aldo penna • il silenzio imperfetto • capitoli primo e secondo

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aldo penna • il silenzio imperfetto • capitoli primo e secondo
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Aldo Penna (1956) ha già al suo attivo, con successo di lettori, per
Serradifalco, La verità è nell’ombra. Il suo lungo impegno politico
gli ha consentito una profonda e puntuale conoscenza della situazione a Palermo, scenario del suo romanzo giallo.
Ringraziamenti
Un grazie infinito ad Antonella, mia moglie, vero spirito guida che ha illuminato il cammino seguendo sin dalle prime pagine quest’avventura. Ha criticato, suggerito, consigliato e sorriso con me, rivedendo innumerevoli volte
il testo.
A Giada e Federico, i miei figli, per il tempo che ho loro sottratto.
A Daniela Gambino, che con pazienza certosina e preziosi suggerimenti, ha
rivisto il romanzo. Senza di lei non sarebbe stato lo stesso e, forse, non avrebbe visto la luce.
A Gianfranco Scavuzzo, il videoartista, che ha consentito con la sua bravura e genialità di accompagnarmi lungo il progetto dei cento videoclip per raccontare l’intero romanzo con i video.
A Paolo Maselli per il bellissimo book trailer realizzato. Uno strumento
importante per comunicare lo spirito del libro.
A Monica Gentile, Marina Usala, Anna Chirco, Gabriella Lupo, Deborah
Merlino, Francesca Rizzo, Giorgio Barone, Crilla Guccione, Maurizio
Cascino, che hanno letto in tempi diversi il dattiloscritto, fornendo ognuno
un suggerimento utile a migliorare il ritmo della storia.
Agli amici del gruppo “Il silenzio imperfetto” su Facebook. Abbiamo collaborato con reciproca gioia nella ricerca del titolo prima e delle musiche per i
video poi. Un’esperienza entusiasmante, sulla forza di un gruppo che, a
distanza, partecipa, riflette, dice la sua.
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INTRODUZIONE
Molti libri hanno affrontato il rapporto mafia-politica, in genere all’interno di saggi che partivano dall’esame di fatti oscurati o tralasciati dalla cronaca. In questo bel libro, invece, che è
un romanzo, la mafia si muove sullo sfondo, per poi rivelarsi
nella sua crudezza ed efferatezza. Fenomeno che muta, cambia, si adatta. Le strategie mafiose attraverso gli anni sono cambiate: dallo stragismo alla tregua, dalla guerra allo Stato alla
trattativa con lo Stato, dalla contrapposizione alla convivenza.
Uno spirito di convivenza che ha finito per permeare sempre
più la società siciliana e nazionale, al punto da far dire a un
ministro che con la mafia bisogna convivere. Il risultato è stato, ed è, che abbiamo oggi una mafia apparentemente più “civile”, meno sanguinaria, che torna nei salotti buoni della società
e perfino nel circuito delle istituzioni. Nel libro di Aldo Penna,
attraverso una trama avvincente, emerge l’intreccio tra poteri
legali e poteri criminali che ha caratterizzato la cronaca di questi anni. Cambia il modo di pensare e di essere dei mafiosi, sempre meno rozzi e analfabeti. Nel libro, come nella realtà, il
mafioso è moderno e arcaico insieme. Si intende di finanza e
ama le tradizioni, scala le maggiori imprese del Paese, ma si
rifugia nel luogo dove è nato. Falcone diceva alla fine degli anni
‘80 che la mafia era entrata in Borsa. E allora, oggi possiamo
dire che la mafia non solo è entrata in Borsa, ma riesce a incrementare le proprie ricchezze, in relazione alla sua capacità di
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immettere denaro sporco nei canali leciti. Cosa Nostra ha innovato le sue strategie di arricchimento illecito e di riciclaggio,
entrando nel circuito della grande economia globalizzata. Il
tutto, come si evoca nel libro, allo scopo di rendere difficilmente ricostruibili i flussi finanziari di “lavaggio” del denaro sporco, avvalendosi delle transazioni commerciali, che ormai si possono effettuare anche per via elettronica, e dei paradisi fiscali e
bancari. Il libro sembra riecheggiare le storie intorno al delitto
Lima del 1992 e il clima di quella stagione. La mafia volle la
morte di Salvo Lima e poi uccise Ignazio Salvo. Allora partì
l’attacco di Cosa Nostra contro certi uomini politici che avevano promesso tanto e mantenuto niente. A Salvo Lima e Ignazio Salvo i boss presentarono il conto. E anche ne Il silenzio
imperfetto la mafia disarciona e calpesta chi pensava di usarla. E non solo. Una linea attraversa orizzontalmente il romanzo: il rapporto tra informazione, politica e società. La mistificazione, i falsi miti, l’occultamento della verità. Io credo che in
una democrazia difficile come la nostra abbiamo bisogno come
l’aria di un’informazione libera e pluralista. Giornalisti con la
schiena diritta, che non si pieghino, programmi televisivi di
informazione e non di disinformazione, che non facciano da
cassa di risonanza alla voce del Potere, ma che sappiano raccontare, per quanto possibile, altre verità. Come diceva Hannah
Arendt: “nella loro ostinatezza i fatti sono superiori al potere”.
Ma vanno raccontati, come fa Aldo Penna in questo bel romanzo. Nonostante l’intelligenza investigativa del commissario Di
Jemma e la capacità di Flores di mettere in relazione fatti tra
loro apparentemente distanti, la svolta che consentirà di trovare il bandolo nel complesso intreccio narrativo sarà l’utilizzo
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delle intercettazioni, la possibilità di localizzare utenze telefoniche portatili, quindi persone, e analizzare i pregressi rapporti interpersonali di ciascuno. E qui, davvero, il richiamo all’attualità è forte e immediato. Quello che rende diversa, dalle altre
organizzazioni criminali, la mafia, è l’intreccio con la politica. E tutte le ambiguità e contiguità con le istituzioni che affiorano in questo libro sembrano trovare solidi agganci con l’attualità quotidiana. Il finale a sorpresa potrebbe apparire amaro, ma forse dà il segno dell’insidiosità di un fenomeno che trasforma e adegua se stesso alla realtà che cambia.
Antonio Ingroia
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I.
Nello specchietto retrovisore troneggiava l’Etna. Flores infilò
distrattamente un cd nel lettore. Dopo Enna, con la sua rupe
alta e selvaggia, l’autostrada si snodava tra terre riarse e fragili, colline impastate con lo zolfo che franavano verso valle.
Gli evocavano un West immaginario, selvaggio e pulito.
Gli spettrali avamposti della sua città furono in vista due ore
dopo. Mura sbrecciate di case non finite, catapecchie abbandonate e scheletri di industrie mai nate scorrevano al di là
dei vetri. Fu preso da un vago senso di nausea. Sperava di
trovarla diversa, Palermo, e ogni volta osservava, scoraggiato, la sua immobilità.
Le luci al neon della rotonda di Via Oreto gli segnalarono la
fine dell’autostrada. Sterzando verso la città universitaria, si
augurò di non arenarsi nel traffico serale. Il cielo iniziava a
indossare il suo abito crepuscolare e lui desiderava solo arrivare a casa. Era stanco di quelle trasferte inutili, aveva bisogno d’altro: di perdere dieci chili, di riaccendere l’entusiasmo per la sua professione e trovare, dopo mesi di caparbia
solitudine, una donna con cui condividere i vuoti in cui spesso sprofondava.
