edward hopper. silenzio e rappresentazione di un mattino di sole

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edward hopper. silenzio e rappresentazione di un mattino di sole
EDWARD HOPPER.
SILENZIO E
RAPPRESENTAZIONE DI UN
MATTINO DI SOLE
DI
IRENE BATTAGLINI
INNER UNDERGROUND
L’IMMAGINALE.
http://polopsicodinamiche.forumattivo.com
Prato, 21 settembre 2012
«Il tempo reale non esiste. Anche il Sole
non lo concepiamo in tempo reale, perché la
velocità della luce è relativa. Come tutto.
In questo senso, la realtà è inconcepibile»
Jean Baudrillard
La rappresentazione del reale è asservita all’Io in forza di una psicologia della percezione che
può tradire ancora prima di dire. Nel lavoro dell’americano Edward Hopper (1882-1967), la
percezione come sistema è antagonista alla realtà. La percezione è messa in discussione, è tirata
giù da ogni psicodinamica interpersonale, è scevra da qualsiasi forma di pudore, è un sistema da
stanare, è vissuta come frattura l’Io e il Mondo, è un sistema biologico di cui si serve per
imparare la realtà come se dovesse farne a meno. Egli è visionario ancor prima di imparare a
vedere, e nei suoi quadri è come colui che indulge nell’ammirare gli occhi di una medusa. Vive
la realtà con un profondo distacco e un amore di segretezze nude senza odore: vede qualche
cosa che ha che fare con la paralisi percettiva, quasi una percezione senza filtro, senza riferimenti
emotivi, un crash del sistema di decodificazione. Ed è in quel breakdown evolutivo che si apre il
varco di una luce ad un’altra lunghezza di onda. Il colore assorbe tanta più luce quanta più
necessità ha il pittore di innervarne la superficie degli oggetti. Le stanze, i letti senza impronte, le
finestre, i tavolini spogli, le tende immobili nel vento, i volti impastati delle donne, i passi di un
eterno sostare del dio nel suo tempio, irraggiunto e senza volto, poiché nessuno potrà
accarezzarne gli occhi.
Amato anche da John Cheever (J. Wolcott, 2009), Edward Hopper è stigmatizzato come il
padre del “Realismo Americano”, si ritaglia la scena nello iato senza crepe tra due faglie
inconciliabili, eguali, divise, il silenzio della realtà che si sente osservata, e la competizione
nervosa degli stimoli percettivi.
Hopper si scava un posto da suggeritore per lasciare il posto privilegiato al voyeur che
ammira le sue opere d’arte, e che fa esperienza vicaria di quell’istante lucidissimo e assoluto in
cui il pittore si fa crocevia, si fa tramite tra verità e illusione.
E’ innegabile la valenza socioculturale dell’opera di Edward Hopper, che vuole descrivere
anche il
vuoto sradicante, destruente, della solitudine di un’America dagli immensi spazi
desolati, in cui tutte le storie nascono e finiscono nello spazio estraneo e metafisico di un
quotidiano che erode le risorse della terra, del cielo, dei fiumi, del vento, aggrappandosi un
essere senza speranza, che si priva di ogni maschera, di ogni sostegno: il quotidiano spendersi
del tempo nel tempo, inconsolato, dio immane che non necessita di parola, di pianto, di
nostalgia, che non chiede il permesso a nessuno.
Sta di fatto che Hopper si fa carico di questa “vuotezza” antropometrica, che lega il sordo al
solo ritmo dei suoi passi, per conoscere nella dimensione umana la quasi-ombra dell’oggettività
estrema.
Morning Sun (1952) è l’esempio di una costruzione prassica che sguscia via dai linguaggi
conosciuti: il sole nella stanza è il convitato d’amore, accarezza, crea la tensione.
L’impianto prospettico e l’utilizzo rivoluzionario della tela in cui l’orizzonte si fa scorcio, e il
letto intonso diventa un proscenio fantastico, attualizza e sottolinea la padronanza
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II
dell’occasione, presentifica la voragine che fa da contraltare al giorno pieno, si potrebbe la
fenomenologia della stretta obbedienza al vero.
In questo tempio profanato dal verbo-sole ma non dissacrato, l’attesa si fa annunciazione, la
donna deve dire qualche cosa. Hopper la protegge perché non ci permette di incrociarne gli
occhi. La creatura deve riempirsi di soffio e di verbo e sottostare alla condizione umana.
