Il fantasma materno

Transcript

Il fantasma materno
1
Gabriele Lodari
IL FANTASMA MATERNO
La questione è politica e si attiene strettamente all’argomento di questa lezione. Il fantasma materno è
infatti all’origine del fantasma di padronanza che caratterizza la nostra epoca. Si tratta allora di
ritrovare le radici del fantasma di padronanza nel fantasma materno.
Il fantasma di padronanza caratterizza la nostra epoca più che mai, e caratterizza in modo particolare il
discorso occidentale. La globalizzazione non ci permette più di localizzare con precisione ciò che possiamo
definire il discorso occidentale. Non vi è modo di tracciare una linea di confine tra oriente e occidente.
Basta leggere i testi canonici fondamentali del pensiero orientale per accorgersi che anche lì vi alligna il
fantasma di padronanza. In generale, ovunque sia tratteggiata una teologia, un’antropologia e una
morale conseguente, possiamo affermare che è necessario un fantasma di padronanza per sostenerla e
confermarla. Quindi fin dalle origini il fantasma di padronanza è diffuso, potremmo dire, sull’intero
pianeta. Questa considerazione ci permette di respingere alcune esagerazioni nell’attribuire al pensiero
greco la matrice ideologica del pensiero occidentale.
Qual è la caratteristica più evidente dell’epoca in cui viviamo? Il dominio della finanza e delle banche. Mi
pare che su questo punto possiamo essere tutti d’accordo. In che modo si esercita il potere della finanza?
Intanto potremmo dire che il tratto più evidente di questo potere è quello di essere in qualche modo
acefalo. Di essere caratterizzato da una tendenza molto forte non all’accentramento, ma allo
spostamento incessante del centro dei poteri, che ormai trascina con sé e conseguentemente controlla le
politiche delle varie nazioni e dei vari continenti. Quali sono gli strumenti che consentono al potere
finanziario di esercitare e consolidare il suo dominio? La ricerca e l’istituzione di un ordine
amministrativo, di una funzione ordinatrice che sia diffusa e che pervada ogni livello della vita collettiva,
e in grado di integrare ogni iniziativa particolare, di azzerare ogni tentativo anarchico del pensiero.
L’iniziativa singolare e inventiva del capitalismo di una volta (ma il consolidamento del capitalismo e la
sua concentrazione in grandi gruppi a carattere internazionale ha portato precisamente al dominio della
finanza) risulta ormai inibita e quasi del tutto impedita.
Per tornare alle questioni che ci interessano, occorre probabilmente leggere come conseguenza di questa
situazione più generale anche le battaglie che ci coinvolgono più direttamente. Il comportamentismo e le
scienze cognitive vivono il loro momento di euforia precisamente come riflesso di questa situazione
generale. Di per sé queste discipline di pensiero sono acefale e anzi è come se contenessero un dispositivo
di auto eliminazione che ritarda a entrare in funzione soltanto perché la situazione economica generale è
favorevole alla loro sopravvivenza. La lotta è difficile precisamente perché la complessità, il paradosso,
l’enigma che costituisce il cuore dell’esperienza della psicoanalisi, sono in qualche modo considerate come
uno scoglio da evitare. Così è per il dominio delle scienze. Occorre che siano verificabili. Occorre nutrire
incessantemente il fantasma di padronanza sulle cose, sul mondo, sugli esseri umani, per consentire alla
finanza di crescere e mantenere il suo dominio.
Un esempio estremamente significativo che può servire a confermare questa analisi e che riguarda più
direttamente la mia esperienza di lavoro è quella dell’ICF. Nel maggio 2001 l’OMS ha pubblicato la
“Classificazione internazionale del funzionamento, della salute e della disabilità” riconosciuto da 191
paesi come classificazione ICF che rappresenterebbe il nuovo strumento per descrivere, misurare la salute
e la disabilità delle popolazioni. “La classificazione ICF rappresenta un’autentica rivoluzione nella
definizione e quindi nella percezione di salute e disabilità (vasta dunque definire e classificare per
percepire). I nuovi principi evidenziano l’importanza di un approccio integrato che tenga conto dei
fattori ambientali classificandoli in maniera sistematica (ma quale sarebbe l’utilità della classificazione,
per di più sistematica?). Il nuovo approccio permette la correlazione fra stato di salute e ambiente
arrivando così alla definizione di disabilità come una condizione di salute in un ambiente sfavorevole”.
