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18/10/2014
JUTSU/HARA/MYO
JUTSU
La parola Jutsu vuol dire arte o tecnica.
Fino a quando i Samurai erano ancora solamente una classe militare
e di guerrieri le loro arti marziali erano Jutsu, cioè costituite soprattutto
per fini pratici, violenti di difesa e attacco contro un altro essere
vivente, poi però venne l'era Tokugawa e tutto cambiò.
Il Giappone divenne un paese chiuso in se stesso nel quale i Samurai
dovettero ricavarsi un posto più da politici e burocrati che di guerrieri,
anche se le lotte violente interne continuavano sempre.
In questo contesto molti Maestri cercarono di non far scomparire le
loro arti millenarie e quindi le trasformarono in qualcosa di diverso, di
più utile alla mente e allo spirito, così cominciarono a trasformarsi in
DO, in Vie per la ricerca della perfezione e dell'illuminazione in certi
casi. Quindi uno stile di vita, con un’etichetta ben precisa, con una
"filosofizzazione" delle antiche arti di guerra e di morte. Ciò avvenne
per le arti marziali più importanti, così il Maestro Ueshiba creò l'AikiDo dalla pericolosissima arte di difesa a mani nude dell'Aiki-Jutsu, il
M° Kano creò dal più pericoloso e sempre mortale Ju-Jutsu il Judo, il
M° Funakoshi trasformò il Karate-Jutsu in Karate-Do.
Tutto ciò fu fatto per dare futuro alla tradizione Giapponese e per
guidare le generazioni future su una retta via.
Lo Iai-Jutsu era l'arte di estrarre la spada e colpire quasi
simultaneamente, poiché come avevano visto molti samurai quei
decimi di secondo persi per l'estrazione spesso volevano dire la
morte, così si crearono sempre più sottili differenze nella posizione
delle dita, del fodero, della stessa katana nell'obi per attaccare a
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seconda dell'esigenza un avversario da dietro, due avversari
contemporaneamente, e così via.
Forse ciò che sarebbe dispiaciuto ai grandi Maestri come Funakoshi
sarebbe stato proprio vedere stravolgere ciò che era la loro idea di
DO, ormai il Karate come altre arti marziali sono diventate soprattutto
discipline sportive dove si allena il corpo al 90%, dove la preparazione
fisica, la forza e la brama di vittoria sono fondamentali e al primo
posto, ma per loro non era così. Loro volevano utilizzare la giusta via
per scopi più grandi e magnifici, ma per fortuna c'è ancora qualcuno
che la pensa così ed io sono uno di quelli, ed anche i miei Maestri lo
sono.
Hara
Tradotto letteralmente, Hara significa "ventre", e si riferisce all'intera
zona che va dallo stomaco agli organi genitali.
Nel Kikai, circa 5 cm. sotto l'ombelico, si trova il punto più importante
dell'uomo: il Tanden.
In giapponese Hara assume un significato più ampio. Con questo
termine si intende il centro della forza fisica e spirituale. Pur essendo il
centro del nostro corpo materiale, all'Hara viene data un’anima. Anche
secondo la concezione giapponese il ventre è il centro dell'uomo per
antonomasia, e l'espressione dell'Hara è un’espressione dell'essere
vero di tutta la persona.
L'Hara è l'origine ed il centro della forza fisica e dell'energia vitale; per
questo in tutte le arti marziali orientali assume un ruolo significativo.
L'esercizio del ventre (Hara wo neru) non interessa solo le arti marziali
e lo Zen, ma per ogni giapponese inizia nella fanciullezza ed è parte
integrante della sua educazione. Il contegno dell'uomo, il suo modo di
rilassarsi e di respirare, come anche l'autocontrollo e lo stato di salute,
è tutto originato dall'Hara, il centro del comportamento retto.
Lo sviluppo e il controllo del Ki dipende esclusivamente dall'Hara.
Nelle arti marziali l'Hara è l'elemento fondamentale senza il quale ogni
esercizio perde significato. I principi basilari per l'esecuzione di un
kata (come mostrare la forza, l'equilibrio tra tensione e rilassamento
ed il principio della calma e della velocità) si basano sulla filosofia
dell'Hara che, sia negli esercizi spirituali che in quelli fisici, si esprime
in tre aspetti: Condotta, Tensione/Rilassamento e Respirazione.
L'esercizio delle tecniche determina, attraverso questi tre aspetti, un
insieme armonico che si manifesta nel movimento del corpo e
nell'equilibrio spirituale.
Per questo l'espressione fisica di chi esercita l'Hara viene considerata
l'aspetto più importante della tecnica. Senza il coinvolgimento del
corpo non si può fare nessun movimento. Il movimento del corpo è
strettamente connesso all'atteggiamento interiore che è dal primo
condizionato.
Riacquistando la forma fisica si genera un'influenza interiore cui
l'uomo ricorre per correggere l'intero suo comportamento. Con questo
la filosofia del guerriero si innesta direttamente nell'esercizio dell'Hara.
