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GIOVEDÌ
3 OTTOBRE 2013
CULTURA
RELIGIONI
TEMPO LIBERO
SPETTACOLI
SPORT
AGORÀ
letteratura
E D I TO R I A L E
Addio a Tom Clancy,
maestro della spy story
dopo la Guerra fredda
DESTRA E SINISTRA,
L’EGEMONIA
DEL TRASFORMISMO
DI ALESSANDRO ZACCURI
PAOLO SIMONCELLI
C’
è una rete, ancorché
indistinta, della cultura
delle destre, che avrebbe
progressivamente e
inavvertitamente soppiantato la
sinistra nell’egemonia intellettuale
italiana? Gabriele Turi (nel volume
"La cultura delle destre. Alla
ricerca dell’egemonia culturale in
Italia") ne propone una
ricostruzione che tuttavia fa perno
su un concetto gramsciano
inattuale: che senso ha parlare di
egemonia quando è morto lo
Stato, è finito lo storicismo ed è
stata destoricizzata la cultura? La
questione è diversa: per la prima
volta la fascia sociale di destra,
liberale o moderata o meno, ha
avuto una piena rappresentanza
politica, con la conseguenza di
guadagnare voci culturali, prima
demonizzate in blocco come
rigurgiti fascisti. Vero è, ma qui Turi
sorvola, che ad apparire al
proscenio a rappresentarle e
intonarne i cori sono stati attori e
cantori improvvisi, folgorati da
sinistra (compresa quella
extraparlamentare) sulla via di
Damasco, secondo tradizionale,
vergognoso e inossidabile
trasformismo. Del resto, chi,
provenendo da quelle esperienze,
potrebbe garantire maggiore
credibilità nella denuncia degli
antichi meccanismi dell’egemonia
di cui fu partecipe e spesso
protagonista? Altra questione
metodologica, le indistinzioni. Turi
parla opportunamente al plurale
di "destre"; che tuttavia non
agiscono in sinergia, né in
concorrenza; piuttosto in conflitto:
che ha a vedere, sul piano
economico-sociale e/o delle
relazioni internazionali, una
cultura liberale con l’universo
appassionatamente fazioso e
frammentario del radicalismo di
destra, spesso coincidente con
quello dell’estrema sinistra? Nel
merito, la trama connettiva del
tessuto della nuova, presunta
egemonia, vede accomunate
circostanze disomogenee e
contraddittorie; ad esempio, le
ripetute denunce contro i manuali
scolastici di sinistra, denunce
invero utili a indicare la sensibilità
culturale dei denuncianti, e la
totale inefficacia della denuncia; si
aggiungono i nuovi assetti
editoriali tipo Elemond che dal ’90,
dalla presidenza Berlusconi,
avrebbero controllato l’Einaudi,
alfiere della cultura comunista e
azionista. Eluso però il ricordo di
come questa casa editrice, invero
determinante per l’egemonia
ideologica in Italia, sia
sopravvissuta alla crisi dell’editoria
degli anni ’70. Nessuna legge ad
hoc? Allora la fiorentina Sansoni
avrà dovuto chiudere e la torinese
Einaudi no, per scelte
campanilistiche mica ideologiche.
Ancora, studiosi non
"gramsciazionisti" presenti nei
comitati scientifici o di redazione
di varie riviste, e che magari
scrivono su un’altra rivista,
costituirebbero l’evidenza dei
sotterranei collegamenti tra
testate, da quelle scientifiche a
quelle divulgative (trascurata però,
in questo caso, la comica vanità
del presenzialismo intellettuale).