E come si effettua la classificazione? Con un enorme e dettagliato elenco di codici, sottocodici, caselle, che
riproducono pedissequamente l’ideologia di valutazione scolastica. Il mondo intero del disabile è
assimilato alla scuola. La scuola, ma anche la medicalizzazione dell’esistenza, si espande coinvolgendo
l’intera esistenza del disabile. In realtà, alla fine della compilazione dell’interminabile elenco delle voci,
2
c’è l’irrompere di una consapevolezza, ed è questo l’elemento che a noi interessa di più. L’ICF si rivela
come un elenco di voci che dovrebbero servire soltanto come guida per la compilazione di una relazione
finale dettagliata della situazione sociale e ambientale del disabile. Un po’ come le voci che la maestra
invitava a compilare che dovevano servire come traccia del tema. Dunque, alla fine tutto confluisce nel
racconto, nell’accettazione seppure a malincuore, che la singolarità di ciascuno non può essere azzerata
integrandola in un gelido sistema complessivo di codici e valutazioni che restano comunque grossolane se
non del tutto incongrue.
Il racconto conclusivo è certamente ricco e dettagliato, ma essendo costruito sulla base di un’algebra
tanto complessa, finisce per apparire come qualcosa di freddo, ripetitivo e meccanico. Il nostro disabile si
è ormai trasformato in un cadavere, seppure imbalsamato. A mancare è lo spirito del racconto, con la sua
ironia, e la singolarità dell’invenzione. A mancare è conseguentemente la consapevolezza che la relazione
è sempre in atto e sempre originaria, se vuole risultare efficace. L’etica del racconto di ciascuno è stata
sostituita dalla morale del fantasma di padronanza di ognuno.
Per questo la psicoanalisi si trova a mal partito nella nostra epoca, e forse, seppure in maniera più soft
rispetto alle epoche precedenti, si trova a correre il rischio (ma sta già avvenendo con le scuole di
psicoterapia) di essere integrata e inglobata in un sistema che anzitutto obbedisce alle esigenze
amministrative e burocratiche di un ordine globale. Il linguaggio stesso si è banalizzato, impoverito e
infine paralizzato, nel tentativo di stabilire il primato del codice, ovvero del concetto, sulla parola libera
e anarchica, la quale dovrebbe avvalersi piuttosto dell’equivoco, del paradosso e del malinteso, se
vogliamo essere conseguenti con l’invenzione freudiana.
Queste sono le conseguenze, che nel nostro gergo potremmo ben determinare come la sistematizzazione
del fantasma di padronanza.
Il fantasma di padronanza, dicevamo, è il fantasma materno. Come intendere questo accostamento?
Qui dovremmo addentrarci nell’indagine sul fantasma. Possiamo definire fantasma la relazione singolare
con cui ciascuno si rapporta con l’oggetto del desiderio dell’Altro. È il modo in cui Lacan lo ha introdotto
svincolando dal forte impatto immaginario che aveva subito con Melania Klein e in generale con i post
freudiani. Lacan arriva a scrivere il màthema del fantasma: soggetto barrato-losanga- oggetto piccolo a.
E su questa formula sono stati versati fiumi d’inchiostro. È forse preferibile in questa sede rimanere
ancorati a riflessioni più generali, politiche, istituzionali, centrando la teoria psicoanalitica intorno alle
questioni che ci riguardano.