Myo
Myo è semplicemente la misteriosa natura della nostra vita di
momento in momento, che la mente non può comprendere e le parole
non possono esprimere. Se guardi nella tua mente in qualsiasi istante,
non puoi percepire né un colore né una forma per verificarne
l'esistenza. Tuttavia non puoi neanche dire che non esista, poiché
pensieri differenti l'attraversano di continuo. La vita è veramente una
realtà inafferrabile che trascende sia le parole che i concetti
dell'esistenza e della non-esistenza.
Non è né esistenza né non esistenza, e comunque ha le
caratteristiche di ambedue. È la mistica entità della Via di Mezzo che
è la realtà di tutte le cose. Myo è il nome dato alla misteriosa natura
della
vita
e
alle
sue
manifestazioni.
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Myoho
Il termine MYOHO significa, letteralmente, Legge mistica.
In particolare MYO significa “mistico”, cioé infinitamente profondo e
impossibile da concepire o esprimere per la mente umana, e si
riferisce alla natura insondabile della realtà ultima di tutte le cose. HO
è il nome dato alle manifestazioni di questa natura mistica della vita, o
mondo fenomenico.
L’unione di questi due concetti, rappresentati dal singolo termine
MYOHO, riflette l’essenziale unicità della realtà ultima di tutte le cose
e del mondo fenomenico.
Infatti, secondo il Buddismo non esiste nessuna distinzione essenziale
tra la realtà fondamentale e le cose della vita quotidiana. Chi
comprende questo è illuminato, chi non lo comprende è illuso.
Inoltre Daisaku Ikeda, nelle lezioni sul Gosho “Il conseguimento della
Buddità in questa esistenza”, scrive: «Il carattere Myo di Myoho, o
Legge mistica, ha tre significati, tutti impliciti nella recitazione del
daimoku: essere pienamente dotato, aprire e rivitalizzare. In altre
parole nell’azione di recitare daimoku sono contenuti: 1) il Myo della
perfetta dotazione, cioè il fatto che l’unica Legge di Myoho renge kyo
abbraccia tutti i fenomeni; 2) il Myo della trasformazione, che “apre” il
mondo di Buddità nella vita degli esseri dei nove mondi; 3) il Myo del
grande beneficio, in virtù del quale un’esistenza colma di sofferenza
viene “rivitalizzata” e diventa piena di gioia e serenità.
«La nostra vita è un’entità della Legge mistica, e perciò è pienamente
dotata di tutti i fenomeni. L’oscurità fondamentale e la natura
illuminata del Dharma, le illusioni e i desideri e l’illuminazione, i nove
mondi e la Buddità tutti esistono dentro di noi. È proprio per questo
che possiamo realizzare una “rivoluzione” interiore, mistica e
fondamentale, cambiando l’oscurità in luce, alimentando la fiamma
dell’illuminazione “con la legna delle illusioni e dei desideri” e
manifestando perciò il mondo di Buddità nella nostra vita dei nove
mondi.
«La chiave per raggiungere questa profonda trasformazione interiore
è il nostro cuore il nostro atteggiamento di fondo o disposizione
interiore. Perciò, nel Conseguimento della Buddità in questa
esistenza, il Daishonin avverte: “Se pensi che la Legge sia al di fuori
di te, stai abbracciando non la Legge mistica ma un insegnamento
inferiore”. Quando ci sforziamo assiduamente di recitare daimoku
basandoci su questo ammonimento, tenendo sempre a mente che è
determinante il cambiamento nel nostro cuore o mente, i tre significati
di Myo si manifestano con evidenza nella nostra vita".
BUJUTSU/BUDO
Storicamente l’arte generica del combattimento venne denominata
“bujutsu”, dove il termine “bu” era utilizzato per indicare la dimensione
militare e la parola “jutsu” tradotta letteralmente con arte, tecnica. Le
arti marziali vennero sviluppate e raffinate durante un lungo periodo di
sperimentazione diretta sui campi di battaglia del Giappone, fase che
viene generalmente fatta partire dall’epoca pre-Tokugawa in avanti.
Durante i secoli del dominio Tokugawa (dal 1600 al 1867) le tecniche
ereditate dalle epoche precedenti vennero meticolosamente rifinite e
perfezionate, ed in aggiunta vennero ideate ed applicate nuove
discipline marziali per contribuire a risolvere i problemi estremamente
precari del combattimento. Tali specializzazioni possono essere
suddivise in due gruppi principali, da una parte le arti che
interessavano l’utilizzo di armi e dall’altra quelle a mani nude, e
poteva poi capitare che dalle discipline principali nascessero a loro
volta delle sottospecializzazioni molte delle quali miglioravano il
metodo originale a tal punto da diventare specializzazioni
indipendenti. Ad esempio il kenjutsu, ovvero l’arte (jutsu) della spada
(ken), ulteriormente raffinata diede vita ad un’altra disciplina mortale
che acquisì il nome di iaijutsu, ovvero l’arte (jutsu) di sguainare (iai) la
spada e di colpire simultaneamente.