Arrivato a casa, tolse in fretta le scarpe, estrasse dal frigo una
birra, accese la tv e si gettò di peso sul divano. Oltre al ronzio del televisore, regnava il silenzio, con le immagini che
continuavano a scorrere. Si massaggiò la pancia. Aveva qua6
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rantacinque anni e da venti lavorava nello stesso quotidiano. Rimestare tra le macerie morali della sua città lo esaltava e deprimeva insieme, e di macerie d’ogni genere Palermo
ne era ingombra.
Il tg regionale della notte, dopo le solite dichiarazioni politiche, aprì con le notizie.
“Ritrovata sulla scogliera del Foro Italico una giovane donna senza vita. La ragazza aveva indosso un vestito firmato.
Secondo la polizia, la morte risalirebbe a qualche ora fa. Sembra probabile sia caduta accidentalmente sugli scogli dopo
aver scavalcato la ringhiera”.
Il suo interesse si accese di colpo. Il conduttore aveva appena finito, quando il telefono squillò. Afferrò con fastidio la
cornetta.
“Gaetano Flores?”.
“Sì”.
“Hai sentito la notizia?”.
“Sono davanti al televisore”.
“Domani sarai di turno. Fammi un pezzo sulla famiglia della ragazza”.
Le intromissioni del suo caposervizio lo disturbavano, ma
era troppo stanco per trattarlo male. Aveva solo voglia di
andare a dormire.
Durante la quotidiana riunione di redazione irruppe una
notizia: “C’è un uomo sul tetto di Palazzo delle Aquile e
minaccia di suicidarsi”. Flores si precipitò di corsa. Trovò
Piazza Pretoria gremita di curiosi. Ai piedi della scalinata della vicina chiesa di Santa Caterina, drappelli di precari, disoccupati e senzatetto bivaccavano lì da mesi, una tenda da cam7
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peggio dava alla piazza un’atmosfera da suk arabo. Le statue
della monumentale fontana cinquecentesca, ripulite dalle
sozzure che le imbrattavano, guardavano lo spettacolo, lo
stesso da secoli, indifferenti. I vigili del fuoco, intanto, avevano fatto arrivare un loro mezzo e stavano distendendo l’autoscala, l’uomo continuava ad agitarsi lanciando bigliettini.
Uno di questi cadde vicino ai piedi di Flores, che lo raccolse e alzò lo sguardo verso di lui. Doveva essere un uomo sui
trent’anni, indossava una maglietta rossa e continuava a
muovere le braccia e lanciare grida che la distanza e il caos
della piazza rendevano incomprensibili.
La scala raggiunse la sommità del palazzo comunale e i vigili iniziarono le manovre per accostarsi. Flores pensò ad altre
spettacolari proteste finite nel nulla. Unica novità: i bigliettini lanciati. Quello che aveva in mano, scritto con una grafia insicura, diceva: “Mi hanno preso in giro, si sono afferrati i voti e mi hanno mollato”. Lo mise in tasca e cercò qualcuno con cui poter parlare. Scrisse qualche nota sulle motivazioni, annotò i nomi delle persone incontrate e fu pronto
ad andarsene.
“Flores, aspetta, vengo via con te. Hai finito qui?”, gli chiese un collega osservando il pompiere sulla pedana sospesa.
“Devo seguire un processo. Il nostro lanciatore di bigliettini lo stanno recuperando”, rispose incamminandosi al suo
fianco. Avevano appena girato l’angolo, quando un urlo forte e disperato li costrinse a tornare indietro. In piazza la gente si era ammassata tra la fontana e l’ingresso del palazzo e i
vigili impedivano ai curiosi di avvicinarsi. Flores salì in fretta i gradini e fu al primo piano di Palazzo delle Aquile. Si
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affacciò dal balcone gremito di persone: l’autoscala era accostata all’edificio, ma l’uomo del cornicione si era sfracellato
trenta metri più in basso. Un piede messo in fallo mentre tentava di raggiungere la piattaforma e l’incapacità di un vigile
del fuoco a trattenerlo avevano provocato la disgrazia. Osservò
il cadavere dall’alto, mentre una corona di folla lo avvolgeva.
Sembrava un fantoccio sfasciato con un braccio imprigionato in modo innaturale sotto il torace. Nella chiazza rossa attorno alla testa, come un’orrida aureola, gli parve di riconoscere,
con disgusto, pezzi di cervello schizzati sul selciato.
Una ragazza attraversò di corsa la piazza, gridando. Tentarono di bloccarla arpionandola per il vestito, ma le sue mani
furono più svelte e disperate e dopo pochi istanti stava con
la testa incollata al petto del morto. Il suo lamento superava le voci della folla.
Flores sgusciò via da quel balcone affollato e ritornò velocemente in redazione, mentre gli ululati delle sirene tagliavano l’aria come rasoi affilati.
La riunione di redazione era finita. L’apertura sarebbe stata
dedicata all’incidente di Piazza Pretoria: bisognava intervistare i familiari.
Camera mortuaria dell’Ospedale Civico. Il livido cubo di
cemento, distanziato per pudore dagli altri edifici, traboccava di gente e di dolore. Sullo spiazzo nudo, amici e parenti
della vittima, nell’aria, uno sgradevole tanfo di fiori marci.
Si piazzò a un angolo per osservare i presenti: occhi rossi,
sigarette fumate nervosamente e schiacciate per terra, lacrime asciugate in fretta e mani tra i capelli. Si conoscevano
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tutti e cercava, senza riuscirci, di sfuggire ai loro sguardi.
Un giovane con i capelli pieni di gel lo fissava da qualche
minuto. Cercò di allontanarsi, ma l’uomo continuò a seguirlo con lo sguardo. Stava ascoltando due donne parlare delle
conseguenze che si sarebbero abbattute sulla famiglia del
morto, quando improvvisamente gli si fece davanti.
“Lei chi è?”.
Flores, preso di sorpresa, balbettò una risposta: “Sono un
giornalista, devo scrivere un articolo su questo ragazzo”.
L’uomo scosse la testa.
“Pensavo fossi uno sbirro. Vieni con me, ti racconto io come
stanno le cose”. Si allontanarono dagli altri. Il ragazzo lo fissò senza parlare. Accese una sigaretta, diede un lungo tiro
che gli incavò le guance, trattenne il fumo in gola e poi lo
liberò alzando lo sguardo.
“Filippo ha lavorato come un disperato per le campagne elettorali, notte e giorno, poi è stato mandato via senza un soldo”.
L’odore pungente della brillantina arrivò alle narici di Flores. Aveva il volto magro e nervoso con occhi scuri e incavati. Poteva essere uno dei tanti mitomani che incrociava, ma
il dolore sembrava morderlo per davvero.
“Per chi ha lavorato il tuo amico?”, lo interruppe. L’altro parlava a se stesso e non lo sentì.
“Saranno contenti adesso. Lui è morto, prima di raccontare
tutto”.
“Raccontare cosa?”, chiese Flores. L’uomo gettò la sigaretta
per terra, cercò di spegnerla con il piede e stava per parlare,
quando una signora magra e vestita di nero lo chiamò agitando le mani.
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“Carlo vieni qua, che stai facendo?”. Ebbe un gesto di stizza, si girò e andò via.
Il giorno dopo seduto alla sua scrivania, Flores guardava
attraverso i vetri. La redazione era semideserta. Il caldo lo
faceva soffrire e l’impianto di condizionamento sembrava
essersi messo a riposo. Sudava. Ripensò ai due ragazzi, morti nello spazio di poche ore: la donna per una banale caduta notturna, l’altro per un incidente causato dalla sua disperazione. Un lancio d’agenzia comunicò nuove notizie sulla
ragazza del Foro Italico. Si parlava genericamente di decesso per arresto cardiocircolatorio dovuto alle ferite provocate
dalla caduta. Occorreva ricostruire, così come aveva fatto per
Filippo, l’ambiente da cui proveniva.
