05 editoriale 4/06 - Assistenza Infermieristica e Ricerca

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05 editoriale 4/06 - Assistenza Infermieristica e Ricerca
Editoriale
Carenza di infermieri,
standard assistenziali,
sicurezza dei pazienti
Alvisa Palese1
Luisa Saiani2
1Professore Associato
di Scienze Infermieristiche,
Università di Udine
2Professore Associato
di Scienze Infermieristiche,
Università di Verona
202
Sembra che il dibattito sulla carenza infermieristica si sia attenuato. Forse è superato oppure hanno avuto effetto alcune soluzioni, come
quella degli accorpamenti, delle dipartimentalizzazioni, della riduzione dei posti letto, o degli ospedali a fisarmonica, che d’estate si comprimono per permettere le ferie al personale infermieristico, e d’inverno riacquistano le loro
dimensioni naturali e garantiscono piena attività. O ancora, a seguito del massiccio inserimento degli operatori di supporto, la carenza
è limitata ad alcune aree; ma è possibile che il
problema stia “passando di mano” a seguito delle crescenti esternalizzazioni dei servizi. Nella
peggiore delle ipotesi, potrebbe essere accaduto
che ci stiamo progressivamente rendendo conto che non ci sono più soldi e che pertanto, gridare alla carenza è inutile o poco efficace, e diventa prioritario cercare di ottimizzare e impegnare gli infermieri solo su attività infermieristiche. Da più di dieci anni, da quando è decollata l’aziendalizzazione, stiamo lavorando
sull’ottimizzazione delle risorse infermieristiche: forse, dovremmo anche avere il coraggio
di riconoscere che, nonostante ci siano ancora
degli spazi, i margini di recupero delle risorse
sono “finiti”.
Se da una parte sembra sceso il sipario, tanto
che da molto tempo ormai non si sa quanto sia
critica la situazione e in quali aree, dall’altra –
paradossalmente – rimane evidente la difficoltà
quotidiana degli infermieri, ma anche dei coordinatori e dei dirigenti infermieri, impegnati sui
tavoli negoziali in estenuanti contrattazioni per
ottenere più infermieri.
Contestualmente aumentano – pur nella loro debolezza metodologica – gli studi che sostengono
l’associazione tra esiti clinici e quantità/qualità
degli infermieri che erogano assistenza diretta
(il termine di confronto non sono più gli infer-
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mieri in organico). Questi studi hanno il merito di aiutare a definire standard assistenziali superando, forse una volta per tutte, il problema
dei carichi di lavoro o della misurazione minuziosa dell’assistenza richiesta dai pazienti, che
diventa una misura importante per il quotidiano, ma non per l’alta direzione che dovrebbe
lavorare su standard.
Il problema, infatti, almeno per l’ospedale, non
sussiste: tutti (o quasi) i pazienti ricoverati stanno male (se non addirittura molto male). La larga maggioranza dei ricoveri sono appropriati e
non ha senso misurare l’intensità assistenziale
di cui ciascun paziente ha bisogno, se non nella gestione quotidiana, per capire quanti e quali pazienti affidare a ciascun infermiere.
In California, ma anche in altri Stati Americani,
l’American Nurses Association ha condotto una
dura battaglia politica per definire il numero
massimo o atteso di pazienti che ciascun infermiere dovrebbe gestire. Questo rapporto (nurse to patient ratio) esprime una misura di sintesi che deve essere garantita sulle 24 ore: include solo infermieri e non gli operatori di supporto, aiuta la dirigenza degli ospedali a negoziare la migliore quantità di risorse per i pazienti;
garantisce omogenei livelli assistenziali – paradossalmente proprio in un sistema non pubblico
– e la possibilità per gli infermieri di lavorare,
esprimendo le massime potenzialità dell’assistenza, che comprendono la capacità di giudizio, di monitoraggio e di sorveglianza. Stare con
pochi pazienti, infatti, permette agli infermieri
di conoscerli bene, di individuare precocemente variazioni cliniche, di monitorarle, di
ipotizzare problemi potenziali e di attivare strategie efficaci.1 Un buon rapporto infermieri/pazienti dovrebbe aggirarsi su 1 a 5 o comunque
inferiore a 6, per ridurre il rischio di complicanze e di mortalità dei pazienti.2
A. Palese, L. Saiani: Carenza di infermieri, standard assistenziali, sicurezza dei pazienti
Lo studio realizzato in Italia e riportato a pagina
206 descrive i risultati preliminari di una ricerca
multicentrica che ha rilevato, in una giornata indice, quanti pazienti gestisce ciascun infermiere
in chirurgia e in ortopedia, confrontando i risultati
con uno studio simile, americano.2 I risultati
emersi sollecitano alcune riflessioni tecniche,
metodologiche e di politica professionale.
