarezzandolo o porgendogli un biscotto.
L’orientamento spaziale può essere sviluppato prevedendo la
direzione in cui il cane correrà per recuperare l’oggetto o individuando la sua posizione rispetto al paziente.
La presenza del cane, a livello della socializzazione, intensifica la comunicazione verbale e le interazioni con le altre persone, si tratti dell’operatore, del terapeuta o di chiunque altro partecipi alle attività con l’animale.
Per quanto riguarda l’autonomia, l’acquisizione di capacità di
accudimento, anche così semplice come dare il cibo o spazzolare l’animale, rendono il paziente molto più sicuro di sé e disponibile all’apprendimento di autonomie inerenti la propria vita
quotidiana e l’autogestione. La presenza di un forte polo di attrazione come il cane è insostituibile: accentra a lungo l’interesse e aiuta a memorizzare e integrare apprendimenti diversi. Ed è
proprio in virtù delle innumerevoli sollecitazioni che nascono
dalla relazione con l’animale e che offre a tutti i livelli, fisici e
Istituto di Ortofonologia
Centro per la diagnosi e terapia dei disturbi della relazione e della comunicazione
Accreditato con il SSN • Sede di aggiornamento professionale
Aggiornamento professionale per gli insegnanti
scuola dell’infanzia – scuola primaria – scuola secondaria di primo grado
(autorizzazione MIUR – Ufficio Scolastico Regionale per il Lazio – Decreto prot. n. 7961 del 15/06/05)
• ANNO SCOLASTICO 2007/2008 •
CITTADINI DEL MONDO!
IMPARARE CON IL CORPO
• Analisi delle problematiche relative all’integrazione scolastica
del bambino e dell’adolescente immigrato.
• La progettazione e la gestione di azioni educative specifiche.
• La programmazione di Unità Didattiche di Apprendimento.
• La riflessione metaculturale e il circuito autogenerativo come
strumenti metodologici funzionali all’integrazione delle
diversità culturali.
• La comunicazione tra famiglia e insegnanti per favorire
il processo educativo.
• I rapporti tra i bambini immigrati e i compagni del gruppo
classe.
• Gli strumenti per la conoscenza e la gestione delle dinamiche
del gruppo classe.
• La figura del mediatore culturale come facilitatore
e promotore di azioni educative territoriali condivise.
• Lo sportello psicopedagogico nella scuola.
inizio corso: autunno 2007
•
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•
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•
•
I DISTURBI DEL LINGUAGGIO E
DELL’APPRENDIMENTO IN ETÀ EVOLUTIVA
• Lo sviluppo del linguaggio e le sue componenti strutturali.
La comprensione e la produzione linguistica.
• Gli aspetti costitutivi della lingua.
• Caratteristiche generali del linguaggio infantile.
• Le tappe fondamentali dello sviluppo della competenza comunicativa.
• Il modello integrato della comunicazione.
• Le patologie del linguaggio in età evolutiva.
• Le patologie dell’apprendimento in età evolutiva.
• L’approccio psicopedagogico ai disturbi del linguaggio
e dell’apprendimento.
• I disturbi del linguaggio che interessano il versante fonetico.
• I disturbi del linguaggio che interessano il versante lessicale, semantico
e sintattico.
• Le dislessie in età evolutiva.
• I disturbi dell’apprendimento scolastico
inizio corso: autunno 2007
NE
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N
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NV
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Le problematiche psicomotorie nella scuola.
Lo sviluppo psicomotorio e l’apprendimento.
L’approccio psicomotorio a scuola: l’ambito educativo.
L’approccio psicomotorio alle materie curriculari.
L’espressione corporea e la comunicazione efficace.
I cambiamenti fisici e psicologici tipici della preadolescenza
e dell’adolescenza.
• I cambiamenti fisici e le situazioni patologiche.
• Come mettere in atto nel gioco della vita comportamenti
equilibrati dal punto di vista fisico, emotivo, cognitivo.
inizio corso: autunno 2007
LA VOCE
• La scheda di rilevamento VHI, aspetti teorici sul funzionamento degli
organi fonatori, proiezione audio-video.
• Esercitazioni pratiche di rilassamento, stretching e respirazione, esercizi di
coordinazione pneumofonica.
• Esercizi vocali (altezza tonale, intensità) esercizi di risonanza, esperienze di
voce proiettata finalizzate all’uso professionale
della voce, questionario di gradimento.
20-21 ottobre 2007
IL LINGUAGGIO MUSICALE
COME CONTESTO EDUCATIVO
• La progettazione e la gestione di un’esperienza musicale collettiva.
• La composizione musicale con i suoni informali. Il sistema suono/silenzio.
Il repertorio musicale. La composizione con i suoni vocalici. L’analisi
e la composizione con i suoni alfabetici. Il parlato. La produzione
musicale con i suoni del corpo. La produzione musicale con strumenti
e oggetti. La scrittura e la lettura dei suoni informali. I criteri e i concetti
cognitivi per la composizione musicale. Il Grafico musicale. Le sequenze
trasformazionali.
• La composizione musicale con i suoni formali. La scrittura dei suoni
codificati. L’improvvisazione musicale collettiva. Il gioco musicale. Il
ritmo e gli elementi di fraseologia. Il gioco musicale e la socializzazione.
Elementi di musicoterapia.
inizio corso: autunno 2007
• SEDE DEI CORSI: VIA ALESSANDRIA 128/B – ROMA •
CON
VEN
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Ogni Corso prevede: 30 ore in orario pomeridiano, una quota di partecipazione individuale di a 100,00
(solo per il corso LA VOCE la quota è di a 200) oppure una quota per l’istituzione scolastica di a 2.000,00.
Le iscrizioni sono limitate dato il carattere dei corsi estremamente operativo. Verranno forniti materiali didattici e libri specifici.
Per i titolari di Magieoltre
a 85.00
PER INFORMAZIONI E ISCRIZIONI:
Tel. 06.8552887 Fax 06.8557247 e-mail [email protected]
(è necessario indicare il nome della scuola e del referente da contattare con i relativi recapiti)
Progetto Scuola: via P. Petrocchi, 8/B Roma - tel. 06.82003740
APPROCCIO PSICOPEDAGOGICO ED ESPERIENZE CLINICHE
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psichici, che il cane diventa un veicolo privilegiato che consente all’uomo di fare un’esperienza ricca, unica e irripetibile in cui
emozioni e conoscenze nascono e si sviluppano in modo spontaneo e naturale.
CON QUALE TIPOLOGIA D’UTENZA È PIÙ EFFICACE
LA PET THERAPY?
In realtà non esiste un’utenza in particolare; l’impiego di programmi di AAA e TAA ha visto applicazioni dagli esiti soddisfacenti con patologie dell’infanzia e adolescenza (autismo, ADHD,
ecc.), con disturbi sensoriali (sordità e cecità), con disturbi di personalità, disturbi dell’adattamento, disturbi d’ansia e d’umore, disturbi psicotici, disturbi psichiatrici, con le tossicodipendenze, gli
immunodepressi e i malati terminali, con anziani, con i post comatosi, ecc. È importante però tener conto che possono esistere
controindicazioni al suo impiego in particolare con patologie
quali ipocondria, disturbo ossessivo-compulsivo, depressione
grave, oligofrenia grave, qualsiasi patologia psichica che possa
portare al maltrattamento dell’animale e zoofobia. Altri elementi da tenere in forte considerazione sono la presenza di allergie al
pelo degli animali o assenza di interesse per l’animale.
Ovviamente dietro ogni patologia c’è la persona, che è unica e irripetibile ed è quindi importante valutare di caso in caso e programmare interventi individualizzati.
Pet Therapy, dunque, non vuol dire prendere un cane con sé
o averlo semplicemente accanto, per quanto piacevole possa essere la sua compagnia. Essa è una disciplina vera e propria. In
quanto tale non è una panacea per tutte le patologie e deve essere applicata dopo attenta valutazione: essa non è universalmente efficace, ossia non è adatta a tutti gli individui e solo esperti e
professionisti con una specifica preparazione nel settore sono in
grado di valutarne le possibilità e le modalità d’impiego.
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Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizioni Magi Edizion
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Forma mentis
DARIO CASADEI – PIER LUIGI RIGHETTI (a cura di)
L’INTERVENTO PSICOLOGICO IN GINECOLOGIA
FORMA MENTIS – ISBN: 978-88-7487-212-1
C 23,00 – FORMATO: 14,5X21 – PAGG. 320
egli ultimi anni si sta assistendo
a un interesse sempre più specifico verso l'applicazione clinica
della psicologia in ambito ospedaliero, con metodologie e interventi
mirati. L'apporto dello psicologo, al
di là dell'intervento di tipo diagnostico e terapeutico, è mirato alla cura della «qualità di vita» del
paziente ospedalizzato, del suo contesto relazionale ed è rivolto
anche al personale medico e paramedico. Nel volume vengono
esaminati i protocolli già sperimentati (e già applicati in alcune
strutture ospedaliere) e il ruolo che la psicologia può avere in area
ginecologica. Gli autori (psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, ginecologi, chirurghi ginecologi, onco-ginecologi e bioetici) presenta-
N
no con grande chiarezza le acquisizioni specifiche maturate sul
campo, senza tralasciare alcun aspetto specifico dell'area ginecologica (il lavoro in corsia, protocolli di supporto chirurgico, l'area
dell'oncologia ginecologica, aspetti di sessuologia, menopausa,
bioetica e procreazione medicalmente assistita). Si tratta di un
testo che affronta il vissuto ospedaliero nella consapevolezza delle
difficoltà ancora presenti ma con la finalità di riportare la malattia,
oggi altamente e solamente medicalizzata, a una dimensione
«umana e personale». Per evitare che la tecnologia, la burocrazia,
l'«efficienza» rendano il rapporto Sanità-Paziente un contratto per
curare quella «macchina biologica» che è il nostro corpo, trascurando la sua intrinseca interdipendenza con la psiche e dimenticandosi dell'attenzione che dev'essere invece prestata alla «persona» nella sua globalità.