Solitamente, uscendo dalla redazione, assaporava la notte in
arrivo con i suoi profumi e aspirava il salmastro portato dal
vento. Quella sera, invece, la nausea gli toglieva il respiro.
I segnali erano già arrivati da qualche tempo, ma li aveva
elusi.
Radunare gli amici per una cena o una partita da seguire in
tv gli era sempre piaciuto, ma adesso fuggiva dalle voci e dalla gente e si rifugiava, sempre più spesso, nel pub sotto casa.
Viveva solo da tanti anni. A lungo aveva amato il silenzio e
le stanze prive di luci che lo accoglievano al suo rientro, ora
quel buio vuoto e desolato sembrava avvolgerlo come un
sudario.
A volte, per spazzare quel silenzio untuoso, accendeva la radio
o inseriva nel lettore un cd degli Acdc. Il violento suono degli
strumenti faceva tremare i vetri, ma non se ne curava.
Quella sera accese soltanto la tv, abbassò il volume e le voci
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dallo schermo divennero un rumore lontano. Teneva in
mano la sua agendina nera.
Sfogliava le pagine lentamente, scorrendo i nomi e annuendo, ogni tanto, ai ricordi. Scartò con decisione gli amici di
sempre e finì per fermarsi su alcuni numeri di telefono sporcati da macchie e cancellature.
Si alzò, raggiunse il frigo, aprì una birra e buttò giù una lunga sorsata direttamente dalla bottiglia. Sedette in cucina, la
birra di fronte. Copiò alcuni numeri su un pezzo di carta,
bevve ancora, scrisse accanto a ogni numero telefonico il
nome corrispondente e guardò la bottiglia vuota. Si assopì,
come gli capitava da qualche tempo. Davanti agli occhi semichiusi lampeggiarono i ricordi: la storia finita, la lunga solitudine, le colleghe attraenti, l’intraprendente Angela. Avrebbe voluto una di loro quella sera per compagnia. La bottiglia si rovesciò sul tavolo, risvegliandolo, ma riuscì ad afferrarla prima che cadesse in terra. Riprese in mano il foglio
con i numeri di telefono e scrisse altri nomi.
Rosaria, capelli lunghi e seni acerbi, aveva un sorriso dolce
e coinvolgente. Diffidava delle sue labbra sottili. Lo cercava
a ogni ora del giorno e ne era rapidamente fuggito.
Cinzia gli ricordava i baci rubati sotto casa. Era sposata con
un suo amico e aveva interrotto la storia prima che gli esplodesse tra le mani.
Carmen era un nome scritto con inchiostro rosso. Si fermò
a pensare. Una storia di tantissimi anni prima e la memoria... Ricordava soltanto un volto chiaro, magro, degli occhi
allegri. E i capelli: ricci, lunghi. Almeno così l’aveva vista
durante un casuale incontro ai grandi magazzini due anni
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prima. Rigirò il foglio tra le mani. Spense la luce, uscì dalla
cucina e si affacciò al balcone.
In quei mesi era uscito con due donne ripescate dal contenitore dei ricordi. La prima era stata una sua vecchia
fiamma con cui aveva avuto una straordinaria intesa sessuale. Si era eccitato al pensiero di ritrovarla, ma quando
l’aveva vista, non aveva rinvenuto traccia dell’antica attrazione. La seconda, una docente di sociologia, risposata e
separata due volte, e con tre figli, non voleva saperne di
un altro uomo al fianco.
Flores aveva provato con altri mezzi a uscire dallo stato comatoso in cui si trascinava. Per una settimana si era infilato,
ogni sera, dentro una chat alla ricerca di una scossa che lo
risvegliasse. L’intraprendenza invadente o la malinconia
distruttiva di alcune donne lo disorientava. Era un pessimo
pescatore, non aveva pazienza, e presto aveva rinunciato.
Ripiegò il foglio con cura e lo ripose nel portafogli, indeciso se usarlo o lasciarlo a futura memoria dell’avvilimento di
quella sera. Per qualche giorno lo dimenticò.
Una sera, al pub, lo riconobbe sotto le dita mentre pagava il
conto. Decise di tentare.
Carmen, la terza nel suo piccolo elenco, rispose subito:
“Ciao, Gaetano, che sorpresa, come mai dopo tanto tempo?”.
Annaspò alcuni istanti pensando a scuse poco credibili, la
voce di Carmen invece riempì il telefono.
“Vuoi che ci vediamo? Sono anni che non usciamo insieme”.
“Piacerebbe anche a me”, rispose soffiando il suo sì nel
microfono. Un senso di leggerezza lo attraversò e lo fece sentire subito meglio.
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Passò a prenderla alle nove. Due anni prima, quando si erano incontrati, con i rispettivi partner al fianco, l’aveva trovata desiderabile. Fissava il portone di casa sua e aspettava.
Emozionato.
Due colpi al vetro. Carmen non era diversa da come ricordava. Indossava un leggerissimo cardigan nero e un foulard
colorato al collo. Irruppe in auto insieme al suo profumo. Si
slanciò verso di lui e lo baciò sulla guancia. I capelli lunghi
e raccolti e un filo di trucco agli occhi lasciavano emergere i
tratti forti e insieme delicati del viso. Solo gli occhi custodivano tracce del tempo trascorso.
“Ciao, Gaetano, sono felice di vederti”. Lo era anche lui ma
non riuscì a dirlo. Poi lo scrutò con attenzione felina.
“Che ti è successo?”. Lo teneva confidenzialmente per il
mento e Flores sentì un rossore salire e infiammargli le guance insieme alla nostalgia per qualcuno che si preoccupasse di
lui. Il primo scoglio, il contatto, era superato. Sperò di non
restare deluso dal resto. Avviò il motore e si diresse verso il
mare. Si voltò a guardarla: il colore intenso del rossetto evidenziava delle labbra morbide. Le avrebbe morse con gusto.
Anche riannodando i fili della memoria, del suo passato
affiorava ben poco. Divorziata da qualche anno, si occupava della pubblicità di un circuito radiofonico. Anni prima,
e per un breve periodo, si erano frequentati.
La spiaggia distava dal loro tavolo pochi passi. La osservò a
lungo, gli piaceva come stava seduta, mentre un vento leggero le scompigliava i capelli. Appoggiava i gomiti sul tavolo, le dita intrecciate con il mento adagiato sopra. Parlava
delle nuove tecnologie applicate alla radio, della riscoperta
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della poesia, dei suoi rapporti con gli uomini. Lasciò che
ordinasse il vino, lui amava la birra.
Doveva avere la guardia bassa quella sera e chiese di un
comune amico, dimenticando che era stato anche il suo
fidanzato. Si rese subito conto di aver acceso una miccia a
combustione rapida. Il corpo morbido e dai gesti lenti e caldi divenne in un istante rigido e teso. La sua voce mutò di
tono.
“Spero che tu non lo veda più”. Poi, senza dargli il tempo di
riprendersi, continuò: “Ho impiegato un anno a capire che
era un miserabile, dopo di lui sono stata più svelta a lasciar
cadere storie nate male”. Neanche a lui piaceva quel suo exfidanzato. Rispose di averne perse le tracce e le versò del vino,
sperando di distrarla.
“Sono anni che non parliamo, Gaetano. L’ultima volta, dieci anni fa, mi hai invitato come stasera”. La guardò sorpreso. Mentre cercava di risalire indietro nel tempo, lei si protese verso di lui.
