Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
scheda tecnica durata: 129 MINUTI nazionalità: GRAN BRETAGNA anno: 2010 regia: MIKE LEIGH sceneggiatura: MIKE LEIGH fotografia: DICK POPE scenografia: SIMON BERESFORD, SOPHIA CHOWDHURY musica: GARY YERSHON montaggio: JON GREGORY produzione: GEORGINA LOWE distribuzione: BIM attori: JIM BROADBENT (TOM), LESLEY MANVILLE (MARY), RUTH SHEEN (GERRI), OLIVER MALTMAN (JOE), PETER WIGHT (KEN), DAVID BRADLEY (RONNIE), MARTIN SAVAGE (CARL), KARINA FERNANDEZ (KATIE), MICHELE AUSTIN (TANYA), PHILIP DAVIS (JACK), IMELDA STAUNTON (JANET), STUART MCQUARRIE (IL COLLEGA DI TOM), EILEEN DAVIES (LA PERSONA IN LUTTO), MARY JO RANDLE (LA PERSONA IN LUTTO), BEN ROBERTS (LA PERSONA IN LUTTO) la parola ai protagonisti Roberto Pisoni intervista Mike Leigh All’uscita della proiezione stampa ho sentito uno spettatore che si rallegrava con ironia: “Finalmente qualcuno gira dei film anche per noi vecchietti…”. Ma è giusto dire che Another Year è un film sulla vecchiaia? Il film non ha un tema specifico, credo sia intessuto di questioni esistenziali importanti che riguardano trasversalmente tutte le età. Di che parla? Della vita, evidentemente, ma una definizione di questo tipo rischia di essere sciocca perché pretenziosa. Non posso negare che i temi siano fortemente condizionati dal fatto che ho 67 anni e non 35 ma l’urgenza per me era un’altra: raccontare i tormenti che nascono dalla consapevolezza del tempo che passa e capire in che modo veniamo a conoscenza di questa verità umana e universale insieme. Da qui nascono una serie di problemi e ansie che ci riguardano tutti, a tutte le età. Però ci sono delle discussioni che affrontano direttamente l’argomento, l’età che avanza costringe i personaggi ad interrogarsi sulle malattia, il dolore e la morte. Ha ragione, ma ad essere onesto non era soltanto di questo che mi interessava parlare. Avevo già rappresentato la malattia in Belle Speranze (1988), nella forma di una signora attempata che soffriva del morbo d’Alzheimer. O in Topsy-Turvy (1999), con la pazzia del padre di Gilbert e le sua conseguenti allucinazioni. Invecchiando i valori si riducono e tutto ruota intorno alla propria sopravvivenza. Gli individui si concentrano su se stessi, la gente che conosci comincia a sparire a poco a poco. E’ uno stato di cose che condiziona il nostro modo d’essere e di vedere la vita. Questo combattimento quotidiano contro il tempo che passa e ti guasta lo trovo epico, è il centro permanente della storia, è quello che cerco di rapire nei volti e nei gesti dei personaggi. E’ facile identificarsi con Gerri e Tom perché sono affettuosi e pazienti con i loro cari e si appassionano a quello che fanno. E’ questo che gli impedisce di invecchiare male. Mary è un personaggio sfuggente, umanissimo ma da vera figura tragica, sembra macchiata da una ferita inestinguibile. Cos’ha che non funziona? Spetta al pubblico farsi la sua idea. Primo approccio possibile: si tratta di una donna che non ha mai avuto un’occasione nella vita, vittima delle sue origini e delle convenzioni sociali. E’ evidente che la gente, soprattutto gli uomini, l’hanno ingannata e hanno contribuito alla sua sfortuna. Ma da un altro punto di vista è possibile che sia lei la sola responsabile dei propri fallimenti. E’ una donna di mezza età che ha sempre vissuto isolata, senza relazioni e rapporti d‘amore ma ha conosciuto la passione. Un personaggio complesso. Quello che mi interessava era di tracciarne un ritratto completo e profondo e di farlo con empatia. I suoi “pezzi di vita” hanno un’ambientazione sociale e territoriale ricorrente. E’ una specie di fedeltà alla propria estrazione, alla sua classe d’appartenenza? Mi viene facile. Vengo dal proletariato. Mi sono occasionalmente avventurato nell’alta società ma mi è abbastanza estranea. La classe operaia è il mio universo naturale. Come regista, visto che non realizzo film autobiografici, ho la responsabilità di osservare il mondo, di imparare e di mostrare le persone che lo abitano. Se sono della classe media, il “mio mondo” parlerà di loro. Nel film il fratello di Tom è un vero proletario come lo era Tom. L’accento di