Globalizzazione, politiche abitative e conflitti urbani

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Globalizzazione, politiche abitative e conflitti urbani
Alfredo Agustoni
Note per l’incontro di Ancona del 7 novembre 2008
“Politiche abitative, conflitti e trasformazioni urbane”
Disegno urbano e immagini di società
Recuperando alcune suggestioni di un mio lavoro di alcuni anni addietro, sintetizzato e rielaborato in
successivi contributi, propongo in questa sede alcune riflessioni sui rapporti tra politiche urbane, politiche
abitative e progetti di società (più o meno latenti o manifesti), con gli inevitabili conflitti ad essi sottesi.
Prenderemo spunto dal caso milanese nel corso del XX secolo: partiamo da quando, negli ultimi decenni
dell’Ottocento, la questione abitativa fa il proprio ingresso nel dibattito politico nazionale, per venire alle
metamorfosi urbane che si legano ai più recenti fenomeni della globalizzazione. Le differenti soluzioni che si
sperimentano nel corso del tempo, dietro un’apparente neutralità, nascondono precise “immagini di città” e,
quindi, prefigurazioni di una società futura che occultano, al proprio interno, preoccupazioni e aspirazioni dei
diversi gruppi sociali. È nel quadro di simili prefigurazioni che si definiscono, pertanto, quelle che Foucault
definisce le pratiche dell’architettura disciplinare, caratterizzate da una funzione di domesticazione sociale,
che negli spazi abitati trovano l’espressione forse più significativa1.
Primo modello, inscindibilmente legato alle pratiche del paternalismo aziendale e ai suoi orientamenti
ideologici di carattere “neo-feudale”, è costituito dal villaggio operaio che, già dagli anni sessanta
dell’Ottocento, comincia a svilupparsi nelle prime sparute isole industriali dell’Italia settentrionale, così
come il secondo modello, quello di carattere filantropico (è il caso della Società Umanitaria di Milano). Altra
risposta alle problematiche abitative d’inizio secolo, spesso inizialmente difficile da distinguere dalla
soluzione filantropica, è quella delle cooperative edificatrici. Nel frattempo, ha cominciato a farsi spazio
l’ipotesi di un intervento attivo dei pubblici poteri nel campo dell’edilizia, in favore dei ceti meno abbienti.
Un intenso dibattito parlamentare si sviluppa dal 1901 al 1903, anno in cui vede la luce la legge Luzzatti
(254/03), la prima in materia d’intervento pubblico nel settore abitativo. Si confrontano, in estrema sintesi,
due scuole di pensiero. La prima è quella dello stesso Luigi Luzzatti, che vede luce in quello stesso 1903.
Luzzatti, in un discorso tenuto a Lodi nel settembre del 1901, presenta la sua idea di affrontare il fabbisogno
di alloggi popolari ad opera di enti autonomi, verso i quali avrebbero dovuto affluire i capitali di Casse di
risparmio, banche popolari e società di mutuo soccorso. Si oppone a questa un’altra scuola di pensiero,
quella “municipalista”, che trova il suo principale portavoce in Alessandro Schiavi, esponente di spicco del
riformismo milanese e direttore, dal 1910 al 1924, dell’Istituto per le case popolari di Milano. La sua
posizione contempla, piuttosto, l’intervento diretto dei comuni nell’edificazione delle case, da assegnare in
locazione ad inquilini di ceto popolare, e la municipalizzazione dei suoli edificabili.
La legge 254, così come la legge 5 del gennaio 1908 e il successivo testo unico che le raccoglie (R. D.
89/08), delineano la figura di un organismo a metà strada tra il pubblico e il privato, con il compito di cercare
capitali da investire nell’edilizia per i meno abbienti. Gli interventi previsti riguardano, da un lato, “i
borghesi di domani” e, dall’altro, i bisognosi di oggi2. Così, fin dall’inizio, si fa cenno alla distinzione tra le
case popolari ed economiche, individuando due tipi d’intervento distinti: la costruzione di alloggi da
assegnare, da un lato, in locazione ai meno abbienti (edilizia popolare) e, dall’altro, da destinare alla cessione
a riscatto ad una popolazione di prevalente estrazione piccolo-borghese (edilizia economica). Come altrove
“in Europa, l’opposizione tra casa unifamiliare in proprietà e casa collettiva (appartamento in affitto), ha
costituito ha costituito il tema centrale nel dibattito sull’edilizia popolare tra XIX e inizi del XX secolo”3.