“Non ricordi, eh? Una festa, tu che parli tutta la sera con i
tuoi colleghi giornalisti, io che vado via? Ancora niente? Da
allora non siamo più usciti e per lungo tempo, neanche
visti”. Il vino che stava bevendo gli andò di traverso. Forse
aveva accettato l’invito soltanto per rimproverargli quel fatto. Carmen, occhi fissi su di lui, aspettava una reazione. Pensò alle parole giuste, ma non arrivarono.
“Non trovi le parole? Neanche mio marito le trovava. Siete
tutti uguali. State zitti. Sempre”. Questo rimprovero lo aveva già sentito. Altre donne volevano risposte immediate.
Ricordavano tutto del passato e lo usavano per metterlo in
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difficoltà, ma solitamente erano già finiti a letto, quando
capitava. Carmen lo stava mettendo all’angolo fin dalla prima uscita, al tavolo di un ristorante. Si guardò attorno sperando nel provvidenziale arrivo di un cameriere, una distrazione che la facesse smettere di rivangare il passato. Doveva
dire qualcosa e disse la peggiore.
“Non ti ricordavo così. Sei troppo prevenuta, mi stai buttando in faccia qualcosa di dieci anni fa e per questo ti chiedo scusa, ma non dire che sono uguale a tutti gli altri uomini. È il pretesto che usate per massacrarci”.
Lei lo guardò sorpresa. Non si aspettava reagisse, aveva carattere quel Flores. Doveva assestargli il colpo finale? Forse
doveva concedergli qualche chance. Ma nonostante i buoni
propositi non si trattenne: “Dici che sono prevenuta per
nascondere che sei un prepotente”.
La faccia di Flores cambiò colore. Si guardò intorno: qualcuno si stava accorgendo di quella sfuriata? Avrebbe potuto
dire: “Sei una rottura di palle”, alzarsi, gettare sdegnato il
tovagliolo sul tavolo e andarsene. Non avrebbe ottenuto nulla acuendo lo scontro con quel tipo di donna e tentò la tattica di sempre. Sorrise in segno di resa e allungò la mano verso la sua. Lei non la ritrasse e un’espressione di complicità
affiorò finalmente sul suo viso. Pensando che il peggio era
passato, Flores si lanciò in una lunga e verbosa divagazione
sul suo passato e la professione. Sul volto di Carmen si dipinse un sorriso beffardo.
La donna caduta sulla scogliera del Foro Italico aveva ventotto anni. Apparteneva a un’agiata famiglia ed era rimasta
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orfana. I genitori erano morti in uno dei disastri aerei di Punta Raisi, l’aeroporto di Palermo. La ricchezza e la sua giovane età spinsero il giornale a dedicarle dei servizi. Flores ebbe
l’incarico di occuparsi del caso. Cercò di ricostruirne la breve vita incontrando i suoi amici. Più tardi si sarebbe recato
allo studio Barretta, l’ufficio dove lavorava.
Centinaia di ragazzi si ritrovavano per bere insieme sotto
l’ampia tenda blu di un pub in una strada trafficata e ingombra d’auto. Flores entrò e chiuse gli occhi per abituarli alla
luce soffusa dell’interno. Gli amici di Serena Inserra amavano radunarsi lì. Si avvicinò in mezzo a decine di sguardi diffidenti e chiese a uno di loro qualcosa su Serena. Paolo, un
ragazzo bruno dal viso affilato con gli occhi appannati da un
velo di tristezza, gli fece cenno di accomodarsi. Al suo tavolo, due ragazze della stessa età di Serena. Flores le osservò
nella penombra violacea della sala. Una le somigliava: l’aveva immaginata come lei. Paolo continuava a bere e a guardarlo di tanto in tanto, in silenzio, mentre la musica saliva
di volume e copriva le parole. In molti si avvicinarono per
salutare, tenendo in mano il loro bicchiere e lanciando verso Flores occhiate oblique. Il pub scoppiava di gente, le
ragazze parlavano tra loro e Paolo taceva. Flores ordinò una
birra. Si stava spazientendo. Annotò qualcosa nella sua agenda e fissò un punto lontano della sala.
Dopo aver svuotato d’un fiato un altro bicchiere, la voce di
Paolo, imbrattata di sofferenza, gli arrivò mista a centinaia di
altre che sommandosi sembravano un unico sordo muggito.
“Perché alla stampa interessa Serena? Non vi basta aver scrit17
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to che è stato un incidente, cosa volete sapere ancora?”. Flores rispose che la storia era toccante e tragica. Non poteva
ricordargli che i lettori, morbosamente, reclamavano i particolari sulla fine di una ragazza che, come lui, sembrava avere
tutto. Il ragazzo mandò giù ancora un altro bicchiere, si
asciugò la bocca con il dorso della mano e si protese verso Flores. L’odore di alcool mal digerito gli arrivò forte e intenso.
“Quella sera ci avrebbe raggiunto al pub perché a cena doveva incontrare un amico. Nessuno di noi l’ha più vista. Ho
riferito questo fatto alla polizia, ma stanno archiviando il
caso come una normale caduta”. I suoi occhi erano diventati rossi, coperti da un velo umido, preludio del pianto.
“Non ne sono per nulla convinto”. Aveva bevuto molto, ma
appariva lucidissimo.
“Cosa ci trovi di strano? La polizia sostiene che ha sbattuto
la testa cadendo sugli scogli”. Paolo lo guardò con commiserazione. Aprì una scatola, con un gesto rapido ne trasse una
pasticca e la ingoiò.
“Serena non era il tipo da passeggiate. Il mare lei lo odiava,
sono sicuro che sia accaduto qualcosa di diverso”. Buttò giù
un altro bicchiere e incrociò le braccia sul tavolo. Si avvicinarono dei ragazzi. Si alzò ridendo. Stringeva mani e baciava chi gli veniva incontro indicando Flores con gli occhi.
Inciampò su una sedia e si sedette barcollando. Le ragazze lo
sorressero.
“I miei amici non credono alla disgrazia, e disprezzano voi
giornalisti”.
L’articolo poteva trasformarsi in qualcosa di diverso. Flores
doveva procurarsi altre informazioni.
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La ragazza bionda, che somigliava a Serena, si alzò e si diresse, annoiata, verso il bancone del bar. Muoveva i fianchi in
modo provocante e Flores la seguì con lo sguardo. Annotò i
numeri di telefono di alcuni, tentò un saluto, poi lasciò correre e andò via.
Lo studio Barretta e associati occupava un intero piano di
un signorile edificio in Via Ruggero Settimo. L’abbondanza
dei marmi, la ricercatezza delle luci e i grandi quadri alle
pareti erano il segno di una compiaciuta opulenza. Serena
aveva lavorato là per quattro anni. Il titolare dello studio,
amico dei suoi genitori e quel giorno assente, l’aveva accolta per consentirle un rapido ingresso nella professione. Flores fu ricevuto da due giovani segretarie che, a sentirle, sembrava conoscessero appena Serena.
“Stava sempre chiusa nella sua stanza. Seguiva, per conto del
professore, alcuni clienti”. Una delle due, dalle forme giunoniche, mostrava disagio. Teneva gli occhi puntati a terra, arrossati, come se avesse pianto. L’altra, esile e nervosa, labbra strette e uno sguardo inviperito, parlava di Serena con freddezza e
distacco, provava fastidio per la presenza di Flores. Chiese dei
clienti affidati alle sue cure, ma le due ragazze non vollero dire
nulla. Domandò allora di vedere l’ufficio che occupava Serena: era piccolo con una finestra panoramica, con pochi fascicoli sugli scaffali. Sull’ampia scrivania in ciliegio, sgombra da
ogni incartamento, un vaso con dei fiori freschi e una foto con
il volto sorridente di Serena da bambina tra i suoi genitori, il
segno che qualcuno si prendeva ancora cura di quella stanza.
