che fine ha fatto il tuo cuore

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che fine ha fatto il tuo cuore
Stefania Rossotti
Che fine ha fatto
il tuo cuore
Storie di figlie. E di madri incapaci di amare
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Dello stesso autore
nella collezione Strade blu
Ti parlo da una vita
L’Editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti delle immagini senza riuscire a reperirli; è ovviamente a piena disposizione per l’assolvimento di quanto occorra nei loro confronti.
Che fine ha fatto il tuo cuore
di Stefania Rossotti
Collezione Strade blu
ISBN 978-88-04-63067-8
© 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
I edizione aprile 2013
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Che fine ha fatto il tuo cuore
Ad Alba Marcoli,
che sa accarezzare le mamme
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La nostra prima carezza
Hai smesso di parlare da un giorno. Ma respiri.
Ieri, la tua ultima frase è stata: «Chissà se Marco troverà
un altro lavoro?». Avrei voluto risponderti: «Chi se ne frega». Ho detto: «Ma sì, mamma, non ti preoccupare».
Mi senti? Hai usato il tuo poco respiro per interrogarti sul destino di un vicino di casa. L’ultima domanda della
tua vita non è stata per me.
Mi alzo di scatto dalla poltrona che ho sistemato vicino al tuo letto. Vado via perché ho voglia di scuoterti, di
strapparti di dosso quella faccia assente. Sei già da qualche altra parte e io ti voglio qui. Voglio che tu mi dica addio, che mi racconti quanto sia stato fondamentale e bello
e unico avermi. Voglio che ti domandi che ne sarà di me.
Voglio vedere le tue lacrime. E le mie, che non conosco. Tu
fissi il tuo buio, zitta.
Hai sempre detto che non bisogna piangere. «Nella migliore delle ipotesi non serve a niente. Poi ti senti uno schifo e, in genere, hai ragione: lo sei.» Stavo aggiustandoti i
cuscini dietro la schiena, quando ti ho risposto che le lacrime sono anche un sollievo. Mi hai guardata in silenzio, e io
l’ho sentita arrivare, la sciabolata. Eccola: «Davvero non mi
somigli, sai? Non ti ho cresciuta per ascoltarti dire queste
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banalità. Vai a comprarmi il giornale, se proprio vuoi fare
qualcosa di utile, e metti via quest’aria da crocerossina.
Va’!». Fuori dai piedi. Sono sempre più utile altrove. E, comunque, meno imbarazzante.
Ho freddo, chiudo la finestra e mi siedo. Sono di nuovo
qui, mamma. Lo so che è ridicolo chiederti una morte diversa; non è una sceneggiatura, questa: è una giornata come
tante nel dolore prosaico di un ospedale.
Il fatto è che vorrei poterle ricordare, le ultime ore con te.
Che scema: vorrei che fossero memorabili. E invece se ne
stanno andando come su un binario: è così banale la morte?
Forse non scivolerebbe via ogni cosa, se potessi attaccarmi a un tuo «Ti voglio bene». Oppure alla tua mano che
stringe la mia. O a un saluto. Ma è tutto immobile, come
te. Che sei concentrata su qualcosa che non vedo. Non cerchi più niente. Non qui.
Lo so che cosa penseresti, se potessi sentirmi: «Tu vuoi
un finale da film». Hai ragione: è così. Sono patetica.
Entra un’infermiera e io mi alzo di scatto, come se mi
avesse colto con le mani in chissà quale sacco: stavo cercando te. Non ti ho trovata.
Ieri mattina mi hai chiesto il tuo telefono e lo specchio.
Hai scambiato due chiacchiere esanimi con la tua amica che
vive lontano. Le hai detto: «Mi raccomando quella cosa».
Chissà che cosa. Provo a indovinare elencando emergenze
che non ho mai capito e che mai hanno riguardato me: amori altrui, tradimenti da perdonare, depressi da salvare… Un
mondo, il tuo, che non mi ha mai compresa. Troppo dolore,
questa eterna esclusione dai tuoi pensieri. Basta domande.
Mi hai chiesto lo specchio. In borsa ne ho soltanto uno,
piccolo. Te lo sei passata davanti al viso, un pezzo alla volta, come un radar. Hai detto: «Guarda qua. Non sono più
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i miei occhi». È vero: i tuoi occhi sono già senza luce. Velati di giallo, come se fosse cominciata da tempo, un po’ alla
volta, la loro chiusura: un buio che viene da dentro.
Ti ho risposto, invece: «Che cosa dici mamma? Guarda
che azzurro. Anzi, pardon, guarda che blu: come dici tu».
Ho provato a farti ridere. Ma tu hai girato la testa verso il
comodino. Sono sparita dalla tua vista.
Forse avrei dovuto dirtela, la verità. Forse è stata colpa
mia se te ne sei andata senza un saluto. Avrei dovuto dirti:
«È vero, mamma: i tuoi occhi sono già spenti. E le tue mani
non sono più le tue. Lo vedi? I tuoi anelli sono da giorni nel
cassetto. Non ti stanno più. Lo senti, mamma? Hai un respiro piccolissimo, nonostante l’ossigeno. Mi ascolti, mamma?
È arrivato il momento di confessarci che ci vogliamo bene».
