I L`ottava rima e il Castello dei Bojardi La storia di

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I L`ottava rima e il Castello dei Bojardi La storia di
I
L’ottava rima e il Castello dei Bojardi
La storia di Orlando, nipote di Carlo Magno imperatore, il conte Orlando paladino e senator romano, che oppose la spada contro mori e barbari per salvare la cristianità,
e poi, posato su la spada, morì a Roncisvalle, costituisce
ancora la gloria di Francia:
De Karlemagne et de Rolant,
E d’Oliver e des vassal
Ki moururent à Roncevals.
Benché Orlando sia un po’ di tutta la nostra Europa, la
nostra vera Europa, che è quella d’occidente, sta il fatto
che egli morendo si ricorda della “dolce” Francia, dulcis
moriens reminiscitur Argos; e quella fantastica e grave
canzone che racconta come lui morì alle chiuse di Roncisvalle, è scritta nell’antica lingua di Francia.
E la sua spada era immortale non soltanto perché l’acciaio era ben temprato, ma perché nel suo pomo conteneva sante reliquie; e quando Orlando sentì la morte vicina,
molto compianse la sua spada, e la volle spezzare, perché
non cadesse in mano degli infedeli, ma non ci riuscì: essa
rimbalzò verso il cielo; e allora Orlando raccomandò la
sua anima a Dio, come facevano quasi tutti, e poi che fu
morto, Dio mandò i suoi angioli a raccogliere l’anima e
portarla in paradiso.
Chiunque ha letto la Chanson de Roland e la vita Caroli Magni et Rolandi che Turpino scrisse, le sa benissimo
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queste cose; e io qui le ricordo unicamente per osservare
una differenza: che in quell’ignorante evo medio la gente
sapeva che cosa è l’anima, e nel nostro secolo così istruito, è la cosa che meno si sa, e non si cura nemmen piú di
sapere.
Si tratterebbe, secondo alcuni, di pregiudizi borghesi o
di sopravivenze romantiche; e l’anima che per Orlando era
una cosa delicata e personale, sarebbe una cosa cementizia e sociale. Chi vuole istruirsi, saper di piú di questo “nihilismo europeo”, già preannunciato dal Nietzsche, può
consultare il libro di un giovane autore tedesco, stampato
tre anni fa, e che porta il titolo: “Così, noi giovani,
siamo 1”.
Avendo Orlando salvato l’Europa contro gli arabi che
erano i barbari di allora, ottenne grande popolarità anche
fra noi. Lo si fece nascere vicino a Roma; e una delle
prime visite che io ho voluto fare fu di andare a Sutri dove
la gente vi indica la grotta dove nacque l’eroe salvatore
con la sua spada tremenda; e i cantastorie per le nostre
città e castella dell’evo medio cantavano al popolo quelle
imprese di Carlomagno e di Orlando, con la gaiezza e il
realismo che è proprio di nostra gente, dicendo però sempre attraverso le bizzarrie e le gaiezze: “il Signore ci
aiuti”, Rolant est mort, Dieu nous aide, come nelle antiche
canzoni di gesta; finché un cantastorie, gran signore, che
abitava un nobile castello, che era posto in grande aere, ed
era adorno di pitture guerriere e fornito di bei libri d’amore, ebbe una sua fantasia di creare un Orlando anche innamorato a somiglianza di quei cavalieri incantati del buon
1 Franz Matzke, Jugend Bekennt: So sind wir! – Reclam Verlag,
Leipzig, 1930.
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re Artú che vagavano il mondo in ubbidienza di una dama,
o per cercare il vaso dove fu raccolto il prezioso sangue di
Cristo. E così Orlando altamente rinacque sopra le canzoni del popolo.
Questo cantastorie gran signore fu il conte Matteo Bojardo, e il suo castello era a Scandiano sopra Reggio d’Emilia, e il suo romanzo lo chiamò proprio l’Orlando innamorato.