Le ragazze ferme sulla porta parlottavano tra loro lanciandosi
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occhiate. Dovevano avere la stessa età di Serena e Flores si chiese quale rivalità le avesse divise. La ragazza dalle labbra sottili
prelevò con un gesto rapido e quasi furtivo una carpetta dal
ripiano dietro la scrivania.
“Ester, fai tu compagnia al dottor Flores”, ordinò all’altra
uscendo dalla stanza. Stretta dentro il suo abitino che sembrava esplodere, Ester sfiorò con le dita il vetro della foto. Nell’altra mano stringeva un fazzoletto. Flores approfittò dell’assenza della sua collega per dirle: “Se le viene in mente qualcosa su
Serena, qualunque cosa possa aiutare a capire meglio com’era,
mi telefoni. Siete mai uscite insieme?”. La ragazza lanciò uno
sguardo alla porta per controllare che non arrivasse nessuno.
“Non parlavamo molto. Lei stava sempre rinchiusa qua dentro. Nelle ultime settimane mi era sembrata più triste. Aveva sicuramente qualcosa che la faceva stare male”.
Flores intuì che avrebbe potuto dirgli di più.
“Mi darebbe il suo telefono, Ester?”. Lei lo guardò diffidente, poi prese un foglio e scrisse rapidamente dei numeri.
“Sono costretta ad andare adesso. Se deve chiamarmi, lo faccia lontano dall’orario d’ufficio”.
La pesante porta blindata si chiuse silenziosa alle sue spalle.
L’articolo che scrisse fu diverso da come l’aveva immaginato. “Strano destino quello della povera ragazza caduta sulla
scogliera del Foro Italico. Odiava il mare e vi ha trovato la
morte. Forse per sfidarlo, forse per una banalità. Anche i suoi
genitori sono morti in mare molti anni fa: viaggiavano sull’aereo caduto tra l’isola di Ponza e Ustica”.
Il distributore automatico della redazione forniva un caffè
acquoso e insipido e Flores scese per prendere un vero espres20
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so. Il bar era affollato, alcuni colleghi e molti turisti avevano avuto la stessa idea. Scambiò poche battute con il barista
e uscì. Fuori, in piedi, impegnato a divorare un’enorme arancina di riso, c’era Carlo, la stessa persona che l’aveva avvicinato all’Ospedale Civico.
“Come sta la moglie del tuo amico?”, chiese Flores. L’altro
dapprima lo fissò sorpreso, poi si guardò in giro e gli fece
cenno di seguirlo.
“Vuole chiedermi qualcosa?”, disse, mentre accartocciava e
buttava per terra la carta con cui aveva tenuto l’arancina.
“Sei tu che volevi parlarmi. L’ultima volta che ci siamo visti
mi stavi raccontando del tuo amico e poi sei scappato”. L’altro accese una sigaretta e diede un lungo tiro.
“Mia madre dice sempre che devo tenere la bocca chiusa e
non mettermi nei guai. Io però ho sempre davanti agli occhi
la faccia di Filippo”. L’espressione strafottente con cui aveva
risposto si trasformò in una smorfia.
“Che cosa preoccupava il tuo amico?”. L’uomo aspirò
profondamente la sigaretta piegando la testa all’indietro, poi
gettò fuori il fumo.
“Filippo abitava nel mio stesso quartiere e ci conoscevamo
sin da bambini. Noi non abbiamo mai avuto niente da nessuno e volevamo dare alle nostre famiglie da mangiare, da
vestire e ogni tanto da divertirsi. Io la sera vado a raccogliere cartone e riesco a mettere insieme quello che mi serve, lui
aveva deciso di avere un lavoro vero e stava sempre appresso ad un politico importante, Scherma, lo conosce?”.
“Sì”, rispose Flores, “lo conosco”.
“È una potenza. Riesce ad avere tutto quello che vuole. Filip21
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po ogni giorno andava nella sua segreteria a cercare lavoro. Per
due anni di seguito ogni mattina stava lì”. Si pentì di averlo
chiamato. Stava ascoltando le solite lamentele, i racconti di un
postulante, uno dei tantissimi che affollavano le segreterie dei
politici siciliani. Guardò l’orologio. Si sforzò di ascoltarlo
ancora e aggiunse distrattamente: “E cosa può significare?”.
“Filippo era diventato il fattorino, portava i pacchi o le lettere. Scherma ne spediva tantissime. Sosteneva che dei
telefoni non ci si poteva fidare. Ogni giorno consegnava
almeno dieci lettere ai suoi amici”.
“E allora?”, chiese Flores, mentre pensava ad un pretesto per
chiudere la conversazione.
“Un giorno la segretaria ha dato a Filippo un biglietto. Doveva portarlo ad un indirizzo nel quartiere della Kalsa, proprio
qui vicino. Mezz’ora dopo chiamano e chiedono di riportare la busta indietro. Quella lettera era intestata a un uomo
che Filippo conosceva, ma in quella via non abitava nessuno con quel nome. Quando ha restituito indietro la busta,
lo ha detto alla segretaria e da allora non gli hanno più affidato nulla. Anche quei pochi soldi che Scherma gli dava, li
ha persi. La sera prima di morire, seduti al bar, diceva che la
lettera era stata la causa di tutto. Io rispondevo di stare tranquillo che poi le cose si sarebbero aggiustate e invece…”.
“Perché la lettera è la causa di tutto?”.
“Non lo so, così ripeteva Filippo. Per un mese intero, ogni
giorno, mi parlava di quella lettera che gli aveva fatto perdere il posto, ma non ha mai voluto dirmi il nome che aveva
riconosciuto”.
Una grossa moto con due centauri vestiti di nero e dei caschi
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integrali dalla visiera scura si fermò rombando a pochi metri
di distanza. Carlo smise di parlare e si allontanò in fretta senza salutare. Flores provò a chiamarlo, poi scosse la testa e
restò a guardarlo. Qualche centinaio di metri più in basso,
la terrazza sul mare dov’era stata trovata morta Serena. Il sole
lo lambiva, tiepido. Fu preso dalla voglia di attraversare la
strada lasciandosi alle spalle il giornale e le sue beghe.
Da una settimana non aveva notizie di Carmen. Provava a
telefonarle, ma non rispondeva. Forse il loro incontro non
le era piaciuto. Già pensava al loro appuntamento come un
episodio lontano e solitario, quando un sms lo sorprese:
“Corriamo tutti verso il mare, non si può chiedere agli altri
di riversare la loro acqua nel nostro fiume”. Voleva forse
ricordargli che era un egoista? Soppesò il telefono nelle mani,
incerto se digitare anche lui un messaggio. In fondo poteva
essere un gioco divertente. Poi compose un numero. La sua
voce gli sembrò rilassata e amabile, ma ormai diffidava del
suo umore: era imprevedibile. Si concesse un’altra possibilità. Doveva capire subito se valeva la pena continuare a
vederla, così la invitò a visitare, per la domenica successiva,
i cantieri di restauro della Cappella Palatina. Terminata la
conversazione, rimase a fissare il telefono.
Se aveva pensato a lei come una saltuaria compagnia per gli
attacchi acuti di solitudine, doveva cambiare medicina.
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II.
Qualche giorno dopo l’uscita del pezzo sulla ragazza del Foro
Italico, ricevette una chiamata.
“Gaetano Flores?”.
“Sì, sono io”. La voce di Paolo, l’amico di Serena, era un
impasto d’alcool e tormento.
