Introduzione
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Introduzione
Introduzione Prendete Londra, una città che esisteva già parecchi secoli prima che qualcosa di simile all’Inghilterra venisse anche solo concepito. Ha un senso di sé e della propria identità decisamente più forte rispetto all’Inghilterra o alla Gran Bretagna nel suo complesso. Si sviluppa da duemila anni, strato dopo strato, e accoglie una generazione dopo l’altra di nuovi arrivati. Deyan Sudjic, Cities on the Edge of Chaos I miei primi ricordi risalgono alla Londra degli anni Quaranta, con i treni rossi della metropolitana che sfrecciavano tra i tetti, perché questo era ciò che vedeva un bambino di tre anni affacciato a una fuligginosa finestra del secondo piano a guardare i convogli della Metropolitan Line in viaggio verso Hammersmith. E poi la corsa con una banda di ragazzini del posto a comprare patatine al negozio di fish & chips all’angolo; dovetti dare a loro i soldi per pagare perché ero così basso che non arrivavo al bancone. Ma erano i ricordi di una visita. I miei genitori avevano vissuto a Londra prima della guerra, mio padre faceva il tranviere ma, quando poi si era arruolato per combattere contro i nazisti, mia madre era tornata dalla sua famiglia nelle Cotswolds. Di conseguenza, sebbene mi abbiano raccontato che molto probabilmente ero stato concepito a Londra, sono nato nelle Cotswolds. Ho sempre avuto la sensazione che ci sia stato un errore. Dopo la smobilitazione mio padre era tornato a fare l’autista di autobus per il London Transport, perciò andavamo spesso a trovarlo a Londra. A causa dei bombardamenti però c’era una grave penuria di alloggi e tornare a viverci tutti era impossibile. Alla fine lui ottenne un impiego nelle Cotswolds e ci abituammo alla vita in XIV London Calling campagna. Ma non dimenticai mai Londra e per tutta l’infanzia sognai ardentemente la città. Sul pullman tra Cheltenham e Cirencester immaginavo lungo tutto il percorso che ci fosse una fila di case su ogni lato, che nascondeva alla vista gli alberi e i campi. Nel 1959, poco dopo aver compiuto sedici anni, feci un giro in autostop con un amico sulla costa meridionale: Sulla strada di Jack Kerouac in tasca, le notti trascorse nei fienili e Londra come meta finale. Avevo un cugino, la cui famiglia aveva trovato una nuova sistemazione in un prefabbricato di Wembley, e dal momento che l’anno precedente avevamo esplorato insieme Soho, io e il mio amico ci recammo laggiù, l’unica parte della città che conoscessi. Andammo al 2i’s Coffee Bar e alla Partisan Coffee House su Carlisle Street, dove un uomo barbuto che portava occhiali da sole anche la sera strimpellava la chitarra, mentre la gente seduta qua e là giocava a scacchi e beveva caffè in bicchieri di vetro. Finimmo la serata in fondo alla strada, a due case da Soho Square, a bere vino con i camerieri del La Roca Spanish Restaurant, ora ribattezzato Toucan Irish Bar. Per quella notte ci permisero di srotolare i sacchi a pelo nel seminterrato, tra le rastrelliere per il vino e gli scaffali di piatti e tovaglioli. Per un adolescente delle Cotswolds quello era il massimo della vita bohémien, proprio il genere di cose che forse anche Kerouac aveva fatto. Questa era la vita che volevo. Avevo deciso che avrei abitato a Londra, e negli anni trascorsi all’Accademia di Belle Arti venivo in città in autostop non appena potevo, sistemandomi su divani o pavimenti, e qualche volta persino in un letto accogliente. Nel 1963 raggiunsi il mio scopo. Abitai in Baker Street, Westbourne Terrace, Southampton Row e Lord North Street prima di stabilirmi a Fitzrovia, quasi quarant’anni fa. London Calling, ‘Qui parla Londra’, furono le prime parole che si udirono in tutto il paese dalle crepitanti radio a galena quando, il 14 novembre 1922, il trasmettitore 2lo, di quella che sarebbe diventata la bbc, andò in onda per la prima volta. La radio era il massimo della modernità e l’espressione fece velocemente presa, tanto che Noel Coward lanciò un nuovo spettacolo musicale intitolato London Calling! Da allora queste parole hanno avuto un profondo legame emotivo con la capitale. Gli speaker della bbc si annunciavano sempre con le parole “London Calling”, e nel corso della guerra portavano messaggi di speranza, e talvolta notizie spaventose, alle persone riunite intorno ad apparecchi radio clandestini