A`Bas Guillaume

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A`Bas Guillaume
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Autrice
Chiara Cecchini
Classe 3B linguistico
Titolo della tesina a cui ho preso parte: Abissi inesistenti; sezione: Tesine triennio
Titolo : “A’ bas Guillaume”
Come un’introduzione
“Apollinaire è morto. Il poeta più artista che vivesse in Europa è morto. Mentre si scatenava per la
città la folla, dalla morte, in una gran smorfia di gioia, e gli stabili tremavano nella leggerezza delle
bandiere, lo vegliavo, cadavere sotto i fiori, nella camera dove restavano le cose che aveva avuto
più care. Tutto si trasfigurava in fiori ai suoi occhi abbagliati. [..]”1
“Apollinaire è morto. Il giorno della vittoria. […] L’ho trovato nella sua camera, dolcemente
coricato fra le cose che amava, coperto di fiori. L’ho visto coprire di terra al Père Lachaise. Pochi
giorni prima mi aveva mandato una cartolina dov’era rappresentato leggendo Lacerba, al mare.”2
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Dalla lettera scritta da Ungaretti a Raimondi poco dopo la morte dell’amico Apollinaire.
Estratto da una corrispondenza epistolare tra Ungaretti ed Ardegno Soffici.
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Ricevere una lettera da Apollinaire desta in me sempre una gioia genuina. Proprio a questo penso,
mentre in viaggio accarezzo distrattamente la ruvida busta di quella lettera e mi perdo e mi ritrovo
nei pensieri e nei ricordi. Accanto, un pacchetto di Toscani. Questa la richiesta precisa di un amico.
E sorrido al pensiero di lui che, con i tanto amati sigari tra i denti, insegue versi tra le volute del
fumo. Il viaggio dura molto: lo vedo dal volto stanco del conducente ma il tempo non mi tocca. Il
mare di pensieri irraggiungibili e la lotta per afferrarli occupano tutto lo spazio temporale del
viaggio. Sono distratto, così distratto che odo le grida solo quando si fanno insopportabili,
assordanti e sovrastanti persino il rumore dei miei pensieri. Incontro lo sguardo smarrito del
conducente che, giratosi, tenta di comunicare con me. Capto qualche parola disconnessa: un
“Monsieur3”, un “Que-est ce qui s’est passé?4” e nulla più. O quasi nulla. Sento infatti, il battito
vivo e impazzito della folla che si riversa nelle strade già gremite di Parigi. “A’ BAS
GUILLAUME!5” “A ‘ BAS GUILLAUME!”: la folla grida all’unisono e si muove con un passo
incerto a tratti correndo a tratti tremando, come un animale che è stato in gabbia per molto e che,
ubriaco di libertà, corre e barcolla via. Vedo e riconosco questi movimenti tra la folla: la folla che
ormai è un tutt’uno d’anime e corpi, un essere indipendente che si nutre del respiro libero di molti.
Alcune voci sono più alte e si ascoltano con chiarezza: “L’armistice a été signé!6”; e poi un’altra:
“La guerre est terminée!7” e un’altra ancora: “MON FILS!JE REVERRAI MON FILS!8”.
Scendo dal treno, piroetto su me stesso, le parole si confondono mentre i suoni rinascono in un coro
di voci.
“A’ BAS GUILLAUME!”: ormai questo è tutto ciò che sembra risuonare in me e mi spinge a
domandarmi: “Guillaume? Guillaume Apollinaire?” E’ un pensiero ingombrante, che mi picchia
dentro la testa e allora mi precipito, spintono, barcollo e tremante mi apro un varco tra il caos della
folla, in Boulevard Saint-Germaine.
“A’ BAS GUILLAUME!” sorpasso il numero 172, il caro Café de Flore dove ero solito recarmi per
le ardite discussioni.