Gerri tradisce la sua origine operaia. Ma ormai sono diventati classe media. Per rispondere alla domanda, più che di fedeltà ad un mondo parlerei di fiducia nello “specchio del mondo”, in senso shakespeariano. Il mondo in cui viviamo. Lei è celebre per la preparazione meticolosa con cui scrive e prova con gli attori prima dell’inizio delle riprese. Di quanto tempo ha avuto bisogno per un film complesso come Another Year? Moltissimo. Più del solito: abbiamo trascorso mesi e mesi per creare, improvvisare ed elaborare l’universo del film. Poi abbiamo provato le scene negli ambienti e alla fine abbiamo giriamo. Lavoriamo sulla stessa scena un giorno o una settimana a seconda della sua difficoltà. E’ un lungo processo prima di arrivare a qualcosa di preciso, il film di fatto nasce da queste impegnative sessioni di prove. I suoi film hanno una temperatura drammatica molto particolare, sembrano procedere sereni e poi hanno delle increspature fortemente tragiche o delle aperture ironiche inaspettate… L’humour è fondamentale per me ma non lo cerco consapevolmente. Mi preoccupo dei problemi dei personaggi e della trama drammaturgica. L’umorismo o il dramma irrompono piuttosto naturalmente perché la vita è comica e tragica, seria e ridicola, triste e gioiosa allo stesso tempo. Questo l’ho imparato, è un fatto. Mike Leigh Cresciuto in una realtà industriale vicino a Manchester (dove è nato il 20 febbraio 1943), influenzato dal nonno amante della fotografia, Leigh si trasferisce presto a Londra dove frequenta la Royal Academy of Dramatic Arts e più tardi la London Film School. Qui studia disegno, pittura, scenografia e recitazione, e negli anni Sessanta entra a far parte di diverse compagnie teatrali in qualità di attore. Con Bleak Moments (1971), segna il suo esordio nel mondo del cinema: mostrando le sofferenze e le difficoltà di un gruppo di persone che vivono in un sobborgo londinese, dichiara già la preferenza per la gente comune, e fa una sorta di dichiarazione di poetica. Malgrado gli addetti al settore apprezzino fin da subito le sue qualità (il film vince il Premio della critica a Venezia), il regista si dedica principalmente alla televisione dove fa una gavetta lunghissima, durata fino al 1988. In questo periodo dirige alcuni cortometraggi (The Five Minutes Film, Knock for Knock e The Short & Curlies), film tv (Meantime e Four Days in July, entrambi incentrati sull'underclass inglese) e qualche episodio della serie Second City Firsts e di Play for Today. Dopo un decennio di ingaggi per la televisione, si impone al cinema con Belle speranze (1988), ritratto di coppie borghesi nell'Inghilterra tatcheriana, e qualche anno dopo con Dolce è la vita (1991). Quest'ultimo film viene paragonato allo stile di Ken Loach per l'interesse a denunciare i drammi delle classi meno agiate ma Leigh è senza dubbio più bizzarro, cerca l'eccentricità nelle persone normali per portarla sul grande schermo. L'amore per ciò che è strano si esprime con genio in Naked (1993), una delle punte più alte toccate dal suo originale modo di fare cinema: il vagabondare di un ragazzo cinico e solitario per le strade desolate di Londra rappresenta una parabola esistenziale contradditoria, bella e anarchica, difficile da assorbire. Premiato a Cannes per la miglior regia e il miglior attore (David Thewlis), tre anni dopo ritorna al prestigioso festival francese con Segreti e bugie (1996) e questa volta si aggiudica la Palma d'Oro. Il film è una lucida riflessione sui rapporti umani, in questo caso di una madre che abbandona la figlia piccola per ritrovarla da adulta e accettarla, non senza difficoltà, nella sua famiglia. L'anno successivo si dedica a Ragazze (1997), film amaro che guarda allo scorrere del tempo. Anche se considerato minore rispetto agli altri film della carriera, la pellicola è comunque un ritratto sincero, mai edulcorato, di un'amicizia tra donne e dell'amarezza nel sentire gli anni che passano. Nel 1999 Topsy-Turvy vince l'Oscar per i migliori costumi e i trucchi, un balzo verso l'America che conferma il talento di Leigh, già apprezzato in Europa. Il film segna anche una svolta stilistica del regista che abbandona