Il modello analitico immaginale

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Il modello analitico immaginale
Il modello analitico immaginale
Carola Palazzi Trivelli
Il pensiero Junghiano e la sua rielaborazione archetipico–immaginale, dovuta
soprattutto a J. HiIlmann, viene di frequente utilizzato nelle artiterapie individuali o di
gruppo, sia che il mediatore artistico, nella terapia, faccia riferimento alle arti
plastiche o figurative, al movimento, alla musica o alla parola lirica o poetica.
Le artiterapie possono prendere perciò a modello del loro agire terapeutico i concetti
basilari dello junghianesimo e della psicologia archetipica relativamente ai contenuti
della psiche, al formarsi della personalità (sana e patologica), al rapporto col mondo
reale (l’adattamento) e alle modalità attraverso le quali si può giungere all’essere
sempre più se stessi, ovvero all’individuazione, scopo di ogni vita e di ogni
psicoterapia.
Per molti versi il modello immaginale, applicato rispettando la sua coerenza teorica
interna è un modello come altri della psicologia dinamica: freudiano, kleiniano,
kohutiano, adleriano; modelli che, per vie diverse, da presupposti teorici parzialmente
differenti, giungono a promuovere un cambiamento nella persona che soffre e
dunque richiede, con determinazione, tale cambiamento.
Tuttavia il modello analitico immaginale ha alcune specificità, rispetto ad altri modelli
psicodinamici, che lo hanno reso preferenziale ed adattabile alle tecniche di
arteterapia ed hanno spinto molti arteterapeuti a adottarlo: i concetti di metafora e di
guarigione.
L’una - la metafora - concerne l’attenzione, nella relazione terapeutica, ad altri
mediatori oltre la parola e il comportamento in seduta. Da ciò l’estremo interesse ad
ogni materiale metaforico/analogico prodotto dalla psiche umana per comunicare su
se stessa.
Il concetto di metafora è centrale nella psicologia archetipico immaginale: si tratta del
ritrovare ed esplorare un oggetto tramite il riferimento all’immagine di un altro
oggetto. La metafora è sempre stata usata da poeti e narratori per “esprimere
l’inesprimibile”, ed anche il mito, la religione, i riti e certamente i sogni fanno uso di
metafore.
Il presupposto junghiano è che la psiche ragioni, proceda, per immagini e che
l’equivalente razionale ad essa più vicino sia la metafora o analogia. Il mondo
psichico - o interno - è analogico (immaginale, archetipico, senza tempo), il mondo
reale - o esterno – è digitale (costruito per opposti: buono/cattivo, bello/brutto,
utile/inutile, prima/dopo e così via).
Il metodo junghiano dell’amplificazione, ovvero l’uso di paralleli mitici, storici, culturali,
per chiarire ed appunto ampliare il contenuto analogico di un materiale psichico
(sogno, emozione o delirio ad es.) fornisce non solo un più completo quadro di
riferimento, oltre la storia individuale, per l’interpretazione di tale materiale ma è
anche la ricerca di una metafora rilevante. Infatti, è il senso più che il trattamento ad
alleviare la sofferenza psichica.
Le artiterapie sono analogiche: in seduta si comunica per ritmi, gesti, sfumature di
colore, forme e ruoli. Poco per parole, spesso per metafore verbali, poetiche, mitiche
o culturali, anche se talvolta con apparente ironia.
Quella nuvola scura, nel quadro di una paziente, che tende ad oscurare tutto un
paesaggio prima ridente, il buio di una porta che si chiude, l’allontanarsi di quella
madre, il suono di una canzone triste dell’adolescenza ricordata all’improvviso: con le
parole del mondo reale ecco l’immagine della perdita, del distacco e della
depressione. Il collegamento tra il mondo delle immagini e il mondo dei fatti
individuali e collettivi si è stabilito.
L’altro concetto fondante per le artiterapie è quello di guarigione, presente già in
Jung (opere vol.16 1921/1946) e teorizzato in seguito da Meier (1949) e
Guggenbuhl-Craig (1971). Il processo di guarigione da un disturbo psichico è come
un’arte, “ un’arte empirica “ e il prodotto finale si definisce esclusivamente rispetto al
soggetto, non in un “a priori” tecnico.