Insomma una rete, un vero e
proprio complotto, naturalmente
all’insegna del revisionismo. E
dagli! Ma "revisionnistes" non
erano i sostenitori dell’innocenza
di Dreyfus? Omessi peraltro gli
apparati di cultura, teatri di prosa,
lirici, musei e analoghe istituzioni
cui mettono mano, con nota
sensibilità, gli enti locali. Da non
dimenticare nel conto, come le
varie iniziative culturali delle
nuove (e tutte uguali) Fondazioni,
abbiano visto affacciarsi alle
relative greppie, intellettuali d’ogni
specie, compresi quelli che
inorridivano al solo sentir parlare
di liberalismo, liberismo e destra, e
che al primo spirar di vento
contrario hanno puntualmente
avvertito delusioni e crisi culturali
per tornare più comodamente da
dove venivano. Secondo un’antica
e comune fenomenologia
comportamentale: l’egemonia del
trasformismo.
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■ Spiritualità
Marco Guzzi
e la scala
che porta all’amore
■ Storia
I roghi dei libri
e la sconfitta
dei biblioclasti
24
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■ Spettacoli
Raitre scommette
sui cattivi
di «The Newsroom»
25
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■ Sport
Verona, l’unica con
tre club nel calcio
professionistico
PAGINA
28
DIBATTITO. Manipolazione del consenso e inflazione dei programmi dove
ci si scontra come sul ring: come uscire dall’impasse? Parlano gli esperti
DI DIEGO MOTTA
na parola vi seppellirà.
Una parola ben detta, al
momento giusto. Nell’era
dei talk show ritagliati intorno ai
leader, in cui l’immagine è tutto,
in cui un’inquadratura dice più
di mille ragionamenti, la
comunicazione politica sembra
in realtà essere arrivata a un
bivio: o continua a moltiplicare
all’infinito gli spazi televisivi e
virtuali dedicati al dibattito "sul"
e "dentro" il Palazzo, in un
vortice di salotti e arene sempre
più uguale a se stesso, o cambia
strada e (ri)mette al centro la
domanda di senso e di nuovi
linguaggi che arriva
dall’opinione pubblica.
La tesi controcorrente arriva da
un piccolo pamphlet intitolato
Consenso, scritto da Mario
Rodriguez per i tipi di Guerini e
Associati. Consulente politico e
docente universitario, Rodriguez
nel suo libro sostiene prima di
tutto che «la politica non può
essere ridotta a fenomeno
massmediologico: c’era prima e
ci sarà dopo l’avvento dei nuovi
e vecchi mezzi di
comunicazione. Non possiamo
ad esempio dimenticarci che la
costruzione di identità condivise
come erano i partiti è
precedente all’arrivo della
televisione nelle case. E poi
sbaglia chi tende ad
assolutizzare il peso dei leader e
la forza del mezzo scelto per
lanciare le proprie idee. Il
cittadino, sia esso telespettatore
o navigatore della Rete, ha
ancora le chiavi per scegliere e
decidere».
In questa prospettiva,
evidentemente il medium non è
tutto e il punto di vista strategico
non è quello di chi parla o di chi
lancia il messaggio, ma quello di
chi lo riceve. Non è una novità
da poco per un mondo abituato
troppo spesso a guardarsi
l’ombelico, attribuendo poteri
salvifici una volta alle virtù
comunicative dei politici e
un’altra ai format televisivi scelti
per comunicare.
«Una volta c’erano solo due talk
show dedicati alla politica, oggi
si rischia un effetto saturazione –
osserva il critico televisivo del
“Corriere della sera”, Aldo Grasso
–. L’impressione è che i dibattiti
a cui assistiamo servano solo a
rafforzare le idee preesistenti di
chi li ascolta, in un circuito
vizioso per cui il "basso" trascina
con sé "l’alto"». La sindrome
dell’autoreferenzialità sembra
essersi impadronita sia delle
scelte comunicative dei leader
politici, che preferiscono parlare
esclusivamente ai propri
militanti, sia degli autori dei
palinsesti tv, perennemente alla
ricerca di personalità in grado di
"bucare" il video, ad ogni costo.