Ci troviamo, soprattutto negli anni che seguono il primo conflitto mondiale, in un momento d’intensa
attività dell’Istituto, nella cui amministrazione sono integrati esponenti del nascente associazionismo
inquilino e del sindacato, nel quadro dell’esperienza amministrativa socialista. Gli spazi pubblici dei nuovi
quartieri popolari sono luogo d’incontro e mobilitazione politica, di scambio culturale, di attività delle
“università popolari”. Il disegno dei quartieri popolari dell’epoca risponde sicuramente al sogno di una
comunità “aperta”, con spazi di libera aggregazione e di incontro collettivo. Si tratta, d’altro canto, di un’idea
1
M. Foucault, Sorvegliare e punire, 1975, ed. cit. Einaudi, Torino, 1983.
2
3
. L. CONSOCIANI ET AL, L’organizzazione pubblica dell’edilizia, Angeli, Milano, 1969: p. 29.
. A. TOSI, Abitanti, Il Mulino, Bologna, 1994: p. 26.
di città che la dirigenza socialista del Comune e dell’ICPM dell’epoca riconosce soprattutto nel modello
britannico della “città giardino” (la prima è inaugurata nel 1904 a Letchword) 4, cui si ispirano iniziative del
tempo, come la scuola all’aperto nel parco del Trotter di Turro, voluta dal sindaco Caldara, e i villaggi di
casette che l’Istituto edifica nel nord milanese, per gli operai della Breda e della Pirelli, con il concorso
economico delle imprese interessate.
La municipalizzazione dei suoli costituisce uno dei punti centrali del dibattito urbano dell’epoca. Esso
viene portato avanti dagli esponenti del socialismo municipale e del movimento inquilino, con grande
costernazione della proprietà edilizia che, con il concorso delle forze politiche conservatrici, punta l’indice
contro l’“impronta marcatamente soviettista” di un’associazione inquilina che è in realtà strettamente legata
alle componenti riformiste del movimento operaio. Queste ultime non si dimostrano del tutto aliene da decise
suggestioni tecnocratiche, che tradiscono l’aspirazione5 a “disegnare a tavolino modelli abitativi per le classi
salariate”6, in un’ottica assimilabile a quella che, all’inizio, abbiamo definito dell’“architettura disciplinare”.
Simili criteri d’ispirazione sono ben visibili nel saggio del Crespi, sia pure mitigati da un generico appello
alla partecipazione di base. Per esempio, nella fiducia riposta “nell’intervento razionale dell’autorità
superiore nella distribuzione della popolazione”, in virtù del quale “un patriottismo locale è possibile, e con
esso un controllo illuminato dell’opinione pubblica, e sono possibili relazioni stabili e tradizioni locali, ed è
possibile la conoscenza, per parte di una classe sociale, del modo di vivere e dei bisogni delle altre”.
Gli indirizzi blandamente educativi e l’aspirazione tecnocratica a forme di gestione della società che
passino attraverso il controllo dello spazio sembrano assimilare, anche se solo per alcuni versi, i punti di
vista delle élite riformiste rispetto a quelli del paternalismo borghese. Una drastica svolta nel quadro delle
utopie urbane sembra, d’altro canto, avere luogo con l’avvento del fascismo (con il commissariamento del
Comune di Milano, nel 1922, e dell’Istituto, nel 1924).
Se qualche spazio di dibattito sulle politiche urbane e abitative permane, sempre nei limiti della fedeltà al
regime, esso si esprime, nel caso milanese, nella polemica tra l’Istituto per le Case Popolari e le
rappresentanze della proprietà edilizia. Il primo sostiene le istanze di un forte intervento pubblico nella
gestione delle aree urbane, anche in relazione con le esigenze delle classi subalterne. Le altre si fanno
portavoce di un punto di vista più marcatamente liberista, per esempio attraverso la moderata critica di quel
Piano regolatore Albertini del 1933 che rappresentò la massima espressione dell’intervento fascista sul
territorio di Milano.
Malgrado il carattere dichiaratamente “antiborghese” dell’architettura fascista, la politica abitativa e
urbana del regime contempla forme di gratificazione simbolica della piccola e media borghesia attraverso
un’esasperazione dei segnali della distanza, espressa dalla qualità dell’abitare, tra quest’ultima e i ceti
subalterni. Nelle realizzazioni dell’Istituto, questo si esprime attraverso l’implementazione dell’edilizia
economica a riscatto (per utilizzare le parole di Mussolini, “l’italiano addimostra di essere ansioso di farsi
casa sua, di vivere nel suo. È un principio di saggezza che bisogna incoraggiare”7).
Nell’edilizia a riscatto si assiste ad un complessivo miglioramento degli standard abitativi, che contrasta
con il progressivo peggioramento di quelli dell’edilizia popolare, nelle sue successive varianti
“ultrapopolare”, a partire dalla fine degli anni venti, e poi di “casa minima”, negli anni della grande crisi. La
decantata politica antiurbana del fascismo8, ben lungi dal difendere l’Italia rurale dalla corruzione della vita
urbana, si risolve, nei fatti, in un’estrema periferizzazione delle classi subalterne (nei quartieri milanesi delle
“case minime”, così come nelle “borgate” romane).