APPROCCIO PSICOPEDAGOGICO ED ESPERIENZE CLINICHE
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L’importanza delle emozioni
nello sviluppo della mente
Stanley Greenspan, «Le origini emotive dell’intelligenza»*
CHIARA LUKACS ARROYO
Psicologa
* in S. Greenspan, B. Lieff Benderly, The Growth of the Mind, 1997 (L’intelligenza del cuore, Milano, Mondadori, 1998). Questo articolo
nasce dell’esperienza di tirocinio presso l’associazione A.I.A.B.A. (Associazione Italiana per l’Assistenza ai Bambini Autistici), via Desiderio da Settignano – 50135 Settignano (Firenze), in collaborazione con il dott. Xavier Barrett.
N
egli ultimi tempi, grazie alla ricerca di Stanley
Greenspan e ad altre recenti ricerche sui processi che
costruiscono lo sviluppo della mente, una nuova teoria si è aperta nel campo dell’autismo, apportando notevoli
cambiamenti nel modo di pensare e di vivere questo disturbo:
«Abbiamo scoperto che le capacità più elevate della mente
umana, come l’intelligenza, la moralità e il senso di sé, hanno
insospettate origini comuni» (Greenspan, 1997, p. 3).
Analizzando i primi stadi dello sviluppo della mente, «si
è visto che ciascuno stadio richiede una serie di esperienze
fondamentali e specifiche» (ibidem, p. 3). Contrariamente
all’idea cognitivista dello sviluppo, però, tali esperienze non
sono cognitive, ma essenzialmente emotive; per riprendere
le parole di Greenspan esse «consistono in sottili scambi
emotivi» (ibidem); ci si riferisce dunque a un’emotività fatta
di scambio sottile, un’interazione sensibile costruita sui dettagli, cui a me, personalmente, piace pensare come a una
sorta di molecolarità dell’interazione.
La grande innovazione è costituita dunque dalla scoperta
che «in realtà sono le emozioni, e non la stimolazione cognitiva, a determinare l’architettura della mente» (ibidem).
Greenspan osserva come «l’importanza delle esperienze
emotive che sono alla base dello sviluppo mentale è sempre
più spesso sottovalutata in tutti gli aspetti della vita quotidiana» (ibidem). Egli sostiene inoltre che il primato dell’aspetto
cognitivo su quello emotivo ha le sue origini nella filosofia
degli antichi greci: «Fin dai tempi della Grecia antica, i filosofi hanno posto il lato razionale della mente al di sopra di
quello emotivo, considerandoli separati l’uno dall’altro» (ibidem, pp. 3-4). Tale concezione della mente, secondo cui l’intelletto sarebbe una facoltà superiore, necessaria a dominare
passione e sentimento, «ha influito profondamente sul pensiero occidentale, al punto di improntare di sé alcune delle
nostre istituzioni e opinioni fondamentali» (ibidem, p. 4). A
causa di questa dicotomia, infatti, «la nostra cultura ha investito a lungo e in misura incommensurabile, dal punto di vista
intellettuale e istituzionale, nell’idea che ragione ed emozione siano separate e inconciliabili e che in una società civile
debba prevalere la razionalità» (ibidem). Per secoli abbiamo
ritenuto che intelletto ed emozione rappresentassero due parti
diverse della mente, in una visione polarizzata della mente
che non è stata ancora superata. Gli psicologi moderni come
Jean Piaget, che ha descritto gli stadi percorsi dal bambino
per imparare a pensare, e come Noam Chomsky, che ha ipotizzato il modello di acquisizione delle strutture grammaticali, seppure abbiano apportato importanti contributi alla comprensione delle strategie usate dai bambini per apprendere,
trattano la nascita delle abilità cognitive separatamente
rispetto allo sviluppo delle emozioni. Pur riconoscendo che
affetto e intelligenza interagiscano e si influenzino, Piaget
afferma che l’affetto non è la causa della strutturalizzazione
progressiva che segna la crescita cognitiva.
Da queste premesse sono stati costruiti metodi di osservazione e interventi nell’ambito della psicologia dello sviluppo e dell’educazione. Greenspan si chiede: «Ma si tratta
davvero di premesse fondate?» (ibidem). I risultati emersi da
ricerche sullo sviluppo infantile mettono in luce le lacune
della teoria tradizionale.
Partendo dall’analisi dell’«architettura emotiva della
mente» e dei suoi livelli più profondi, Greenspan muove una
critica al modo di trattare i bambini e di catalogare i loro
comportamenti come ritardi cognitivi da parte di molti psicologi; e si pone un interrogativo: «Una bambina di un anno
che lancia tutto attorno, cibo e giocattoli, e che non balbetta
ancora come quasi tutti i coetanei, ha un deficit intellettuale
significativo? Non riuscendo a convincerla nemmeno a cercare una pallina nascosta sotto un bicchiere rovesciato, lo
psicologo conclude che effettivamente è molto probabile che
la bambina abbia un ritardo cognitivo» (ibidem). A questo
proposito Greenspan muove una critica che è interessante
riportare per intero: «Sono cinquant’anni che gli esperti
chiedono a bambini di stare bravi in braccio alla mamma, di
prestare attenzione e svolgere determinati esercizi in modo
da far capire agli adulti quanto sono intelligenti. Sono cinquant’anni che gli esperti suddividono quelli che non riescono a capire e ad esaudire le loro misteriose richieste in varie
categorie di deficit mentale dai nomi più o meno astrusi. Gli
specialisti hanno a lungo sostenuto che, assegnando un punteggio preciso alla capacità di infilare perni negli appositi
fori, di raggruppare dei cartoncini in base alla forma o di tro-
APPROCCIO PSICOPEDAGOGICO ED ESPERIENZE CLINICHE
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vare una pallina nascosta sotto un bicchiere, si possano
misurare con altrettanta precisione l’intelligenza e il grado di
competenza raggiunto dai bambini» (ibidem, pp. 4-5).
Greenspan parte dai risultati di ricerche ed esperienze
cliniche recenti per dimostrare che questo tipo di valutazione si basa su premesse completamente sbagliate. Egli propone un nuovo modo per valutare un bambino. Infatti quando
un altro esperto esamina una bambina adottando un approccio diverso, una varietà di comportamenti ed emozioni significative sembrano attraversare il bambino: prendendo come
esempio una bambina di dodici mesi, «la osserva giocare da
sola e gli sembra attiva, curiosa, intraprendente: sta a sentire il rumore delle macchinine che si scontrano, studia con
interesse la superfice ruvida di una palla di gomma, cerca di
tirare per il naso la madre» (ibidem, p. 5).
Appena è stato cambiato approccio, incoraggiandola a
prendere parte agli scambi scherzosi, lo psicologo si convince che nel complesso il suo sviluppo cognitivo rientri nella
norma: «A un esame più approfondito la bambina si è rivelata piena di energie e si è lanciata in balbettii più variegati»
(ibidem). Se un approccio diverso è bastato a mettere in evidenza le potenzialità linguistiche della bambina, «è chiaro
che i test e i principi in base ai quali la bambina era stata
dichiarata ritardata hanno dei gravi limiti» (ibidem). Questo
apre la strada a una nuova visione della mente secondo cui
«la chiave dell’intelligenza e dello sviluppo mentale sta
nelle prime relazioni e nelle prime esperienze emotive, vissute attraverso l’eccitante reciprocità con la madre e non
rappresentate da capacità isolate come quella di inserire un
perno in un foro o di trovare una pallina» (ibidem).
Tuttavia Greenspan insiste nell’evidenziare le resistenze
della società moderna nell’adottare questa nuova visione
dello sviluppo mentale: «Le conclusioni sul ruolo delle emozioni nell’apprendimento del pensiero tratte dall’osservazione di bambini [in età scolare] contrastano apertamente con
l’interpretazione tradizionale dello sviluppo mentale, che
separa emozione e ragione privilegiando ora l’una, ora l’altra» (ibidem, p. 7). A questo proposito egli riconduce al pen-
siero di Kant, «considerato il padre della filosofia e della psicologia moderna» (ibidem), la formulazione degli interrogativi su cui da allora vertono gli studi cognitivi, e dunque le
origini di questa dicotomia. Kant, come anche Piaget e altri
teorici cognitivi, descrivendo il modo in cui i bambini imparano a pensare, non ha mai preso in considerazione fino in
fondo, nelle sue teorie sulla conoscenza, il ruolo degli affetti e delle emozioni.
A tal proposito Greenspan riconosce l’innovazione del
pensiero freudiano: «Freud, invece, ha rivelato l’esistenza di
complessi meccanismi emotivi che influiscono profondamente sul comportamento» (ibidem). Egli sottolinea come
Freud, partendo dall’opera di filosofi come Schopenhauer,
abbia dimostrato che i desideri inconsci non sono inferiori
all’intelletto, bensì potenti forze che possono costituire una
minaccia per la razionalità. Dalle sue scoperte sono sorti in
ambito psicologico nuovi movimenti e visioni del rapporto
tra razionalità ed emotività.
Tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Settanta pionieri come Hartmann, Thomkins, Kohut hanno individuato
altri diversi ruoli positivi e negativi delle emozioni. Le loro
idee si sono riflesse nell’educazione dei bambini. Si è iniziato a parlare con i figli di sensazioni e sentimenti: «Negli
anni Sessanta e nei primi anni Settanta, nel sistema scolastico americano è stato riconosciuto l’aspetto emotivo del comportamento» e in molte scuole si è parlato liberamente di
relazioni e sentimenti (ibidem, p. 8).
Con la scoperta dei farmaci nel trattamento delle malattie mentali, l’interesse clinico si è orientato nel campo psicofarmacologico, mettendo le teorie freudiane talmente in
ombra che due recenti studi della scienza comportamentale
e delle ricerche neurologiche sull’importanza delle emozioni sono stati accolti dai lettori americani come grandi novità,
seppure entrambi mantengano per certi aspetti la dicotomia
tradizionale tra sensazioni e conoscenza. A questo proposito
l’importanza dell’esperienza emotiva trova conferma in due
opere: facciamo riferimento all’opera di Daniel Goleman,
collaboratore scientifico del «New York Times» e al suo uso
S.M.I.P.I.
Società Medica Italiana di Psicoterapia ed Ipnosi
Presidente: Dr. Riccardo Arone di Bertolino
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APPROCCIO PSICOPEDAGOGICO ED ESPERIENZE CLINICHE
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del termine «intelligenza emotiva» per richiamare l’attenzione sui trascurati aspetti positivi delle emozioni nello sviluppo, già descritti da Freud e altri, «compresa la capacità di
interpretarle, di rispondere ad esse e, nelle relazioni, di
viverle con empatia» (ibidem). In sostanza il suo pensiero è
che queste capacità contano più che non il grado di intelligenza che si misura con i test del QI.
