schede film des 2017
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schede film des 2017
Lo chiamavano Jeeg Robot 21 gennaio 2017 Un film di Gabriele Mainetti Con Claudio Santamaria, Luca Marinelli, Ilenia Pastorelli, Stefano Ambrogi Azione, durata 112 min. - Italia 2015 Quello tentato da Gabriele Mainetti è un superhero movie classico, con la struttura, le finalità e l'impianto dei più fulgidi esempi indipendenti statunitensi. Pensato come una "origin story" da fumetto americano degli anni '60, girato come un film d'azione moderno e contaminato da moltissima ironia che non intacca mai la serietà con cui il genere è preso di petto, Lo chiamavano Jeeg Robot si muove tra Tor Bella Monaca e lo stadio Olimpico, felice di riuscire a tradurre in italiano la mitologia dell'uomo qualunque che riceve i poteri in seguito a un incidente e che, attraverso un percorso di colpa e redenzione, matura la consapevolezza di un obbligo morale. Il risultato è riuscito oltre ogni più rosea aspettativa, somiglia a tutto ma non è uguale a niente, si fa bello con un cast in gran forma. Lo chiamavano Jeeg Robot è un trionfo di puro cinema, di scrittura, recitazione, capacità di mettere in scena e ostinazione produttiva, un lungometraggio come non se ne fanno in Italia, realizzato senza essere troppo innamorati dei film stranieri ma sapendo importare con efficacia i loro tratti migliori. Soprattutto è un'opera che si fa portatrice di una visione di cinema d'intrattenimento priva di boria e snoberia intellettuale, una boccata d'aria fresca per come afferma che il meglio di quest'arte non sta nel contenuto o nel tema ma nella forma. A cura di Lo chiamavano Jeeg Robot 21 gennaio 2017 Un film di Gabriele Mainetti Con Claudio Santamaria, Luca Marinelli, Ilenia Pastorelli, Stefano Ambrogi Azione, durata 112 min. - Italia 2015 Quello tentato da Gabriele Mainetti è un superhero movie classico, con la struttura, le finalità e l'impianto dei più fulgidi esempi indipendenti statunitensi. Pensato come una "origin story" da fumetto americano degli anni '60, girato come un film d'azione moderno e contaminato da moltissima ironia che non intacca mai la serietà con cui il genere è preso di petto, Lo chiamavano Jeeg Robot si muove tra Tor Bella Monaca e lo stadio Olimpico, felice di riuscire a tradurre in italiano la mitologia dell'uomo qualunque che riceve i poteri in seguito a un incidente e che, attraverso un percorso di colpa e redenzione, matura la consapevolezza di un obbligo morale. Il risultato è riuscito oltre ogni più rosea aspettativa, somiglia a tutto ma non è uguale a niente, si fa bello con un cast in gran forma. Lo chiamavano Jeeg Robot è un trionfo di puro cinema, di scrittura, recitazione, capacità di mettere in scena e ostinazione produttiva, un lungometraggio come non se ne fanno in Italia, realizzato senza essere troppo innamorati dei film stranieri ma sapendo importare con efficacia i loro tratti migliori. Soprattutto è un'opera che si fa portatrice di una visione di cinema d'intrattenimento priva di boria e snoberia intellettuale, una boccata d'aria fresca per come afferma che il meglio di quest'arte non sta nel contenuto o nel tema ma nella forma. A cura di Io, Daniel Blake 4 febbraio 2017 Un film di Ken Loach Con Dave Johns, Hayley Squires, Dylan McKiernan, Briana Shann, Kate Runner Titolo originale I, Daniel Blake Drammatico, durata 100 min. - Gran Bretagna, Francia 2016 A cinquantanove anni, il carpentiere Daniel Blake di Newcastle, dopo un infarto che l’ha reso inabile al lavoro si ritrova a combattere con le burocrazie del welfare britannico che stritola le fasce di reddito più deboli. Sulla sua strada incontra una giovane madre single alle prese anche lei con le difficoltà del quotidiano. Vincitore del Festival di Cannes 2016 “Io, Daniel Blake”, diretto da Ken Loach e scritto dal fedele Paul Laverty è un film nobilmente indignato, impegnato e frontale. Bisogna riconoscere che Loach usa un linguaggio quasi elementare; che, tuttavia, risponde in pieno al suo progetto. Lui