Le realizzazioni dell’Iacpm, nel corso del ventennio sono numerose: il quartiere S. Siro di Milano
rappresenta il banco di prova dell’architettura razionalista in Italia. I 20mila inquilini del 1920 sono ormai
80mila allo scoppio della guerra. Gli interventi si caratterizzano d’altro canto, come dicevamo, per un
peggioramento degli standard abitativi, nonché per una crescita delle velleità ordinative e disciplinari delle
realizzazioni architettoniche.
4
5
. A. CRESPI, Le città giardino, in Critica sociale, 1905: pp. 294-297.
. Attraverso “la nazionalizzazione del suolo e, con essa, l’adozione su scala or nazionale, or locale … di tutte le iniziative
destinate a tener alto o a migliorare il tenore della vita”, per utilizzare le parole, riferite al contesto britannico, del già citato saggio
del Crespi
6
. G. ZUCCONI, Vecchi centri e nuove periferie industriali, in D. Calabi, La politica della casa all’inizio del XX secolo, Istituto
veneto di scienza lettere ed arti, Venezia, 1995: p. 219.
7
. Cit. in La proprietà edilizia, 29 gennaio 1938.
8
annunciata con toni roboanti da Mussolini in un articolo pubblicato nel 1928 sul Popolo d’Italia e poi ripresa, alcuni anni
dopo, attingendo ad un immaginario iconoclasta, dall’ing. Albertini nell’illustrare il proprio piano regolatore
Significativo è, a tale riguardo, l’intervento di Giuseppe Gorla, dirigente dell’Istituto milanese, ad un
convegno parigino del 1928, dove presenta l’ultima realizzazione, il quartiere XXVIII Ottobre, attuale
Stadera. Recuperando i lasciti del paternalismo ottocentesco, il Gorla individua diverse forme di povertà,
meritevoli di un trattamento differenziato (perché, con le parole del menzionato articolo, “le vie più diverse
convergono verso la miseria e il dolore”). “La società ha, però, verso di essi grandi e gravi doveri … di
redenzione, di elevazione”. “Dal punto di vista sociale”, pertanto, “vanno continuamente sorvegliati,
esigendo in primo luogo la massima disciplina nelle loro case e nei loro quartieri”9. Nel quartiere, i poveri
saranno oggetto di “un’opera santa di redenzione, che praticata dà frutti copiosi e che va fatta con amore,
fede, giustizia e severità”. Al contrario, “gli irriducibili, i viziosi, i refrattari ad ogni miglioramento …
bisogna toglierli, perché non infettino i loro vicini”. Si tratta, pertanto, di “collocare poi le migliori nelle
case popolari di tipo comune, abbandonando le altre al proprio destino”.
Il “quartiere modello Comasina”
Arriviamo dunque al nostro dopoguerra. Il piano Ina-Casa (o legge Fanfani) del 1948 dispone la
costruzione di case per i lavoratori, a partire da un meccanismo di tassazione dei salari alla base
(profondamente contestato dalle opposizioni di sinistra, nel dibattito dell’epoca). Con il piano Ina-Casa,
celebra il proprio ingresso nel dibattito urbanistico italiano la tematica del quartiere. L’idea dominante è
quella del quartiere autosufficiente suburbano che, al pari della vecchia città giardino, dovrebbe, almeno
nelle intenzioni dei suoi fautori, restituire quella dimensione di vita comunitaria che l’urbanesimo sembrava
avere cancellato. La sensazione è che, ancora una volta, dietro alle pratiche dell’“architettura ordinativa”, si
nasconda l’utopia di una società pacificata, sanata dalle contraddizioni e dai conflitti della società industriale
per il solo effetto di un intervento sulla sua organizzazione spaziale.
“Per comprendere le ragioni che determinarono la realizzazione di questo nuovo tipo di quartiere –
leggiamo quattro anni dopo, a proposito della Comasina – occorre inquadrare l’iniziativa nel movimento
iniziato da Ebenezer Howard alla fine del secolo XIX in Inghilterra. Il programma era quello di spostare in
campagna una parte della popolazione di città, costruendo comode abitazioni in mezzo al verde e,
separatamente, adatti nuclei industriali … Non tenendo conto di alcuni aspetti negativi, che sono la
risultante di errate interpretazioni … non possiamo che ammirare il grande valore del concetto
fondamentale”10.