Risultò così che il numero delle discipline praticate dal guerriero era
vastissimo, anche se non tutti questi metodi erano poi utilizzati
efficacemente sul campo di battaglia e buona parte di essi erano
impiegati come esercizi durante l’addestramento.
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Ognuna di queste arti include lo studio dei loro fattori caratteristici,
come il tipo di armi utilizzate, le tecniche particolari ed i modi
d’impiego, la mentalità adottata dal bushi per affrontare in sicurezza il
combattimento, ed il tipo di energia impiegata per utilizzarle nel modo
più appropriato.
L’arte nipponica del combattimento e le relative specializzazioni
possono esser studiate su due piani diversi: esterne ed interne. Le
prime includono armi e tecniche di ogni specializzazione, qualificate
come esterne o esteriori, in quanto facilmente percettibili anche da un
occhio esterno non esperto; nelle arti marziali qualificate come interne
o interiori appartengono quei fattori relativi al controllo ed all’energia
mentale, i quali non possiedono immediatezza visiva ma determinano
il grado di efficienza delle armi e delle tecniche.
È importante mettere in evidenza che il guerriero nipponico dell’epoca
feudale non era l’unico detentore né nell’utilizzo delle pratiche del
bujutsu né nella loro creazione.
La figura del bushi inizia a spiccare in modo predominante intorno al
1600, periodo in cui il clan dei Tokugawa salì al potere ed organizzò i
clan principali in una classe separata con diritti, doveri e privilegi
distinti, esaltandone ed elevandone i propri membri al di sopra di tutte
le altre classi sociali.
A partire da quest’epoca, la “Via del Guerriero” s’impose brutalmente
e al contempo ingegnosamente nella coscienza dell’intera
popolazione.
Nel corso dei secoli, la fibra stessa della nazione giapponese
s’imbeve delle idee, dell’etica e della vocazione del guerriero.
Il popolo giapponese era stato influenzato ad un punto tale da affidarsi
“istintivamente” alla guida dei capi militari ed a presumere che essi
fossero sempre “onesti e sinceri”.
Edwin O. Reischauer (professore alla Harvard University e
ambasciatore degli Stati Uniti in Giappone, uno dei principali studiosi
della storia e della cultura del Giappone e dell’Asia orientale) ipotizza
che queste idee si siano riflesse anche sulla mentalità della società
giapponese odierna: «i molti secoli di dominazione ad opera della
casta feudale hanno lasciato modelli di pensiero e di comportamento
che in tempi recenti non è stato facile abbandonare e ancora oggi non
sono totalmente cancellati.»
Il guerriero del periodo feudale aveva conseguito una posizione tale
che la sua influenza non poté essere eliminata nemmeno dopo
l’abolizione della dittatura militare avvenuta alla fine del 1800.
L’epoca della Restaurazione Meiji, successiva all’era Tokugawa,
indicò la fine
definitiva dell’epoca feudale e dei combattimenti sul campo di
battaglia.
Inoltre la nuova fase segnò un “cambio della guardia”, in cui ondate di
nuovi
guerrieri si spostarono dalle province verso la capitale, creando una
“nuova” classe dirigente preparata a guidare la nazione verso i tempi
moderni.
Essa intraprese un’intensa attività di espansione nazionale basata sui
concetti tradizionali di fedeltà, obbedienza assoluta verso il superiore
immediato ed il signore feudale fino alla devozione cieca ed assoluta
nei confronti dell’imperatore.
Al giovane giapponese veniva insegnato, nelle aule di scuola come
nelle caserme militari, a gloriarsi delle tradizioni militari del suo paese;
a credere che la morte sul campo di battaglia, per servire l’imperatore,
fosse il destino più glorioso per un uomo; ad aver fiducia nelle virtù di
una “struttura nazionale” non ancora definita e in uno “spirito
nipponico” ancora più indefinito.
Il governo e l’esercito riuscirono in pochi decenni ad inculcare nel
giapponese medio il nazionalismo fanatico tipico delle classi superiori,
ed una devozione altrettanto fanatica verso l’imperatore.
Ancora oggi, la vita di una persona in Giappone è dominata dalla
società nello stesso modo in cui la vita di un soldato era dominata
dall’esercito.
La compattezza di questa società viene imposta dall’alto, da qui
partono i vincoli basati su ciò in cui si deve credere, come dev’essere
la strutturazione dei rapporti e il modo in cui l’individuo si deve
comportare per adempiere ai propri obblighi.
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Questa osservazione è constatabile dalle ricerche di alcuni
osservatori che hanno preso in esame l’industria giapponese notando
che il loro elemento di straordinaria efficienza era costituito dall’antica
“mentalità tradizionale” applicata alla produzione. Sostanzialmente si
basano sul sistema verticale del modello del clan, organizzato in
modo da funzionare con efficienza e senza intoppi.
In epoche successive tali arti vennero intese con un fine di natura
educativa o etica; alla “tecnica” subentrò la “via” (do), la quale stava
ad indicare la “via” verso un risultato non solo esclusivamente pratico,
in quanto ad esso veniva ad incorporarsi anche la componente
spirituale.
C.N. 3° DAN Aspirante Maestro
Ferreri Gaetano