“Ho letto il suo articolo. Non ha fatto nessun cenno alle
nostre perplessità. Forse conosco l’uomo che l’ha incontrata quella sera”, aggiunse accorato. “Lei parlava di un cliente
dello studio, un uomo con cui alcune volte è uscita. Mi chiami se ha bisogno di qualcosa, non creda anche lei a questa
stronzata della caduta. Si segni questi nomi…”. Flores li
annotò su un foglietto. Lo ringraziò e cominciò a riflettere.
Il professore aveva affidato alla ragazza alcuni dei suoi
migliori clienti ed era necessario conoscerli. Forse il titolare
dello studio poteva chiarire quel piccolo mistero.
Il professor Barretta viaggiava molto, dividendosi tra l’insegnamento all’Università di Milano, gli innumerevoli incarichi in consigli d’amministrazione, fondazioni, società partecipate e il suo studio. Dopo diversi giorni di tallonamento
telefonico, Flores ottenne un breve incontro. Il professore
aveva dei baffi appena accennati e una calvizie avanzata. Il
suo sguardo, indagatore e scaltro, metteva in difficoltà l’interlocutore. Il suo ufficio occupava un ampio salone, con le
pareti rivestite da preziose librerie ricavate da antichi mobi24
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li di chiesa. La scrivania, un pregevole esempio del primo
liberty austriaco, era piazzata in fondo e per arrivarvi occorreva percorrere la sala in tutta la sua ampiezza. Barretta lo
aspettava in piedi. Sfogliando un libro appoggiato ad un leggio di legno, gli fece segno di accomodarsi. A Flores parve
di sentire un odore familiare nell’aria, di chiesa, d’infanzia.
Scorse lunghe file di libri antichi e le sue mani accarezzarono il cuoio tirato e liscio della poltrona. Il professore rimase in piedi: da quella posizione lo dominava comunicandogli l’esiguità del tempo disponibile. Flores attaccò subito.
“Professore, il giornale è interessato a non far dimenticare
rapidamente Serena. Rappresenta le tante vite ogni giorno
distrutte dal caso, dalla distrazione, dalla fatalità. Vorremmo
far sapere quali attività seguiva”. Il viso dell’avvocato fu attraversato da una smorfia impercettibile. Si appoggiò alla scrivania e si aggiustò gli occhiali, poi puntò lo sguardo dritto
dentro i suoi occhi.
“Io credo che bisognerebbe lasciar riposare in pace la povera Serena. Non rovistiamo nella vita degli altri. Diamo ai lettori altre storie. Quella famiglia è stata bersagliata dalle
avversità. Prima i genitori, poi lei”. Il professore trasse dal
taschino del gilè un orologio, lo guardò e scosse la testa: non
voleva proseguire quella discussione, ma Flores non poteva
accontentarsi.
“Mi permetto di insistere. Può fare il nome di qualcuno dei
clienti affidati a Serena?”. Barretta accennò un sorriso, ma i
suoi occhi divennero ostili.
“Lei ha mai sentito parlare di riservatezza? Per quale ragione un professionista, o un imprenditore, dovrebbe far sape25
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re che è un mio cliente e che la collaboratrice che seguiva i
suoi affari è morta?”. Flores capì che non avrebbe ricavato
nulla, ma lanciò l’ultima stoccata.
“Alcuni ricordano, tra i clienti curati da Serena, il maggior
imprenditore della città: Santino Li Puma”. Barretta si avviò
verso la porta senza rispondere e Flores fu costretto a seguirlo. Solo allora si accorse che da un antico turibolo si levava un
sottile filo d’incenso. L’avvocato gli tese la mano.
“Mi spiace, dottore. Devo proprio andare, la saluto”.
In pochi istanti Flores si ritrovò fuori dello studio a riflettere su un uomo dai modi cortesi, ma chiuso e sgradevole.
L’informazione su Li Puma l’aveva avuta da Paolo. Forzando i suoi ricordi e confrontando i pochi accenni di Serena
sul suo lavoro, era riuscito a fornirgli alcuni nomi: Li Puma,
l’assessore Scherma, la famiglia Pietralonga, eredi di un’immensa fortuna bloccata da ricorsi e appropriazioni indebite,
e Dante Carcia, un imprenditore con interessi in Estremo
Oriente. Uno tra questi poteva essere stato l’accompagnatore di Serena la sera in cui era caduta, morendo, tra gli scogli
del Foro Italico.
Al giornale l’interesse per la ragazza si andava esaurendo. Flores invece, anche per la pressione e le informazioni fornite
dai suoi amici, voleva andare avanti. Per farlo aveva bisogno
di qualche ragione, un colpo di scena per giustificare la prosecuzione del suo lavoro. Paolo continuava a chiamarlo: l’attaccamento del ragazzo a Serena era commovente; oltre all’amicizia doveva esserci un’altra ragione a legarli. Soffriva
come un amante parlando di lei.
La mattina dell’incontro con Carmen il suo scetticismo era
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all’apice. Era stato lui ad invitarla, ma adesso si era pentito.
Non sarebbe accaduto nulla, avrebbero litigato e si sarebbe
ritrovato a collezionare l’ennesima uscita a vuoto con una
donna. Si avviò con animo mal disposto verso il luogo dell’appuntamento: Palazzo dei Normanni.
La sede del Parlamento più vecchio d’Europa ospitava una
stupefacente cappella, lascito della grandiosità dei sovrani
normanni. Flores aveva preso i biglietti per visitare i restauri. La piazza era grandiosa e il gabbiotto dei biglietti, posto
quasi sotto il palazzo, consentiva di esplorare i movimenti
dei turisti.
La vide arrivare con passo leggero in jeans e scarpe da tennis, sorridente. La baciò sulle guance e sentì il tepore morbido delle mani di lei che si attardavano tra le sue. Percorsero la lunga passerella di legno, lasciando che la guida li conducesse sui ponteggi. Ammirarono, immersi in un’atmosfera unica, il paramento di mosaico, il Cristo Pantocratore e i
meditabondi Evangelisti. A venti metri d’altezza, toccando
le muqarnas, le stalattiti in abete rosso raffiguranti magnifiche scene di vita a corte, Flores provò l’imprevista sensazione d’assenza del tempo. Sulle impalcature sdrucciolevoli si
tennero per mano e quando la guida annunciò la fine della
visita, gli dispiacque scendere e abbandonare quel piacevole
calore. Avrebbe voluto invitarla a pranzo, ma dopo la visita
lei fuggì come una Cenerentola a mezzanotte. Restò a guardarla, mentre saliva su un’auto che la portava via, chiedendosi quale delle due Carmen che aveva conosciuto era quella vera.
Dopo una lunga settimana senza incontrarla e un paio di
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telefonate gentili e cordiali, decise per un nuovo invito al
ristorante: un piccolo locale in collina nei dintorni della città
da cui si godeva uno stupendo panorama. Ritrovarsi una
seconda volta a cena poteva aiutarlo a capire se spingersi oltre
con lei o se doveva confinare quella ritrovata frequentazione
nella riserva dei casi disperati.
Attese sotto casa sua. Prima di uscire scelse con cura cosa
mettersi e verificò che il colore della giacca si intonasse al
resto. Aveva affidato la sua auto, solitamente piena di giornali, alle cure di un addetto al lavaggio. Controllò nello
specchietto la camicia e si scrutò il viso. Percepì dentro la
stessa eccitazione che lo coglieva ai primi appuntamenti
con una donna appena conosciuta. Lei aveva sciolto i capelli lunghi e ricci attraversati da cangianti riflessi di luce e
anche le labbra mostravano un colore più morbido. Sorrideva senza ombre o scarti di umore. Era la stessa della visita ai cantieri, la donna che aveva tenuto per mano su quelle scale pericolose.