Centrale è l’attenzione ai servizi per i quartieri, anche se i buoni propositi rimangono per lo più disattesi
nelle realizzazioni concrete. Il “nuovo quartiere modello” Comasina di Milano, alla fine del 1958,
annoverava due dei nove centri sociali esistenti sul territorio comunale milanese, come apprendiamo da uno
dei vari saggi apologetici raccolti nella pubblicazione per il cinquantenario dell’Iacpm11. Le lotte per i servizi
che interesseranno i quartieri alla fine degli anni sessanta, tuttavia, getteranno su queste realtà una luce assai
meno rosea rispetto a quella del saggio menzionato. In contrapposizione con l’immagine dei vecchi ghetti
della classe operaia, si propone quella del quartiere autosufficiente come realizzazione di un’armoniosa
integrazione interclassista: “Si rifletta sulla diversa concezione, ora prevalente, di quartieri coordinati
autosufficienti, dove la ordinata sussistenza di ranghi e categorie diverse dovrebbe contribuire ad un’utile
permeabilità tra le diverse zone del conglomerato sociale, secondo una sana applicazione di concetti di
fraternità e socialità veramente cristiani”12.
Proiettando una luce un po’ differente sulla Comasina, un’indagine sociologica di metà anni sessanta13
evidenzia il senso di solitudine, isolamento e reciproca diffidenza dei suoi abitanti: “Mentre, in generale, gli
appartamenti venivano giudicati favorevolmente dai nuovi residenti …, immediatamente fuori dalle quattro
mura di casa il quartiere aveva subito cominciato a decadere … Gli abitanti si lamentavano della mancanza
di scelta dei prodotti da acquistare, della carenza di negozi e di luoghi d’incontro. La zona era morta,
isolata e senza vita … i collegamenti con il centro di Milano e persino con i quartieri vicini erano lenti e
9
. Al 1924 risale, peraltro, l’istituzione dei Segretariati sociali nei quartieri dell’Istituto, in collegamento con l’Istituto italiano di
assistenza sociale.
10
. A. LODOLA, L’Istituto dal 1909 al 1960, in Iacpm, 1962, Cinquant’anni di vita dell’Iacpm: pp. 126-27.
11
. F. SELENATI, Casa, cultura, vita associativa, in Iacpm, Cinquant’anni di storia e attività dell’edilizia popolare a Milano,
Milano, 1962.
12
. V. BONTADINI, Prefazione, in Iacpm, 1962, cit..
13
. È l’indagine dell’Ilses del 1965.
poco frequenti …Prima che venisse posato l’ultimo mattone, si dovette ammettere che la presunta autonomia
della Comasina era fallita. La diffidenza tra i residenti era altissima. Quasi la metà riteneva che
prevalessero i maleducati. Il 23% trovava difficoltà a fare nuove amicizie”14.
Anche un’inchiesta, pubblicata dal Corriere d’informazione nell’agosto del 1961, conferma le “lagnanze
di questo rione, riuscito esperimento dell’edilizia moderna”, i cui 10mila abitanti parlano tutti i dialetti
d’Italia15. Il quartiere, prosegue l’articolo, può dirsi autosufficiente solo fino ad un certo punto, dal momento
che vi si lamenta la carenza di farmacie, di negozi di abbigliamento e la mancanza di un ufficio postale. Le
corse dell’unica linea tramviaria si fanno, nel fine settimana, così rade da costringere chi non è automunito a
trascorrere la giornata a casa (o tutt’al più, se minore, a scorrazzare nei prati circostanti, che fortunatamente
non mancano).
I vecchi quartieri e le nuove periferie
“L’iniziativa di base più importante”, scrive Paul Ginsborg, parlando degli anni successivi al Sessantotto,
“fu senza dubbio il movimento per la casa”. “La direzione delle lotte”, prosegue lo storico inglese, “era
spartita tra l’Unione inquilini, un miscuglio di gruppi rivoluzionari e qualche elemento del sindacato, e il
Sunia, l’organizzazione legata alla Cgil e al Partito comunista … Un punto soprattutto, quello
dell’occupazione delle case, fu causa di aspre polemiche tra le due organizzazioni” 16.
Già il quadro delineato da Ginsborg, fornisce lo spunto per un tentativo di sintesi. Il segnale d’avvio
dell’onda lunga della contestazione, con riferimento alle questioni territoriali, arriva a Milano nel gennaio del
1968, a Quarto Oggiaro, seguito di lì a poco dalla mobilitazione dei quartieri Garibaldi e Isola. Nel primo
caso, un gruppo d’inquilini iscritti all’Apicep e militanti della sinistra radicale danno vita all’Unione
inquilini, contestando la linea troppo morbida dell’organizzazione ufficiale nelle trattative con l’Iacp e
proclamando uno sciopero totale degli affitti. Nel secondo caso, di fronte a progetti di rinnovo urbano, che
avrebbero contemplato l’allontanamento dei vecchi abitanti, prende vita un comitato che, nel corso dei
successivi anni, condurrà una battaglia (almeno provvisoriamente) vittoriosa, con l’adozione del Piano
Velluto del 1975 e del successivo più ampio Piano Cuomo del 1976.