Ora da un vecchio libro che racconta la Storia di Scandiano, io avevo imparato che in quel castello, fra le immense sale, c’è un gabinetto, col soffitto pitturato da un
cerchio di figure, donzellette e giovani, della gente Bojarda. Sono in adorni vestiti, hanno strumenti musicali; e fra
quella giovanezza spicca un uomo bello con gran barba
ricciuta, che intona una piva, e con le dita fini è intento ad
aprire e chiudere i forellini della piva.
Quello lì – pensai – deve essere il conte Matteo, che
scrisse quel romanzo. Perché oggi i romanzieri vengono
rappresentati nei loro scrittoi con una penna in mano; e lì
invece con la piva. Questa cosa è perché allora usava raccontare in versi, e il mistero dei versi sta nella musica; e
allora non usava che ognuno fa versi a suo modo, o in libertà – come si dice – ma versi ubbidienti alla tradizione
del popolo; e questi versi erano otto: sei dei quali danzavano l’uno di fronte all’altro con alterna rima, e i due ultimi si abbracciavano con una sola rima, e così via di seguito.
Questa danza e questa musica si chiamava ottava, e ottave ne facevano anche i contadini allora; ma le ottave che
facevano i signori e gran poeti erano di piú fine stoffa e alcune così belle che suonano ancora.
Ecco, tanto per cominciare, alcuni versi di un’ottava
che descrivono una “gioiosa danza”, ma col bacio; e si
ballava a corte in quei tempi:
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Nel contrapasso l’un l’altro baciava
né si potea tener la bocca chiusa.
A cotal atto si dimenticava
ciascun se stesso; ed io faccio la scusa,
e credo che un bel bacio a bocca aperta
per la dolcezza ogni anima converta.
Stranissimo. Nel leggere quest’ottava, mi venne a
mente la quadriglia dei lancieri, e quei valzer languenti di
baci romantici, che si ballavano nell’Ottocento.
A questi richiami di un passato per sempre defunto, si
aggiunga che io voglio molto bene a questo poeta gran signore, e mi pare quasi di averlo conosciuto, e desiderai
sempre di andare a Scandiano per vedere se c’è ancora
quella rocca o castello dove lui componeva quella sua fantasia.
La ritorno a leggere ogni tanto; e mi pare abbia, piú sapore in una rara stampa, dove c’è Franza per Francia,
ascoltati per ascoltate, e damisella per damigella, e zoioso per gioioso, gli per loro, e blavo per blu, e ancoi per
oggi, e setarsi per sedersi; e altre forme che si allontanano dalla perfezione toscana e sono del popolo di Lombardia, e pure spirano una spontanea freschezza 2.
Vediamo di far presto per andare a Scandiano – dissi
fra me – se no c’è caso di non arrivare piú in tempo; e
come ero andato a Sutri a vedere la grotta dove nacque Orlando, così andai a Scandiano dove nacque una seconda
volta, suscitato dall’amore per Angelica.
Quando discesi a Reggio e domandai come si fa per andare a Scandiano, mi parve che la gente indovinasse ch’io
2 Orlando innamorato di Matteo Maria Bojardo, riscontrato sul codice trivulziano e su le prime stampe da Francesco Fóffano, Bologna,
Romagnoli Dall’Acqua,1907.
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volevo andare a vedere anche Angelica, con la scusa del
Bojardo.
“Mo’ va ben là!” mi pareva che la gente rispondesse.
Castelli qui non si vedono, e nemmeno torri. Un castello dev’essere in cima a un colle, e qui siamo in pianura. Che abbia sbagliato paese? Non vi sarebbe da meravigliare. Ma no! Ecco una via dedicata al medico Valisneri.
Ecco una statua del grande naturalista Lazzaro Spallanzani. Certamente noi siamo arrivati a Scandiano. Oh, meraviglia! La terra che ha dato un grande poeta è stata feconda pur di grandi scienziati.
Dove Bojardo creò i giganti, Spallanzani divinò i microbi; e ciò non deve meravigliare quando si consideri che
a Scandiano c’è il vino arzente, e chiaro, e lieve per il popolo: e, per Dio!, dove Dioniso fa crescere la vite per il
popolo, dal popolo crescono poeti e scienziati. Questo
deve essere il castello dei Bojardi. Io ero davanti a una
porta chiusa, entro una torre merlata, e intorno un nero e
cupo, grande edificio, cinto da un avvallamento.