Il risultato? È tutto un turbinio di
spin doctor autoproclamatisi sul
campo, di guru eletti a tribuni
del popolo, di esperti di numeri
che sembrano essere gli unici
detentori della verità.
«Ieri si è detto che se Berlusconi
aveva dominato l’ultimo
ventennio è stato grazie alla
televisione, oggi si dice che se
Grillo ha avuto un tale risultato
elettorale è stato merito della
rete – scrive Rodriguez –. Questa
U
Politici e media
è tempo di idee
lettura dei fatti sottovaluta, però,
il senso delle scelte che
compiono le persone e
contemporaneamente
sopravvaluta il ruolo degli
strumenti di comunicazione».
Attenzione: il contributo dei
media al successo di
determinate esperienze
politiche è innegabile, ma di più
e meglio hanno pesato le chiavi
narrative e le ricadute sociali
proposte. La metafora del sogno,
da una parte, l’incarnazione
della rabbia, dall’altra. «Bisogna
essere se stessi, non altro. Per
questo, più di tutto conta il
patrimonio della reputazione»,
chi ascolta il verbum e crea un
significato condiviso a tal punto
da spingere all’azione e alla
I talk show sono
troppi e fanatizzano
la partigianeria,
dividono il pubblico tra
ultras e non accrescono
l’informazione.
Grasso: «In tivù si crea
un circolo vizioso
dove il “basso”
trascina con sé
tutto ciò che è “alto”».
Mazzoleni: «La lotta per
la visibilità dei leader
è ormai a livelli feroci»
mobilitazione le altre persone.
«I media sono diventati
strumento di trasparenza e di
promozione» osserva Gianpietro
Mazzoleni, che insegna
Comunicazione politica
all’Università degli
Studi di Milano e due
anni fa ha dato alle
stampe Politica pop (Il
Mulino). «Nell’era
dell’infotainment, la
lotta per la visibilità da
parte dei politici resta
feroce. Cosa non si fa
per un quarto d’ora di
celebrità, direbbe
Andy Warhol...». Il
punto è che non
sempre (e non tutti) si
è in grado di fare
efficacemente la
propria parte, quando
ci si siede sulle
comode poltrone dei
programmi di prima o
seconda serata. «Gli
esperimenti più
recenti di talk show
politici fanatizzano la
partigianeria, dividono il
pubblico tra ultras di opposte
sponde e non accrescono di
nulla il contenuto informativo»
attacca Rodriguez. «Sì, ma
l’informazione seria è spesso un
pretesto per fare spettacolo e i
media stessi sono strumenti di
potere. Di più: lo stesso
personale politico è selezionato
per la sua capacità di stare in
video più che per le sue
competenze reali» risponde
Mazzoleni. In definitiva, saprà il
nostro Paese trovare un modello
proprio di comunicazione
politica o prevarrà ancora una
volta l’americanizzazione
spinta? Come cambierà nei
prossimi anni quella che i tecnici
chiamano la
"campagna elettorale
permanente"? È qui
che in molti sono
pronti a scommettere
sulla rivincita della
parola. Parola scritta e
letta nelle
conversazioni in Rete
da migliaia di militanti
e lettori. Parola
condivisa nei forum,
nei blog e nelle
interazioni virtuali.