Nel campo della neurologia facciamo riferimento alle
ricerche di Antonio Damasio, che hanno portato alla scoperta che lesioni della corteccia prefrontale, dove risiedono le
facoltà che regolano le emozioni, possono portare punteggi
relativamente normali nei test di intelligenza e tuttavia compromettere gravemente le capacità connesse al giudizio, alla
pianificazione motoria alla capacità di valutare l’ambiente.
«Le ricerche neurologiche insomma avvalorano i risultati
ottenuti da molti studiosi e psicoterapeuti sull’importanza
delle emozioni anche per funzioni complesse della personalità come la prova di realtà e il giudizio» (ibidem, p. 9).
Seppure dunque queste opere ridestano l’interesse per il
ruolo delle emozioni nello sviluppo, esse mantengono inalterata la dicotomia storica tra sfera cognitiva e sfera affettiva,
la prima privilegiando l’aspetto emotivo, e la seconda dimostrando che certe lesioni cerebrali possono influire sulle emozioni senza influenzare altri aspetti critici dei processi cognitivi. «L’eterna dicotomia tra emozioni e intelligenza perdura
perché, fino a tempi recenti, si è trascurato il modo in cui esse
interagiscono nelle prime fasi dell’evoluzione della mente,
senza chiedersi per esempio se […] le emozioni non svolga-
no anche un ruolo specifico e importantissimo nello sviluppo
dell’intelligenza, o se l’esperienza emotiva non sia indispensabile per acquisire capacità cognitive tradizionali» (ibidem).
Dagli studi di Greenspan sull’età evolutiva emerge che «il
loro scopo principale è quello di creare, organizzare e orchestrare molte delle funzioni fondamentali della mente» (ibidem). Moltissime funzioni, quali intelligenza, senso di sé,
coscienza e moralità hanno tutte radici comuni nelle primissime esperienze emotive: «Per quanto possa sembrare strano,
le emozioni sono artefici di una vasta gamma di operazioni
cognitive nel corso di tutta la vita e rendono possibile il pensiero creativo in ogni sua forma» (ibidem).
A favore del legame tra sfera affettiva e intellettiva
depongono varie fonti, fra cui le ricerche in campo neurologico, da cui si è scoperto che le primissime esperienze di vita
influiscono sulla struttura stessa del cervello. A questo proposito è noto da tempo che l’esperienza può far sì che le cellule cerebrali vengano impiegate per determinati scopi:
«Negli studi di imaging del cervello è stato osservato che chi
suona uno strumento musicale ha un maggior numero di collegamenti neurali a livello corticale in corrispondenza delle
dita usate più spesso» (ibidem, p. 10). La mancanza o l’alterazione delle esperienze necessarie può portare varie carenze che influiscono sulla struttura cerebrale durante il resto
dell’infanzia e nell’età adulta.
L’importanza dell’esperienza emotiva, in particolare ai
fini delle funzioni intellettuali e sociali superiori, trova conferma nel fatto che l’area del cervello preposta alla regola-
IL FANTASTICO MONDO DEI SOGNI
Capire e interpretare la vita onirica
abina Rellini, psicologa e
psicoterapeuta, tratta da
anni il tema del sogno e
ne indaga l’essenza in termini
interdisciplinari. Il suo libro
esplora il misterioso mondo del
sogno in chiave psicologica,
storica e antropologica, senza
tralasciare la funzione terapeutica dell’esperienza onirica e
l’utilità di ricordarla e analizzarla. Tutti sognano senza distinzione di sesso o di età, ma in
modi differenti.
L’autrice si inoltra in quelle aree dove il sogno si integra con
la scienza, la letteratura, la musica, la pittura, il cinema e la
vita quotidiana. Il chimico Kekulé esorta i suoi colleghi a
sognare per “arrivare alla verità”. Il poeta Saint-Pol-Roux,
prima di addormentarsi, appende alla porta della camera da
letto il cartello: “Lo scrittore sta lavorando”. Lucio Dalla
sostiene: “Bisogna imparare a sognare per essere liberi”.
L’artista William Blake trae indicazioni da alcuni suoi sogni
per una nuova tecnica di incisione. Il regista Lelouch afferma:
“I sogni sono elementi determinanti della nostra vita. Io,
prima di fare un film, lo sogno”.
In quanto riflette la personalità del suo autore, il sogno è un
S
valido strumento che aiuta a scoprire le proprie potenzialità
creative, a individuare e superare un problema, un conflitto o
un momento di crisi; suggerisce anche utili spunti di riflessione relativi ad aspetti emozionali e cognitivi. L’esperienza onirica, dunque, consente di mettere in gioco se stessi e di confrontarsi con la propria realtà psicologica. Questa inesauribile risorsa della vita inconscia, puntando un fascio di luce su
zone profonde oscure e inesplorate, diventa fondamentale ai
fini dell’autoconoscenza e dell’equilibrio psicofisico di ogni
individuo.
Il testo scorre limpido e spedito. Agevole per com’è strutturato, il libro può essere letto in modo sequenziale o soffermandosi a soddisfare una curiosità sui simbolismi onirici; le illustrazioni e il glossario finale ne completano il lavoro denso di
elementi che punteggiano un ampio e originale giro di compasso.
Sabina Rellini, Il fantastico mondo dei sogni. Capire e
interpretare la vita onirica, Roma, Edup, 2005, pp. 252
a 12.00
EDUP – Ufficio stampa
Tel. 0669204361 – Fax 066780702
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APPROCCIO PSICOPEDAGOGICO ED ESPERIENZE CLINICHE
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zione emotiva (la corteccia prefrontale) presenta un’attività
metabolica più intensa tra i sei e i dodici mesi di vita, ovvero nel periodo in cui i bambini partecipano a un maggior
numero di interazioni reciproche e aumentano le capacità
intellettive. Inoltre l’esperienza può stimolare modificazioni
ormonali: sembra per esempio che un contatto fisico rassicurante induca il rilascio di ormoni della crescita e che
ormoni come l’ossitocina facilitino processi emotivi quali
affiliazione e intimità.
In generale negli anni formativi si ha una delicata interazione tra predisposizione genetica ed esperienza ambientale, «ma non tutte le esperienze sono uguali: pare infatti
che i bambini abbiano bisogno di particolari tipi di interazioni emotive, adatti alle loro esigenze evolutive specifiche» (ibidem).
Questo genere di ricerche porta a chiedersi quali siano le
esperienze precoci più utili per lo sviluppo del sistema nervoso del bambino. Varie attività precoci, che vengono utilizzate come indici della presenza o meno di specifiche capacità nel bambino, non costituiscono le basi del vero apprendimento: «Tali capacità motorio-percettive e altri strumenti
del sistema nervoso sono degni di nota, ma non costituiscono di per sé una forma di ragionamento» (ibidem, p. 11).
L’idea che l’emozione partecipi in maniera attiva e fondamentale alla formazione dell’intelletto è nuova e per molti
sorprendente, ma su queste basi ha già influenzato i metodi
usati per valutare neonati e bambini: «Nel numero di giugno
1994 di “Zero to Three”, pubblicato dal National Center for
Infants, Toddlers, and Families, sosteniamo che il principale
metro per misurare la competenza evolutiva e intellettuale
dei bambini debbano essere gli scambi emotivi con le figure
di accudimento, e non la capacità di infilare perni nel foro
giusto o di trovare palline nascoste» (ibidem).
Queste conclusioni trovano conferma nelle ricerche condotte da Greenspan in tre ambiti diversi. Il primo è rappresentato dal lavoro con i suoi collaboratori su bambini con
gravi problemi di tipo biologico, fra cui alcuni con sintomi
di autismo. Partendo dall’ipotesi che in questi soggetti i problemi fisiologici ostacolano le esperienze emotive necessarie allo sviluppo mentale, e l’assenza di esperienze emotive
critiche causa l’insorgenza dei sintomi autistici, Greenspan e
collaboratori hanno trovato il modo di modificare e aggirare
alcuni dei limiti fisiologici, rendendo possibili le esperienze
emotive indispensabili; e molti di quei bambini, crescendo,
sono diventati intelligenti ed emotivamente sani. Osservando l’effetto di esperienze emotive diverse sull’intelligenza,
Greenspan e collaboratori hanno cominciato a capire l’importanza della loro influenza anche sull’evoluzione intellettuale e sociale.
Un altro ambito di ricerca è rappresentato anche dal
lavoro con bambini il cui sviluppo procede in maniera relativamente normale e osservando gli stadi che attraversano
mano a mano che emergono le capacità cognitive e sociali.
Da queste osservazioni appare evidente che certi tipi di
educazione emotiva portano alla salute psichica e che l’esperienza affettiva svolge un ruolo primario in molti aspetti dello
sviluppo cognitivo. Dagli esperimenti condotti insieme a
Stephen Porges della University of Maryland risulta che alcune aree del cervello e del sistema nervoso che controllano la
regolazione emotiva svolgono una funzione cruciale nei processi cognitivi: «In uno studio mirato abbiamo riscontrato che
i valori di tale funzione di regolazione emotiva misurati a otto
mesi sono correlati con il punteggio ottenuto nei test del QI
svolti a quattro anni di età» (ibidem, p. 12).
Un terzo ordine di conferme riguardo al rapporto tra
intelletto ed emozione viene dal lavoro svolto con famiglie
«a rischio multiplo». In queste famiglie, afflitte da molteplici fattori di rischio, il grado di mancata evoluzione delle
capacità cognitive e sociali dei bambini dipende dalla misura in cui la famiglia non ha saputo rispondere ai loro bisogni
emotivi nei vari stadi dello sviluppo. In questo modo Greenspan e collaboratori hanno scoperto di che cosa hanno bisogno questi bambini nelle varie fasi osservando gli effetti
della sua mancanza. Attraverso studi su interventi precoci, è
stato possibile dimostrare che, assicurando le esperienze
necessarie ai neonati a rischio e alle loro famiglie, si ottengono risultati positivi: «Le nuove capacità adattive spesso
persistono nel resto dell’infanzia, nell’adolescenza e nella
vita adulta» (ibidem).