Un altro angolo di visuale da cui cogliere la nostra epoca è quello che la considera caratterizzata dalla
prevalenza del sapere tecnico e scientifico e, marginalmente, da una filosofia che stenta a ritrovare una
propria autonomia di pensiero e che è costretta, quando vorrebbe riformulare le eterne domande sulla
vita e sulla morte, a ricadere nelle varie posizioni del passato, non riuscendo a emanciparsi
dalI’imposizione del metodo della scienza con le sue certezze.
Se ci chiediamo cosa sappiamo più dei nostri progenitori, siamo immediatamente in una situazione di
perplessità, anzi non possiamo che incappare nel paradosso. Grazie alla scienza sappiamo molte cose, che
sono state fino ad oggi scoperte e che erano rimaste ignorate. Per un altro aspetto non sappiamo quasi
nulla. Invero, sappiamo quasi tutto, salvo l’essenziale. Un bambino di otto anni oggi ne sa di più
sull’universo e sul proprio corpo di quanto ne potessero sapere i grandi filosofi del passato. Ma,
consultate tutti i premi Nobel e sicuramente non sapranno dirvi di più sulle grandi questioni di sempre,
intorno alle quali gli antichi hanno saputo disquisire anche sottilmente: il senso e il destino dell’uomo,
dell’universo e della vita, il tempo, la morte. La vita a venire possibile o impossibile. Non sapranno dirvi
più di quanto non avrebbe potuto fare un bambino dell’Atene di Pericle.
Si direbbe che l’uomo, il mondo e l’universo, le cui regole interne parrebbero essere flessibili a un certo
modo e grado di conoscenza, per contro vogliano preservare fuori e dentro loro stessi un enigma. Anzi, il
pensiero dell’uomo, e le sue costruzioni consentite dalla scienza, sembrano fatte apposta per preservare
questo enigma. Per rinviarlo indefinitamente oltre se stesso. Il progresso del sapere forse consiste soltanto
nel fatto che ha finito proprio per assegnare un valore sia pure eccentrico all’enigma in quanto tale. Un
enigma che non vale che per quello successivo e, rispetto al quale, i più avvertiti ormai disperano di poter
trovare una soluzione possibile. Ovvero, un autentico enigma.
Un enigma che incessantemente non fa che rinviare alla domanda che suscita. E quindi una domanda che
finisce per valere soltanto in quanto tale, ossia come domanda. Ecco il paradosso: una domanda senza
3
risposta è forse il risultato più autentico conseguito dalla ricerca scientifica. Rispetto a un tale enigma è
come se anche il pensiero dell’uomo, quello scientifico in particolare, si rivelasse surrettizio, un inutile
orpello, una matrice vuota essendo occupata soltanto da una risposta che appare con evidenza settoriale
e insufficiente.
Con il progresso della scienza, il limite dell’essere umano si è scritto con maggior precisione fino a
diventare un dato di esperienza incontrovertibile. Ecco il risultato conseguito dalla scienza.
L’impasse e il paradosso che incontriamo pensando alla storia del pensiero e alle sue realizzazioni lo
ritroviamo in pieno se pensiamo alla storia del singolo individuo, tanto che l’una può consentirci di
ripensare l’altra e viceversa. Potremmo domandarci: a quale scopo? Per giungere dove? A essere pratici,
a essere astratti? Oppure ad ambedue le condizioni?
La psicoanalisi, a ben pensarci, non fa che tentare di riavvolgere il nastro della vita di ciascun individuo,
ma insieme coinvolge anche la storia umana, per trovarsi inevitabilmente confrontata anch’essa con un
enigma; che tuttavia è prossimo a quello originario, benché non possa che risultare ancora una versione
tra le altre possibili dell’enigma in quanto tale. La differenza fra la psicoanalisi e le altre scienze o la
religione, consiste proprio nel fatto di considerare l’enigma come una risorsa per la varietà delle domande
possibili. Non più un mistero, cioè un enigma universale e finale che attende una risposta conclusiva, ma
svariati, molteplici enigmi che attendono articolazione incessante e non si acquietano in alcuna risposta.
