Pensavo fosse solo una domanda di rito, che si facessero tutti i

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Pensavo fosse solo una domanda di rito, che si facessero tutti i
….e se non le piaciamo….
Pensavo fosse solo una domanda di rito, che si facessero tutti i genitori adottivi, e peraltro tutti mi
avevano sempre detto “ma vedrai che andrà tutto bene è una domanda che ci facciamo tutti, poi quando
vi vedrete vi innamorerete!”…Beh non è stato proprio così, ci siamo innamorate solo a casa e dopo
qualche mese. Adesso facciamo parte una dell’altra.
11 dicembre 2008. Eccolo qui sulla mia pelle il clima umido, caldo e assolato, dell’India, i suoi mille
profumi, i suoi vivaci colori che rendono variopinta una dignitosa povertà, il suo caos di persone, auto e
clacson.
Di tutto questo mi accorgo solo che cambia il paesaggio, che si fa un po’ più tropicale dal passare
dall’aeroporto di Bombay alla città di Madras, nell’attesa di un incidente d’auto da un minuto all’altro, nel
vociare caotico che ho intorno, sento con certezza: “siamo arrivati, è quella casa laggiù, potete
scendere”.
E così sotto un manto di umidità a trenta gradi, ho avuto un brivido di freddo, il sudore mi bagnava così
tanto le mani tremanti che sembrava le avessi appena lavate. Cinque anni si erano concretizzati in un
“qui e ora”.
Mi passa tutto e si crea spazio per una grande emozione. Si apre la porta. La vedo. Incrociamo gli occhi.
Ha paura. Ho timore ma mi avvicino; è chiaro non mi conosce si tira indietro e si nasconde dietro un sari
che le è tristemente (?) noto da 5 lunghi anni.
Io e “papà” ci abbassiamo per poterle sembrare più piccini, allunghiamo una mano per capire che non è
un sogno, lui la sfiora, ma io non riesco, si nasconde ancora di più.
Poi è obbligata da una donna in sari a chiamarci: mamy end daddy. Risponde thank you nel ritirare tra le
esili mani la bambola di pezza che le avevamo portato (che poi e ancora oggi, è chiamata Dolly).
E nella mia testa rimbomba “no, non doveva andare così, vi prego non obbligatela a chiamarmi mamma,
lasciatela stare, non la trascinate verso ciò che non vuole”; ma chi riesce a dirle quelle parole, è già tanto
che respiro e che non svengo. Lascio fare tutto a loro, e così ci troviamo a vedere la bambina che con le
sue compagne fa il ballo della scimmietta, si proprio quello: devono far vedere che sanno ballare e
cantare uno stupido motivetto in inglese, poi vogliono che facciano vedere a mamma e papà che sanno
tante parole in inglese, e giù una valanga di parole che hanno imparato a memoria nei giorni precedenti.
Non riesco a guardare più ciò che le fanno fare, guardo in giro, osservo il più possibile per catturare con
gli occhi – perchè in quello stato la macchina fotografica la uso a fatica - tutte le immagini dell’ambiente
in cui è vissuta, per poter un giorno raccontarle qualcosa. Con stupore vedo la nostra foto sbiadita
incastrata alla buona in un vetro di una credenza, poi vedo il bagno, la stanza da letto, la stanza dello
studio e del gioco, le pareti, gli arredi, i pochi giochi sotto chiave, il tutto immerso nelle bolle di sapone
colorate che ormai hanno riempito la stanza. Sei candidi respiri con le gonnelle ridevano e
schiamazzavano in giro, curiosandomi e studiandomi. Ma il mio cucciolo, no, era là che ripeteva a papà
che ancora la ascoltava, le parole che compiacevano tutti. Era triste lei, era triste e commosso papà.
La direttrice mi arriva alle spalle con in mano un bicchiere di succo di frutta ghiacciato, che oltre a farmi
venire una congestione, mi è servito per riprendere contatto con la realtà. Le bimbe erano tutte sedute
composte sul grande tappeto e ci guardavano tutte senza capire. Mi avvicino e riesco ad iniziare a
interagire con la bambina. Mi siedo vicino, le do un po’ di succo di frutta dal mio bicchiere, la accarezzo.