Riflessioni tecniche
a) L’assistenza infermieristica descritta da Aiken1-2
viene erogata in ospedali relativamente piccoli se confrontati con i nostri. Solo 32 ospedali su 161 censiti, infatti, hanno un numero di posti letto superiore a 251. Nelle realtà
italiane descritte, invece, il numero di posti
letto prevalenti è superiore a 250. Questo introduce una prima differenza: il nostro sistema sanitario sembra perseguire la strada
dei dipartimenti, delle grandi strutture o delle aziende multiprovinciali. Dall’altra parte
del mondo, si cerca di privilegiare le piccole strutture, anche ad alta tecnologia, in cui
forse gli infermieri e gli altri operatori hanno la possibilità di sviluppare appartenenza,
di fidelizzarsi e di essere visibili e valorizzati nelle competenze. All’interno di questa differenza dovrebbero essere letti con prudenza anche gli esiti degli studi statunitensi che
misurano i fattori associati al burn out ed all’insoddisfazione degli infermieri perché oltre ad essere diversa la cultura, il modo di
esprimere e di vivere l’assistenza è disomogenea anche la struttura degli ospedali.
b) Anche i reparti sono diversi da quelli statunitensi: tutti i dirigenti infermieri hanno segnalato difficoltà di “scorporo” dei pazienti
chirurgici o ortopedici da quelli degenti nei
reparti che aggregano pazienti otoiatrici, con
problematiche maxillo-facciali, ginecologiche
o toraciche. Molti reparti in Italia, inoltre, eseguono anche interventi di Day Surgery e di
attività ambulatoriale, impegnando gli infermieri nella gestione organizzativa dei percorsi
assistenziali. Questo limita ogni forma di
confronto e di trasferibilità dei risultati prodotti da Aiken1-2 e stimola un quesito sostanziale: è efficace “compattare” i servizi per
sfruttare ogni risorsa e razionalizzare i processi? Perché non ipotizzare altre soluzioni
organizzative che consentano agli infermie-
ri della clinica di gestire solo, (si fa per dire) la clinica infermieristica dei pazienti ricoverati separata da quelli ambulatoriali? In
terra straniera anche gli ospedali sono strutturati per accogliere pazienti ricoverati da una
parte, e ambulatoriali dall’altra.
c) Esistono tra gli ospedali coinvolti, e anche
all’interno dello stesso ospedale, altre differenze strutturali: lo dimostra il rapporto infermieri/posti letto. Il posto letto non è una
unità di misura di per sé rilevante perché non
ci informa se è occupato da un paziente. Tuttavia, va considerato che poche sono le situazioni in Italia in cui i posti letto rimangono liberi; dalla rilevazione, infatti, emergono tassi di occupazione critici, anche al di
sopra del 100%. Se ciò è tipico nei reparti di
medicina o di ortopedia traumatologica che
accolgono pazienti in urgenza e lavorano poco sulle attività programmate, è difficile comprendere i motivi per cui anche le chirurgie
hanno tassi di occupazione molto elevati. Nella pratica, ciò significa che gli infermieri assistono pazienti accolti su letti aggiunti oltre
a quelli previsti; oppure che tra dimessi e nuovi accolti, durante la giornata sono presenti
più pazienti che posti letto. Questa situazione
aumenta il rischio dei pazienti, ai quali è difficile garantire uno scrupoloso monitoraggio;
la situazione alberghiera è spesso insoddisfacente; ma ne deriva anche (e gli infermieri
delle medicine lo sanno bene) un importante
turn over dei pazienti e continui riassestamenti (pazienti che dal corridoio, appena si
libera un posto, vengono messi in stanza; pazienti in attesa di essere dimessi, senza il posto letto che è stato già occupato da altri).