temporaneamente l'aspro realismo sociale per dare spazio ad un film storico ambientato nella Londra vittoriana. Riprende in mano i temi a lui congeniali con Tutto o niente (2002), dove racconta le vicende di tre famiglie che vivono in un palazzone della periferia londinese. Ancora una volta Leigh scrive una storia straziante che accompagna il pubblico in un mondo sgradevole, fatto di povertà e relazioni sbagliate. Affronta poi con la stessa forza narrativa il tema dell'aborto ne Il segreto di Vera Drake (2004), vincitore del Leone d'Oro a Venezia, seguito poi da un cambio di rotta, La felicità porta fortuna – Happy Go Lucky (2008), omaggio alla vita nei suoi aspetti più leggeri, il film più colorato e gioioso della storia cinematografica di Leigh. E non per questo meno veritiero. Ritorna poi sullo stile del passato, più tragicamente introspettivo, con Another Year (2010), storia di un gruppo di diversi ed emarginati, tutti coinvolti nella ricerca di un compagno da amare o tesi al superamento di un lutto traumatico. Filmografia (1971) Bleak Moments (corto) (1990) Dolce è la vita (1973) Scene (serie tv) (1992) A Sense of History (film tv) (1973-82) Play for Today (serie tv) (1993) Naked – nudo (1975-76) Second City First (serie tv) (1996) Segreti e bugie (1980) BBC2 Playhouse (serie tv) (1997) Ragazze (1982) Five Minute Films (serie di corti) (1999) Topsy-Turvy (1984) Meantime (film tv) (2002) Tutto o niente (1985) Four Days in July (film tv) (2004) Il segreto di Vera Drake (1988) Belle speranze (2008 ) Happy Go Lucky – La felicità porta fortuna (1988) The Short & Curlies (film tv) (2010) Another Year Recensioni Roberto Escobar - L'Espresso Tutto è umano, teneramente e crudelmente umano, in “Another Year” (Gran Bretagna, 2010, 129’). Il film inizia su un silenzio ostinato: quello di Janet (Imelda Staunton, una sessantenne che siede di fronte a Tanya (Michelle Austin). È medico, Tanva, e Janet vuole qualcosa che l’aiuti a dormire. Nel suo sguardo ci sono le ombre d’un passato cupo e d’un presente senza attesa di futuro, Con dolcezza, l’altra cerca di “entrare” nella sua infelicità, ma lei ci si rinchiude, muta. Intanto, la macchina da presa si muove sui loro volti e sui loro corpi. Per un attimo, si intravede la sagoma del ventre gravido di Tanya. Così, come per caso, Mike Leigh mostra i due estremi fra i quali corrono le nostre vite: la speranza che le apre e la disperazione su cui possono chiudersi. Non c’è una storia vera e propria, nella splendida sceneggiatura dello stesso Leigh. “Another Year” è diviso in quattro capitoli, uno per stagione, dalla primavera all’inverno. Nei pressi di Londra, e per lo più nella casa di Gerri (Ruth Sheen) e del marito Tom (Jim Broadbent), si incontrano amici, parenti, colleghi di lavoro. A parte Tania e Joe (Oliver Maltman), figlio trentenne di Gerri e Tom, si tratta di uomini e donne che sono stati giovani fra gli anni Sessanta e Settanta, proprio come Janet. I loro discorsi quotidiani hanno la semplicità e l’apparente casualità d’ogni discorso quotidiano. Si direbbero anche sereni, nei limiti in cui di norma a tutti noi capita d’esserlo. Sereni certo sono Gerri e Tom – o Tom e Gerri, come si chiamano fra loro, divertiti. Lei è psicologa, lui è geologo. Si amano ancora, o almeno vivono ancora bene fianco a fianco. Con loro la vita è stata generosa. E serena dice d’essere Mary (Lesley Manville), un’amica, o forse solo una conoscente. Un po’ più giovane di loro, Mary è in attesa d’un amore, lo è da anni, inutilmente. Ancora più inutilmente fantastica che sia, Joe quell’amore. Ma solo il malandato, grasso, triste Ken (Peter Wight) la vorrebbe. Man mano che i mesi seguono ai mesi, nasce il figlio di Tanya, Joe si fidanza con Katie (Karina Fernandez), di Ken si perdono le tracce… E quando “Another Year” finisce, attorno alla tavola apparecchiata di Gerri e Tom la serenità si intreccia con la disillusione. La macchina da presa si ferma sul volto di Mary, e ce ne mostra la chiusura muta, senza attesa di futuro. Proprio come su quello di Janet, all’inizio. È passato un anno, uno in più, e la vita sta come sempre in bilico tra speranza e disperazione. Paola