Con le loro risposte filosofiche, scientifiche o religiose, gli esseri umani hanno sempre cercato di evitare il
confronto con l’enigma, propriamente svalutandolo in quanto tale, ovvero in quanto enigma che
consente il rinvio della domanda. L’autentico risultato della scienza parrebbe almeno quello di averli
costretti a riformularlo, trascurando, se non annullando del tutto, le risposte immutabili che in passato
avevano costruito. Possiamo dire che non volevano essere pienamente consapevoli che la bellezza della
vita consiste nell’articolazione dell’enigma, non nella risposta che è sempre condannata anch’essa al
differimento, inevitabilmente.
La vita sono le versioni infinite della vita.
Il bene e il male, il positivo o il negativo, l’avvenire radioso o la catastrofe, addirittura il passato (non
presumiamo di conoscerlo essendo, appunto, già passato?) favorevole o svantaggioso, non potranno più
intaccare l’enigma originario perché ormai non lo precedono. L’enigma originario non è propriamente
identificabile, perché sopravvive unicamente nelle infinite versioni sempre diverse che cercano di
determinarlo. La bellezza della vita può ora consistere nella varietà delle versioni della domanda
essenziale sulla vita. Qualcuno ha già considerato il fatto che la prova dell’esistenza di Dio è data
unicamente dalla libertà infinita che ciascuna parola ha di dirla, di esprimerla, la vita. Qualcuno ha
considerato che la libertà della parola coinvolge anche il limite della vita e quindi la morte. Potremmo
allora dire che, soprattutto con la psicoanalisi, l’enigma originario è la facoltà di parlare, l’infinita varietà
dei significati che la parola può assumere giocando con se stessa. Il gioco del parlare è un gioco senza fine
poiché il suo limite è per così dire interno, e ciascuna volta finisce per dissipare anche quello della morte.
L’evidenza più certa e accreditata, quella della nostra natura mortale, ritorna ad essere soltanto una
frase. Il mistero della morte (la morte come un tutto insondabile) si diluisce e quasi si dissolve nell’enigma
della vita, ossia nel limite della libertà della parola.
La psicoanalisi è la consapevole filosofia della nostra epoca. Consapevole che la tautologia è la morte.
Potremmo asserire che pensando la morte nella comune maniera, noi senza accorgercene abbiamo sempre
scambiato fra loro la fine e l’inizio della vita, per farne una sola cosa nella credenza di una morte
originaria. La vita, intesa allora come una breve parentesi fra le due morti. E la morte un solo unico
impasto. E dunque anche la vita una sola morte. Se della fine nulla o quasi nulla sappiamo, è sicuro che
l’inizio è piuttosto la tautologia considerata proprio nel momento inaugurale e insondabile in cui essa si
spezza. In qualche modo noi procediamo dissipando la tautologia, questo forse possiamo dirlo. Retaggio
della scienza? della religione? della psicoanalisi? Basta forse dire: un nuovo modo di formulare le
questioni di sempre. Per la psicoanalisi il percorso della vita, dalla nascita alla morte, non è che una
metafora della pulsazione della parola. La morte e la vita non precedono le vicissitudini della parola.
L’infante, dunque. Se le precedenti osservazioni sono in qualche modo plausibili, le molte risposte alle
domande sulla vita e sulla morte, a quale versione originaria ci conducono quando siano riportate
indietro, alla prima scena dell’esperienza dell’uomo, all’infanzia?
4
Possiamo ora constatare che domandare perché esiste la morte equivale a chiedere perché esiste il
fantasma materno. Perché esiste il fantasma materno? Equivale a chiedere perché esiste la credenza nel
codice, nel detto, nell’enunciato, nella sostanza, nel fatto, nel soggetto, nel tempo passato, presente o
futuro. A chiedere come capita che indugiamo nella parola spazializzata.