nei paesi occupati dai nazisti. La bbc si faceva un dovere di descrivere nel dettaglio le sconfitte prima che la macchina della propaganda nazista Introduzione XV le potesse sfruttare, perché in tal modo, era alla bbc che la popolazione avrebbe creduto in caso di buone notizie o di chiamata alle armi. Persino quando la Broadcasting House fu colpita, lo speaker Bruce Belfrage proseguì la trasmissione senza batter ciglio, malgrado venisse investito da una pioggia di intonaco e polvere. Tutto ciò che gli ascoltatori udirono fu un ‘boato’ lontano nel momento in cui la raccolta di dischi e due studi crollarono, uccidendo sette persone. Anche adesso, per milioni di persone oltreoceano, London Calling rappresenta il segnale di chiamata del bbc World Service, che dà notizie non censurate e, per molti ascoltatori, lezioni di inglese gratuite. Edward R. Murrow apriva sempre le corrispondenze serali per la cbs dalla capitale danneggiata dalla guerra con le parole: “Buonasera America. Qui parla Londra”, sollecitando il sostegno all’Inghilterra, nella speranza che gli americani prima o poi entrassero in guerra. Al giorno d’oggi, in Gran Bretagna, London Calling richiama subito alla mente il titolo del singolo dei Clash e del loro album migliore, un titolo che deriva appunto da questa memoria collettiva. L’espressione evoca una commistione di sentimenti: nostalgia, storia e orgoglio, ricordi e fantasie. A qualcuno in provincia provoca un ribollente sospetto nei confronti dei ‘londinesi modaioli’, ma perlopiù echeggia un luogo a cui aspirare, la fonte di tanto benessere, arte e cultura. A differenza degli Stati Uniti e di molti altri paesi, in Gran Bretagna la capitale culturale, quella politica e quella finanziaria coincidono. Per diventare leader di uno qualsiasi di questi settori, bisogna trasferirsi a Londra. L’addetto stampa dei Beatles, Derek Taylor, non scherzava quando ipotizzò che il ‘quinto Beatle’, creato da innumerevoli speculazioni giornalistiche, fosse in realtà Londra; è qui che hanno fatto le cose più importanti. Questo libro è dedicato alla vita creativa di Londra e, più in particolare, alla sua vita bohémien, ai beatnik, agli hippie e alla controcultura dalla Seconda guerra mondiale in poi. Poiché non è un’enciclopedia, in linea di massima racconto di gente conosciuta di persona, o le cui opere mi sono più note, e dunque parlo della galleria B2 di Wapping Wall ma non di quella ugualmente importante di Butler’s Wharf, la 2B; dei COUM Transmissions e di Genesis P-Orridge ma non di Bow Gamelan e Paul Burwell, autori di opere altrettanto interessanti. La materia relativa al rock ’n’ roll underground è complessivamente troppo vasta per questo libro, ed è già stata analizzata in centinaia di volumi; affronto direttamente l’argomento soltanto a proposito dei gruppi punk. Il mondo del jazz, la vita dei musicisti neri e dei jazzisti americani passati da Londra dovrebbe, di diritto, essere inclusa, ma è in gran parte estranea XVI London Calling alla mia esperienza. Fortunatamente Val Wilmer ne ha già scritto una storia straordinaria nel suo libro Mama Said There’d be Days Like These. In realtà, cercare di affrontare tutti gli aspetti dell’avanguardia, o delle attività trasgressive di Londra, mi avrebbe condotto “in campi di infinita ricerca” come ha detto Ruskin. Mi sono concentrato su individui che trasformano in arte la propria vita, che vivono nella controcultura, più che esprimersi su di essa, su coloro che vogliono trasformare la società – e non necessariamente dall’interno. Desideravo inoltre rendere il libro accessibile e divertente, poiché l’umorismo è un aspetto spesso trascurato dell’avanguardia, perciò molti aneddoti sono stati scelti unicamente per amor di leggerezza. La vita underground di qualsiasi città, Parigi, Berlino o New York, e anche di posti più piccoli come San Francisco, Amsterdam e Copenhagen, si modella non soltanto in base alla situazione sociale e politica predominante, ma anche a seconda dell’urbanizzazione del territorio: la disponibilità di alloggi economici, la quantità di caffè, bar e luoghi di incontro, la presenza di gallerie e spazi espositivi, la fisicità stessa di un luogo creato dalla propria architettura locale. Ci sono sempre quartieri in cui gli artisti e gli studenti si radunano. E questo accade anche a Londra. Chelsea un tempo era così, ma intorno