Casella - Europa Nessuno oggi meglio di Mike Leigh, il regista di Segreti e bugie e Il ritorno di Vera Drake, è capace di accendere i riflettori sulla quotidianità e sulla gente comune dando loro una centralità che il cinema di cassetta ignora. Questa volta Leigh racconta un anno nella vita di una coppia di anziani felicemente sposati e gli amici che si rifugiano periodicamente nella loro casa per cercare riparo alla solitudine e al senso di fallimento esistenziale. Leigh mostra, con grande delicatezza, come ci siano persone che riescono a crearsi una vita felice e altre invece destinate ad andare alla deriva. E ci mostra come i grandi temi, dall’amore alla vecchiaia, dalla famiglia all’amicizia, possano essere esaminati anche all’interno della più totale normalità, del più piccolo dei microcosmi. Se qualcuno avesse un dubbio sul senso di un film in cui succede assai poco, basta che tenga a mente la scena iniziale con la bravissima Imelda Staunton, che contiene in sé tutto il messaggio di Leigh: per alcune persone l’unico modo per migliorare la propria vita sarebbe ricominciare tutto daccapo. Fabio Ferzetti - Il Messaggero E se il cinema invecchiando diventasse maestro nella difficile arte di invecchiare, per non dire di vivere? Se questo linguaggio fatto di spazio - ma soprattutto di tempo, anche se il tempo è sempre così difficile da filmare - ci mostrasse una santa volta come fare buon uso del tempo che ci è concesso, e anche di quello che ci siamo ormai lasciati alle spalle? Naturalmente Mike Leigh non “insegna” proprio nulla. Però Another Year e i suoi strepitosi interpreti (ignorati a Cannes anche se meritavano una palma collettiva) ci mostrano con concretezza quasi dolorosa cosa (ci) facciamo quando agiamo in un modo o nell’altro nella nostra vita di relazione. Il tutto arpeggiando su una tastiera così ristretta che si stenta a credere possa uscirne una musica così ricca e profonda. Quattro stagioni, un pugno di personaggi, qualche cena, molti tè, una partita a golf, un funerale, e una seduta dal medico che da il “la” all’intero film. Allo straordinario regista di Naked, Segreti e bugie, Happy-GoLucky, uno dei più grandi (e dei meno vistosi) della nostra epoca, bastano poche inquadrature per evocare quarant’anni di amicizia, di amore coniugale, o di smarrimenti e delusioni sentimentali. Sempre prendendo il tema di lato, con qualche rapido affondo che scena dopo scena illumina vite, caratteri, scelte ed abbagli dei protagonisti. C’è la coppia felice da sempre, lui geologo, lei psicologa (Jim Broadbent e Ruth Sheen), con figlio unico ormai in età da famiglia, che a volte (senza volere?) brandisce questa felicità quasi come un0arme. Ci sono gli amici single (termine che qui suona come un crudele eufemismo), con il corteo di rimpianti, occasioni mancate, incapacità croniche: come la svitata, adorabile, imperdonabile Mary, e il corpulento Ken, in guerra con la dittatura dei giovani (Lesley Manville e Peter Wight). E poi quel fratello maggiore e ormai anziano di cui ignoravamo l’esistenza, che incontriamo solo per il funerale della moglie. Funerale al quale il figlio si presenta in ritardo. Affrescando in pochi minuti di ostilità e risentimento decenni di inferno famigliare. Perché ogni scena spalanca un mondo grazie a un sottotesto ricco e vario come il sottosuolo esplorato dal protagonista, e alla bravura meravigliosa degli attori. Che sarebbe un vero delitto vedere doppiati. Alessandra Levantesi - La Stampa Delle tante commedie vere come la vita che il regista inglese Mike Leigh ci ha regalato, questa è la più cechoviana per il modo in cui intreccia sui fili del quotidiano il tema dell'aspettativa (vana) di felicità. Cadenzato sui tempi delle quattro stagioni, Another year si svolge durante altrettanti weekend nella casa ddei londinesi Tom e Gerry, i quali sposati da oltre 30 anni vivono sereni uno accanto all’altro. Per questo motivo sono diventati il rifugio di amici che, malati di solitudine e frustrazione, cercano magari rifugio nell’alcol come fa Mary. Nel film non succede nulla di particolare: incarnati con estrema naturalezza da intonatissimi attori i personaggi si incontrano, chiacchierano, si