dichiara di voler osservare i personaggi con empatia, come da un angolo dell'ambiente in cui questi si trovano: mantenendo la giusta distanza senza però perdere la capacità di emozionarsi. Nessuno infatti sa restare semplice, credibile e concreto meglio di questo grande creatore di personaggi, che illumina tragedie invisibili con la pazienza e la precisione di chi non si rassegna a considerare normale ciò che è aberrante, ma ci mostra con ostinazione a cosa porta l'assetto economico e tecnologico oggi dominante. Restando fedele al suo cinema ma variandone continuamente toni e colori, con un'attenzione che è anche segno di rispetto e di amore per gli spettatori. A cura di Io, Daniel Blake 4 febbraio 2017 Un film di Ken Loach Con Dave Johns, Hayley Squires, Dylan McKiernan, Briana Shann, Kate Runner Titolo originale I, Daniel Blake Drammatico, durata 100 min. - Gran Bretagna, Francia 2016 A cinquantanove anni, il carpentiere Daniel Blake di Newcastle, dopo un infarto che l’ha reso inabile al lavoro si ritrova a combattere con le burocrazie del welfare britannico che stritola le fasce di reddito più deboli. Sulla sua strada incontra una giovane madre single alle prese anche lei con le difficoltà del quotidiano. Vincitore del Festival di Cannes 2016 “Io, Daniel Blake”, diretto da Ken Loach e scritto dal fedele Paul Laverty è un film nobilmente indignato, impegnato e frontale. Bisogna riconoscere che Loach usa un linguaggio quasi elementare; che, tuttavia, risponde in pieno al suo progetto. Lui dichiara di voler osservare i personaggi con empatia, come da un angolo dell'ambiente in cui questi si trovano: mantenendo la giusta distanza senza però perdere la capacità di emozionarsi. Nessuno infatti sa restare semplice, credibile e concreto meglio di questo grande creatore di personaggi, che illumina tragedie invisibili con la pazienza e la precisione di chi non si rassegna a considerare normale ciò che è aberrante, ma ci mostra con ostinazione a cosa porta l'assetto economico e tecnologico oggi dominante. Restando fedele al suo cinema ma variandone continuamente toni e colori, con un'attenzione che è anche segno di rispetto e di amore per gli spettatori. A cura di Il club 18 febbraio 2017 Un film di Pablo Larrain Con Roberto Farías, Antonia Zegers, Alfredo Castro, Alejandro Goic Titolo originale El Club Drammatico, durata 98 min. - Cile 2015. V.M. 14 anni In uno sperduto paesino sulla costa cilena, vivono ritirati in una casa di penitenza un gruppo di preti colpevoli di abusi commessi durante gli anni di sacerdozio. Con la supervisione di una suora passano le giornate ad allevare un levriero da corsa e che sperano di portare un giorno a competizioni nazionali, ma all’arrivo di un nuovo prete il loro isolamento finisce drammaticamente. Un suicidio e la conseguente indagine interna porteranno alla luce le loro gravi colpe e riporteranno un ordine nel club. Larrain è regista impegnato da sempre a denunciare le pagine più buie della storia cilena, lo ha fatto lucidamente facendosi notare con la sua trilogia sulla dittatura di Pinochet, e con “El club” (in concorso al 65° festival di Berlino) passa oggi ad occuparsi, con la stessa vena ironica, sottile e nerissima, dell’odioso problema della pedofilia e in generale della malversazione cancri di certi ambienti cattolici. Sullo sfondo di La Boca, cittadina cilena sospesa tra terra e oceano, trasfigurata dalla fotografia in stile Tarkovskij (il film è girato con ottiche russe, a volerne ricalcare gli allucinati paesaggi), si svolge la vicenda di un manipolo di impenitenti ex curati. Sono i componenti del club, cattivi fino al midollo, isolati non solo dal resto del mondo ma soprattutto da loro stessi e resi ancor più mostruosi dal susseguirsi dei primi piani o delle inquadrature. Mentono sistematicamente, nascondo i loro vizi e si auto commiserano per i delitti, vivono in una nicchia di cui sono complici ed emblemi dei peggiori atteggiamenti della chiesa cattolica, la stessa che teme la giustizia laica, si nasconde dietro i processi