Su queste basi è emersa una nuova interpretazione di
come si sviluppa la mente nei primi mesi di vita, che integra l’esperienza di intimità emotiva del bambino con l’evoluzione delle capacità intellettuali e, in definitiva, con il
senso del sé.
Il modo migliore per comprendere l’influenza delle emozioni sullo sviluppo cognitivo è osservare il modo in cui i
bambini autistici imparano a pensare e a comunicare. Dal
lavoro condotto su questi bambini è stato possibile rendersi
conto di quanto i programmi terapeutici tradizionali ad essi
rivolti siano in realtà inadatti allo scopo di offrire loro un’esperienza emotiva: osservando questi bambini in programmi
intensivi che andavano dalle venti alle quaranta ore alla settimana, Greenspan e collaboratori hanno osservato come
essi tentino soprattutto di insegnare loro a parlare o di far
acquisire capacità cognitive o strategie comportamentali,
«ma anche quando essi imparano a costruire delle frasi, ad
allacciarsi le scarpe o a battere su un tamburo, non hanno la
spontaneità gioiosa, l’entusiasmo, la flessibilità nel risolvere
i problemi e l’apertura emotiva che sono naturali alla loro
età» (ibidem, p. 15). Questi bambini esprimevano pensieri
meccanici e stereotipati, mentre si aveva l’impressione che
in essi si celasse un enorme potenziale creativo.
Risultati molto diversi si sono ottenuti con programmi
come quello che ha rivelato le vere capacità della bambina
di un anno, per la quale la madre temeva un ritardo dello sviluppo, di cui abbiamo parlato sopra: «Un programma di stimolazione emotiva che incominci nel momento in cui il
bambino sfugge i sorrisi e gli approcci dei genitori e che
sfrutti il ruolo dell’emozione nella normale evoluzione mentale sembra dare risultati migliori dal punto di vista degli
schemi intellettuali ed emotivi rispetto alle strategie di stimolazione cognitiva diretta» (ibidem, p. 16). Con questo
approccio è stato possibile aiutare un buon numero di bambini a superare problemi specifici, incoraggiandoli a stabilire scambi emotivi con una figura di accudimento, incominciando con semplici gesti ed espressioni del viso.
Prendiamo il caso di Tony, entrato nel programma a
diciotto mesi; nel primo anno di vita si era mostrato chiuso
APPROCCIO PSICOPEDAGOGICO ED ESPERIENZE CLINICHE
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in se stesso e indifferente ai sorrisi e alle manifestazioni di
affetto che gli venivano rivolti. Arrivato a diciotto mesi
senza aver incominciato a parlare, era circa un anno indietro rispetto alla media: «In effetti Tony non cercava praticamente mai di comunicare e i genitori erano molto preoccupati» (ibidem).
Angosciati dallo spettro dell’autismo, i genitori lo portarono in un centro medico rinomato, dove un esperto di
sviluppo infantile diagnosticò un disturbo grave e pervasivo dello sviluppo, ovvero, in parole povere, l’autismo: «La
prognosi lasciava intendere che nell’arco di tre anni […] si
sarebbe trovato prigioniero in un regno inaccessibile e solitario, fatto di azioni stereotipate e ripetitive, di ritardo
mentale e di quasi totale esclusione dai rapporti umani»
(ibidem, p. 17).
Nonostante il mondo delle amicizie, dell’apprendimento
e la speranza di un futuro sembrassero a lui preclusi, dopo
tre anni e mezzo di terapia incentrata sulle interazioni affettive, Tony, che a quel punto aveva cinque anni, era completamente cambiato: «Giocava con gli amici, impegnava i
genitori e i maestri in discussioni animate, contestava con
decisione l’ora di andare a letto e aveva un numero infinito
di domande e risposte sul perché il mondo è fatto e come è
fatto» (ibidem). In una registrazione fatta per documentare i
progressi compiuti dai diciotto mesi in poi, Tony dice di
volere «quel gioco là che ha Steven»; alla domanda «Perché
lo vuoi?» risponde «Perché è divertente»; quando gli viene
chiesto se Steven avrebbe ceduto volentieri quel giocattolo,
rispondeva con una risata e un sorriso sempre più grande:
«No. Si arrabbierebbe» (ibidem). Successivamente Tony ha
dimostrato di essere in grado di formulare pensieri astratti e
di percepire sfumature di comportamento: al padre, che cercava di convincerlo di essere simpatico a un altro bambino,
ha detto: «Lo so che è gentile, ma non vuol dire che ha
voglia di stare con me» (ibidem).
Oggi Tony ha dieci anni e, per quanto ancora poco coordinato dal punto di vista fisico, le sue capacità mentali continuano ad aumentare: «Ai test di valutazione del QI le sue
capacità verbali e cognitive risultano molto superiori alle
aspettative per la sua età» (ibidem).
Molti bambini autistici, come Tony, entrati nel programma di Greenspan, hanno fatto progressi, dimostrando vera
creatività ed empatia, e superando varie fasi dello sviluppo.
Con l’aiuto degli psicologi del centro questi bambini imparano a stabilire relazioni con gli altri, collegando prima gesti
e sentimenti e poi parole e sentimenti. Infatti, dal lavoro con
questi bambini si è scoperto che alla base dell’intelligenza
c’è il collegamento fra un sentimento o un desiderio e un’azione, mentre alla base del disturbo autistico c’è proprio la
difficoltà a stabilire questo tipo di collegamento: «Quando
un gesto o un’espressione verbale si riferisce in qualche
modo ai suoi sentimenti o desideri – anche semplici come
quello di uscire o di ricevere una palla – il bambino impara
a usarlo in maniera appropriata ed efficace» (ibidem, p. 18).
A questo scopo «nella terapia utilizziamo pertanto le intenzioni e i sentimenti spontanei come base dell’apprendimento individuale» (ibidem).
Con una bambina di due anni che non parlava, ma passava ore a guardare nel vuoto e a fregare con la mano sem-
pre lo stesso punto del tappeto, è stato usato proprio questo
gesto ripetitivo per aprire una comunicazione: «In quella
ripetizione anormale vedemmo non soltanto un sintomo di
autismo, ma anche un segno di interesse e motivazione e
pensammo che quei pochi centimetri quadrati di pavimento
potessero aprire uno spiraglio e rendere possibile un legame
emotivo e, in seguito, l’apprendimento» (ibidem). Proponendo alla madre di mettere la mano vicino a quella della
figlia, sul punto preferito del tappeto, dopo ripetuti tentativi
della bambina di scostare la mano della madre, al terzo giorno questa interazione era divenuta il punto di partenza di un
legame emotivo: «La bambina incominciò a sorridere quando spingeva via la mano della madre» (ibidem, p. 19). Dall’allontanare la mano al cercarla e all’offrire sorrisi per
richiamarla, la bambina progredì fino a usare i gesti in un
dialogo non verbale; in seguito incominciò a emettere suoni
propri imitando la madre che nitriva come un cavallo quando le si gettava tra le braccia. Con l’aiuto del terapeuta, si
allargava lo zoo immaginario e diventava più ricco e complesso lo scambio emotivo: «via via madre e figlia si finsero cavalli che nitrivano, mucche che muggivano e cani che
abbaiavano» (ibidem). Dal gioco simbolico passarono al
pensiero e alle parole: «Oggi, a sette anni, la bambina prova
emozioni adatte alla sua età, ha degli amici e una fantasia
vivace […] Abbiamo lavorato con un gran numero di bambini autistici e molti di essi hanno fatto progressi analoghi.
Passando in rassegna oltre duecento casi di piccoli sospetti
autistici sottoposti a questo genere di terapia, abbiamo scoperto che tra il 58 e il 73 per cento del campione era diventato affettuoso e comunicativo» (ibidem).
In questo modo viene aperta la via chiusa delle emozioni, perché essi si incamminino verso un mondo nuovo, luogo
di significato, dove la solitudine e il vuoto delle relazioni
congelate, lasciano intravedere una nuova vita. E li vediamo
volare su questi fiori, affamati di nettare come le api, li
vediamo gioire e creare come nessun altro bambino è capace di fare.
Esemplare a tal proposito è l’illustrazione che l’edizione
Mondadori sceglie come copertina dello scritto di Greenspan
«L’intelligenza del cuore»: il disegno di David Tillinghast
raffigura un grande cuore rosso con una scala che sale fino in
cima ad esso; un uomo, a braccia aperte, è già sopra il cuore,
mentre un altro uomo, in basso, ha appena iniziato a salire. È
evidente che il disegno sta a significare la conquista di qualcosa, la scalata del cuore, nel senso di un recupero della propria profondità e sensibilità; senza vergogna, ma con il coraggio di chi lotta, non per la vita biologica, ma per una vita libera. La scalata del cuore come meta finale non solo dei bambini autistici, ma di ogni essere umano, noi compresi.
A questo punto mi viene in mente un articolo scritto per
il giornale da Silvia Vegetti Finzi, in cui essa parlava in
generale del termine di una terapia condotta con successo.
L’articolo comunicava più o meno questo: guarire un
paziente è restituire la gioia di vivere, e riuscire a fare questo significa restituire dignità e rispetto alla vita umana,
recuperando un po’ di umanità per se stessi in un mondo che
troppo spesso soccombe al degrado che porta con sé l’annullamento del rispetto e dell’umanità, forze e valori vitali
che ciascuno di noi è chiamato a preservare. ♦
APPROCCIO PSICOPEDAGOGICO ED ESPERIENZE CLINICHE
89
«Diversamente = diversa... mente»
MARIA RITA ESPOSITO
Pedagogista, Consulente pedagogico, Esperta Tutela dei Minori, Docente sezione ospedaliera nella Scuola
dell’Infanzia Pozzuoli (NA)
INTRODUZIONE
L
a Scuola Secondaria di 1° grado1 rinnova il proposito
di promuovere i processi formativi in quanto si preoccupa di adoperare il sapere (le conoscenze) e il fare
(abilità) che è tenuta a insegnare come occasioni per sviluppare
armonicamente la personalità degli allievi in tutte le direzioni
(etiche, religiose, sociali, intellettuali, affettive, operative, creative, ecc…) e per consentire loro di agire in maniera matura e responsabile».