La sento. Sorrido. Lei no. Abbasso lo sguardo. Lei no. Ho più paura io di lei. Mi danno i suoi documenti, il
suo corredo in uno zainetto e poi mi invitano a cambiarla d’abito.
Sia io che la bambina facciamo tutto ciò che ci viene ordinato, senza parlare ma tenendoci gli occhi fissi
addosso. Appena mi dicono che siamo pronti e possiamo lasciare l’istituto mi sento quasi felice. Era
passata poco più di un’ora da quando eravamo entrati e nel frattempo si era fatta anche ora di pranzo.
I tempi erano tutti congestionati e lo sapevamo. Aeroporto, conoscenza della bambina in istituto, pranzo,
aeroporto, albergo.
Faccio per prendere in braccio la bambina, lei scappa. Non piange e mi guarda con più terrore di prima.
La prende in braccio la direttrice, non fa il minimo gesto di cedermela e io mi tiro indietro. L’altra mamma
italiana che era con me aveva invece la sua in braccio, si sorridevano. Ero triste, non felice come avevo
pensato poco prima.
Il viaggetto sul pulmino mi dondola come una foglia autunnale al vento, non sento niente e tengo gli
occhi fissi sulla bambina che quasi si addormenta. Tengo per sicurezza la mano avvolta in quella di mio
marito, che parla, sorride, sembra contento. Mi sento invisibile, credo che nessuno si accorga di me.
Meglio.
Siamo a pranzo, ma neanche qui va bene. Siedono la bimba vicino a me, provo a darle il cibo. Ha fame,
mangia. Le corrono delle lacrime sul viso e la paura nei suoi occhi non si placa. Vomita. Io non tocco cibo.
Tutti intorno pranzano abbastanza tranquilli.
La direttrice si alza e abbastanza bruscamente mi fa spostare, si siede al mio posto e senza badare
neppure un po’ ai sentimenti della bambina, la imbocca con delle pallottole paurose di cibo. Sono più
grandi della sua bocca, le mastica come può, come un automa. Io sono ora seduta di fronte con un nodo
che dalla gola arriva agli intestini e me li attorciglia. Sto male, sto veramente male. La guardo ma lei con
gli occhi nel piatto mastica fino a quando qualcun altro per lei decide che è sufficiente e che non ha più
fame.
Anche il pranzo si conclude velocemente, poi mio marito cerca di prendere in braccio la bambina, perché
con me non vuole ancora venire. No, neppure con lui. La direttrice mi chiama mi fa capire che la devo
prendere in braccio a forza e che mi devo dirigere con lei verso il pulmino con cui siamo arrivati e che non
devo più tornare indietro. Quello sarà il momento del taglio del suo cordone ombelicale. La ascolto, la
stringo….mamma mia come è piccola, fragile, trema, la vorrei posare. Non posso. Non posso perché è
bello averla tra le braccia e non posso perché devo andare via con lei.
Dieci passi, chiudiamo la porta alle nostre spalle, lei non vede più l’unico mondo che conosceva fino a
quel momento. Ora è in braccio ad un mostro brutto e cattivo che la porta via. Ha ragione. Piange e
piango. Urla. Si dibatte come un’anguilla, mi tira le orecchie, i capelli, mi da calci, pugni, schiaffi, graffia.
Mio dio cosa faccio, mi giro verso la porta che avevo appena chiuso, una voglia enorme di tornare indietro
mi tirava per le gambe, il cuore e la testa mi dicevano di andare verso il pulmino.
Il padre salesiano che ci aveva accompagnati fino a quel momento e che in passato aveva risolto non
pochi problemi, apre quella maledettissima porta, sorride, mi guarda, mi fa segno di stringere con più
forza la bambina, e mi congeda con il segno della croce. E’ l’unica persona, fino a quel momento che si è
accorta di me, mi sembrava mi avesse letta dentro. La bambina si calma all’istante sotto la mia forte
presa. Non trema più, è immobile. Appoggia la testa sulle spalle, avvolge le gambe al mio bacino, mi
mette le braccia attorno al collo e si lascia andare abbandonata a me.
