Rivista editoriale - Society for Psychotherapy Research

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Rivista editoriale - Society for Psychotherapy Research
Research in Psychotherapy: Psychopathology, Process and Outcome
Editoriale
La sezione Italiana della Society for Psychotherapy Research (SPR) è nata nel 1996 per
promuovere in Italia la cultura della ricerca in psicoterapia, fino a quel momento
ampiamente trascurata sia in ambito accademico sia dalle varie scuole di psicoterapia. Un
primo obiettivo era favorire la diffusione delle conoscenze che emergevano dalla ricerca
internazionale sull’efficacia delle psicoterapie, sul processo e sull’outcome, e più generale
nel campo della psicopatologia. Un secondo obiettivo era creare un clima e una comunità
scientifici che favorissero la crescita di una generazione italiana di ricercatori competenti e
capaci di produrre, servendosi di strumenti affidabili, idee e conoscenze in grado di
partecipare al dibattito internazionale su come e perché funzionano le psicoterapie.
Il titolo di un vecchio convegno SPR dice che “la ricerca fa bene alla clinica” (“Research is
good for clinical practice’s health”), ma anche che “la clinica fa bene alla ricerca”. Animata
da questa convinzione, l’SPR-Italia ha fin dall’inizio combattuto per una cultura capace di
rispondere, con la proverbiale pazienza di chi fa ricerca empirica, a tutti quelli che, dal
versante di un ipersoggettivismo ermeneutico o da quello di un iperoggettivismo
pragmatico, consideravano la psicoterapia poco interessante per la scienza e in ogni caso un
oggetto “non misurabile”.
In quindici anni di vita, l’SPR-Italia, è diventata una realtà presente sia nei contesti
accademici sia nell’ambito delle scuole private di psicoterapia, molti giovani hanno investito
le loro energie nella ricerca, e ormai da tempo vari gruppi italiani partecipano al dialogo
internazionale sulla ricerca in psicoterapia. La sezione italiana della Society for
Psychotherapy Research nasce nel 1995 grazie all’impegno del Prof. Salvatore Freni e del
suo gruppo di ricerca, e presto raccoglie l’adesione di tanti colleghi che avvertivano la
necessità di promuovere la ricerca scientifica in psicoterapia (per una storia della sezione
italiana SPR vai al menu Italy Area Group, Storia).
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Oltre ai congressi nazionali, lo strumento di diffusione delle idee in Italia è stata la rivista
Ricerca in Psicoterapia. A partire dal 1998, la nostra rivista ha dato l’opportunità ai
ricercatori italiani di pubblicare i risultati dei loro lavori, sapendo che sarebbero stati letti da
un pubblico interessato, al di là della scuola di appartenenza. Nel 2006, grazie allo sforzo
congiunto di un gruppo italiano di ricercatori SPR, con il patrocinio SPR-International e
l’introduzione del Past President John Clarkin, ha visto la luce il primo manuale italiano per
la ricerca in psicoterapia (Dazzi, Lingiardi, & Colli, 2006).
Con piacere riconosciamo che il merito di questi veloci e fecondi sviluppi è anche da
attribuire anche a un cambiamento di Zeitgeist per cui l’idea di teorie e modelli fondati
sull’autorevolezza clinica e intellettuale dei loro capiscuola ha, almeno in parte, ceduto il
passo all’idea (e alla pratica) di una psicoterapia che deve render conto, mediante la ricerca,
delle caratteristiche e dell’efficacia dei suoi interventi. Gli psicoterapeuti che si domandano
come e perché funziona un trattamento e per che tipo di paziente è eventualmente indicato
(o controindicato) non sono più una minoranza di lunatici.
Un primo frutto di questo cambiamento è stata la comparsa, nei corsi universitari, di
programmi ispirati alla ricerca e, con un po’ più di fatica, di ricerche progettate nel contesto
dei Servizi pubblici e delle Scuole di psicoterapia (vedi, per esempio, Fava & Masserini, 2002,
2006).
Chi fa ricerca in psicoterapia in Italia segue il dibattito internazionale e vive delle
conoscenze pubblicate dalle riviste scientifiche, la cui lingua ufficiale è l’Inglese. Come SPRItalia, abbiamo quindi sentito l’esigenza di testimoniare la dimensione internazionale del
nostro modo di pensare, di fare e di divulgare la ricerca. La trasformazione della rivista
Ricerca in Psicoterapia nell’attuale Research in Psychotherapy: Psychopathology, Process
and Outcome era il passo necessario da compiere.
Lo stato dell’arte è ricco sia di conoscenze consolidate sia di questioni aperte su cui la
curiosità e le energie dei ricercatori possono concentrarsi. La creazione di una rivista di
ricerca in psicoterapia che si affaccia sul panorama internazionale non può prescindere dalla
definizione dei suoi temi e dei suoi obiettivi.