al 1920 parecchi isolati di case popolari furono demoliti per far posto a condomini di lusso. L’aumento delle automobili consentì agli operatori immobiliari di licenziare stallieri e cocchieri e trasformarne le scuderie in gioiellini per giovani dal temperamento artistico, del genere descritto nei romanzi di Dorothy L. Sayers. Nel 1930 ci fu una rivolta degli inquilini che, armati di “grossi bastoni, battagli, campane e fischietti”, si opponevano allo sfratto che serviva a far posto ad appartamenti di lusso. Furono sconfitti da un esiguo contingente di poliziotti a piedi e a cavallo, seguiti da una massa di ufficiali giudiziari. Di lì a poco i nuovi ricchi abitanti sarebbero stati entusiasti della deliziosa aria paesana di Chelsea. Dopo la guerra il quartiere era malconcio e fatiscente, ma i danni causati dai bombardamenti vennero presto riparati e, con poche eccezioni come Quentin Crisp, soltanto i bohémien più facoltosi poterono permettersi di vivere lì. Soho, d’altro canto, era sempre stato il centro cosmopolita di Londra, la sua tipica atmosfera si era creata grazie a successive ondate di profughi. Nel 1670 vi si erano stabiliti i greci in fuga dall’impero ottomano, e avevano dato a Greek Street il proprio nome. Verso il 1680 erano arrivati gli ugonotti francesi, e intorno al 1790 altri francesi in fuga dal Introduzione XVII Terrore seguito alla rivoluzione. I belgi vi giunsero nel 1914 per fuggire dai tedeschi, mentre tedeschi e italiani si erano insediati a Soho fin dal 1850. Dopo il 1890 molti ebrei russi e polacchi vi si trasferirono dall’East End. Fino alla Seconda guerra mondiale, però, Soho doveva la propria atmosfera tipica soprattutto ai francesi: avevano in Lisle Street la propria scuola, su Shaftesbury Avenue un ospedale francese e un dispensario, poi c’erano quattro chiese, compresa la French Protestant Church di Soho Square, e una ricca congerie di ristoranti, caffè, boucherie, boulangerie, pâtisserie, chocolaterie e consimili. Quando venni a Londra per la prima volta, all’inizio degli anni Sessanta, da La Roche in Old Compton Street si acquistavano verdura e formaggi artigianali spediti tre volte alla settimana dai parenti francesi del proprietario; tutti i cartelli erano in francese e questa era la lingua che si parlava in negozio. La Vintage House, lungo la stessa strada, vendeva vino en vrac, e la carne da La Bomba era macellata alla francese. Fino all’entrata in vigore dello Street Offences Act, francesi erano la maggior parte delle prostitute per le strade di Soho. I francesi conservano oggigiorno una presenza nell’area, ma la maggior parte della comunità si è sistemata ora intorno al liceo francese di South Kensington. Sovrapposta alla Soho francese c’era quella italiana, che verso il 1940 la eguagliava per importanza, e fece conoscere agli inglesi gli spaghetti e la pizza, l’olio d’oliva e il Chianti. In tutta Soho spuntarono ristoranti italiani, ancora oggi molto frequentati. Con essi giunsero gli straordinari negozi di prodotti alimentari, alcuni dei quali ancora sopravvivono. Soho ospitava anche una numerosa comunità cipriota e dava ospitalità a parecchi ungheresi e spagnoli; dagli anni Settanta in poi vi arrivarono i cinesi, che hanno ormai sviluppato la propria Chinatown. Più o meno da quando è nata, Soho è stata una comunità realmente cosmopolita, e continua a esserlo. Alla fine della guerra era l’unico posto in Gran Bretagna a godere di un’atmosfera genuinamente continentale, con i bistrot e i caffè che cercavano di mettere insieme dei pasti per una popolazione sfiancata dalla guerra. È curioso pensare che una candela in una bottiglia di Chianti e una rete da pesca tesa sul soffitto fossero all’epoca considerati elementi incredibilmente romantici e raffinati. Prima della guerra l’area a nord di Oxford Street non si chiamava Fitzrovia e veniva spesso considerata una parte di Soho; come a Soho viveva una cospicua comunità continentale, nella quale i tedeschi erano così numerosi che Charlotte Street era conosciuta come Charlottenstrasse. Qui mi piaceva molto Schmidt’s, il quale usava il sistema tedesco: ovvero la cucina smerciava portate ai camerieri che a loro volta le rivendevano XVIII London Calling ai clienti. Inevitabilmente erano sottoposti a una violenta competizione dovuta al posto a sedere che gli avventori avrebbero occupato, e le risse erano di