Che tristezza. No, non doveva andare così.
Il viaggio sul pulmino e poi sull’aereo non lo sente più di tanto, appena le è possibile si addormenta e
quando è sveglia talvolta vomita. Gli occhi non cambiano espressione. Cammina e tira dietro di se, un
elefantino verde con le ruotine attaccato ad una cordicella che mentre avanza scuote la coda, la
proboscide e la testa va a destra e sinistra come voler dire sempre no. Secondo me è rassegnata e l’unica
consolazione e che come gira lo sguardo vede l’altra sua compagna di istituto in braccio all’altra mamma.
L’altra bimba pare più rilassata, sorride, pare si relazioni già con la famiglia. Certo è anche più piccola di
quasi tre anni. Lei è grande!
Siamo tutti stanchissimi. Arriviamo in albergo, la bambina si mette con le spalle alla porta di ingresso
della nostra camera e sta in piedi, lì, ciondolandosi a destra e a sinistra. Se io mi avvicino si tira indietro e
si rannicchia per terra come una preda che fugge al suo predatore.
Mio marito riesce ad avvicinarla, le tende la mano, lei la afferra e sotto il mio stupore e somma invidia
riescono a giocare con un piccolo trenino.
Li vedo, seduti li per terrà che si passano tra le mani il trenino. Lui la guarda negli occhi e lei ricambia,
almeno con lui non ha quello sguardo. Mi crolla il mondo addosso. Non sono capace, cosa ho fatto, perché
sono qui. Mollo tutto e torno in Italia, li lascio lì.
Nello specchio del bagno mi guardo. Sto piangendo, non mi capisco, ho addosso un sentimento che non
ho mai provato, mi faccio paura.
Nel frattempo diventa ora di dormire. E meglio che io stia da parte, lei non mi riconosce, non mi vuole, le
faccio paura. Mio marito ce l’ha in braccio, riesce a distendersi sul letto, ma non la può svestire, lei non
vuole, non le può togliere le scarpe, lei non vuole. Mio marito si distende sul letto vestito con lei sopra. Io
mi avvicino e a lei ritorna quello sguardo negli occhi. Mi allontano e lei si rassicura un po’. Sono a pezzi.
Lei crolla dalla stanchezza, la sua testa appoggiata sul petto di papà che sale e scende lenta ad ogni
respiro. Mio marito mi guarda, lo vedo, lo sento che mi capisce, ma io in quel momento quasi li odio
entrambi.
Mi avvicino al letto, crollo anch’io e, vestiti, ci troviamo tutti e tre rapiti dal sonno ed ognuno dalle sue
paure. Al mattino siamo in tre, incredibilmente avvolti ed abbracciati. La notte ci ha fregati. Lei apre gli
occhi, mi vede, ha ancora paura ma almeno non scappa.
Per i due giorni successivi, sabato e domenica, sta volentieri con suo papà, si relaziona, mi osserva
tenendomi a debita distanza. Si è però già fatta lavare, pettinare e vestire. Non mi da la mano, non mi
tocca fisicamente, non mi sorride. Io sto per crollare.
Mio marito mi aiuta, mi è vicino, fa ogni cosa con lei cercando di coinvolgermi.
Sono passati tre giorni, è domenica pomeriggio dopo pranzo, si sta facendo una passeggiata, mio marito
la obbliga a darmi la mano e quasi lei piange, poi tra me e mio marito uno sguardo di intesa, facciamo
una piccola corsetta e al “tre” la solleviamo verso il cielo, la facciamo tornare a toccare terra e al “tre” di
nuovo verso il cielo!
Ride. Sta ridendo. Guarda mio marito, gli butta le braccia al collo e ride, io rido per la prima volta. Lei
allunga le braccia verso di me. Vuole che la prendo in braccio. Finalmente!!
Di li è stato un crescere di emozioni, di risate, di abbracci e baci.
Ora io e mia figlia viviamo con lo stesso cuore che pulsa, con lo stesso respiro.
Mi vuole bene, lo so. Le voglio bene, lo so.
Ma anche quando dice “mamma ti voglio bene grande come cielo” non si cancellerà mai il giorno in cui si
è chiusa quella porta del ristorante.