Ho chiuso lo specchio nella borsa, parlando di tutt’altro. E tu anche: «Ti ho mai detto che i capelli corti ti stanno proprio male?». Sì, mamma, un milione di volte. Anche
quelli lunghi del resto: mai preso la misura giusta, con te.
«Quando esco dall’ospedale, vado qualche giorno al
mare. Fa bene al respiro, indubbiamente.» Ho mentito: «Ma
sì, chiedo una settimana di ferie e ti ci porto». Hai risposto
come al solito: sciò, via, alla larga. «Vado con le mie amiche, tu hai la tua vita.»
No, mamma. Sei tu ad avere la tua vita. Quella dove io,
il papà, il tuo secondo marito e il cane Tom siamo tutti, a
pari merito, sullo sfondo. Tu hai la tua vita, anche adesso
che stai morendo.
Ce l’hai bella stretta, chiusa nel tuo silenzio, nel tuo comodino dove tieni lettere e disegni. Dove tieni il tuo profumo, che solo su di te ha quel profumo lì. Hai la tua vita
nei ricordi che non molli, nelle rabbie che ti prendi, nelle
sberle che dai a chi intralcia le tue certezze.
Hai la tua vita, che da tre anni naviga fra le bugie: non
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è niente, guarirò, è solo una gran rottura. Pam: contro uno
scoglio, e poi contro un altro. Sei approdata qua. A pezzi,
ma con la tua vita intatta. Con, identica, la tua idea di te.
Come fai a essere così, mamma? È bello essere te? Essere così potentemente presente a te stessa, com’è? Da bambina pensavo che lo sarei diventata anch’io: una donna.
Lo pensavo quando arrotolavi le calze, per infilarle, piano:
un percorso lungo quanto la tua gamba. Una carezza che
ti davi da sola.
«È meraviglioso essere donne.» Lo pensavo quando, in
chiesa, mi prendevi sotto il tuo velo da messa (chissà dove
è finito?) e mi suggerivi piano le preghiere. Io le ripetevo
respirando il tuo profumo, e il profumo del rossetto. Guardavo i tuoi guanti di camoscio, appoggiati sull’inginocchiatoio, e le tue unghie con lo smalto rosa tenue. «Dunque,
è questo essere una donna.» È il saper decorare la vita con i
dettagli, un portarsi in giro con orgoglio. È questa bellezza.
Ripetevo le preghiere a memoria e immaginavo la donna
che sarei diventata. Ed era un pensiero bellissimo.
Adesso, qui, l’unica a essere bella sei tu. Con i capelli raccolti dietro la testa, dovresti essere irriconoscibile. E invece
sei sempre, terribilmente, te stessa.
Guardo il libro che fino a ieri stavi leggendo e penso: «Io
una vita non ce l’ho». Ho solo tentativi di esserti all’altezza. Ma opposta: tutto tranne te. Lo sforzo di stare dall’altra parte del guado, per guardarti in faccia. Mi vedi, mamma? Quanto ti ho delusa?
Forse, adesso, nella tua vita senza quasi più un respiro,
stai guardando indietro. Un anno fa, soltanto, ti ho detto
«Domani, a fare la chemio, ti ci porto io», te l’ho detto tutto d’un fiato, per non cambiare idea e rinunciare, come tan-
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te volte prima. Hai risposto: «Non ce l’hai qualcosa di meglio da fare? Uno straccio di fidanzato?».
Avrei dovuto apprezzare il tuo sarcasmo? Lo odio. È l’arma
con cui tu mi hai sempre buttato fuori dalla tua vita. Un fidanzato ce l’avevo, sì, ma non lo amavo. Non sono mai stata capace di amare nessuno. Come si fa? Tu non me lo hai insegnato.
Colpa mia, colpa tua. Che ping-pong patetico. Figlia batte
madre moribonda 1 a 0. Dopo innumerevoli sconfitte. Sono
sempre uscita a pezzi, dagli scontri con te. Avevi la prima
e l’ultima parola. E, quando stavi zitta, era peggio: era disprezzo. O assenza.
Te ne stai andando e forse non ci sei stata mai, per me.
Fatti tuoi. Adesso vado a prendere qualcosa da bere. Se
muori sola, te la sei cercata.
Sto via tre minuti e torno con il fiatone e una bottiglietta
di minerale: ha il guinzaglio corto la mia capacità di starti
lontana. Seduta in poltrona, decido di pensare ad altro. Ma
non mi viene in mente niente che valga la pena. Non ti somiglio. Per te, un sacco di cose sono importanti: dall’effetto serra al deficiente che parcheggia sul marciapiedi sotto
casa tua. Tutto ti scalda, tutto ti appassiona. «Sei un minerale» mi hai detto una volta, perché proprio non ti seguivo
in non so più quale questione di principio.
Ma nella tua vita «fuoco e fiamme», mamma, perché hai
sempre cercato di congelare il dolore? Neanche fosse possibile tenerlo «per dopo», come se ci fosse un momento
giusto, per sentirsi a pezzi.
Ti ho visto stare malissimo una volta soltanto. E so – non
so perché, ma sono sicura – che in quel momento tu hai
giurato che non sarebbe successo mai più.
Il papà se ne era andato da giorni e l’ordine era quello di
fare come se niente fosse: «Tanto non lo vedevamo granché»
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