Questa indicazione, tratta da Obiettivi generali del processo
formativo2, traslata nella didattica dell’handicap, diventa responsabilità professionale per il docente specializzato di attuare
piani individualizzati atti a promuovere il pieno sviluppo della
personalità dell’allievo che si ha di fronte. Non più, ormai, l’insegnante di sostegno che mira a operare intorno a un percorso
unico annuale per quel ragazzo3, ma un piano di lavoro che diventa, in termini di finalità, obiettivi e modalità attuative, progetto per/di il gruppo-classe.
«
I PIANI EDUCATIVI INDIVIDUALIZZATI:
DALL’AMBIENTE ALL’APPRENDIMENTO
Il piano individualizzato, pertanto, deve tenere presente una premessa metodologica fondamentale, che, fra l’altro, andrebbe presa in esame da ogni team di docenti di base: partire dalla consapevolezza che, per favorire la spinta motivazionale all’apprendimento e per promuovere momenti significativi di crescita culturale, è importante creare un ambiente accogliente e sereno, che
divenga quindi spazio di eccellenza.
Ogni PEI va caratterizzato, nel primo periodo dell’anno scolastico4, da una serie di obiettivi che, ponendosi come prioritari e
propedeutici a quelli più specificamente relativi agli apprendimenti, alle conoscenze e alle competenze disciplinari, faccia leva sull’importanza della relazione, della convivenza democratica e dell’interazione espressione/comunicazione.
Promuovere un clima relazionale positivo significa dare
valore al rispetto e all’empatia come elementi-cardine dell’interazione, sviluppando pertanto nel gruppo, in modo graduale e formativo, atteggiamenti chiari, leali e tendenti al bene comune.
In questo giocano un ruolo fondamentale i messaggi, lanciati dal docente, ma anche quelli che si strutturano nella relazione
di gruppo: comportamenti direttivi, ordini, rimproveri, scherno
modificano il comportamento dell’alunno. Critiche, giudizi,
rappresentazioni stereotipate danno significativi effetti alla relazione personale nonché all’idea che lo studente ha di sé e del
gruppo.
Messaggi, diretti e indiretti, quali quelli dell’esagerare col
sarcasmo, con l’ironia, con il pietismo, spesso proprio verso sog-
getti con abilità diverse, tendono col tempo a divenire segnali di
rifiuto, di ambiguità, incidendo non poco sull’espressività, sulla
spontaneità di chi li vive. L’uso pertanto di strategie metodologiche che operano intorno a gruppi di lavoro diviene un percorso costante nella vita scolastica della classe: questo obiettivo va
realizzato attraverso percorsi metodologici ad hoc, atti cioè a utilizzare strategie non classiche (quali la lezione frontale, il compito individuale) o almeno non solo quelle.
Ne è un esempio il Focus group: si tratta di una forma di intervista di gruppo, come la definisce Kitzinger, o di una discussione attentamente pianificata, come dice Krueger, che si basa
sulla comunicazione fra i partecipanti al fine di esplorare, chiarire, ricercare opinioni di interesse comune.
La discussione verte di solito intorno a un argomento comune e prestabilito dal moderatore: il modo in cui l’argomento viene trattato dipende dalle caratteristiche dei partecipanti, dal livello di strutturazione della griglia di domande, dallo scopo che
la ricerca e l’incontro si prefiggono, dall’abilità del moderatore.
Attraverso queste e altre tecniche operative il docente deve, nel
lavoro collegiale, favorire nel gruppo di studenti la consapevolezza a crescere con una comunicazione efficace, basata cioè su
un approccio descrittivo/oggettivo e non valutativo soprattutto
nei confronti e in relazione alle esperienze interpersonali con il
compagno diversamente abile (vedi schemi).
Questi aspetti della comunicazione rappresentano il punto di
partenza di un progetto didattico rivolto al gruppo e all’allievo diversamente abile, e, pertanto, qualificano lo strumento operativo
del docente stesso. Gli errori più frequenti in ambito educativo,
relativi alla comunicazione e nella fattispecie alla relazione col
ragazzo disabile, sono spesso proprio appannaggio di alcuni docenti che, poi, rappresentando un relatore/interlocutore per il
gruppo-classe significativo, viene emulato nell’espressione di alcuni comportamenti.
Danneggiare l’immagine personale che l’alunno va formandosi nella relazione col gruppo-classe (specie nel primo anno),
sottostimare le sue potenzialità, minacciare provvedimenti autoritari, umiliare e ridicolizzare, personalizzare il posto in classe5,
interrogare il gruppo informandosi sull’alunno in sua assenza,
approvare in maniera smisurata, esprime nel docente che lo fa o
nello studente una chiara trasmissione di messaggi che attiva inevitabilmente una determinata reazione cognitiva e comportamentale del ragazzo che si ha di fronte6.
Questo fa ben comprendere che per il docente specializzato
essere di sostegno significa in maniera complessa qualificarsi come sostegno alla relazione fra gli allievi e come sostegno alla didattica tutta: pertanto un piano individualizzato non può contenere definitivamente obiettivi a medio e lungo termine, mentre
fissando finalità precise deve configurandosi come un processo
dinamico ed evolutivo di:
APPROCCIO PSICOPEDAGOGICO ED ESPERIENZE CLINICHE
90
– osservazione;
– auto-osservazione;
– relazione/comunicazione;
– progettazione, attuazione, verifica/valutazione didattica.
L’OSSERVAZIONE
È importante che il docente specializzato nella formazione e nell’esperienza della sua didattica tenda ad allontanarsi il più possibile dalle definizioni7 per esercitare invece un costante processo
di astrazione da convinzioni prefissate, pregiudizi, credenze
tendendo invece a un allenamento continuo, per sé e per il gruppo di studenti, alla flessibilità, alla costruzione di spazi e tempi didattici alternativi.
Quando diciamo che un preadolescente è autistico ci
aspettiamo che manifesti i comportamenti tipici dell’autismo,
o per meglio capirci quelli ormai parte della nostra rappresentazione sociale del tipo «Rain Man», il personaggio interpretato da Dustin Hoffman. L’alunno potrebbe invece avere
condotte pseudoautistiche, non gravi, e in maniera più o meno inconsapevole8 trovare questo ruolo difficile da modificare perché è proprio ciò che gli altri si aspettano da lui: la lettura delle diagnosi, spesso qualificate da una scarsità di
informazioni, fa ben considerare al docente che senza un’accurata osservazione (sviluppata sui piani occasionale e sistematico) nei primi mesi dell’anno scolastico è davvero difficile comprendere quello che è meglio non fare.
In altri termini il rischio è quello di rimanere molto attac-
cati alle tipologie e alle competenze relative ai singoli deficit,
quindi alle categorizzazioni, alle possibilità che sono date di
avere competenze ancorate alla specifica definizione del deficit: spesso il docente e gli alunni stessi di classe elicitano
un’attenzione alla vita dell’allievo diversamente abile in relazione alla sua patologia (prendiamo, per esempio, un ragazzo con sordità grave), tralasciando molte volte in modo inconsapevole la comprensione dei meccanismi di apprendimento o l’organizzazione delle percezioni (per esempio, di
chi presenta problemi di udito).
Può essere utile precisare che l’allievo diversamente abile,
soprattutto ormai preadolescente, non è necessariamente in situazione di handicap all’interno della classe, poiché la presenza
di un deficit (a questa età e se nel percorso pregresso di tipo scolastico si è operato introno ai concetti di recupero, potenzialità
delle capacità e prevenzione) non può pregiudicare l’adeguato inserimento e la partecipazione attiva alla vita sociale e didattica
della classe. Si può parlare di situazione di handicap solo quando, in presenza di una patologia, è necessaria una mediazione
esterna per socializzare, comunicare e apprendere.
In questa prospettiva il ruolo del docente di sostegno acquista un ruolo mediatore che cambia e, che, in questo caso, si qualifica come mediatore tra allievo, classe, docenti altri e discipline: è a carico dell’insegnante di sostegno la programmazione e la
gestione, in compresenza e in collegialità, del piano didattico individualizzato dell’alunno. Questo deve essere preso in seria considerazione dal team dei docenti, anche e soprattutto in relazione al fatto che in molte circostanze la copertura oraria da parte del
docente specializzato, per ogni singolo allievo con bisogni speciali, venga garantita al minimo.
Accanto a ciò si presenta, all’interno dello stesso gruppoclasse, la fisiologica condizione di allievi appartenenti a più
fasce di livello di apprendimento, che rende pertanto complessa l’attivazione di percorsi didattici di carattere disciplinare. Ne consegue a volte che il docente disciplinare non riesce a integrare e a collegare le attività predisposte dal collega
di sostegno a quelle dell’intera classe: questa prassi, che si rivela poco efficace, è in contraddizione con un concetto fondamentale della didattica speciale, quello cioè indicato dalla
C.M. 184/1991 in cui è affermato il principio della contitolarità
docente di sostegno/docente di base.
LA DIDATTICA SPECIALE
All’interno della didattica speciale è estremamente difficile generalizzare strategie e approcci metodologici, che possano cioè
risultare efficaci, efficienti e pertinenti in più situazioni (o anche
in situazioni relative a uno stesso handicap), poiché il docente deve considerare in maniera consapevole e complessa l’unicità che
contraddistingue ogni singola situazione di diversa abilità, che
pertanto delinea percorsi flessibili, modificabili e sempre contestualizzabili.
Questo deve qualificare un punto di partenza importante
di fronte alla stesura di un piano di lavoro individualizzato
che, partendo da un’osservazione tendente a elicitare tutti gli
elementi di capacità e di abilità dell’allievo diversamente abile, si strutturi in una serie di unità didattiche che coadiuvino a
breve, medio e lungo termine il raggiungimento di traguardi
formativi ed educativi adeguati, seppur minimi9.
APPROCCIO PSICOPEDAGOGICO ED ESPERIENZE CLINICHE
91
I piani di studio individualizzati trovano quindi un punto-forza sulla motivazione10 che, come in qualsiasi situazione di apprendimento, rende lo studente positivamente
rinforzato nell’autostima e nella fiducia delle proprie capacità/abilità.