Il movimento mi è sempre più difficile, sono impotente di fronte alla vastità della folla. “A’ BAS
GUILLAUME”: con fatica raggiungo la mia meta: Boulevard Saint-Germaine numero 202. Ed ecco
che, alzando lo sguardo tra le tante teste anonime, scorgo la finestra di Guillaume Apollinaire. Un
brivido mi percorre lungo la schiena. La finestra è chiusa. Non era mai stata chiusa quella finestra,
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“Signore” in francese.
“Cosa è accaduto?” in francese.
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“A basso Guillaume” in francese.
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“L’armistizio è stato firmato!” in francese.
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“La guerra è finita!” in francese.
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“Mio figlio! Rivedrò mio figlio!” in francese.
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tantomeno in un giorno come questo: con il cielo calmo e con la terra in fermento Qualcosa doveva
esser successo. E a mo’ di risposta la folla grida ancora più forte: “A’ BAS GUILLAUME!”. Ancora
una volta le urla mi destano dai miei pensieri e inizio a bussare ferocemente alla porta: “ouvre-moi!
C’est Ungaretti!9”; solo dopo qualche minuto qualcuno sembra riuscire ad udirmi e aprendomi
scorgo velocemente il volto di un uomo sulla quarantina ma non vedo neanche chi è, tale è lo
slancio che mi dò precipitandomi a salire le scale. La porta dell’appartamento è aperta e ciò che mi
colpisce da subito è un odore: l’odore di fiori. Fiori? Cosa ci fanno dei fiori nell’appartamento del
mio caro Apollinaire? Attraverso a grandi falcate la prima stanza, la sua preferita: la biblioteca.
Quella biblioteca che esercita su di me un magnetismo irresistibile tanto che, ancora una volta, non
posso farne a meno. Lo sguardo corre sui conosciuti vani in penombra che più volte Apollinaire
apriva per vantare le sue collezioni più pregiate di libri, manoscritti, strumenti musicali, feticci
africani (ricordo ancora come gli brillavano gli occhi quando parlava d’arte primitiva e vedo ancora
nitido il suo sguardo quando gli raccontavo del mio ricordo d’Africa); vecchie riviste, lettere e
fotografie ingiallite e qualche tela d’autore10. La mente ripercorre quegli attimi di tempo nella
nostra dimensione, seduti l’uno di fronte all’altro: io sempre con la schiena inarcata verso di lui
cercando di avvicinarmi il più possibile alle sue mani che tenevano quei rarissimi artefatti.
Sedevamo su quelle poltroncine di velluto che avevano perso il rosso brillante (ragione del loro
acquisto) ingrigendosi con il tempo. Quelle poltroncine che mettevano sempre un po’ di malinconia
ma dalle quali in ogni caso facevo fatica ad alzarmi quando il nostro tempo si esauriva ed ero
costretto ad andarmene da quel paradiso. Mi blocco di colpo. Sono arrivato alla sua stanza. L’odore
di fiori è più intenso, quasi insopportabile. Ciò che vedo subito è un letto, anzi il letto sul quale lui è
dolcemente disteso: le mani giunte; un velo nero sul volto; immobile e freddo. Dalla finestra chiusa
riesco ad udire più fievolmente ma sempre in tono concitato le grida. “A’ BAS GUILLAUME!”.
L’uomo che scriveva nel “Canto d’amore” dei rumori, dei brusii, dei tuoni, degli strilli, ora muore
tra le grida che riecheggiano in tutta la stanza vuota, o quasi: il letto di morte è al centro del
pavimento e, appeso sul nudo muro, il quadro di Picasso che sembra soffrire con me. Soffro! Soffro
terribilmente e mi sento più che mai un frammento, un relitto che reclama l’unione all’armonia
originaria persa, strappata da quel nulla che ora mi sembra così tangibile. Ora so che quell’unione
non avverrà mai e , come quando si frantuma uno specchio, raccoglierne le schegge ed unirle non
basta a ricreare il tutto: c’è sempre quel pezzo mancante che mi rende nostalgico dell’unità che
ora, forse, neanche più ricordo. Ho nostalgia: mi mancano quei momenti, quegli attimi, quelle ore
strappate al nulla. Ho nostalgia: mi manca il tempo passato con Apollinaire, magari in un caffè
letterario animato da una discussione e affumicato da un sigaro. Il grande, magnifico Apollinaire era
morto. Era morto. La parola riecheggiava nella mia mente, galleggiava come le tante parole scritte
sulle pagine bianche; parole pescate da un mare di pensieri nel quale ora forse non m’è più dolce
naufragare. Voglio solo fuggire da questi pensieri, da questi ricordi: voglio solamente salutare e
ricordare il mio amico, perché nel ricordo tutto rivive.