Non passavano per lì che due bambini e li interrogai:
“Che cosa è quella gran casa nera?”
“La rocca dei Bojardi”.
“E chi sono questi Bojardi?”
“Sono dei grandi signori che hanno costruito questa
rocca e adesso son morti”.
“E il nome di qualcuno non sai?”
“Matteo Maria Bojardo era uno dei principali. Era il
capo di tutti quei signori”.
“Era buono o cattivo?”
“Io non so. Era tanto tempo fa. Io non c’ero al mondo”.
“Egli era valoroso e buono – dissi. – Conservane la
memoria, bambino. Non avrai da ricrederti né pentirti”.
Or mi aggiravo per le immense sale del castello. Immensa desolazione!
Ma guarda, guarda! Qualche affresco ancora vive.
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Scoprii alcuni colori su le pareti in rovina della gran
corte.
Quei colori presero forma di groppe bianche di palafreni, criniere, musetti sottili, elmi guerrieri, lance, veli di
dame, chiome di damigelle succinte: tutte figure piccine
che probabilmente formavano un immenso affresco.
Così le vide il Bojardo giovanetto.
Ecco la grande torre. Travature di quercia la reggono.
Io credo che l’anima vegetale della quercia conservi una
sua sensibilità. Ecco i sedili negli strombi dei muri enormi, presso le finestre. Di quassú pigliaste il volo, dame e
cavalieri antichi?
Quel gabinetto c’è ancora, ma quella pittura tonda del
soffitto con tutta la giovinezza dei Bojardi e quell’uomo
grave che suona la piva, non c’è piú. Già, è una famiglia
che scomparve.
Pauroso Iddio! Tutte le volte che da una gente esce un
grande, la famiglia poi si corrompe o scompare.
Non si deve credere che il conte Matteo stesse sempre
a sonar la piva delle sue ottave. Egli fu uomo grave e
uomo politico, e siccome quel suo castello era sotto la giurisdizione della illustrissima casa d’Este, così quei duchi
si valsero di lui per onorevoli uffici, e ambascerie.
Da giovane aveva molto amato quello che oggi si chiama lo sport, e lui ricorda e correnti cavalli e cani arditi di
che molto piacer prender solia; ma aveva anche, oltre lo
sport, studiato latino e greco che a quei tempi si presentava come una resurrezione di nuova bellezza; tanto che poi
tradusse in italiano quelle nobili antichissime storie di
Erodoto che ci trasportano in Egitto, in Persia, in Babilonia.
Poi fu chiamato a Ferrara a far onore quando venne
l’imperatore; poi andò a Roma in magnifica ambasceria
insieme con il suo duca, su gran palafreni, lui e gli altri
vassalli “abbigliati con vesti di scarlatto”; poi si recava a
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Ferrara a cantar le sue ottave alla “bella baronia”; e se non
era tutta bella, se la imaginava.
L’inclita casa estense colmò di benefici e di feudi la
casa Bojarda in premio della sua fedeltà di buoni vassalli.
Il nonno del conte Matteo, chiamato Feltrino, fu portator
di spada del duca Borso; e Borso e il duca Ercole, e poi
anche papi, furono ospiti in quel castello di Scandiano,
che era tutto lieto di affreschi, peschiere, fontane e viali di
pioppe, la gloriosa aerea pianta delle terre emiliane. E
c’era tutta una tradizione di liberalità di padre in figlio,
tanto che si diceva per motto: “Iddio ti mandi a casa Bojardi”.
E la bella tradizione fu conservata anche da Matteo
quando si trovò ad esser lui capo della casa: non sdegnava vivere fra il popolo, e scriveva alla comunità di Scandiano che a lui “siccome a uomo amator della patria, niente è piú bello che beneficare i suoi”.
Suonano le campane di Scandiano. Che era? Il fuoco?
I malandrini? La festa di un santo? Era il signor conte che
aveva trovato un bel nome per il suo romanzo; Rodamonte, Aquilante, Doralice, Dragontilla, Brunello, Fiordespina, Gradasso, Agricane, Rabicano.
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