Creare situazioni didattiche che «scatenino» nell’alunno
desiderio e quindi esplorazione e avvicinamento alle esperienze significa motivarlo, e ciò si qualifica come fattore importantissimo se si pensa che la motivazione:
– ha poca influenza sulla MBT (memoria a breve termine);
– agisce sui livelli più elevati della memoria (in particolar
modo su quella semantica);
– agisce in maniera significativa sull’aumento delle strategie di organizzazione già sperimentate.
La pianificazione delle unità didattiche, in sede collegiale di programmazione, dovrebbe tenere costantemente in
considerazione certe indicazioni-standard che promuovono
apprendimenti significativi: il rendere ogni componente della classe protagonista del proprio apprendimento può essere
favorito, e quasi sempre è così che accade, al di là della specifica disciplina, ma l’elemento di spinta motivazionale si collega all’utilizzo di strumenti/strategie (la cosiddetta motivazione strumentale) come i più moderni sistemi mediali.
La motivazione nasce soprattutto quando il piano di lavoro struttura tempi e spazi a misura di alunno:
– gestire lo spazio aula in circle time;
– promuovere ricerche in piccoli gruppi distribuendo adeguatamente capacità, abilità e affinità dei componenti;
– non definire regole fisse per la disposizione nei banchi (favorire cioè la rotazione periodica o contestualizzata);
– usare il tutoring, il cooperative learning11.
Accanto a ciò si aggiunge il fatto che l’introduzione di
nuove tecnologie, come le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC), nell’educazione e nella didattica rappresenta un fattore sostanziale dei cambiamenti dei contenuti da insegnare nelle varie discipline curriculari. Si pensi per
esempio a come la diffusione della tecnologia digitale abbia
influenzato i programmi di insegnamento della matematica,
inserendo l’informatica, la probabilità, la statistica.
Ciò implica quindi che tali cambiamenti sono espressione
di nuovi bisogni formativi che riflettono pertanto le trasformazioni dei metodi di lavoro.
APPENDICE
La didattica laboratoriale
Lo spazio-laboratoriale si qualifica come spazio/tempo in cui
l’espressione e la comunicazione dei linguaggi non verbali
viene privilegiata: questo ambiente didattico, adeguatamente
strutturato, consente di coinvolgere soggetti con problemi relazionali. Esso cioè va strutturato in relazione e in risposta a
determinati disagi, a determinate finalità conseguibili e questo caratterizza anche l’ampiezza e l’arredo.
Un laboratorio funzionale all’espressività corporea12 richiede uno spazio ampio (una palestra, per esempio) e una se-
con il patrocinio di
Scuola Popolare
di Musica
del Testaccio
Unione dei
Comuni della
Bassa Sabina
SIPI
musical...mente!
CORSO RESIDENZIALE
di aggiornamento professionale
per insegnanti della scuola dell’obbligo
30 ore - numero chiuso
riconosciuto dal Ministero della Pubblica Istruzione
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dal 9 al 15 Luglio 2007
Argomenti previsti:
• Musica e movimento (metodo Dalcroze)
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• Improvvisazione e composizione musicale sperimentale
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• Il gioco musicale, lo strumento didattico, la voce
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• Musica e disabilità
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quota partecipazione 600,00 euro
vitto e alloggio
250,00 euro
attività didattiche
350,00 euro
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da lunedì a venerdì: 14.00 - 20.00
Segreterie organizzative:
via Monte Testaccio, 91 - Roma - Tel. 06-5750376 - [email protected]
via P. Petrocchi, 8/b - Roma Tel/fax: 06-82003740 - cell. 338-6395410 - [email protected]
Direttore scientifico prof. Giovanni Ariano
SEDE
DIDATTICA:
via Pio XII, 129, Casoria (NA). Tel. 081/7308211 fax 081/7308243
[email protected] www.sipintegrazioni.it
Corsi di specializzazione
• Corso quadriennale di specializzazione in Psicoterapia
Integrata a indirizzo Fenomenologico/Esistenziale riconosciuto
dal M.I.U.R. per abilitazione all’esercizio dell’attività psicoterapica
con D.M. 20/03/1998 (G.U.N. 92 del 21/04/1998).
• Corso quadriennale di supervisione in Psicoterapia Integrata.
Incontri di pre-specializzazione in Psicoterapia Integrata:
Date degli incontri: sabato 7 aprile; sabato 5 maggio; sabato
2 giugno, sabato 7 luglio, sabato 8 settembre, sabato 6 ottobre.
Corsi di Counseling
• Corso di Counselor per docenti.
• Corso di Counselor socio-educativo per lo sport e le attività motorie.
• Corso di Counselor socio-educativo per il disagio
e la riabilitazione dei minori.
• Corso di Counselor socio-educativo con specializzazione
nella pratica dei linguaggi espressivi.
• Corso di Counselor socio-educativo ad indirizzo pastorale.
• Corso di Counselor per la salute indirizzato ai medici.
• Corso di Counselor per l’orientamento professionale
e universitario a indirizzo vocazionale.
• Corso di Counselor per la coppia e per la famiglia
(=mediatore familiare).
• Corso di Counselor ad orientamento pastorale.
Convegni
• «Dal manicomio alla riconquista della vita».
Prof. Luc Ciompi, Università di Berna.
Venerdì 18 e sabato 19 maggio 2007.
• «La personalità anoressica, icona del mondo moderno. Dialogo
tra scuole». Organizzato da AIPPIFE, ASPIC, SPC, SIPI.
Venerdì 19, sabato 20 e domenica 21 ottobre 2007.
APPROCCIO PSICOPEDAGOGICO ED ESPERIENZE CLINICHE
92
rie di strumenti atti a promuovere un vissuto, una percezione
e una rappresentazione del corpo, dell’orientamento spaziotemporale, della coordinazione formativi per la personalità:
specchi, forme, angolo-relax, ecc.
Un laboratorio funzionale alla prevenzione e al recupero
dei disturbi specifici dell’apprendimento sarà supportato da
strumenti quali lavagne, tabelloni murali, PC, audioregistratori, video, che si esprimono come alternative didattiche al foglio
e alla penna.
L’arte-terapia
Essa, come la definisce Naumburg (1966), si orienta sul riconoscimento che pensieri e sentimenti fondamentali di un soggetto
sono derivati dall’inconscio e raggiungono la loro espressione
nelle immagini, piuttosto che nelle parole.
Kramer (1985) la definisce «formulazione della cosiddetta
esperienza interiore».
L’arte terapia è un intervento di aiuto e di sostegno alla persona a mediazione non verbale, che utilizza i materiali artistici e
il processo creativo come sostituzione o integrazione della comunicazione verbale, nell’interazione con l’operatore.
L’intervento si svolge attraverso un momento attivo, in cui la persona è protagonista di quanto avviene: il paziente esprime contenuti personali – che possono essere ricordi, sensazioni, sogni,
desideri, emozioni – con il dipingere, il disegnare e il modellare.
Questo percorso avviene in un luogo protetto dove l’arte terapeuta prepara i materiali e l’ambiente in modo da creare un clima di rilassamento e tranquillità. In questo intervento è impor-
tante la relazione con l’arte terapeuta che crea il contesto relazionale adatto perché il paziente senta di potersi fidare e inizi il
percorso espressivo.
L’arte-terapia, come precisa la professoressa Imperatore13,
pone obiettivi primari di:
– rafforzare la struttura e i meccanismi adattivi dell’Io;
– svolgere un’azione catartica;
– far emergere e chiarire i contenuti interiori latenti;
– sviluppare la capacità di integrazione e relazione con gli altri;
– aiutare a realizzare un migliore controllo degli impulsi;
– dare sfogo a tensioni/conflittualità emotive.
Il gioco
Esso potrebbe qualificare la metodologia per eccellenza nella
scuola e con gli alunni diversamente abili: purtroppo spessissimo
capita che, nel passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola
elementare, la foga nel terminare i programmi porti i docenti a
dedicarvi sempre minor tempo.
Il gioco si rappresenta come strumento di apprendimento
fondamentale dall’infanzia all’età adulta ed esso pertanto rappresenta un elemento motivazionale di primaria importanza per
promuovere lo sforzo che porta alla conoscenza, alla competenza, al coinvolgimento e all’autodeterminazione.
Non si riescono in questa sede a elencare le strategie innumerevoli di gioco, che non vanno comunque intese solo quali i
giochi di regole, di socializzazione, di competizione, ma anche e
soprattutto il gioco come modalità didattica e terapeutica per gli
informazioni, opportunità e promozioni aspettano i titolari
della card Magieoltre
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APPROCCIO PSICOPEDAGOGICO ED ESPERIENZE CLINICHE
93
alunni diversamente abili, quindi come strategia che sottenda significativamente ogni obiettivo educativo/formativo.
L’utilizzo delle tecnologie informatiche
L’utilizzo del computer nella didattica sta assumendo un rilievo
considerevole nella scuola italiana, anche se non sempre al proliferare dell’hardware si associano software adeguati alle esigenze e specifiche competenze nella gestione degli stessi.
Le prospettive che si aprono per facilitare l’apprendimento
dell’alunno in situazione di handicap sono notevoli, e riguardano sia aspetti curriculari (per esempio, esercitazioni sulle abilità
strumentali di lettura, scrittura e calcolo), sia la possibilità di gestire in maniera controllata progetti di recupero e programmi
prettamente riabilitativi.
Per l’intero gruppo-classe e quindi anche per l’allievo con
handicap l’uso dello strumento informatico in un laboratorio
appositamente attrezzato può costituire, e ormai costituisce,
un’opportunità interessante, che può avvicinare l’allievo alle
attività svolte dal resto della classe e viceversa, oltre che qualificarsi come elemento che motiva maggiormente gli studenti
rispetto a una lezione classicamente organizzata (si veda, per
esempio, una lezione frontale): l’interazione con il computer
permette di focalizzare l’attenzione per tempi prolungati su
dei compiti e facilita la gestione di esercitazioni in maniera
autonoma.
Due strategie di lavoro di gruppo: il circle time,
il focus group
È ormai abitudine interagire, all’interno dei contesti lavorativi nei
quali operano gruppi di azione, per migliorare l’offerta del team
attraverso strategie come quelle del circle time (letteralmente:
tempo del cerchio) e del focus group.
Attraverso la prima strategia si favorisce la relazione fra tutti i componenti del gruppo, dando valore a ogni affermazione e
accettando senza necessariamente condividere proposte e comunicazioni di ognuno.