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“Apritemi! Sono Ungaretti!” in francese.
Descrizione rielaborata dalla lettura dell’articolo di Repubblica datato 20 agosto 1991 di Elena
Guicciardi.
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Spero ch’egli ora abbia trovato il suo sogno onesto11 in eterno e che non svanisca ogni volta che il
suo occhio si apre.12
Mi ritrovo a pensare ai denti di leone. Lessi da qualche parte il loro significato: “rimedio al
turbamento”; quei fragili fiori dai fragili semi, erano capaci di rimediare al tormento … Forse
dobbiamo passare in mezzo all’oscurità del dolore per riuscire a vedere la luce; forse siamo i semi
di quei fiori attaccati ad un gambo dai filetti piumosi che, come paracaduti per quando il seme si
staccherà per una folata di vento o per il sospiro d’un sognatore, viaggiano per tempi infiniti prima
di posarsi e dar origine alla vita. Ed è proprio questo che sento di essere ora: un seme solitario
portato via dal vento che vaga ovunque e da nessuna parte: in attesa. In attesa di vedere la vita. Mi
sento più che mai una docile fibra dell’universo in supplizio, che prega per ritrovare la sua unità
perché solo quando è in unione il frammento che sono, ha senso.
Ho bisogno di scrivere; di scrivere di questo, perché sono testimone della vita e della morte, perché
sono un sopravvissuto e in questo momento voglio solo ritrovare il mio grido: quel grido che è il
tessuto dell’esistenza. E allora apro la bocca per dire qualcosa, ma la bocca è impastata; non parlo
da ore. La richiudo dopo pochi secondi incapace di dare un senso alle parole che mi vorticano nella
testa: nessuna parola può parlare di ciò.
Ed è proprio qui, in questo momento che mi ritrovo ad osservare l’inesprimibile nulla.
La visione è accecante, barcollo e trovo appoggio nella porta da dove una volta entrato non mi sono
più mosso; a sorreggermi due anziane signore: chissà chi erano e chissà cosa mi stavano dicendo…
I suoni mi giungevano ovattati, ma nonostante questo riesco a dire “Laissez-moi seule13”. Protestano
un po’ma mi accontentano e mi lasciano finalmente solo. Osservo ancora un po’ ma più
cautamente. Il nulla, quale dolce visione…
Mi ritrovo ad essere di nuovo soldato quando ferito e sofferente vedevo le infermiere farsi strada tra
le troppe brandine, in mezzo ai troppi letti di un ospedale portando con loro fialette di morfina. Il
corpo in fremito veniva invaso da un calore improvviso e le ferite bruciavano alla vista, ma sapevi
che la sostanza era razionata; sapevi che probabilmente c’erano feriti più gravi e sapevi anche, che
quella piccola oasi nel deserto non era destinata a te. Mi ricompongo e sorrido. Sorrido perché
ancora una volta quel nulla di inesauribile segreto mi aveva sfiorato e lasciato in me la sua traccia,
donandomi molto più di quanto potessi chiedere: un ricordo dell’unità.
E ora ho la speranza che, forse, riuscirò a trascinare queste quattro ossa ancora per un altro giorno.
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Per sogno onesto si intende la poesia di Apollinaire: “Il gatto”.
“ E che non svanisca..” ripresa dalla poesia Torna l'inverno la mia anima è triste di Apollinaire.
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“Lasciatemi da solo” in francese.
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