religiosi ed è reticente ad individuare chi abusa e chi offende. Ma sarà ironicamente proprio l’agnello sacrificale a dare loro l’ultima speranza di redenzione a cui stavolta non potranno più sottrarsi. A cura di Il club 18 febbraio 2017 Un film di Pablo Larrain Con Roberto Farías, Antonia Zegers, Alfredo Castro, Alejandro Goic Titolo originale El Club Drammatico, durata 98 min. - Cile 2015. V.M. 14 anni In uno sperduto paesino sulla costa cilena, vivono ritirati in una casa di penitenza un gruppo di preti colpevoli di abusi commessi durante gli anni di sacerdozio. Con la supervisione di una suora passano le giornate ad allevare un levriero da corsa e che sperano di portare un giorno a competizioni nazionali, ma all’arrivo di un nuovo prete il loro isolamento finisce drammaticamente. Un suicidio e la conseguente indagine interna porteranno alla luce le loro gravi colpe e riporteranno un ordine nel club. Larrain è regista impegnato da sempre a denunciare le pagine più buie della storia cilena, lo ha fatto lucidamente facendosi notare con la sua trilogia sulla dittatura di Pinochet, e con “El club” (in concorso al 65° festival di Berlino) passa oggi ad occuparsi, con la stessa vena ironica, sottile e nerissima, dell’odioso problema della pedofilia e in generale della malversazione cancri di certi ambienti cattolici. Sullo sfondo di La Boca, cittadina cilena sospesa tra terra e oceano, trasfigurata dalla fotografia in stile Tarkovskij (il film è girato con ottiche russe, a volerne ricalcare gli allucinati paesaggi), si svolge la vicenda di un manipolo di impenitenti ex curati. Sono i componenti del club, cattivi fino al midollo, isolati non solo dal resto del mondo ma soprattutto da loro stessi e resi ancor più mostruosi dal susseguirsi dei primi piani o delle inquadrature. Mentono sistematicamente, nascondo i loro vizi e si auto commiserano per i delitti, vivono in una nicchia di cui sono complici ed emblemi dei peggiori atteggiamenti della chiesa cattolica, la stessa che teme la giustizia laica, si nasconde dietro i processi religiosi ed è reticente ad individuare chi abusa e chi offende. Ma sarà ironicamente proprio l’agnello sacrificale a dare loro l’ultima speranza di redenzione a cui stavolta non potranno più sottrarsi. A cura di Florida 4 marzo 2017 Un film di Philippe Le Guay Con Jean Rochefort, Sandrine Kiberlain, Anamaria Marinca, Laurent Lucas Titolo originale Floride Commedia, durata 110 min. - Francia 2015 Claude Lherminier è stato proprietario e dirigente di un'importante cartiera di Annecy ed è ora un ottantenne che inizia a sentire, senza volerli ammettere, i primi importanti segni della demenza senile. La figlia Carole, che lo ha sostituito nella direzione aziendale, cerca di occuparsene affidandolo a badanti che lui mette, più o meno scientemente, in difficoltà. C'è poi un suo desiderio ricorrente al quale non vuole rinunciare: rivedere l'altra figlia, Alice, che vive in Florida. Dopo averci regalato due piccoli gioielli della cinematografia d' Oltralpe (Le donne del 6° piano e Molière in bicicletta), Philippe Le Guay rivolge il proprio sguardo a quel momento difficile nella vita di molti in cui i figli si trovano a divenire genitori dei propri genitori. Da una parte c'è la fortuna di avere il padre (o la madre) ancora in vita ma dall'altra c'è il 'peso' di gestirne le apparenti stravaganze che sono invece segni del progredire del disagio psichico. Si ride grazie a questo film, e sotto l'attento controllo di Le Guay che conosce il senso della misura, le risate non sono mai troppo amare. A cura di Florida 4 marzo 2017 Un film di Philippe Le Guay Con Jean Rochefort, Sandrine Kiberlain, Anamaria Marinca, Laurent Lucas Titolo originale Floride Commedia, durata 110 min. - Francia 2015 Claude Lherminier è stato proprietario e dirigente di un'importante cartiera di Annecy ed è ora un ottantenne che inizia a sentire, senza volerli ammettere, i primi importanti segni della demenza senile. La figlia Carole, che lo ha sostituito nella direzione aziendale, cerca