La relazione terapeutica vede rapportarsi un guaritore ferito, non dunque per
definizione sano, capace, onnipotente, bensì solo umanamente potente e capace e
forse solo in parte sano ed un paziente almeno parzialmente capace di guarire se
stesso. I sintomi del paziente ed anche le sue immagini, possono essere considerati
oltre che sotto l’aspetto psicopatologico anche come tentativi di guarigione, come
sentieri ancora nascosti dove ci si muove a tentoni per cercare la strada.
La
possibilità di guarire è legata all’opportunità d’individuazione delle proprie
potenzialità, della propria strada maestra, del sé e in quest’accezione agli aspetti
creativi intrinseci ad ogni essere umano.
In una seduta di danzoterapia, perciò, un movimento del terapeuta può rispondere ad
un gesto del paziente, ma può anche seguirlo, accompagnarlo, spesso guidarlo nel
rispetto delle potenzialità creative che quel gesto possiede.
In una seduta di arteterapia (mediatore principale: la pittura) può essere la ferita del
terapeuta a dialogare con le molte ferite dei pazienti, attraverso un riprendere i colori
usati da un partecipante al gruppo sul foglio e diversamente accostarli, oppure
utilizzarli per più armoniosamente o prepotentemente esprimere un’immagine, che
diventa cosi specchio della relazione tra il terapeuta e il suo paziente.
I presupposti teorici fondanti la pratica psicoterapeutica junghiana sono presenti sia
nella relazione analitica individuale, sia nelle tecniche artiterapeutiche gruppali che
ad essa s’ispirano.
Carl Gustav Jung, cui era indubbiamente nota l’attenzione che i disegni spontanei dei
ricoverati in manicomio stavano ricevendo in Europa Centrale, incoraggiava i suoi
pazienti a dipingere e a scolpire in seduta e fuori dl essa; l’interpretazione di dipinti di
pazienti è riportata in alcuni suoi articoli e un archivio di quadri di analizzandi è
conservato all’Istituto Jung di Zurigo.
Secondo il fondatore della Psicologia Analitica la pittura media tra il paziente e il suo
problema e gli consente di prendere le distanze dalla condizione psichica attuale, di
oggettivare il caos incomprensibile ed intollerabile della sua sofferenza.
In analisi dipingere è rappresentare immagini interiori in forma visiva, consentendo a
tali immagini dl raggiungere un’espressione piena e consapevole e nello stesso
tempo all’Io cosciente di interagire con i contenuti dell’eruzione dell’inconscio.
Tali contenuti - immagini - possono derivare dai sogni, dalle fantasticherie, dai deliri,
dalle visioni, dalla tecnica analitica dell’immaginazione attiva o da altro materiale che,
pur sempre attraverso metafore, parla di contenuti inconsci della psiche.
Nelle artiterapie le immagini diventano ritmi, movimenti, quadri, oggetti frutto di una
manipolazione, ruoli di una drammatizzazione, suoni, parole liriche o poetiche.
Le immagini, nell’approccio Hillmaniano in special modo, non sono segni, simboli o
allegorie o rappresentazioni di qualcosa d’altro specifico, sono semplicemente
immagini, parte della realtà psichica.
Nelle artiterapie, così come nella visione della psicologia archetipico immaginale, le
immagini debbono essere “esperite, accarezzate, assecondate, quasi fossero
compagne di un gioco, invertite, corrisposte, in una parola fatte oggetto di relazione
(sentite) invece che soltanto interpretate o spiegate, razionalizzate “. (Samuels 1985)
Affinché tutto ciò non venga preso alla lettera, dal momento che Hillmann stesso
sconsiglia continuamente il ricorso alla letteralizzazione di parole, ricordi, concetti
psicologici, è necessario tratteggiare il rapporto che esiste, nella metapsicologia
junghiana, tra immagini e psiche conscia ed inconscia, e tra i contenuti dell’inconscio
e la sofferenza umana, nelle sue differenti manifestazioni psicopatologiche:
nevrotiche, psicotiche e narcisistiche.