Entrambi gli episodi sono, di lì a breve, destinati a “fare scuola”. Lo sciopero totale degli affitti si
diffonde rapidamente in altri quartieri della nuova periferia (Gallaratese, Gratosoglio, S. Ambrogio … ),
mentre nei primi anni settanta esperienze “difensive” come quella del Garibaldi prenderanno forma in diversi
altri vecchi quartieri popolari (come il Ticinese), parimenti minacciati da interventi di gentrification.
La differenza tra i due tipi d’esperienza è insieme “geografico” e politico. Nelle nuove periferie, attorno
allo sciopero degli affitti del 1968-69, si avvia una spirale di radicalizzazione che i partiti “storici” della
sinistra, in primo luogo il Pci, faticano a controllare (non sono rare le convocazioni “intimidatorie” di
militanti del Partito o dell’Apicep altresì coinvolti nella mobilitazione e nei comitati formatisi a livello
locale). Al centro della protesta, oltre agli incrementi dei canoni, stanno la carenza dei servizi (assenza delle
poste, doppi turni nelle scuole … ), nonché il disagio abitativo di chi non riesce ad ottenere un alloggio
popolare (spesso assegnato secondo criteri clientelari). È a fronte di quest’ultima emergenza che si diffonde e
si generalizza, a partire dal 1970, la pratica dell’occupazione degli alloggi popolari sfitti, dove protagonista è
ancora l’Unione inquilini assieme ad altri gruppi della sinistra rivoluzionaria (primo fra tutti Lotta Continua).
Via Mac Mahon, Gallaratese, via Tibaldi, via Cilea e via Marx saranno contesto di teatrali occupazioni
concluse talora da violenti scontri, che sortiranno se non altro un pesante impatto mediatico. Un’interessante
serie di articoli, usciti nel 1971 sul Giorno a firma di Giorgio Bocca e Natalia Aspesi, ritraggono
egregiamente questa periferia in fermento, con gli esponenti della sinistra “tradizionale” impegnati nel
difficile compito di cavalcare la tigre (la tigre dell’estremismo politico, da un lato, ma anche la tigre dei
residenti che, estranei ai codici della politica, rivendicano comunque migliori condizioni abitative).
Completamente diverso è il caso del Garibaldi e degli altri quartieri della “Milano delle porte”, cioè dei
quartieri storici, sorti in prossimità dei bastioni spagnoli all’epoca della prima industrializzazione,
prevalentemente abitati da strati popolari ma non operai e al centro delle convergenti mire della speculazione
edilizia e del rinnovamento urbano (ovvero del complessivo “disegno borghese della città”, secondo il
14
15
16
. J. FOOT, Milano dopo il miracolo, 2001, ed. cit. Feltrinelli, Milano, 2003: pp. 73-74.
. Nel quartiere modello Comasina scarseggiano i servizi pubblici, in Corriere d’informazione, 25-26 agosto 1961.
. P. GINSBORG, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino, 1989: 438, 439.
linguaggio dei volantini dell’epoca). In questo caso, la lotta si svolge sotto l’egemonia abbastanza solida
della sinistra “tradizionale”. Essa si concretizza, a cavallo delle elezioni amministrative del 1975 (quelle che
danno l’avvio, a Milano come negli altri maggiori capoluoghi dell’Italia centro-settentrionale, al decennio
delle “giunte rosse”), nei due provvedimenti sopra menzionati, che vedono vincolare in base alla 167/62
diverse decine di migliaia di unità abitative, trasformate in alloggi d’edilizia residenziale pubblica.
I neonati Consigli di Zona, centro d’aggregazione delle dinamiche politiche territoriale a partire dai primi
anni settanta, hanno un ruolo di primo piano nella “re-istituzionalizzazione” di conflitti che, negli anni
appena precedenti, erano sembrati sfuggire di mano alle forze politiche “convenzionali”. Questo, anche
grazie alla “territorializzazione” del sindacato che, a fronte del crescente peso della “questione urbana”, ha
cominciato ad intervenire attivamente nelle problematiche locali organizzandosi in Comitati unitari di zona
(Cuz), nonché alla nascita di un’autentica struttura sindacale inquilina a livello nazionale, cioè il Sunia,
nell’autunno del 1972. Le lotte per i servizi al Gallaratese (1972-74) paiono, in maniera abbastanza chiara,
inserirsi in questa dinamica triangolare Consigli di Zona – Sindacati – Partiti politici.