Si iniziano ad avere a disposizione dati interessanti sui fattori in grado di influenzare
l’andamento di una psicoterapia: le caratteristiche del paziente, le caratteristiche del
terapeuta, e naturalmente quelle della loro relazione (Norcross, 2002; Castonguay &
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Beutler, 2006). Sappiamo per esempio che le terapie di pazienti in condizioni socioeconomiche difficili, con uno stile interpersonale ostile/antagonistico, o con scarsa capacità
di identificare e descrivere i propri affetti o di focalizzarsi sugli stati mentali, propri o altrui,
tendono a mostrare un outcome peggiore.
Un altro importante campo di ricerca vede nella psicopatologia un’area di
approfondimento indispensabile per l’intervento clinico. Se da un lato oggi il clinico sa che,
per essere efficace, deve sapere implementare fattori generali e trasversali di conduzione
della terapia, dall’altro sa anche che deve possedere gli strumenti adatti per la cura di
quello specifico disturbo, superando il mito dell’uniformità dei pazienti. La terapia di un
paziente con un disturbo ossessivo-compulsivo di personalità richiede caratteristiche
specifiche, del tutto diverse da quelle richieste dalla cura di un paziente con un disturbo
borderline di personalità. Fondamentale in questo senso è la ricerca sui disturbi di
personalità, in particolare quella rivolta, come nel caso dei lavori dei gruppi di Westen e
Shedler (Thompson-Brenner & Westen, 2005) e di Blatt (Blatt, Shahar, & Zurhoff, 2002), a
identificare sottotipi clinico-diagnostici (vedi anche PDM Task Force, 2006).
Un’attenzione particolare sarà rivolta alla scelta degli strumenti di valutazione dei pazienti
e di raccolta dei dati. Su questo punto ci sentiamo di sposare una linea di fondo: sostenere,
naturalmente quando è possibile, strumenti già collaudati, affidabili e diffusi, piuttosto che
disperdersi nella produzione di strumenti “locali” o impiegati in un numero esiguo di studi.
Un altro oggetto di studio sarà la ricerca sull’alleanza terapeutica, sempre meno da
considerare quel fattore aspecifico/termine ombrello in grado di spiegare il destino di ogni
terapia (Horvath, 2006), e sempre più da ricondurre alle sue dimensioni costitutive (Hill &
Knox, 2009), come per esempio i cicli di rotture e riparazioni (Safran & Muran, 2000).
Gli sviluppi dei trattamenti, in particolare quelli manualizzati, pongono importanti
interrogativi: per esempio, se i meccanismi di cambiamento ipotizzati per un determinato
disturbo, corrispondono realmente agli ingredienti efficaci della cura. L’indagine su ciò che
avviene nel vivo della seduta è probabilmente lo strumento di elezione per dirimere tale
questione. Un altro esempio riguarda recenti trials di efficacia per la terapia del disturbo
borderline di personalità (Bateman & Fonagy, 2009; McMain et al., 2009) che hanno
mostrato come un gruppo di controllo ben strutturato fosse in grado di generare grosso
modo lo stesso grado di cambiamento dei trattamenti target (Mentalization Based
Treatment e Dialectical Behavior Therapy) (a questo proposito, vedi anche Gabbard, 2009).
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Tutte le strade portano a Roma, a parità di intensità e schema di trattamento, oppure le
diverse terapie condividono elementi comuni di efficacia? È chiaro che questo argomento ci
costringe a misurarci con la dialettica EST vs ESR, e ci invita a riflettere sui limiti di
un’eccessiva manualizzazione dei trattamenti (Chambless & Ollednick, 2001; per un
dibattito più ampio vedi Dazzi, 2006). Come ha sostenuto Luborsky (2001), “il movimento
EST deve essere preso seriamente, certamente dal punto di vista scientifico, ma anche da
quello politico” (p. 599). E a questo punto sono d’obbligo un rimando all’articolo di Westen,
Morrison e Thompson-Brenner (2004) e un riferimento all’importante distinzione tra
efficacy (efficacia valutata in condizioni di “laboratorio”) e effectiveness (efficacia
“ecologica” nel contesto clinico). In altri termini, tra paziente “ipotetico” e paziente “reale”.
Ed ecco la centralità della diagnosi, e la necessità per la comunità degli psicoterapeuti di
sviluppare una riflessione critica sulle proposte del DSM-5 e i loro limiti (Shedler et al.,
2010).
Un altro filone promettente è lo studio dell’interplay tra le diverse variabili. In che modo,
per esempio, struttura di personalità del paziente, uso di tecniche specifiche, stile personale
del terapeuta e qualità della relazione interagiscono conducendo le terapie ad outcome
positivi o negativi? Domande come questa costituiscono la sfida per l’attuale e la prossima
generazione di ricercatori. Ricercatori che deveno essere incoraggiati a studiare la relazione
tra fattori terapeutici, caratteristiche specifiche del paziente e del terapeuta, mediatori e
moderatori del cambiamento. È possibile spiegare la maggiore o minore efficacia di
un’azione terapeutica (Jones, 2000; Gabbard & Westen, 2003)? Come mai in certe situazioni
non avvengono cambiamenti, nonostante sia applicata una terapia “teoricamente” efficace?