All’interno del contesto scolastico utilizzare questa strategia
di lavoro vuol dire per il docente: osservare gli allievi in maniera complessa, cogliere le dinamiche che emergono nello spazio/tempo dedicato all’attività, rilevare disagi e conflitti tra studenti, dare maggiore attenzione all’ascolto/scambio/dialogo rispetto a una lezione frontale.
Già la strutturazione dello spazio, in cerchio appunto, senza
la mediazione del banco, e con la possibilità di interagire anche
con lo sguardo con ogni compagno, predispone positivamente a
un lavoro che tende a favorire una riduzione delle resistenze e
quindi una crescita del gruppo, che diviene «terapia» preziosa per
l’alunno diversamente abile.
Attraverso il focus group, con la mediazione didattica del
docente/moderatore, la discussione può essere innanzitutto
tradotta in un articolato giudizio che permette all’insegnante
(al team di insegnanti) di capire meglio e rispondere adeguatamente alle esigenze dei ragazzi e quindi calibrare le proprie
modalità (nei tempi, negli spazi) di intervento. Rispetto a un
questionario il focus ha l’indubbio vantaggio, per il docente
che ne abbia competenze acquisite, di permettere al moderatore di esaminare anche i processi cognitivi e di pensiero che
sottendono la definizione delle categorie utilizzate durante la
discussione.
E per traslare il discorso dalle possibilità di offerta formativa
alla didattica speciale, in modo da poter soddisfare il più efficacemente possibile i bisogni formativi degli allievi diversamente
abili, le strategie di valutazione e intervento di derivazione cognitivo-comportamentale, i sistemi di insegnamento strutturato,
la facilitazione di varie forme di comunicazione, l’educazione alla percezione degli stati mentali propri e altrui, l’adattamento degli obiettivi individualizzati a quelli di classe e viceversa, l’utilizzo adeguato della «risorsa compagni» rientrano fra tali opportunità. Questa analisi prende di conseguenza in considerazione
due ulteriori aspetti di notevole significato operativo per i fini che
persegue un piano di lavoro individualizzato, che sono quelli di
indicare metodologie praticabili per favorire l’integrazione scolastica dei diversamente abili come obiettivo trasversale e costantemente presenti agli altri:
– l’utilità di promuovere la conoscenza dei deficit e dell’handicap in classe;
– la possibilità di avvalersi delle nuove tecnologie informatiche.
Promuovere la conoscenza dei deficit
e dell’handicap in classe
Come già indicato nell’importanza di approcciare un piano
didattico substratificato da un clima sereno e accogliente, nel
momento in cui viene stimolata nei ragazzi una conoscenza
adeguata e una valorizzazione dei compagni tutti, attraverso
un’educazione all’equazione «diversamente= diversa…mente», è più facile che si attivino azioni prosociali di aiuto e sostegno. E se ciò in generale vale per ogni componente del
gruppo-classe, esso si esprime soprattutto con lo studente con
handicap, in quanto è necessario che i compagni capiscano,
interiorizzino e consapevolizzino che alcune particolarità
comportamentali, come le scarse relazioni sociali o alcuni atteggiamenti aggressivi (soprattutto su queste fa leva il gruppo
in fase preadolescenziale) non sono dovuti ad aspetti/atteggiamenti che vanno pertanto scherniti, ma sono conseguenze
inevitabili di un deficit.
Ideale sarebbe, in misura all’età e alla conoscenza geneScuola superiore
di psicologia applicata
«G. SERGI»
Riconoscimento giuridico D. P. G. R. n. 929 del 19/04/1983
Giornate di Studio su: I DISTURBI DELL’APPRENDIMENTO
Prof. Cesare Cornoldi - Prof.ssa Rossana De Beni (Università di Padova)
31 Maggio - 1 Giugno 2007
31 Maggio – ore 15:30–19:50
• Introduzione: Dott.ssa Sofia Ciappina, psicologa specialista in Valutazione Psicologica, responsabile
scientifico della Scuola Superiore di Psicologia Applicata «G. Sergi»
• METODI DI LAVORO CON BAMBINI CON DISTURBI SPECIFICI DELL'APPRENDIMENTO
Prof. Cesare Cornoldi
1 Giugno – ore 14:30-19:30
• GLI ASPETTI EMOTIVI E MOTIVAZIONALI
• DIFFICOLTÀ DI APPRENDIMENTO DELLA
Prof.ssa Rossana De Beni
MATEMATICA
Prof. Cesare Cornoldi
• GLI ASPETTI METACOGNITIVI
L’attività formativa è
1 Giugno ore 8:30-13:40
Prof.ssa Rossana De Beni
rivolta prevalentemente
• LA DISLESSIA
alle seguenti figure
• QUESTIONARIO DI VERIFICA
Prof. Cesare Cornoldi
professionali:
• MEDICO CHIRURGO
8 crediti
• I DISTURBI DELLA COMPRENSIONE
• PSICOLOGO
8 crediti
DELLA LETTURA
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in attesa di accreditamento
Prof.ssa Rossana De Beni
• PSICOMOTRICISTA
• INSEGNANTI
AUDITORIUM SCUOLA SUPERIORE DI PSICOLOGIA APPLICATA «G. SERGI»
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APPROCCIO PSICOPEDAGOGICO ED ESPERIENZE CLINICHE
94
rale della classe frequentata dall’allievo con diversa abilità, la
conoscenza del deficit o della patologia attraverso un’attività
organizzata in modo completo: si può andare da semplici
spiegazioni degli aspetti principali della sindrome, alla visione di trasmissioni televisive sull’argomento o di film che hanno presentato mirabilmente storie riferite a persone con handicap simili, alla lettura e commento di biografie di persone/personaggi, fino allo studio scientifico delle conoscenze
disponibili sui correlati neurofisiologici, relazionali, apprenditivi intorno a quella disabilità.
CONCLUSIONE
L’intenzione perseguita da questo lavoro articolato in quattro
contributi era quello di considerare il bambino autistico nella
sua esperienza scolastica, cercando di individuare degli itinerari per favorire il processo d’integrazione. Ho messo in risalto come la situazione che si viene a determinare nel momento in cui in una classe viene inserito un allievo affetto da
autismo sia in realtà molto complicata, in considerazione delle particolarità cognitive e comportamentali che presenta.
Partendo da questo presupposto, ho cercato di individuare alcuni percorsi metodologici tenendo in considerazione due
aspetti principali:
– da un lato l’esistenza di vari approcci di trattamento dell’autismo, sperimentati a livello internazionale, che hanno
dimostrato la loro efficacia, seppure in contesti differenti
da quello scolastico;
– dall’altro la necessità di coniugare le indicazioni tecniche
con un’attenzione alle principali metodologie per facilitare l’integrazione, che da più parti sono state proposte. Mi
riferisco, in particolare, alla possibilità di adattare gli
obiettivi della classe e quelli individualizzati per renderli,
almeno in alcune parti, compatibili; all’organizzazione
delle attività in gruppi cooperativi; all’utilizzazione adeguata della risorsa compagni; allo studio del deficit in
classe; all’opportunità di far riferimento alle nuove tecnologie informatiche.
Lo sforzo, in sintesi, è stato quello di portare un contributo per la delineazione di una didattica speciale per l’integrazione del bambino autistico. Pur nella sinteticità del lavoro,
spero comunque che gli educatori possano trovare alcuni stimoli che li aiutino nel loro procedere quotidiano.
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CORSO DI PSICOLOGIA
E PSICOPATOLOGIA IN ONCOLOGIA
E NELLE PATOLOGIE ORGANICHE GRAVI
(48 crediti ECM)
I° modulo: 21-25 Maggio 2007
II° modulo: 4-8 Giugno 2007
NOTE
Possiamo generalizzare a tutti gli ordini di scuole.
Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati nella scuola secondaria 1° grado (24/12/2002).
3.
Si userà indistintamente il termine «ragazzo», «studente», «allievo»,
«alunno».
4.
I primi due mesi almeno se si tratta di uno studente che frequenta per la prima volta quella classe.
5.
In genere accanto alla cattedra.
6.
Si generalizzi il concetto, ma lo si consideri relativo nei suoi aspetti più dettagliati alla personalità dell’alunno in questione, alla diversa abilità di cui è
portatore, al contesto e alla situazione contingente.
7.
Cui spesso invece si incorre, specie quando, essendo docenti di sostegno, si
trattano tipologie di handicap (EH – DH - CH), una patologie specifiche (autismo, sindrome di Down, ecc.).
8.
E ciò è strettamente in relazione alla gravità della patologia, al «punto dello spettro» in cui si posiziona il suo disagio psichiatrico/psichico.
9.
Il senso di traguardo minimo va inteso in maniera generalizzata, in quanto
esso si precisa in relazione alla tipologia di handicap di cui è portatore l’alunno, o anche può considerarsi come traguardo minimo in una precisa acquisizione strumentale (per esempio, matematica) e non in un’altra. Inoltre,
per es. per alunni che presentano patologie cosiddette molto gravi, occorre
rendere semplificato il percorso di apprendimento, le operazioni cognitive,
gli items proposti.
10.
Motivazione: insieme di meccanismi biologici e psicologici che determinano l’azione, il suo orientamento, la sua intensità, la sua persistenza. Essa è
notoriamente divisa in estrinseca (voti, premi, ricompense, ecc.) e intrinseca (ricerca di un’attività per l’interesse che essa procura per il soggetto o di
per sé).
11.
Cooperative learning: al fine di massimizzare l’apprendimento del gruppo
più studenti operano in attività di scambio di esperienze, competenze, conoscenze, dipendendo in maniera interattiva gli uni dagli altri, considerando il
supporto di ognuno indispensabile al gruppo.
12.
Comportamenti patologici relativi alla motricità: alterazione dell’immagine di sé, disprassie, inadeguata lateralizzazione.
13.
Laboratorio di didattica speciale. C/l Scienze della Formazione Primaria.
Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa, Napoli.
1.
2.
BIBLIOGRAFIA
BROTINI M., Le difficoltà di apprendimento, Pisa, Edizioni Del Cerro, 2000.
BRUNATI L., SORESI S., «Un programma di coinvolgimento precoce per facilitare l’integrazione scolastica degli handicappati», in S. Soresi (a cura di), Difficoltà di apprendimento e ritardo mentale, Pordenone, ERIP,
pp. 311-331.