Situazioni critiche che aumentano il carico
di lavoro, il rischio di errori e di mancata sorveglianza clinica.
d) I turni sono molto frammentati: gli infermieri
a tempo pieno sono pochi (e in alcuni contesti pochissimi) e l’assistenza viene erogata da infermieri con profili orari molto diversi
(part-time verticali ed orizzontali). Nelle
realtà osservate prevalgono gli infermieri in
part-time verticale, che esprime la tendenza
delle aziende ad accordare la riduzione di
orario mantenendo il turno notturno. Diverso, infatti, è il part-time orizzontale in cui gli
infermieri lavorano ogni giorno, su sei o su
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cinque giornate della settimana, per meno
ore di quelle previste. Sarebbe utile capire
quanto questa struttura oraria appesantisce
gli infermieri a tempo pieno e quale è l’impatto clinico della eccessiva frammentazione delle cure infermieristiche.
e) Solo il 94,8% degli infermieri osservati nella giornata indice erogano assistenza diretta: questo potrebbe essere un dato poco accurato per errore di misurazione (vedi discussioni dell’articolo) legato a che cosa si
intende per ‘assistenza diretta’. Per quali ragioni, in anni di carenza infermieristica, le
organizzazioni scelgono ancora di impegnare risorse scarse in attività improprie? Qual
è la responsabilità degli infermieri? Il dato
ancora più critico è quello degli operatori di
supporto (91,6%): per quali ragioni organizzative, figure nate per supportare l’assistenza, vengono sottratte da questa?
Riflessioni metodologiche
a) Sono stati raggiunti 47 ospedali in due mesi di osservazione, contattando le direzioni
infermieristiche che hanno dato la loro disponibilità allo studio: questo esprime una
elevata disponibilità alla ricerca ed al confronto e sottolinea le potenzialità di una rete stabile di infermieri coordinatori e dirigenti,
impegnati nella ricerca in campo organizzativo.
b) È stata inclusa solo una struttura privata. In
uno scenario in cui si sta diffondendo l’offerta privata, sarebbe davvero importante allargare la partecipazione a queste strutture;
come pure, censire meglio la situazione degli ospedali con funzioni di insegnamento
clinico, per stimare quanto tempo infermieristico è dedicato ai pazienti e quanto alla
formazione degli studenti.