Hopper fa questa operazione di meta-rappresentazione, in cui al profilo vivace si unisce il
mutismo indecifrabile di chi è in autentico ascolto. Decoro e nudità per la donna ingravidata dal
sole, in un gioco magistrale di azzurri e di terre senesi: la città è definita soltanto dalle torri
merlate rivisitate dallo stile architettonico di un’America fervida di oggetti giganteschi: ma il cielo
è azzurro, ed è un azzurro di oriente, di Europa.
Tuttavia non concordo con la lettura critica seconda la quale i colori in Hopper possano
essere letti in chiave psicologica, utilizzando il metro dell’associazione del colore all’emozione.
La mia idea è che i colori siano usati a titolo rappresentativo non della luce, ma di ciò che la luce
vuole fare. Della sua opera. Caldo e freddo sono percezioni della pelle, della terra di confine tra
dentro e fuori. E Hopper intende da subito trascendere questa legge fondamentale. Egli non si
adatta all’ermeneutica dei topoi, e fa uso moderato della metafora.
Tenta di farne a meno, si spinge all’originario, a toccare il punto di intersezione tra il
momento pre-linguistico e il momento in cui la Grande Madre – il femminile ctonio, la donnaterra – viene inondata dal fluviale e titanico Okeanós, origine di tutte le cose: annunciazione del
primo atto di comunicazione, avvento del primo sogno che deve fare spazio alla narrazione di
sé, parola Io si fa strada tra due ipotesi che non si conoscono ancora. La donna è la protagonista
di un problema esistenziale che si misura con la percezione: lo spazio. Hopper ne fa un uso
scultoreo. Egli è profeta in questo quadro, come in moltissimi altri capolavori, delle sorti
dell’arte contemporanea. La donna potrebbe essere la protagonista di una installazione della
pop-art, di uno scultore come George Segal, o un “ipperealista” come Ron Mueck, con il suo
vero che esacerba la sopportazione percettiva, o che ci costringe a rivedere le proporzioni
classiche, come Jeff Koons, ed allinearlo ad alcuni tentativi della fotografia di far sembrare
tangibile l’impermanente di una natura morta: in questo fu maestro Giorgio Morandi, i cui colori
dei muri-petali, le dosi di sole-stoffa, gli spigoli e la rarefazione delle cesure tra le superfici sono
per alcuni versi riconducibili ad un atteggiamento realistico.
Il realismo di Hopper è affrancato dal problema della storia dell’arte, dei rapporti con i
grandi impressionisti, dell’influenza dei Fauves: fa un passo in bassa marea, va a scovare la
scanalatura che sta dentro un profilo di labbra socchiuse e pensanti, va a vedere che cosa dice il
bordo di una finestra, vuole conoscere la tensione della camera vuota di un hotel quando ospita
suo malgrado una intimità di abiti e di libri.
La semiotica dello spazio sembra essere il luogo in cui la coscienza percettiva si fa dolore,
lamento, fiore che sboccia, crisalide che cede il passo alla propria mutazione.
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III
Il tema dell’annunciazione trova chiarificazione anche in Evening Wind (1921), che racconta
un mondo nel momento stesso del suo esistere.
Tutto entra nella giovane creatura umana, che difende gli occhi, avamposti della sua
privatezza, dall’oltraggiosa richiesta di unione portata dal vento, come Logos spermatikos, seme di
verità, effluvio divino, necessità di un oltre.
Il realismo di Hopper è di fatto “o-sceno”: il grande artista americano intendeva far parlare
quella fenomenologia della parola che si rappresenta nel suo silenzio, e che si dà a volte all’uomo
anche contro la sua volontà. Un sogno, una chiamata, un insight.
Ogni esperienza di certezza è preclusa a coloro che indagano la realtà in rapporto alla sua
rappresentazione.
Occorre abbandonare i manuali, le scale quantitative, le misure di falsificazione e
quell’orgoglioso ricorso al regno delle cose probabili, quando si tenta di dirimere la controversia
tra possibile e impossibile, tra vero e falso. Nel divario tra le due ali di una farfalla non si registra
alcuna probabilità, piuttosto si osserva il movimento preciso: la serena accettazione dell’ala di
avere una compagna gemella e irraggiungibile, speculare e vitale.
Edward Hopper ha fatto esperienza di sé e viaggio iniziatico nella dimensione conoscitiva
della luce che invade lo spazio, indagando con coerenza sperimentalista il piano dei piccoli
infiniti che si affastellano sulla tela.
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