Il modello immaginale presuppone l’esistenza di una porzione di psiche non conscia,
non solo popolata di ricordi infantili rimossi, come nell’inconscio personale ma anche
di contenuti arcaici, che non sono mai stati nella sfera della coscienza e che riflettono
processi archetipici: l’inconscio collettivo.
L’archetipo (tipo-arcaico) è un modello strutturante di prestazione psicologica,
inconoscibile in se stesso, ma solo attraverso le sue immagini.
I contenuti dell’inconscio collettivo, gli archetipi, richiedono, per manifestarsi nel
comportamento, il coinvolgimento di elementi dell’inconscio personale; i due tipi di
inconscio sono dunque indivisibili.
Gli archetipi, proprio per questo, definiscono il modo di ciascuno di percepire il
mondo e dimettersi in relazione con lo stesso (Hillmann 1975).
Il campo d’azione della coscienza che ragiona, che capisce, che elabora, che vuole
è, come si vede, ritenuto molto ristretto dalla psicologia analitico–immaginale; in
concomitanza
gli
archetipi
si
manifestano
continuamente,
riconoscibili
nei
comportamenti personali, in special modo nei momenti critici della vita (nascita,
separazione, matrimonio, morte) ma anche nei simboli e nei miti, nelle fiabe, negli
elementi pregnanti di una cultura e, ahimè, nella psicopatologia.
Gli dei (metafore di comportamenti archetipici) sono diventati malattie, dice Hillmann,
che riprende Jung. (Hillmann 1988). Ciò vuol dire che contenuti archetipici, come il
comportarsi da eterno fanciullo o da madre/strega possono invadere (costellare,
inflazionare
nel
linguaggio
junghiano)
tutta
una
vita,
uniformando
ogni
comportamento a quell’unica modalità. Il modello analitico immaginale presuppone
dunque sempre una radice psicogena nella sofferenza mentale, dove per psiche non
bisogna pensare solo riduttivamente a “cause “ insite nella storia infantile di ciascuno
ma anche alla continua risonanza tra psichismo individuale o psichismo collettivo,
ovvero della cultura del tempo. (Hillmann 1992)
In quest’accezione non vi è grande interesse per distinzioni psichiatriche, benché vi
sia attenzione, nella comunità junghiana, per le recenti teorizzazioni, quali il
narcisismo, anche alla luce di somiglianze tra il pensiero di Jung e quello di Kohut sul
concetto di Sé, unità complessiva della personalità, e quindi anche immagine del
potenziale creativo di ciascuno (Jung vol. 9 Opere e Kohut 1977).
L’attenzione della psicologia immaginale è diretta al senso che possono avere nella
vita di una persona i sintomi nevrotici o le manifestazioni psicotiche. Le persone con
il loro mondo interno sono più interessanti dei loro sintomi ed è quindi il contenuto dei
complessi (complesso materno, paterno) o dei deliri ad essere oggetto d’analisi. I
contenuti del mondo interno (immagini) che provocano sofferenza si esprimono per
metafore e possono, se comprese, svelare il loro senso, permettendo l’integrazione
nella coscienza delle tendenze dell’inconscio.
Quelle che chiamiamo malattie mentali sono dunque metafore di uno psichismo in
rivolta, che cerca la sua strada, la sua guarigione, e tali immagini sono
contemporaneamente - e di volta in volta - minacciose e vivificatrici.
Nello stesso modo come minacciosa e vivificatrice al contempo può essere avvertita
un’opera di Kandinskij, il Requiem di Mozart, una tragedia di Sofocle o brani del
Faust.
Le opere d’arte si esprimono per immagini e sono simboliche: la psicoterapia, cura
dell’Anima, è un’esperienza di immagini e per immagini dà accesso al simbolo, al
processo simbolico, che è processo creativo. Per creatività s’intende qui lo sviluppo
di qualcosa che prima non c’era, di nuovo, di inaspettato, inizialmente forse non
logico, ma mai irreale o delirante: spesso luminoso, vicino all’idea di Dio.