confessano, ridono, piangono. Chi soffre seguita a soffrire e il segreto della felicità di Tom e Gerry – hanno avuto di più oppure, semplicemente, non pretendono chissà che cosa? – rimane avvolto nel mistero. Gian Luigi Rondi - Il Tempo Ancora, per Mike Leigh, pagine di vita. Come, anche di recente, ne "La felicità porta fortuna", candidato all'Oscar 2009, e ne "Il segreto di Vera Drake", Leone d'oro alla Mostra di Venezia nel 2004. Dalla primavera all'inverno. Quattro stagioni nell'esistenza di due coniugi già anziani, lui geologo, lei psicologa. Le loro professioni, però, restano di sfondo, in primo piano l'orto, che coltivano con passione, e gli amici e i parenti: un figlio e un fratello che si alternano tra le pieghe delle loro giornate pretendendo attenzione; un'amica non più giovane, attraversata da periodiche crisi sentimentali (tra l'altro è silenziosamente innamorata del figlio dei due che invece sta per fidanzarsi); un altro amico che, vedovo a sua volta, riunisce tutti i suoi in occasione del funerale della moglie, funestato, però, da atteggiamenti irosi e aggressivi di un suo figlio emerso quasi dal nulla dopo assenze ripetute … Personaggi, anche quelli più di fianco, incisi sempre con segni forti ma quasi minuziosi, per condurre avanti l'azione molto più con le loro psicologie che non con i loro gesti, di solito quieti, appena accennati, anche quelli dell'amica in crisi i cui tormenti affiorano soprattutto dai dialoghi, netti, precisi, e da una mimica dell'attrice che la interpreta (Lesley Manville) che si affida quasi soltanto a sfumature sottili, spesso addirittura interiori. Con i climi attorno che, anche quando i personaggi parlano molto, sembrano privilegiare solo il silenzio: nelle vite di tutti, nel loro modo di esprimersi, in quelle atmosfere in cui le delusioni, le amarezze e poi anche la morte (da uno ricordata in lacrime, da un altro sofferta nel presente con dignità severa) gravano, ma senza enfasi, per tutta la vicenda, finendo per diventare il colore stesso del film e della sua rappresentazione della realtà umana. Unico segno disteso e sereno, la presenza e i modi della coppia di anziani (Jim Broadbent e Ruth Sheen), non dissimili, per accenti sottomessi, dal composto dolore del fratello vedovo(David Bradley). Recitato soprattutto in primo piano. Maurizio Cabona Il Giornale Tom e Gerri (Jim Broadbent e Ruth Sheen) sono una coppia londinese agiata: il figlio scapolo (Oliver Maltman) cena da loro: gli amici ken (Peter Wight) e Mary (Lesley Manville) vanno a trovarli. Nella loro casa, nel verde, confluiscono solitudini urbane, che l’età accentua. Sono persone qualsiasi, fanno discorsi banali: tutto somiglia alla realtà reale, non alla realtà spettacolare. Per un’ora andrebbe bene, per oltre due no, in concorso all’ultimo Cannes, Another Year è uno sfoggio di bravura del regista, dello sceneggiatore e degli attori. Ma solo quello. Federico Pontiggia - Il Fatto Quotidiano Primavera, Estate, Autunno, Inverno. Dopo Kim Ki-duk, la quattro stagioni la serve l’inglese Mike Leigh con Another Year. Protagonisti sono Tom e Gerry (versione umana), felicemente sposati, lui geologo, lei psicologa, attorno a cui ruota un’assortita corte dei miracoli: Mary, svampita e alticcia; il figlio Joe, 30 anni e senza una donna; Kenni, pure lui col gomito alzato; Katie, terapista che si fidanza con Joe; il taciturno fratello maggiore di Tom, Ronnie, che perde la moglie, e il suo figlio aggressivo, Carl. Tra qualche esterno e molti interni, sono le loro geometrie relazionali a occupare, intersecare, frastagliare il nuovo lavoro scritto e diretto dal regista di Segreti e bugie: film essenzialmente di personaggi e meritoriamente di grandi attori, è il suo migliore da anni (Il segreto di Vera Drake, Happy Go Lucky), ma non basta a farne un capolavoro. Perché se lo stile non viene meno e tutto – amore e tenerezza, gioia e rivoluzione – viene messo in ironica e colta centrifuga, il film è permeabile alla noia e, complice la circolarità, rischia di mordersi la coda. Domanda a Mike Leigh: che fine fa la strepitosa Imelda Staunton, che apre il film da casalinga disperata e poi scompare?