COTTINI L., Che cos’è l’autismo infantile, Roma, Carocci.
L’integrazione scolastica del bambino artistico, Roma, Carocci.
IAVARONE M.L., IAVARONE T., Pedagogia del benessere, Milano, Franco
Angeli, 2004.
IMPERATORE A., «Educazione all’immagine», in Frauenfelder, Zeuli, Orefice
(a cura di), Verso una nuova scuola, Napoli, Edizioni Tecnodid, 1986.
MASONI M., MEZZANI B. (a cura di), La relazione educativa, Milano, Franco
Angeli, 2004.
PARMIGIANI D. (a cura di), Tecnologie per la didattica, Milano, Franco
Angeli, 2004.
PILONE M., MUZIO C., La valutazione del pensiero strategico. Assessment
per il ritardo mentale e i disturbi di apprendimento, Brescia, Vannini
Editrice, 2003.
ROLLERO P., Le (in)compatibilità fra individualizzazione e integrazione efficace nel gruppo classe: alcune strategie di intervento, «Handicap e
Scuola», 3, 1997.
SARACINO V., Progettare la formazione, Lecce, Pensa Multimedia, 1997.
TRISCIUZZI L., Manuale di didattica per l’handicap, Bari-Roma, Laterza,
1999.
TRISCIUZZI L., GALANTI M.A., Pedagogia e didattica speciale per insegnanti di sostegno e operatori della formazione, Pisa, Edizioni ETS,
2001.
WINNICOTT D.W., Gioco e realtà, Roma, Armando, 1974.
CALENDARIO CONVEGNI
95
Catanzaro, 23-26 Maggio 2007
2nd Joint Meeting on Adolescence Medicine
Problematiche etiche, mediche e sociali
del «nuovo» adolescente
Teatro Politeama
Segreteria organizzativa: Chronos
tel. 0961.744565-707833 fax 0961.709250
[email protected]
Macerata, 24-27 Maggio 2007
15° Convegno Scientifico
Relazioni e Strutture
Sviluppi della teoria della Gestalt in psicologia
e campi affini
Conference Committee Macerata 2007
[email protected]
www.gestalttheory.net/con/
Chieti, 25-27 Maggio 2007
IV Congresso Nazionale GRP
Modelli teorici e aspetti clinici a confronto:
la concezione multidimensionale
della psicosomatica moderna
Università «G. D’Annunzio», Chieti-Pescara
Segreteria Organizzativa: tel. 0871.3555214
[email protected] ;
[email protected]; [email protected]
Montesilvano (PE), 26 Maggio 2007
Convegno
Teoria e modelli in psicoanalisi
Serena Majestic Hotel – Viale Maresca 12
Per informazioni: S.I.P.P.
tel. 06.85358650 fax 06.62276737
[email protected]
Bologna, 26-27 Maggio 2007
Convegno
Famiglie ipermoderne nelle cure psicoanalitiche
Hotel Europa – Via Boldrini
Segreteria Organizzativa: tel. 06.6786703
fax 06.6786684
[email protected]
Roma, 28 Maggio 2007
Convegno
L’adolescenza «liquida»
Nuove identità e nuove forme di cura
Residenza di Ripetta
Via di Ripetta, 231
Per informazioni: IPRS
tel. 06.32652401 fax 06.32652433
[email protected]
Palmi (RC), 31 Maggio – 01 Giugno 2007
Convegno
I disturbi dell’apprendimento
Segreteria Organizzativa:
tel. 0966/22136 fax 0966/22161
[email protected]
Milazzo (Messina), 1-2 Giugno 2007
Convegno
Salute e equilibrio nutrizionale in pediatria
Duomo Antico Castello di Milazzo
Segreteria organizzativa: Servizitalia
tel. 091.6250453 fax 091.303150
[email protected]
Padova, 7-9 Giugno 2007
7° Congresso nazionale
Disabilità, trattamento, integrazione
Facoltà di Psicologia Università di Padova
Via Venezia, 12-13
Segreteria organizzativa: tel. 049.8278464
fax 049.8278451
[email protected]
Torino, 8 Giugno 2007
Giornata di studio
Religione, Scuola, Educazione e Identità
Sedi: Università degli studi di Torino –
Facoltà di Scienze della formazione
Fondazione Feyles – Via Maria Vittoria, 38 Torino
Università degli studi di Torino – Aula Magna del
Rettorato
[email protected]
Cetraro (Cosenza), 8-9 Giugno 2007
Convegno
Quando le sopravvissute partoriscono
Grand Hotel S. Michele
Segreteria Organizzativa:
tel. 0982.977294 fax 0982.977294
[email protected]
Frosinone, 8-9 Giugno 2007
Convegno
La riabilitazione nella prassi psichiatrica
Dalla sofferenza verso l’autonomia
tel. 0775.854426 – 347.4110368
[email protected]
Milano, 8-9-10 giugno 2007
Psiche, Affetti e Tecne
Collegio San Carlo – Via Morozzo della Rocca, 12
Per informazioni: Promoest Milano
tel. 02.43911468 fax 02.48018575
[email protected]
www.coirag.org
Milano, 9 Giugno 2007
Convegno
Bambini con disordini dell’attaccamento
in affido e adozione
Interventi clinici e psicosociali
Auditorium Palazzo Kramer – via Kramer 5, Milano
Segreteria organizzativa: tel./fax 02.29511150 –
349.3109575
[email protected]
Bra (Cuneo), 14 Giugno 2007
Congresso
La psicologia nei servizi sanitari e l’umanizzazione
delle cure. Formazione, Organizzazione, Benessere
Teatro Politeama «Foglione»
Segreteria organizzativa: tel. 0173.316077
fax 0173.316548
[email protected]
Firenze, 14-17 Giugno 2007
Congresso
Umorismo e altre strategie per sopravvivere
alle crisi emozionali
Palazzo dei Congressi – Piazza Adua, 1
Promo Leader Service Congress Srl
tel. 055.2482271 fax 055.2482270
[email protected]
Lugano Svizzera, 14-16 Giugno 2007
5° Congresso Europeo
Tra distruttività e creatività: I disturbi
della personalità dal bebè all’adolescente
Palazzo dei Congressi
Per informazioni: AEPEA
tel. 00441.918152151 fax 00441.918152159
[email protected]
www.ti.ch/aepea-lugano2007
Roma, 15 Giugno 2007
XII corso internazionale di medicina
transculturale
Ali…e radici..
Aula Raffaele Bastianelli, I.F.O, via Ognibene, 25 –
Roma Mostacciano
Per informazioni:
tel. 06.58543780 fax 06.58543686
[email protected]
Valmontone, 16 giugno 2007
La sfida del cambiamento: L’infermiere
in psichiatria. Ruoli e competenze
Segreteria organizzativa: Comunità Socio-Riabilitativa «Francesco»
Per informazioni: tel. 06.9596383
Napoli, 21-24 Giugno 2007
IV Congresso internazionale interdisciplinare CISAT
di Psicologia,Psicoterapia e Letteratura
La forma dell’anima. L’Arteterapia
come psicologia clinica
Per informazioni: CISAT
tel. 081.5461662 – 339.2854243
fax 081.2203022
[email protected]
Pescara, 7 luglio 2007
Convegno
Le artiterapie per colorare la vita
Per informazioni: tel. 085.4914348
cell. 347.2952894
[email protected]
www.artelieu.it
Napoli, 20-22 settembre 2007
10° Congresso della Società Italiana
di Psichiatria Biologica (SIPB)
Psicopatologia e Neuroscienze
Per informazioni: tel. 081.5666501
[email protected]
Per la vostra pubblicità:
Periodico quadrimestrale
in distribuzione gratuita
Uscite:
gennaio-maggio-settembre
100.000 abbonati
on-line su
www.babelenews.net
–
camilla appelius
UFFICIO PUBBLICITÀ
tel.06.84.24.24.45
fax 06.85.35.78.40
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–
Gentili lettori,
con la presente lettera desidero mettervi a conoscenza di un’importante decisione
in merito al futuro di Babele.
Dopo 11 anni (con 35 numeri pubblicati) di distribuzione gratuita che tre volte
l’anno continua a raggiungere più di 100 mila abbonati, si rende ora necessaria
l’introduzione di un abbonamento a pagamento.
Il motivo di questa scelta è dovuto al costante aumento dei costi della carta
e di quelli tipografici, che non consente più la pubblicazione della rivista senza
un apporto, anche se minimo, dei suoi lettori.
Vi riassumo brevemente le principali novità che verranno introdotte a partire dal
mese di gennaio 2008 e vi invito fin d’ora a contattarci per ogni dubbio e/o ulteriore
informazione, scrivendo al seguente indirizzo mail: [email protected]
l’abbonamento a pagamento avrà inizio dal mese di gennaio 2008
il suo costo sarà di 9,00 euro l’anno (3 numeri)
l’importo dell’abbonamento sarà unico, sia per persone fisiche che enti,
associazioni, scuole, etc.
grazie alla collaborazione di vecchia data, l’abbonamento sarà gratuito
per i clienti delle Edizioni Magi (l’acquisto, per esempio, di almeno 1 volume
nell’arco del 2007 dà diritto all’abbonamento gratuito per l’anno 2008)
la campagna abbonamenti sarà gestita dalle Edizioni Magi
la modalità di abbonamento sarà la seguente:
– l’invio della richiesta d’abbonamento, con il consenso al trattamento dei dati
personali (potete utilizzare il modulo sottostante oppure quello presente sul
sito www.magiedizioni.com)
– il versamento dell’intera quota annuale sul C/C postale n. 90884008 intestato
a Edizioni Scientifiche Magi srl, via Giuseppe Marchi 4 – 00161 Roma.
Tutto il resto rimane invariato. Su Babele continueranno a trovare spazio articoli
finalizzati ad approfondire, da più punti di vista, le più diverse tematiche inerenti
agli ambiti psicologico, pedagogico, educativo e riabilitativo.
Certo della vostra comprensione e convinto di annoverarvi tra i nostri abbonati,
auguro a tutti buona lettura,
cordialmente
Il Direttore Responsabile
Dott. Riccardo Venturini
Repubblica di San Marino, 30 gennaio 2007
MODULO DI ABBONAMENTO
Compilare in stampatello (*campi obbligatori)
Cognome* . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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