La territorializzazione dei sindacati e la nascita del Sunia ci rimandano, a dire il vero, ad un ulteriore
importante aspetto che ha segnato la storia degli anni settanta, e che qui sfioreremo soltanto, cioè la lotta per
le riforme che prende avvio con gli scioperi per la casa del 1970-71 (ancora una volta, come nel 1963,
l’iniziativa appartiene al sindacato, mentre per il movimento inquilino riceve un forte stimolo che si traduce
anche in una profonda riorganizzazione interna). Se la metafora della contrapposizione tra la piazza e il
palazzo ha fortemente segnato l’immaginario politico degli anni settanta, il movimento per le riforme di cui
stiamo scrivendo costituisce un’eccellente esemplificazione: assistiamo ad un potente movimento di protesta
che a più riprese si riversa nelle strade, lungo tutto il corso degli anni settanta, di fronte a governi,
maggioranze e opposizioni parlamentari che si dilungano, si rimbalzano la palla, inciampano e cadono sulla
questione (è il caso, nell’estate del 1970, del governo Rumor). Esito del movimento per le riforme sono la
legge 865 del 1971 e, verso la fine del decennio, la legge sull’equo canone (329/78) e il piano decennale per
l’edilizia popolare (457/78).
Il diritto alla città e le sfide della globalizzazione
La storia che segue è la cronaca dei nostri giorni. Parliamo di una metamorfosi – dalla città “industriale”
alla città “postfordista” – che merita di essere analizzata in tutte le sue comprensibili ricadute sul territorio,
ovvero su quel tessuto di strutture fisiche, attività, relazioni, problematiche, percezioni e memorie che
costituisce il contesto dell’esistenza sociale. La diversità tra passato e presente potrebbe essere riassumibile
in termini di: a) deindustrializzazione; b) gentrification, ovvero «imborghesimento» dei vecchi quartieri
operai; c) ingrigimento degli stessi, per effetto del mancato ricambio generazionale e della fuoruscita dei
nuovi nuclei famigliari che si vengono a costituire; d) aumento degli immigrati; e) atomizzazione sociale,
anche come prodotto dei fattori appena richiamati.
Deindustrializzazione – È quasi superfluo dilungarsi su di un fenomeno come questo, oggetto di
numerosi dibattiti. Ci troviamo di fronte ad un processo che, nei resoconti dei nostri intervistati, si manifesta
in tutta la propria comprensibile ambivalenza: si lega, da un lato, alla percezione di una mobilità
intergenerazionale ascendente ma, dall’altro, reca con sé il sospetto di una almeno parziale espulsione delle
fasce più deboli della popolazione a vantaggio di nuovi segmenti di ceto medio ed elevato. Comporta un
indiscutibile miglioramento della qualità ambientale, ma anche la disgregazione di quell’antico tessuto
sociale cui facevamo riferimento sopra (par. 5.4.1). Il vuoto urbanistico lasciato dai vecchi insediamenti
produttivi costituisce, ad un tempo e a sua volta, fonte di degrado sociale ed estetico, ma anche occasione di
riqualificazione e di sviluppo.
Gentrification – Ulteriore mutamento, indissolubilmente legato al primo, è quello che nella letteratura
anglosassone va sotto il nome di gentrification. Con questo termine ci si riferisce al mutamento della
composizione sociale dei quartieri, per cui ad una popolazione prevalentemente operaia, o per lo meno
“popolare”, se n’è venuta sostituendo un’altra tipicamente middle class.
La cosa, dicevamo, è anzitutto conseguenza diretta delle trasformazioni che hanno interessato il tessuto
economico e produttivo milanese. Ma anche della rivalutazione del patrimonio immobiliare, che ha portato o
sta portando alla progressiva espulsione dei ceti meno abbienti. Si tratta di un fenomeno che conosce le
proprie manifestazioni più vistose in uno storico quartiere popolare come il Ticinese, tipica espressione della
vecchia “Milano delle porte”. Esso non è, tuttavia, ignoto negli altri quartieri presi in esame, vuoi come
conseguenza di interventi edilizi (è il caso del “Progetto Bicocca”), vuoi come effetto di migliorie generali
(per esempio un’accresciuta accessibilità, che ridimensiona il carattere periferico della periferia stessa).
Ingrigimento – Mentre costituiscono il teatro dei discussi processi di deindustrializzazione ed
imborghesimento, ci raccontano i nostri intervistati, i quartieri subiscono altresì un progressivo ingrigimento.
L’ingrigimento (la cui consistenza percepita viene probabilmente esasperata da parte degli intervistati), oltre
che al saldo naturale della popolazione, sembra dovuto alla “fuga” delle giovani generazioni, che optano per
soluzioni più economiche o migliori – o, in ogni caso, più vicine al luogo di lavoro. L’ingrigimento, spesso,
si lega alla scarsa disponibilità degli anziani a lasciare i luoghi dove hanno trascorso il grosso della loro vita
ma, spesso, anche all’impossibilità economica ad abbandonarli: quest’ultimo caso è particolarmente
frequente nei quartieri popolari storici, caratterizzati da un patrimonio edilizio piuttosto fatiscente. Ma anche
i grandi quartieri popolari delle “nuove periferie”, che negli anni sessanta si caratterizzavano
prevalentemente come luogo di residenza di giovani coppie con figli, assumono sempre più la fisionomia di
luogo di residenza di persone anziane.