È una madre a conferire alla legge il tono dell’irrevocabile, a fare della legge un precetto, un
comandamento. La tautologia è una madre senza l’Altro. Il fantasma materno consiste nella credenza nel
codice, nella legge già scritta, ovvero nella versione unica del volere paterno.
Perché la legge è del padre? Non è certo del padre genealogico. La legge procede dal nome in funzione, dal
nome funzionale; è la legge della sintassi. Un padre funziona quando consente al nome di funzionare, il
nome funzionale, ovvero il nome in quanto nome, il nome per il quale è in funzione l’equivoco e
l’apertura. Un nome a partire dal quale è possibile il rinvio al significante, al significante differente da sé.
Un significante che non rinvia al successivo evidenzia che ha un nome bloccato alle spalle, un nome che
non funziona. Una legge diventata imperativo assoluto.
Che cosa vuole un padre? È una domanda che non può essere rivolta al padre, è una domanda che ha
senso, ovvero che significa, soltanto in riferimento a una madre. Una madre che non sia presa nel
racconto, che non acconsente a farsi mito e racconto, rinvia al nome del nome, alla versione unica del
detto paterno. Peraltro, un padre si limita alla funzione di nome, si limita a indicare l’equivoco che
permette al nome di funzionare. Nessuna sostanza del padre, del figlio. Nulla che proceda se non da un
padre, ovvero da un nome in funzione. Persino l’amore e l’affetto di una madre procedono dal padre.
L’amore da un padre, e l’affetto, solitamente, da una madre. Ma l’affetto di una madre è mortifero se non
è vivificato dall’amore che procede dal padre (anche quando è la madre a incarnarlo), cioè dal nome
funzionale.
Una madre senza il tempo e l’Altro, è soltanto la morte. Una madre può essere indice del tempo soltanto.
Non è una funzione quella di madre. Ecco la possibile caratterizzazione di una madre: colei che può
presentarsi come indice del tempo. È anche il rischio dell’apertura che ciascun umano deve saper correre.
Una madre è inoltre indice dell’Altro e quindi accenna al nome.
La morte senza l’Altro è ancora una madre; è la tautologia. Che cosa è dunque una madre se non il primo
indizio della possibile apertura della parola? Una madre è l’indice dell’impossibilità di superare il
malinteso della parola, dunque della parola che comincia a funzionare in quanto tale. Soltanto un indice
perché la madre non è una funzione, come lo è la funzione paterna. Occorre, come per un padre, che un
mito si costruisca, il mito della madre oltre a quello del padre. Per garantire che l’Altro non venga a
mancare. Una madre è la strada della morte quando l’Altro è abbandonato. Ecco la ragione per cui è
stato accostato il regno dei morti a quello delle madri.
La morte e l’erotismo sono accomunati dall’essere nella tautologia: è il cerchio chiuso in cui la fine
coincide con l’inizio. Invece l’apertura non ha a che fare con l’inizio né con la fine di qualcosa. L’apertura
della parola supera il cerchio chiuso dell’inizio e della fine della vita o di qualsiasi cosa. Un infante è
condannato alla psicosi quando è condannato alla tautologia. Non c’è una madre che guarda altrove.
Insieme a Goethe: quello delle madri è il regno delle forme già date da sempre. Aggiungiamo: delle madri
che non sono più in grado di rinviare al tempo della parola e dell’Altro; qui può darsi soltanto un
florilegio immaginario terribile e devastante. Tolto il malinteso e l’indice del tempo, è la totale confusione
e il fraintendimento. La forma già data è il regno della necessità. Un incubo, il terrore di un sogno senza
tempo, incastrato nel presente, al quale non si può reagire che tentando di supplire in modo parodistico
con accenni di follia.
Tolto il ritmo dalla parola, si ricade nella tautologia. Forse la psicosi non è che la strategia con cui
ciascuno si sforza di svincolarsi dalla tautologia, se la pazzia è l’incontro in un regno senza tempo con
l’ombra di una madre.