Per tutta la serata cercò di non ritornare sugli argomenti della cena precedente. Parlarono della visita alla Cappella Palatina e si stabilì tra loro una sottile complicità. Le interessava Uriel, uno dei quattro arcangeli che circondavano il Cristo in un trionfo di tessere d’oro. L’attrazione per i misteri e
le domande penetranti accesero dentro di lui una nuova luce
e cominciò a guardarla con altri occhi. Voleva mostrarsi interessato al suo lavoro. S’informò sui dettagli tecnici delle campagne pubblicitarie radiofoniche, sulle concentrazioni proprietarie in quel settore e passò a domandarle dell’ultimo
film visto. Era impacciato: Carmen giocava con il bordo del
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calice e rispondeva alle sue troppe domande con apparente
pazienza. Improvvisamente allontanò il bicchiere.
“Non è ignorando quello che è successo la volta scorsa a cena
che puoi far finta che non esista”. Ecco, pensò, ci risiamo.
Torna la vera Carmen. Devo smetterla di farmi illusioni. Sorrise rassegnato e le prese la mano, la prima volta aveva funzionato. Scoppiarono a ridere e ricomparvero i ricordi lontani.
Il suo scatto d’umore subito rientrato aveva consentito di
mettersi dietro le spalle lo spiacevole episodio della cena con
i suoi amici giornalisti, ma non era tranquillo, sembrava
troppo facile. Lei parlava del lavoro e della sua imminente
partenza. Lui ascoltava esplorando il viso di lei alla ricerca di
un’espressione, un guizzo, un aiuto per capirla meglio. Uscirono dal ristorante scambiandosi una carezza. L’ansia di quei
mesi sembrava evaporare e dissolversi.
Carmen si era divertita. Flores aveva avuto un’idea magnifica a organizzare la visita alla Cappella Palatina. Sembrava
avesse indovinato il suo pensiero annunciandole di aver preso i biglietti, eppure non capiva se lo aveva veramente perdonato per la fregatura di tanti anni prima.
Desiderava finire la serata a casa sua, ma non voleva dargli
l’impressione di essere facile. Anzi, non doveva neppure pensarlo.
Al giornale c’era un’aria strana. Il comitato di redazione aveva convocato un’assemblea perché si parlava di licenziamenti. Flores viveva con distacco quella confusione. Era un fatalista, ma non voleva essere scambiato per amico della pro29
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prietà e decise di partecipare. In assemblea si ritrovò seduto
accanto ad Angela, la segretaria di redazione. Mentre gli oratori cercavano di infiammare gli animi, la gamba della vicina di sedia aderì alla sua esercitando una leggera pressione.
Si voltò a guardarla, ma lei ostentò indifferenza. La conosceva da tanti anni e, tranne alcuni sguardi prolungati, non si
era mai comportata così. Ripensò ai mesi precedenti. Aveva
notato in lei dei cambiamenti: vestiti diversi e gonne improvvisamente più corte. Si voltò ancora. Angela sorrideva senza
guardarlo. Si alzò con una scusa, chiedendosi se non si fosse ingannato.
L’amica del cuore di Serena, rientrata da un lungo viaggio in
Cina, mostrò agli amici un messaggio speditole la sera della
sua morte: “Ciao Titti, ti diverti? Io soffro, ma sono felice.
Stasera esco con lui. Cena, poi forse casa sua. Fammi gli
auguri”. Neanche lei conosceva il nome dell’uomo che la
ragazza incontrava. Serena custodiva bene i suoi segreti o,
come pensava l’amica, si vergognava di quel legame nascosto. Flores, sempre sotto pressione telefonica di Paolo, decise di investire il commissario Di Jemma, appena rientrato da
un periodo di ferie, dei dubbi che si andavano addensando
attorno a quella morte. Lo chiamò al telefono.
“Commissario, quanto tempo! Evidentemente lei è insostituibile. In queste settimane mi sono sentito abbandonato”.
Il commissario rise forte.
“Grazie, lei mi fa commuovere. Cosa vuole? Ho molto da
fare come può immaginare”. Con Di Jemma aveva uno strano rapporto. Lo giudicava un bravo investigatore e ammira30
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va in lui il carattere aspro e pronto alla sfida. Certo, a volte
doveva subire le conseguenze dei suoi cambi repentini di
umore, ma lo trovava un uomo che agiva senza pregiudizi.
E poi gli era riconoscente. Lo aveva aiutato con l’imbeccata
giusta anche quando i suoi colleghi si muovevano lontani dalla verità. Sapeva che a modo suo aveva della simpatia per lui,
ma, ogni volta che gli parlava, metteva nel conto una brutta
risposta. Sospirò riassumendo i suoi ricordi e disse: “Alcune
settimane fa una ragazza è stata trovata morta sugli scogli del
Foro Italico. Dai suoi colleghi è stata giudicata deceduta in
seguito ad una caduta accidentale. Ho incontrato un paio di
volte gli amici della ragazza e sono di diverso parere. Hanno
raccolto confidenze ed sms che provano un suo appuntamento con un uomo poche ore prima di finire sulle rocce. Questo potrebbe chiarire come mai la ragazza, che tra l’altro odiava il mare, sia andata a morire proprio lì”. Di Jemma sbuffò
nel telefono. A Flores parve una risata trattenuta.
“Lei non abbandona mai la cattiva abitudine di soffiarci il
mestiere. Le prometto che mi occuperò della cosa”.
Flores sorrise soddisfatto e provò a chiedere di più: “Commissario, la ragazza si occupava degli affari di importanti
clienti dello studio Barretta. Ho bisogno di qualche informazione”.
Stavolta Di Jemma rise rumorosamente.
“Come sempre abusa della mia disponibilità. Le potrò dare
soltanto qualche piccola notizia, ma non mi assilli troppo”.
I Pietralonga, clienti dello studio Barretta, avevano aperto
un contenzioso di lunga durata con una famiglia, nel passa31
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to loro factotum. Un patrimonio valutato tra i più cospicui
del tempo era stato preso in cura dagli Strazzero che avevano gradualmente trasferito la proprietà a loro stessi. Avevano spostato la loro sede operativa a Milano ed erano divenuti dei rispettabili finanzieri. La radice probabilmente truffaldina di quella fortuna era nota a pochi e l’archivio della
polizia ne conteneva delle tracce. La creatura societaria degli
Strazzero, in alleanza con altri istituti, aveva ormai una
dimensione internazionale. Aveva finanziato alcune delle più
ardite scalate di borsa e dialogava con l’alta finanza. Uno dei
due fratelli Strazzero ritornava in Sicilia spesso e nei dintorni di Palermo avevano fatto edificare una grandiosa villa con
parco privato. La forza economica e l’influenza degli Strazzero riuscivano a condizionare la formazione dei governi
regionali e dispensavano tra maggioranza e opposizione regalie e favori, accelerando e facilitando progetti che premevano ai leader o ai loro protetti. Esponenti dell’opposizione e
del governo erano spesso ospiti su grandi barche e nelle loro
ville in località esclusive. A Palermo erano legati alla famiglia Li Puma, di cui finanziavano le attività e curavano l’imminente quotazione in borsa della loro società.
Terminata la trattativa contrattuale, al giornale tornò la calma. Quel giorno il caporedattore assegnò a Flores un caso
rognoso: un uomo aggredito per ben due sere di seguito. La
prima volta sotto casa, poi davanti all’ingresso del suo ufficio. Il malcapitato aveva negato di conoscere gli aggressori e
la causa dell’intimidazione. La polizia stava indagando.