Un’atmosfera creativa, “ Puer “, ludica e di ricerca ad un tempo, si crea spesso nelle
sedute artiterapeutiche. Ulisse, Dioniso, Hermes, Icaro, Giasone, Eros non vengono
direttamente nominati ma è come se fossero presenti, quasi angeli custodi, in quanto
è attraverso queste figure di puer eterni che a persone cronicizzate nelle loro
modalità difensive può ancora venir voglia di giocare, di cercare, di scoprirsi e
riscoprirsi in un gesto, in un colore, in un suono nuovo.
Parlando di opere d’arte Jung afferma: “ Il loro linguaggio è lì a gridarci che esse
significano più di quanto non dicano. Possiamo senza esitare additare il simbolo,
anche se non saremmo forse in grado di svelarne il significato in un modo che ci
soddisfi pienamente. Un simbolo rimane una sfida perpetua ai nostri pensieri e ai
nostri sentimenti. Ciò spiega probabilmente perché un lavoro simbolico sia così
stimolante, perché faccia presa su di noi con tanta intensità, ma probabilmente anche
perché ci offra raramente un godimento di natura puramente estetica. “ (Jung 1961)
Il simbolo, mediatore di opposti, quando l’immagine è vista come contenitore di
opposti, attira l’attenzione su un’altra posizione possibile che oltre a risolvere un
conflitto costituisce un arricchimento della personalità.
Ciò che viene espresso nelle sedute delle diverse tecniche artiterapeutiche sono
immagini, talvolta silenziose come in una scultura, talvolta chiassose come in un
ritmo prorompente, talvolta delicate come in un paesaggio innevato di un quadro, e
talvolta disperate come in un ruolo di una rappresentazione drammoterapeutica: non
ancora necessariamente simboli.
In arteterapia, danzoterapia, musicoterapia, drammoterapia e comunicazione non
verbale, le immagini si danno una forma, si colorano, danzano, cantano, sospirano,
gridano o stanno mute ad aspettare di essere guardate. Soprattutto le immagini
cercano pian piano il loro senso, e con queste e attraverso queste, quelli che le
producono, i partecipanti ai gruppi di arteterapia.
Pazienti e terapeuti imparano a conoscere e riconoscere le proprie e le altrui
immagini, metafore del mondo interno e contenitori di più progetti di mondi, spesso in
antitesi fra loro. Persone con problematiche nevrotiche, ma soprattutto psicotiche e
narcisistiche sono messe in condizione di affrontare contenuti ambigui, e di non
viverli più solamente come spaventosi ed angoscianti, tanto da stereotipare ed
impoverire il loro mondo interno. Anzi, gradatamente, l’aspetto vivificatore delle
immagini consente di affrontarne il contenuto minaccioso, aprendo, con la
produzione di simboli, prospettive di nuove possibilità e soluzioni che indicano a
ciascuno il proprio senso. Augusto Romano in “Musica e Psiche“ (Romano 1998)
citando Mario Trevi (Trevi 1986) riassume le caratteristiche dell’esperienza simbolica:
pregnanza e intransitività, progettualità, sintesi e composizione, inesauribilità
ermeneutica. E così sintetizza: ” il nesso tra simbolo e individuazione consiste nel
fatto che, attraverso il simbolo, la psiche scopre nuovi percorsi, nuove possibilità di
composizione degli opposti, in definitiva una progettualità, che è potenzialmente in
grado di sottrarre l’individuo alla schiavitù del già dato “.
Dopo una certa frequenza alle sedute artiterapeutiche, in cui la produzione di
immagini si fa fluida ed abbondante, è possibile anche operare dei passaggi dal
mondo archetipico e senza tempo al mondo della coscienza e della realtà. Non
parliamo qui strettamente di guarigione, come già si era detto, bensì di percorsi nella
strada dell’individuazione.
Amplificazioni, meno spesso interpretazioni rimbalzano dal terapeuta al paziente, tra i
pazienti stessi, e talvolta – suscitando grande ilarità – dal paziente al terapeuta. Brani
d’opera, come il Flauto Magico, ma anche l’immagine di una pubblicità, o titoli di film
o proverbi vengono liberamente associati nei momenti dedicati all’elaborazione di
quanto espresso in seduta. L’amplificazione spiega metaforicamente il prodotto
creato sia esso ruolo teatrale, tratto grafico o gesto non verbale, permettendo a
ciascuno di navigare nell’inconscio collettivo e personale trovandovi i propri nessi.