Sono i proprio i vecchi quartieri operai della Milano industriale e “fordista” ad assumere, nella memoria
degli abitanti più anziani la fisionomia della comunità perduta, cui si sarebbe sostituito il contemporaneo
deserto urbano della metropoli “postfordista” – laddove, con questo termine, ci si riferisce alla perdita di
centralità della grande fabbrica come elemento dell’integrazione urbana e come principale fattore di conflitto
sociale, secondo un’ipotesi sostenuta da diversi autori17. Di conseguenza, il discorso sull’identità si configura
spesso come nostalgia di quella stessa città industriale che pure, sul nascere, era stata vista come luogo di
sradicamento e perdita dell’identità: l’atomizzazione che i nostri soggetti lamentano, in realtà, è la stessa che
lamentavano gli intervistati di alcune inchieste degli anni sessanta che abbiamo menzionato sopra.
Dalle memorie o dal “sentito dire”, ricaviamo la sensazione che i vecchi quartieri operai, con le proprie
dinamiche interne, i propri meccanismi d’integrazione e luoghi d’incontro, facessero in qualche misura da
argine rispetto all’effetto urbano negativo. Ci troviamo, di nuovo, di fronte all’immagine di un quartiere
operaio (o, quantomeno, popolare) d’una volta, avente i connotati della comunità.
È facile, naturalmente, idealizzare il passato, anche quello relativamente prossimo, e un attento storico
urbano come John Foot18 ci mette in guardia da un’adesione acritica al mito del vecchio quartiere popolare
come idillica comunità d’antan. Anche il più complessivo discorso relativo alla presunta crisi della
partecipazione, andrebbe affrontato con maggiore cautela. La crisi delle sezioni dei partiti come agenti
d’integrazione politica a livello locale, non deve spingerci ad ignorare l’emergere di nuove forme che
svolgono un’analoga funzione: a partire dalla fine degli anni ottanta, per esempio, si affermano in maniera
estremamente decisa fenomeni di comitatismo legati alle problematiche locali.
Immigrazione – Oltre ad ingrigirsi, i quartieri si tingono altrettanto visibilmente dei colori della
multietnicità. Questo è uno dei tratti che, nell’immaginario dei nostri intervistati, maggiormente caratterizza
gli scenari urbani. Gli immigrati, prevalentemente, trovano alloggio in quartieri degradati d’edilizia privata,
in zona semicentrale o semiperiferica. Finiscono, quasi per una tacita clausola, per essere vittime di canoni
vessatori da parte delle agenzie o dei padroni di casa disposti ad affittare loro un appartamento. Talora, però,
si inseriscono nei quartieri di edilizia residenziale pubblica, soprattutto in quelli più vecchi, dove gli
appartamenti “di risulta” (lasciati liberi dai precedenti occupanti, per lo più anziani, a causa di morte) non
trovano altri “pretendenti”, perché di dimensioni ridotte e spesso fatiscenti. Le “pratiche abitative”, basate
sulla coabitazione di numerose persone, spesso in assenza di legami di parentela, in piccoli alloggi, non
manca di creare qualche problema con gli inquilini degli altri appartamenti – soprattutto nei quartieri
popolari storici dove, si diceva, numerosi degli abitanti sono anziani. La presenza di immigrati, nella
percezione degli italiani, spesso si lega all’immagine del degrado e della delinquenza.
Solo in alcuni casi, comunque, questi piccoli attriti quotidiani hanno dato luogo a forme di conflitto più
manifesto. È il caso di via Spaventa, assurto agli onori delle cronache nel 1998, per una serie di
manifestazioni aventi per oggetto i traffici che si sviluppano attorno ad un bar, gestito e frequentato da
immigrati nordafricani. Il 5 giugno, tutte le cronache parlano del quartiere, perché il giorno prima, a seguito
di scontri, due extracomunitari rimangono feriti. Le violenze, a quanto pare, sono prodotte da elementi
esogeni al quartiere e del tutto estranei alla locale Associazione degli inquilini, il cui impegno è volto a
fronteggiare il degrado piuttosto che la presenza straniera. Ciò nondimeno, le forze politiche che
compongono il consiglio comunale tentano di strumentalizzare l’accaduto, presentandolo come il prodotto
dell’esasperazione dei cittadini milanesi nei confronti degli immigrati (i titoli di prima pagina del Giornale
17
. A. BAGNASCO, a cura di, La città dopo Ford, Boringhieri, Torino, 1991; D. Harvey, La crisi della modernità, 1989, ed. it. Il
Saggiatore, Milano, 1993.