L’uomo era a capo di una rete di promotori finanziari che
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avevano probabilmente truffato migliaia di investitori, tra
cui diverse centinaia in città. Flores riuscì a incontrarlo. Parlava con ostentato distacco dei fatti accaduti, ma si guardava continuamente intorno e cambiava colore del viso allo
squillo del telefono. La sua importante agenzia aveva raccolto, promettendo alti interessi e servendosi della sicura complicità di numerosi funzionari di banca, gli investimenti di
facoltosi clienti e piccoli risparmiatori, sedotti dalla possibilità di moltiplicare i loro risparmi. I dati conosciuti facevano ammontare a oltre cento milioni i fondi rastrellati in Sicilia, ai quali probabilmente bisognava aggiungere altre tranche raccolte nel resto d’Italia. Annotò quel fatto di cronaca
come un’atipicità nel panorama isolano. Doveva essere un
segno dei tempi, un’evoluzione tecnologica delle truffe.
Quello che ricordava erano i piccoli inganni di quartiere.
Qualcosa, per la verità, alcuni anni prima era avvenuto al di
fuori delle negoziazioni di titoli e dell’intermediazione degli
operatori di esclusive società. Una figura ammantata di
mistero e spuntata dal nulla, il mago dei soldi, prometteva
ai suoi adepti il raddoppio del capitale versato. Era finita
com’era stato scritto: migliaia di truffati e il mago, costretto
dalla mafia a diventare loro associato, senza un soldo. L’epilogo giunse, tragico, alcuni anni dopo. In un incidente provocato da una tardiva vendetta, lo stesso illusionista perse la
vita in un incendio, appiccato da una molotov lanciata da
un’auto in corsa. Il fuoco lo deturpò, rendendolo irriconoscibile e riducendo a un moncherino bruciacchiato il corpo
di un uomo grande e grosso. Qualcuno sollevò interrogativi sulla reale identità di quel cadaver, ma il ritrovamento di
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un anello con incisa la data di nascita del mago fece frettolosamente chiudere un caso che presentava grandi zone
d’ombra.
Scrisse l’articolo ricordando quel precedente. Sollecitato dal
caporedattore ad approfondire, cercò con scarso successo di
parlare nuovamente con l’uomo picchiato. La sua agenzia
aveva sede nello stesso palazzo dello studio Barretta ed era
ancora aperta, nonostante la disastrosa condizione del portafoglio clienti. La segretaria fu cortese e affabile, ma mostrò
un’ostinata riservatezza alla richiesta di maggiori dettagli.
Durante la settimana, Carmen era spesso fuori per lavoro,
ma nei week-end facevano ormai coppia fissa da oltre un
mese. Erano finiti a letto alla loro quarta uscita. Era stata
Carmen, una sera a casa sua, a spingere avanti gli eventi.
Lo aveva baciato sul collo, sulle labbra e le mani si erano
insinuate sotto la sua camicia. Flores sembrava affamato,
impaziente, come se il tempo passato a desiderarla e a
macerarsi nei dubbi avesse accumulato dentro di lui energia in cerca di liberazione. Restarono sul divano. La sua
bocca percorse per intero il corpo di Carmen, poi affondò
tra le sue gambe.
Quella notte si fermò da lei, ma si addormentarono molto
tardi. La prese più volte e Carmen ne fu lusingata. Lui aveva il buon odore immaginato e quando infine la stanchezza
li vinse, lo volle vicino prima di prendere sonno. Una tenerezza che da qualche tempo mancava a entrambi. Al mattino Flores entrò in cucina a preparare la colazione. Ogni cosa
nelle stanze aveva un piacevole ordine. Carmen riposava
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ancora e non volle svegliarla. Poggiò il caffè, i biscotti e il
bricco del latte sul tavolo e raccolse le sue cose. Guardò, attraverso i vetri, il balcone fiorito e pensò al suo, spoglio e abbandonato. Andarsene gli dispiaceva. Entrò nella camera di lei,
badando a non far rumore, e la baciò di nuovo. Scrisse un
biglietto e uscì. Aveva vissuto una bella notte, ma si sentiva
irrequieto.
Appena Flores si chiuse la porta alle spalle, Carmen si stiracchiò nel letto. Quella notte le era piaciuta molto. Soltanto
nelle prime settimane del suo matrimonio aveva provato sensazioni simili. Non aveva voluto far colazione insieme a Gaetano. Lui aveva fretta e poi la sua testa lavorava meglio con
gli occhi chiusi, a rigirarsi tra la veglia e il sonno che non
voleva abbandonarla. Sorrise alzandosi e indossando una leggera vestaglia. Guardò da dietro le tende della finestra: Flores saliva in auto. Non sapeva cosa sarebbe accaduto dopo,
ma non doveva riporre troppe speranze su di lui. Non avrebbe sopportato altre delusioni. Entrò in cucina e fissò il tavolo pronto per lei. Provò una tenerezza che immediatamente
scacciò via.
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http://www.ansa.it/legalita/rubriche/musicafilmlibri/2010/05/06/visualizza_new.html_1789417646.html
APPROFONDIMENTI
Altri links
Ciaoblog.net
http://www.ciaoblog.net/account-facebook-per-gaetano-flores-protagonista-del-romanzo-il-silenzio-imperfetto/
Stampa Alternativa
http://www.stampalternativa.it/wordpress/2010/02/05/1209/
Panorama
http://blog.panorama.it/libri/2010/02/04/aldo-penna-da-vita-ai-suoi-personaggi-letterari-aprendo-account-su-facebook/
http://www.mangialibri.com/node/7112
http://www.mangialibri.com/node/7114
i-libri.com
http://www.i-libri.com/il-silenzio.html
Vietatounder30.it
http://www.vietatounder30.it/2010/09/05/aldo-penna-chi-scrive-non-conservi-per-se-questarma/
Libriblog.com
http://libriblog.com/in-evidenza/aldo-penna-e-il-suo-%E2%80%9Cil-silenzio-imperfetto%E2%80%9D/
Liberi di scrivere
http://liberidiscrivere.splinder.com/post/23257826/recensione-di-il-silenzio-imperfetto-di-aldo-penna
Temperamente.it
http://www.temperamente.it/altroscaffale/il-silenzio-imperfetto-aldo-penna/
http://www.temperamente.it/interviste/intervista-ad-aldo-penna/#more-11752
RECENSIONI
Mangialibri
Il silenzio 29_3_2010
eretica
29-03-2010
S T A M P A
direttore editoriale
21:20
Pagina 280
A L T E R N A T I V A
MARCELLO BARAGHINI
http://www.stampalternativa.it
e–mail: [email protected]
CONTRO IL COMUNE SENSO DEL PUDORE, CONTRO LA MORALE CODIFICATA, CONTROCORRENTE. QUESTA COLLANA VUOLE ABBATTERE I MURI EDITORIALI CHE ANCORA SEPARANO
E NASCONDONO COLORO CHE NON HANNO VOCE. SIANO I MURI DI UN CARCERE O QUELLI,
ANCORA PIÙ INVALICABILI E RESISTENTI, DELLA VERGOGNA E DEL CONFORMISMO.
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“Libera Cultura”: la collana online che raccoglie i libri storici e le novità
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Aldo Penna
IL SILENZIO IMPERFETTO
progetto grafico
impaginazione
ANYONE!
ROBERTA ROSSI
© 2010 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri
Casella postale 97 – 01100 Viterbo
fax 0761.352751
e-mail: [email protected]
ISBN 978-88-6222-122-1
Finito di stampare nel mese di marzo 2010
presso la tipografia IACOBELLI srl via Catania 8 – 00040 Pavona (Roma)