Riflessioni di politica professionale
a) Nel 74.4% degli ospedali censiti da Aiken2
gli infermieri gestiscono < 6 pazienti. Anche
sommando infermieri e operatori di supporto,
le realtà italiane osservate non riescono a raggiungere questo standard: durante la notte,
i pazienti per infermiere diventano più di tredici. Aiken non ha mai riportato ospedali con
un rapporto infermieri pazienti superiore a
10 e sulle 24 ore non ha registrato disomo204
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geneità (i turni sono sostanzialmente uguali per composizione quali-quantitativa sulle
24 ore). Il rischio di mortalità dei pazienti
chirurgici aumenta del 7% per ciascun paziente assistito in più dagli infermieri (oltre
alla media di 6 pazienti).2 Negli ospedali in
cui gli infermieri assistono in media 8 pazienti, Aiken ha stimato che muoiano in più
2.3 pazienti ogni 1000 e abbiano complicanze
9.5 pazienti ogni 1000. Assumendo questi dati come riferimento, nelle realtà incluse che
comprendono oltre tremila pazienti osservati
in tre momenti consecutivi della giornata, 6.9
e 28 pazienti potrebbero essere deceduti o
aver avuto una complicanza associata alla
scarsità di infermieri. I rischi non riguardano solo i pazienti: l’incremento del numero
di pazienti per infermiere, infatti, aumenta
il rischio di burnout, di insoddisfazione lavorativa e di abbandono della professione.3
b) Per raggiungere gli standard statunitensi, occorrerebbero circa mille infermieri in più di
quelli presenti nella giornata indice. Questo
implica che tali infermieri dovrebbero essere disponibili sul mercato, reclutabili, retribuibili e inseribili in una realtà che organizza
l’assistenza in modo diverso. In tempi di definizione del fabbisogno di infermieri (peraltro ancora annuale) e di scarsità di risorse economiche, emerge l’urgenza di ridefinire le priorità:
1) Iniziare a proiettare il fabbisogno su quello che accadrà da qui a dieci o venti anni, facendo i conti con una professione
che invecchia e che non potrà sostenere
i turni notturni; con una popolazione con
crescenti livelli di disabilità e di cronicità;
e un sistema che ha sempre meno risorse economiche. Non sono più accettabili i fabbisogni definiti annualmente, sulla base della struttura storica della e/o delle professioni (ostetriche, fisioterapisti, ma
non solo...) senza tener conto dell’insieme dei profili che l’Università forma (ventidue). Si deve sviluppare un ragionamento complessivo e non solo centrato
sugli infermieri: potrebbe essere necessario, infatti, che alcune funzioni da sempre considerate di pertinenza infermieristica (ad esempio la mobilizzazione dei
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pazienti) quando assumono finalità riabilitative (ad esempio nei pazienti con ictus) debbano essere garantite dai fisioterapisti, anche al sabato ed alla domenica. Questo oggi accade in poche strutture. Oppure, che i dipartimenti materno
infantili, debbano contare prevalentemente su ostetriche e infermieri pediatrici
che sono gli “specialisti” di quel settore,
e non sugli infermieri con formazione generalista.
2) Definire quanti sono i pazienti che ciascun
infermiere può al massimo gestire nei nostri ospedali, fissando anche standard diversi da quelli definiti da Aiken se riteniamo che questi non siano sostenibili per
il contesto italiano. Lasciare i dirigenti infermieri nella solitudine delle negoziazioni locali, o alle logiche delle pressioni
del contesto, non può più essere accettato: la variabilità emersa da questo studio
pilota non è giustificabile. La quantità di
assistenza infermieristica erogata al giorno è di gran lunga inferiore a quella assicurata negli anni settanta (i famosi 120
minuti di assistenza a pazienti che erano
meno critici di oggi): questi standard rischiano di demotivare gli infermieri cli-
nici, risorse preziose del sistema, di allontanarli dalla pratica e di annullare gli
sforzi formativi degli ultimi anni. Come potrebbero, infatti, infermieri ben preparati
magari con competenze avanzate, assistere
adeguatamente tanti pazienti?
Le politiche professionali di cui abbiamo bisogno non dovrebbero essere orientate prevalentemente all’avanzamento professionale, alle logiche di carriera o di difesa professionale.
Dovrebbero prioritariamente perseguire la sicurezza e i migliori risultati per i pazienti.
Quelli di oggi e quelli di domani.
Bibliografia
1. Aiken LH, Clarke SP, Cheung RB, Sloane DM, Silber
JH. Educational levels of hospital nurses and surgical patient mortality. JAMA 2003; 290: 1617-23.
2. Aiken LH, Clarke SP, Sloane DM, Sochalski J, Silber
J. Hospital nurse staffing and patient mortality,
nurse burnout and job dissatisfaction. JAMA 2002;
288: 1987-93.
3. Doran D, Kerr M, McGillis Hall L, Zina M, Butt M,
Ryan L. Commitment and care: The benefits of a
healthy workplace for nurses, their patients and
the system. Rapporto presentato al Canadian
Health Services Research Foundation, Ottawa, ON,
2001.
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