Parola pronunciata
sotto lo sguardo delle
telecamere, nei brevi
silenzi che seguono
all’odissea delle
polemiche. «Non può
che essere parola detta
e ascoltata, frutto di
un dialogo e non di un
monologo» osserva
ancora Rodriguez. «Il valore della
parola è indiscutibile – aggiunge
Grasso –. Chi è stufo delle solite
facce e dei soliti teatrini cerca
linguaggi nuovi, freschi e che
non siano appesantiti da slogan
del passato». Non più comici
urlanti, di tutte le salse, né
maghi della fiction in
doppiopetto: anche la
comunicazione politica aspetta
con trepidazione l’arrivo della
Terza Repubblica.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Uno studio televisivo. In alto, Aldo Grasso e Gianpietro Mazzoleni
più giovani lo conoscono come
l’artefice di Splinter Cell,
componimento misto di
romanzo e videogioco. Chi ha
qualche anno in più lo ricorda
soprattutto per i fasti, anche
cinematografici, di Caccia a
Ottobre Rosso, che alla metà degli
anni Ottanta ipotizzava
un’onorevole via d’uscita dal
rebus della Guerra fredda. Per tutti
lo scrittore Tom Clancy, morto
l’altra notte a Baltimora, è stato
uno di quei narratori popolari
capaci di interpretare lo spirito di
un’epoca. Nel bene e nel male,
sarà il caso di aggiungere, e non
soltanto perché lo stile di Clancy
non era affatto raffinato. A
Baltimora era nato nel 1947 e,
prima di ottenere il successo, si
era guadagnato da vivere come
assicuratore. Da sempre
appassionato di strategia militare
e tecnologie di spionaggio, aveva
riversato le sue conoscenze nelle
avventure di Jack Ryan,
ultrapatriottico agente della Cia
destinato a una
folgorante
ascesa in
campo politico.
L’esordio del
personaggio
risale al 1984,
l’anno della
Grande fuga
Tom Clancy
dell’Ottobre
Rosso, la cui
trama era incentrata
sull’immaginaria diserzione di un
sottomarino nucleare sovietico. Il
libro sintetizzava alla perfezione
preoccupazioni e strategie dell’era
reaganiana. Un ruolo, questo della
metafora geopolitica, che
l’indistruttibile Jack Ryan ha
continuato ad accollarsi
volentieri, magari a fianco del
fidato compagno John Clark.
Amatissimo dal cinema così come
dall’industria dei videogame, con
la quale avviò presto un’intensa
collaborazione, Clancy aveva
azzeccato diverse previsioni e,
insieme, non si era mai stancato
di proporre la sua soluzione,
basata sulla prontezza e sulla
rudezza della risposta armata. Il
caso più clamoroso è
probabilmente quello di Debito
d’onore, che nel 1994 immaginava
un attacco aereo kamikaze su
Washington. In seguito alla strage
– provocata non dagli estremisti
islamici, ma da un giapponese
nostalgico – il solito Jack Ryan
diventava addirittura presidente
degli Stati Uniti. Un’esagerazione,
o forse no: se si pensa alla carriera
di Vladimir Putin, passato dal Kgb
al Cremlino, viene il sospetto che
in fondo Tom Clancy avesse solo
sbagliato Paese.
I
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Russia cristiana
tra identità
e universalità
◆ Si tiene a Seriate (Mi), presso il
Centro Culturale Biblioteca dello
Spirito, da sabato a martedì
prossimi (e il seconda tappa a
Mosca dall’8 all’11 novembre) il
convegno annuale di Russia
Cristiana, quest’anno dedicato a
«Identità, alterità, universalità».
Che cosa significa avere un’identità
(religiosa, nazionale, culturale)? La
domanda risulta di particolare
attualità anche alla luce del
contesto internazionale, dei gravi
conflitti e delle persecuzioni subite
dai cristiani in tutto il mondo.
Come ha recentemente osservato il
Papa, non è la cultura dello
scontro, la cultura del conflitto
quella che costruisce la convivenza
nei popoli e tra i popoli, ma questa:
la cultura del dialogo. Tra gli ospiti
del Convegno si segnalano: S.
Capnin, direttore della Rivista del
Patriarcato di Mosca, I. Jazykova,
storica e critica d’arte, A.
Filonenko, filosofo, A. Zubov,
storico e politologo, A. Kozyrev,
filosofo, T. Kasatkina, storica della
letteratura, A. Dell’Asta, slavista, P.
Pezzi, Arcivescovo Metropolita
della Madre di Dio (Mosca).