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Articoli
Piero Gobetti e i popolari: dalla Rivoluzione Liberale all’epistolario
di LUCA MENICHETTI
Piero Gobetti fu uno degli osservatori più attenti del partito di Sturzo. Dagli epistolari si comprende come il giovanissimo intellettuale torinese ritenesse indispensabile il
pieno coinvolgimento dell’ala più avanzata del Partito Popolare nella lotta politica, al fine di modernizzare il paese e di contrastare la nascente dittatura fascista.
“Un libro di teoria liberale, pensato e scritto secondo un piano organico che, mentre appare una storia degli uomini e delle idee di questi anni, vorrebbe pur significare un
programma positivo e un’indicazione di metodi di studi e d’azione”. Con queste parole Gobetti presentava nel 1924 il saggio “La Rivoluzione Liberale” edito a Bologna da
Cappelli, con il medesimo titolo della rivista settimanale che da due anni dirigeva in quel di Torino.
Lo scrittore però aggiunse un’altra frase che a rigore doveva caratterizzare l’intera opera: si attendeva non tanto dei lettori ma proprio dei collaboratori.
Aspirazione che aveva una sua logica: alla vigilia del delitto Matteotti, in un contesto in cui il fascismo non appariva più un fenomeno di breve durata, ma (semmai) si
svelava come (una) vocazione (costruita ad immagine) di un popolo dall’incerta cultura democratica, lo scrittore voleva dare risposte a preoccupazioni pratiche, contingenti.
La letteratura che ha studiato il pensiero di Gobetti di “Rivoluzione Liberale” è ampia, come dimostrano i saggi di Paolo Bagnoli, Paolo Spriano, Giuseppe Virgilio, Marco
Gervasoni, Alberto Cabella, Giacomo De Marzi ed altri; un interesse sicuramente incentivato dalla sua singolare figura di giovanissimo intellettuale: una sorta di enfant
prodige che ha avuto l’intuizione di assimilare “rivoluzione” a “liberale”, ovvero termini che, nella nostra Italia manichea, sono da sempre interpretati come contraddittori.
E’ altrettanto vero però che gli studi accademici su Gobetti, hanno privilegiato un approccio teorico e hanno tralasciato l’importanza, in quegli anni complicati vissuti tra
concreti rischi di censura ed intenso impegno editoriale, dei rapporti umani che si venivano a delineare tra i lui e i suoi numerosi corrispondenti, ovvero il fatto ch’egli
cercasse collaboratori e non lettori.
In questo senso sono emblematiche le considerazioni del nostro autore sui popolari.
La lettura di “Rivoluzione Liberale”, proprio con il capitolo “I popolari”, dedicato a Luigi Toniolo, Filippo Meda e don Luigi Sturzo , ci presenta un Gobetti estremamente
critico e puntuale nel dispensare giudizi non troppo lusinghieri soprattutto verso i primi due uomini politici e la loro posizione in merito alla concezione di Stato e di
economia.
In “Toniolo” leggiamo: “Le parole di approvazione e di rimpianto con cui ricorda la monarchia di Luigi IX, che egli crede di chiamare senza ironia ‘democratica’, mentre ci
rivelano tutta la singolarità della sua psicologia, chiariscono la sua dottrina nei limiti di una democrazia patriarcale che esclude l’iniziativa popolare e i principi di
autoeducazione, e vuol dare alle masse soltanto palliativi di riforme e di miglioramenti economici”. “La funzione dello Stato vi resta imprecisa, timidamente discussa,
mentre lo Stato liberale moderno incute paura come spettro”. (1)
Per poi proseguire in “Meda”: “tempera invece le intransigenze della fede medievale con l’astuzia del politico”; “Il Meda teme che i principi liberistici possano favorire la
reazione del proletariato: e la sua visione moderata riesce piena di diffidenza e di paura di fronte alle nuove forze travolgenti che esigono di partecipare alla vita dello
Stato”. Coerente la conclusione: “non si sa spogliare di un abito di monotonia che è diventato la sua seconda natura, e con l’astuta bonarietà ha rinunciato anche all’ultimo
residuo eroico che vi era nel superiore cinismo di Giolitti, sì che della sua figura è rimasto solo più l’arido atteggiamento di un politico che vuole conservare un equilibrio
pratico tramontato”. (2)
Diverso l’approccio nel delineare la figura di Luigi Sturzo, dove fin dalle prime righe si legge: “La sua posizione fu la prova più chiara che si sono elaborati tra i popolari
idee politiche e stati d’animo che non è possibile confondere col vecchio clericalismo”. (3)
Una differenza in quegli anni si è concretizzata nei diversi percorsi di vita di Meda e di Sturzo: mentre sappiamo bene quanto il sacerdote e politico di Catalgirone da subito
si sia opposto al fascismo, Meda, per breve tempo, e fino al delitto Matteotti, forse condizionato dalle sue posizioni di centro-destra, sperò che il regime in qualche modo si
normalizzasse ed abbandonasse la sua corsa verso la piena dittatura.