di occuparsene affidandolo a badanti che lui mette, più o meno scientemente, in difficoltà. C'è poi un suo desiderio ricorrente al quale non vuole rinunciare: rivedere l'altra figlia, Alice, che vive in Florida. Dopo averci regalato due piccoli gioielli della cinematografia d' Oltralpe (Le donne del 6° piano e Molière in bicicletta), Philippe Le Guay rivolge il proprio sguardo a quel momento difficile nella vita di molti in cui i figli si trovano a divenire genitori dei propri genitori. Da una parte c'è la fortuna di avere il padre (o la madre) ancora in vita ma dall'altra c'è il 'peso' di gestirne le apparenti stravaganze che sono invece segni del progredire del disagio psichico. Si ride grazie a questo film, e sotto l'attento controllo di Le Guay che conosce il senso della misura, le risate non sono mai troppo amare. A cura di In guerra per amore 18 marzo 2017 Un film di Pif Con Pif, Andrea Di Stefano, Sergio Vespertino, Maurizio Bologna, Miriam Leone Drammatico, durata 99 min. - Italia 2016 Francesco Diliberto (più conosciuto come Pif), nel suo secondo film da regista, "In guerra per amore", torna a parlare della sua amata Sicilia e della piaga della mafia. Proprio come nella sua folgorante pellicola d'esordio, "La mafia uccide solo d'estate", di cui ricalca fedelmente il messaggio di denuncia, unisce la storia di personaggi comuni a quella del nostro paese, usando ironia e alone fiabesco come diversivi salvifici in un racconto altrimenti ostaggio dell'amarezza. Pif quindi, col pretesto di narrare un amore, illustra l’origine dell’ascesa della mafia nel dopoguerra e mostra come Cosa Nostra sia una scomoda eredità lasciata da interessi politici. Il coefficiente di difficoltà insito nella direzione di un film di questo genere è senz'altro maggiore rispetto a quello di "La mafia uccide solo d'estate", ma la crescita registica di Pif è evidente. Non sono soltanto presenti soluzioni visive più ricercate ma anche piccole intuizioni felici come il tormentone del selfie ante-litteram o la battaglia tra la statua della Madonnina e quella del Duce. La comicità e i drammi di tanti grandi personaggi minori condiscono la pellicola di un retrogusto agrodolce. "In guerra per amore" intrattiene, diverte ed ha un finale volutamente stonato, di grande impatto, che squarcia l'alone poetico e rassicurante di cui è ammantato il film. Una chiusa disarmante e feconda, che resta addosso allo spettatore. A cura di In guerra per amore 18 marzo 2017 Un film di Pif Con Pif, Andrea Di Stefano, Sergio Vespertino, Maurizio Bologna, Miriam Leone Drammatico, durata 99 min. - Italia 2016 Francesco Diliberto (più conosciuto come Pif), nel suo secondo film da regista, "In guerra per amore", torna a parlare della sua amata Sicilia e della piaga della mafia. Proprio come nella sua folgorante pellicola d'esordio, "La mafia uccide solo d'estate", di cui ricalca fedelmente il messaggio di denuncia, unisce la storia di personaggi comuni a quella del nostro paese, usando ironia e alone fiabesco come diversivi salvifici in un racconto altrimenti ostaggio dell'amarezza. Pif quindi, col pretesto di narrare un amore, illustra l’origine dell’ascesa della mafia nel dopoguerra e mostra come Cosa Nostra sia una scomoda eredità lasciata da interessi politici. Il coefficiente di difficoltà insito nella direzione di un film di questo genere è senz'altro maggiore rispetto a quello di "La mafia uccide solo d'estate", ma la crescita registica di Pif è evidente. Non sono soltanto presenti soluzioni visive più ricercate ma anche piccole intuizioni felici come il tormentone del selfie ante-litteram o la battaglia tra la statua della Madonnina e quella del Duce. La comicità e i drammi di tanti grandi personaggi minori condiscono la pellicola di un retrogusto agrodolce. "In guerra per amore" intrattiene, diverte ed ha un finale volutamente stonato, di grande impatto, che squarcia l'alone poetico e rassicurante di cui è ammantato il film. Una chiusa disarmante e feconda, che resta addosso allo spettatore. A cura di