Va da sé che uno dei terreni più fertili per capire come si svolge il processo terapeutico è
costituito dall’analisi intensiva dei trascritti di sedute. In questo senso, un posto speciale
nella formazione dei ricercatori italiani è occupato da uno dei padri fondatori della società
internazionale, Lester Luborsky con il suo Core Conflictual Relationship Theme (CCRT;
Luborsky & Crits-Christoph, 1998), ha aperto la strada all’analisi dei trascritti alla ricerca
degli schemi interpersonali dominanti del paziente e del modo in cui si attivano nella
relazione terapeutica [si veda anche lo Psychotherapy Process Q-set di Enrico Jones (2000)].
Da notare che lo strumento, originariamente di matrice psicodinamica, ha suscitato
interesse e attenzione tra terapeuti di tutte le scuole, grazie alla chiarezza con cui il
costrutto di schema di transfert è stato operazionalizzato. Dalle prime applicazioni del CCRT,
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questo tipo di analisi intensiva del processo, spesso applicabile alla ricerca single-case, ha
conosciuto da noi un notevole successo, che comprende, tra le altre, le ricerche sui
meccanismi di difesa con la Defense Mechanism Rating Scale (DMRS; Lingiardi et al., 1999),
gli studi sulla metacognizione (Dimaggio & Lysaker, 2010; Dimaggio et al., 2007; Semerari et
al., 2003), l’analisi dei processi narrativi (Santos et al., 2009), le ricerche sull’Attività
Referenziale (De Coro et al., 2004), l’applicazione dell’Adult Attachment Interview (De Bei et
al., 2009), l’operazionalizzazione dei processi di rottura e riparazione (Colli & Lingiardi,
2009). È anche nel segno di questa tradizione che Research in Psychotherapy accoglierà con
piacere contributi di ricerca basati sui trascritti delle sedute.
È possibile che l’analisi intensiva del dialogo clinico si mostri il giusto grimaldello per aprire
un forziere finora nascosto da costrutti generici e statici. Inevitabile tornare alla già citata
alleanza terapeutica. Misurata con strumenti self-report (con tutti i problemi di validità che
essi presentano: e se chi valuta è persona con scarse capacità auto-riflessive? sarà in grado
di riportare correttamente ciò che ha sentito/pensato rispetto al terapeuta?) e in punti
definiti del trattamento, rimane sostanzialmente un concetto statico, presente o assente a
un determinato livello. Ciò che invece interessa al clinico è capire come terapeuta e
paziente costruiscono l’alleanza e sviluppano la relazione (fin dal primo momento in cui si
guardano o si stringono la mano e iniziano a parlare), come essa vacilla e si rinsalda, e che
tipo di sforzi entrambi devono fare per tenerla in vita o costruirla insieme (Safran & Muran,
2000; Ackerman & Hilsenroth, 2001, 2003).
Sarà interessante riflettere sui percorsi formativi: tema ancora poco sviluppato che
riguarda la valutazione dell’efficacia dei metodi formativi, in particolare quelli collegati alla
conoscenza dei dati della ricerca empirica. E a proposito di formazione, Research in
Psychotherapy si candida a sollecitare ed accogliere il lavoro di ricercatori giovani, italiani e
internazionali.
Occorre infine affrontare il problema dei finanziamenti per la ricerca. Una delle tante
soluzioni a tale problema viene dai finanziamenti europei, soprattutto quando prevedono
un coordinamento virtuoso tra gruppi di ricerca (accademici e non) e il coinvolgimento di
colleghi, operatori e amministratori della sanità pubblica e convenzionata (medici, psicologi,
educatori, assistenti sociali e sanitarie). Ricordiamo che i nostri strumenti di analisi possono
essere utilizzati in ambiti molto diversi, e che se il contributo clinico e scientifico offerto
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dalla ricerca in psicoterapia viene sottovalutato o ignorato (al di là di una piccola cerchia di
“esperti”), è la psicoterapia stessa che corre il rischio di essere marginalizzata o espulsa dai
contesti di cura.
Dovrebbero essere chiare, a questo punto, le principali parole chiave che
caratterizzeranno gli articoli che leggerete su questa rivista, che in alcuni casi uscirà in forma
di special issue, per esempio su temi come: process research, multistrumental research,
single-case research, narrative cases, teoria della clinica e della metodologia dei disegni di
ricerca, dialogo tra modelli; ma anche personality disorders psychotherapies, neurosciences
for psychotherapy research, qualitative vs quantitative research, conceptual research,
metanalytic studies, etc.
La ricerca è riuscita nel compito di rispondere alle critiche rivolte alla psicoterapia come
pratica clinica: ora deve imparare a parlare ai clinici, mostrando come i risultati delle
ricerche possano fornire un aiuto prezioso nel lavoro quotidiano con i pazienti.
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