Fu un errore di valutazione che scontò fino in fondo e con dignità, tanto da indurlo a rifiutare la carica senatoriale, costringerlo ad abbandonare l’attività politica e tornare
alla sua professione giornalistica e forense.
Percorsi politici diversi da parte di uomini in contatto anche professionale con Gobetti fanno perciò comprendere come in realtà, se vogliamo analizzare compiutamente le
riflessioni dell’intellettuale torinese in relazione al movimento cattolico, non possiamo limitarci al capitolo di “Rivoluzione Liberale”.
E’ pur vero che Gobetti non giunse subito ad un giudizio positivo sul popolarismo e, in un primo tempo, condivise le riserve proprie del mondo liberale del tempo; ma fu un
atteggiamento che negli anni in parte si modificò, vuoi per l’iniziale influsso del pensiero gramsciano, che lo rendeva più fiducioso nel vedere un Ppi liberale al di là delle
effettive intenzioni dei leader cattolici contemporanei, vuoi a causa del clima politico indotto dalla nascente dittatura fascista.
Gobetti, in virtù della sua concretezza di intellettuale–editore, inevitabilmente dimostrò una particolare attenzione agli esponenti del partito popolare che da subito si erano
schierati contro il fascismo: in sostanza, come abbiamo potuto comprendere fin dalla lettura di “Rivoluzione Liberale”, Luigi Sturzo e i gli uomini a lui più vicini.
Del resto Gobetti, riportando uno scritto del 1922, appena agli albori di quello che sarebbe stato il “ventennio” e ben prima delle leggi “fascistissime”, nell’ultimo capitolo
della sua opera più famosa aveva scritto: “né Mussolini né Vittorio Emanuele Savoia hanno virtù di padroni, ma gli italiani hanno bene animo di schiavi”. Era naturalmente
in sintonia con la battaglia politica portata avanti da Sturzo all’interno del suo partito in merito al rapporto con i nascenti gerarchi - “il nostro antifascismo prima che
un’ideologia è un istinto” (4).
Gobetti, subito dopo il successo della marcia su Roma, aveva colto i limiti di una politica trasformistica fino ad allora predominante e che non avrebbe avuto ragione di un
movimento che voleva “guarire gli italiani dalla lotta politica”.
Scontata invece (fin dal 1922) la sintonia con quello Sturzo, alle prese con i popolari di Meda, intenti, contro la sua volontà, a collaborare con Mussolini (5), e che invece
voleva gli italiani tutti “nella” politica; o per meglio dire in una nuova politica aliena dai trasformismi diseducativi ed egoistici del passato.
Inoltre l’atteggiamento pratico dell’uomo politico di Catalgirone da un lato poteva permettere il superamento dei limiti indotti dalle “intemperanze dogmatiche dei destri”
che “ponevano pregiudiziali e non problemi”, e dall’altro poneva un argine contro la “palingenesi demagogica dei sinistri” (6).
In altri termini, l’accento che lo scrittore torinese mise sul “messianesimo riformista di Sturzo”, inteso come impegno per indurre il popolo a credere alla politica attraverso
una pregiudiziale morale, allontanandolo da quelle degenerazioni, a suo dire tipiche della sua epoca, che significavano un falso riformismo ed invece un autentico
parassitismo ed utilitarismo, così come l’accento che pose sulle ragioni del suo impegno antitrasformista, nei fatti mostrano coerenza con il suo impegno intellettuale, volto
a dare voce alle correnti di quel cattolicesimo democratico indispensabile alla creazione di un clima di concreta solidarietà antifascista.
Gobetti non poteva non apprezzare l’impegno di Sturzo volto a superare i limiti del riformismo giolittiano che, secondo la sua opinione, erano innanzitutto la diseducazione
del proletariato operaio da parte dell’autorità costituita mediante azioni che portavano ad incentivare nei cittadini uno spirito parassitario ed utilitarista, e la mai risolta
questione dell’estraneità del proletariato all’organizzazione sociale.
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In questo senso Sturzo, con la sua intenzione di “educare” il popolo alla politica, facendogli dimenticare le prassi trasformistiche, era un “messianico del riformismo”.
Bartolo Gariglio, con il suo saggio “Con animo liberale”, pubblicazione non troppo recente e forse nemmeno troppo nota agli studiosi del settore, ha voluto indagare questo
aspetto dell’attività di Gobetti, grazie alla puntuale analisi dei carteggi con alcuni dei maggiori esponenti del popolarismo.
Probabilmente la coerente laicità dello scrittore, in un’Italia che ancora oggi non ha abbattuto molti degli storici steccati esistenti tra cultura cattolica e cultura laica, non ha
incentivato l’interesse della storiografia ad indagare più di tanto sui rapporti tra l’idea liberalsocialista e l’azione politica del partito di Sturzo: un motivo in più per
considerare l’epistolario pubblicato da Gariglio, frutto di ricerche presso il Centro Studi Piero Gobetti di Torino, un documento prezioso.
Vi riporto in breve alcuni significativi esempi.