Mimì, Afrodite, Rossella di Via col Vento, la Vergine del cardellino possono venire
evocate in una seduta arteterapeutica quando circola ad esempio un discorso sul
femminile. Certo sta al terapeuta raccogliere i fili della trama di ciascuno e di tutti e
quando è possibile collegarli con gli accadimenti attuali. Questo avviene in relazione
al cammino individuativo intrapreso dal paziente, alla sua capacità di accettare
interpretazioni, che talvolta possono essere ancora espresse dal terapeuta sotto
forma di metafora, ed altre volte decisamente in forma diretta e verbale, tesa dunque
a rendere cosciente l’altro del significato, ora condivisibile, di un simbolo espresso.
Il terapeuta, guaritore ferito, utilizza massicciamente il proprio controtransfert nella
conduzione di una seduta, infatti danza, disegna, recita, suona, dunque si esprime
unitamente ai pazienti. Il modo di rapportarsi del terapeuta alle proprie immagini
interne, e talvolta ai propri simboli, è esperienza condivisa dagli altri membri del
gruppo: può fungere così sia d’esempio sia come veicolo d’interpretazione.
Hillmann sottolinea continuamente l’importanza di “fare anima”, ovvero
approfondire gli avvenimenti
di
traducendoli in esperienza. L’anima “sostiene“ la
capacita immaginativa dell’uomo, il suo esperire per mezzo della riflessione
speculativa, l’immagine onirica e la fantasia, ossia quelle modalità che della realtà
vedono, innanzi tutto, l’aspetto simbolico o metaforico” (Hillmann 1975).
Le immagini della fantasia si muovono al di sotto di tutto ciò che conosciamo,
esperiamo o sentiamo e dunque si situano nell’anima. L’anima è il principio della vita
e attiene alle profondità, non alle altezze dello spirito.
In quest’accezione, l’Io è necessario per integrare l’esperienza, ma ci sono molte
esperienze che non chiedono affatto di essere integrate, ma solo appunto di essere
esperite e condivise, come gran parte dei, chiamiamoli accadimenti, delle sedute
artiterapeutiche. Anima, nella psicologia analitico immaginale, vuol dire vita, morte,
significato, profondità, intensità. Ne consegue che il compito dell’analisi, cosi come
quello dell’arteterapia, non è di curare l’anima, ma piuttosto quello di “fare anima“,
non di occuparsi di problemi profondi ma di far sì che i problemi si facciano più
profondi.
Ne consegue ancora che il modello immaginale ispira tutte le tecniche
artiterapeutiche dove la conduzione non è asettica, distante, bensì partecipativa e
dove il concetto di dialogo tra immagini diventa portante per la costruzione del
setting. Se in una seduta a conduzione immaginale si sentono delle parole, queste
vanno intese secondo il loro contenuto metaforico, specialmente quelle dei
conduttori. Le parole e i gesti tendono ad ampliare i significati espressi più che a
ridurli ad un solo modello di spiegazione, rifacendosi spesso ad esperienze di
immagini collettive, spesso simboliche dunque contenitori di più progetti di mondi, o
comunque più facilmente comprensibili e condivisibili. Inoltre le immagini che
nascono spontanee alla mente, al cuore e alla mano del terapeuta (Palazzi,Taverna
1995) non vengono trattenute bensì utilizzate, fatte circolare in quanto contribuiscono
anch’esse a “ fare anima “.
Le figlie della Memoria, le Muse, ed Apollo, con suo figlio Esculapio, esperti in vaticini
ed in medicina si danno convegno ogni settimana nei gruppi di artiterapie. Lo fanno
per permettere un dialogo tra psicotici, handicappati, bambini, nevrotici e i nuovi vati
di fine millennio: gli psicoterapeuti, Questa “corte dei miracoli“ faticosamente ricerca
una diversa idea di guarigione, che non sia adattamento forzato al mondo, al modello
di vita di altri, ma ricerca del proprio senso a fronte delle inevitabili sofferenze del
vivere.