18
. J. Foot, 2003, cit..
parlano di Battaglia fra milanesi e immigrati).
L’arrivo degli immigrati dà vita a nuove forme di disagio abitativo ed esaspera – o, quantomeno,
evidenzia – il degrado di determinate zone, fornendo peraltro lucrose occasioni di speculazione19. In un paese
dove l’80% delle famiglie sono proprietarie della casa in cui abitano, l’affitto o il mutuo costituiscono un
rilevante vincolo di bilancio per i nuclei che (secondo quello che ormai costituisce un “luogo comune”
giornalistico) “non riescono ad arrivare alla fine del mese”. Da ormai un quarto di secolo, l’edilizia
residenziale pubblica sembra avere segnato il passo, e il dibattito in materia si concentra sulle problematiche
del degrado o sui progetti d’alienazione degli alloggi. La legge sull’equo canone è stata abolita, sostituita,
con la legge Zagatti del 1998, da un “fondo per l’affitto”, espressione del “liberismo compassionevole” del
centrosinistra. Al di là di alcuni limiti intrinseci nella sua concezione, il fondo per l’affitto è stato lasciato
languire dal successivo governo di centrodestra, a fronte di bisogni che le vicissitudini del mercato
immobiliare hanno reso sempre più consistenti nei primi anni del nuovo millennio … Questo è il quadro dal
quale non può prescindere, a nostro modo di vedere, una riflessione sulle future forme d’azione politica.
Ogni discorso sulle condizioni abitative degli immigrati, non può prescindere da una più complessiva
analisi dei problemi che caratterizzano i rapporti tra il bene casa e i settori più deboli della popolazione. Nel
complesso, elementi di criticità sembrano venire dalla permanente resistenza da parte dei proprietari di casa,
malgrado gli apprezzabili effetti di numerose e sempre più organizzate iniziative d’intermediazione e
garanzia, volte a favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta (il tema è stato più approfonditamente trattato
nella scorsa edizione). Le difficoltà incontrate sul mercato delle locazioni spingono, peraltro, gli immigrati
verso la soluzione che ha caratterizzato, negli ultimi decenni, le famiglie italiane: la proprietà della casa. La
tendenza in questione può costituire, per certi versi, un segnale di integrazione della popolazione immigrata,
anche per le trasformazioni che, come segnalato nel secondo paragrafo, sembrano caratterizzare la domanda
di abitazione in proprietà da parte degli immigrati. Tuttavia, come abbiamo riscontrato, anche il percorso
verso la proprietà della casa, per gli stranieri come per i nuclei italiani a basso reddito, non è privo di aspetti
problematici. Ma un aspetto di particolare criticità sembra essere rappresentato dall’elevatissima tensione che
caratterizza il settore dell’edilizia residenziale pubblica, legata anche, ma non solo, alla carenza di risorse
(l’incoerenza e gli elementi di discriminazione presenti nella normativa sono già stati, a titolo d’esempio,
discussi). Anche a fronte del crescente disagio abitativo, ci sembra, in conclusione, prioritario il recupero di
interventi di edilizia residenziale pubblica finalizzate alle fasce più deboli.
Il complesso legame che si evidenzia, in questo caso, tra la questione abitativa, la convivenza e la qualità
della vita a livello locale, pone al centro della nostra attenzione l’inscindibile legame tra il diritto all’alloggio
e quello che, per riprendere il titolo di un celebre scritto di Henri Léfebvre20, possiamo definire il “diritto alla
città”. Il senso di una tale dicotomia è nuovamente proposta dal filosofo e sociologo francese, allorché
distingue l’habitat dall’abitare. L’habitat può essere inteso come il complesso dei requisiti fisici, tecnici ed
economici del nostro alloggio: stiamo parlando della presenza di un tetto, di una certa metratura pro capite,
di un canone accessibile alle tasche dell’inquilino, della qualità edilizia dell’abitazione. La dimensione
dell’habitat, del “diritto alla casa”, è centrale, asserisce Léfebvre, ma nelle preoccupazioni dell’urbanistica
moderna essa sembra avere oscurato la dimensione dell’abitare, del “diritto alla città”, cioè del modo in cui,
attraverso la casa, noi ci radichiamo nel contesto sociale della nostra esistenza – stiamo parlando, quindi, non
solo di qualità dei servizi e delle aree urbane, ma anche di qualità relazionale e sociale delle stesse.
19
Vedi, a questo proposito, A. Agustoni, Abitare e insediarsi, in ISMU, XI e XII Rapporto sugli immigrati in Italia, Angeli,
Milano, 2006 e 2007; Id., I vicini di casa, Angeli, Milano, 2003.
20
. H. LÉFEBVRE, Le droit à la ville, Gallimard, Parigi, 1968.