Non poche lettere datate 1923-1925 ci permettono di interpretare sotto un’altra luce i giudizi su Guido Miglioli: si coglie una familiarità che potrebbe risultare sorprendente
per chi fino ad ora si fosse limitato a leggere gli articoli sul sindacalista cattolico, pubblicati sulle riviste edite da Gobetti, e dai contenuti decisamente critici
Se è assodato che anche le posizioni di popolari di destra come l’ormai anziano Filippo Meda e il sacerdote Ernesto Vercesi, furono oggetto di diffidenze e contrarietà
espresse sia all’interno dei periodici, sia nel più noto “Rivoluzione Liberale”, il carteggio, abbandonata la voluta polemica intellettuale e giornalistica, consente di
comprendere meglio certe ostilità ed anche di ridimensionarle.
La lettura dei documenti pubblicati in “Con animo liberale”, dimostrando una trama di contatti sicuramente molto ampia che comprende anche alcuni uomini politici come
Vittorio Buratti, Giuseppe Speranzini, Carlo Calcaterra e lo stesso Romolo Murri, che poi si legheranno più o meno durevolmente al regime, conferma quanto, negli
epistolari e nei rapporti professionali, siano stati privilegiati soprattutto quegli intellettuali cattolici che erano in sintonia con le posizioni di Luigi Sturzo e che perciò in
qualche modo potevano rappresentare una concezione laica e moderna del rapporto tra Stato e Chiesa e tra Stato e Società.
Gobetti, se pure non arrivò mai a rivalutare concretamente la Confederazione italiana dei lavoratori col suo interclassismo, e soprattutto la Chiesa intesa come gerarchia
ecclesiastica, a suo dire troppo condizionata da dogmatismo e da tendenze teocratiche, era convinto che Sturzo fosse di tutt’altra pasta, ben diverso dai clericali che lo
avevano preceduto.
Comprensibilmente un sacerdote che così si esprimeva non poteva non ricevere la stima del laico Gobetti: “E' superfluo dire perché non ci siamo chiamati ‘partito
cattolico’: i due termini sono antitetici; il cattolicesimo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione. Fin dall'inizio abbiamo escluso che la nostra insegna
politica fosse la religione, e abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito, che ha per oggetto diretto la vita pubblica della nazione” (dal Primo
congresso dei Popolari, Bologna, 14-16 giugno 1919).
Una stima che, come abbiamo detto, lo scrittore torinese dimostrò anche verso gli uomini più vicini all’impegno antifascista ed antitrasformista dell’uomo politico di
Catalgirone. Tra questi posso ricordare Giuseppe Donati, la cui intransigente attività nelle vesti di direttore del Popolo, se dopo pochi mesi di battaglie lo costrinse all’esilio,
fu nello stesso tempo il motivo principale che lo rese agli occhi di Gobetti “la mente critica del popolarismo”, con i suoi articoli e soprattutto con atti quali la sua coraggiosa
denuncia dell’ex direttore generale della polizia, il generale Emilio De Bono, per complicità nell’assassinio Matteotti.
Altri popolari che ricevettero grande attenzione da Gobetti furono Alcide De Gasperi (di cui però nel libro di Gariglio possiamo leggere una sola breve lettera), Giovanni
Gronchi (“il dialettico brillante”) e il modenese Francesco Luigi Ferrari, futuro organizzatore del Ppi all’estero (“è una specie di rivoluzionario liberale popolare; disposto a
non rifiutare alcuna conseguenza delle sue premesse democratiche”). (7)
Tra i destinatari e mittenti dell’epistolario, il più delle volte di argomento inerente l’attività editoriale del fondatore di “Rivoluzione Liberale” e di cui non pochi popolari
furono partecipi, Guido Lami, Vincenzo Mangano, Eugenio Libois, Igino Giordani, Vito Giuseppe Galati, Giuseppe Donati, Angelo Crespi, Vittorio Chauvelot, Armando
Cavalli, Antonino Anile ed Ernesto Bonaiuti.
Possiamo concludere dicendo che se l’opera più nota di Gobetti, frutto e sintesi delle sue esperienze giornalistiche precedenti, sviluppa le figure di soli tre esponenti
popolari, a voler porre attenzione alle altre sue opere meno note, ed in particolare all’ampio epistolario, si coglie come l’editore torinese concretamente sia stato uno degli
intellettuali più attenti ad analizzare e sostenere gli elementi di novità propri del partito di Sturzo, sia sul piano più strettamente politico, sia sul piano religioso.
(1) Piero Gobetti, La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia,
a cura di Gaspare De Caro, Einaudi, Torino 1965, pag. 60-61.
(2) Idem, pag. 74.
(3) Id., pag. 74.
(4) Id., pag. 178.
(5) Gabriele De Rosa, Luigi Sturzo, Utet, Torino 1977, pag. 230-32.
(6) Bartolo Gariglio, Con animo liberale. Piero Gobetti e i popolari: carteggi 1918-1926, Franco Angeli, Milano 1997, pag. 24-25.
(7) Id., pag. 31.
Sintesi Dialettica - per l'identità democratica
Rivista a carattere scientifico di storia e dottrina politica
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Tribunale civile di Roma N°162/2007 del 17 aprile 2007
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