ordinaria amministrazione. In uno dei miei primi ricordi londinesi c’è un cameriere di Schmidt’s che strilla: “Hans! Di nuovo mi hai rupato i cucchiai!” e attraversa di slancio l’ampia sala brandendo un coltellaccio, con Hans che si dilegua dietro le porte a vento. Purtroppo, per far fronte alla richiesta postbellica di uffici, la riclassificazione urbana fece di Fitzrovia una zona dedicata al terziario e portò nel quartiere ‘operatori’ immobiliari, che non persero tempo nel completare la distruzione iniziata dai nazisti: vennero demoliti Howland Street e gli studi degli artisti di Fitzroy Street, sostituiti da volgari palazzine di uffici, la maggior parte delle quali sarebbe stata poi rimpiazzata. Vennero giù la bella casa e lo studio del xviii secolo di John Constable in Charlotte Street, per essere sostituiti da un cubo di vetro contenente agenzie di comunicazione e di pubblicità, e lì accanto incombe la mole enorme di Saatchi & Saatchi, che ha soppiantato un intero isolato di case del xviii secolo. Il gruppo di Bloomsbury viveva in queste strade, come anche Nina Hamnett e i pittori della Euston Road School. È quindi consona alla natura del luogo la trasformazione che nel xxi secolo ha portato le strade un tempo traboccanti di artisti a ospitare la più alta concentrazione di agenzie pubblicitarie; con il risultato che gli artisti autentici sono stati sostituiti dalla contraffazione, dalla mediocrità, da creativi che prostituiscono il proprio talento. Non sorprende allora che la gente si recasse proprio a Soho per dimenticare la Gran Bretagna per qualche ora. È stato a Soho, in decine di locali notturni, che hanno avuto origine il jazz e il rock ’n’ roll britannici; è stato nei pub di Soho come il French, che neppure adesso possiede il boccale da una pinta, che è fiorita la vita bohémien e dove si mischiavano pittori, pugili, studenti e prostitute; era il posto in cui si trovavano le librerie, i caffè economici greci e italiani, i drinking club, gli imbonitori, i bordelli, e dove persino alcune gallerie d’arte aprirono timidamente i battenti sulle strade devastate dalle bombe. Quando, nei primi anni Sessanta, venni condotto per la prima volta al French Pub sentii immediatamente di essere a casa. Mi ero sempre sentito un perfetto estraneo nei pub delle Cotswolds, decorati con finimenti d’ottone per cavalli e frequentati da agricoltori benestanti, con i visi arrossati, la giacca in spigato e gli scarponcini scamosciati. Al French invece gli avventori erano pallidi come cadaveri, portavano occhiali da sole e sembravano dei fuorilegge con velleità artistiche. Bevevano vino e pastis e non si accennava mai all’agricoltura. Era meraviglioso. Introduzione XIX Questo libro è ambientato in gran parte nel West End: è la calamita che attira la gente a Londra. L’atmosfera bohémien di Fitzrovia e Soho durante la guerra coinvolse la generazione successiva: poeti come Michael Horowitz si laureavano a Oxford e si trasferivano direttamente nei piccoli appartamenti di Soho. I beatnik dei primi anni Sessanta si raggrupparono a Fitzrovia, intorno a Goodge Street, e davano come indirizzo postale lo One Tun, facendone così la meta della successiva ondata di autostoppisti provenienti da Newcastle e Glasgow. La scena underground di Londra negli anni Sessanta era percepita come un fenomeno del West End: era lì che si trovavano l’UFO Club, il Middle Earth, l’Indica Books, la redazione di «International Times», l’Arts Lab e altri centri di attività, ma ormai la maggior parte degli indirizzi scarabocchiati su sudici pezzetti di carta avrebbero avuto i codici postali w10 o w11 perché era lì che si trovavano gli alloggi più economici. Solo negli anni Novanta il centro d’azione si sarebbe spostato più a est, fino a e1 ed e2, quando gli artisti avrebbero colonizzato i lugubri e desolati territori industriali e i palazzoni dell’East End vero e proprio. Scrittori come Iain Sinclair, Peter Ackroyd, Stewart Home e Patrick Wright hanno rivendicato l’East End come dinamo di fermento culturale, attraversato da linee di forza, costellato di abissi verticali di tempo che collegano il presente al xviii secolo, abitato da eccentrici e bohémien. I vagabondaggi psicogeografici di Sinclair sono particolarmente preziosi per comprendere questa zona completamente diversa dal resto di Londra. Nel xviii secolo lì c’erano solo orti, prati e poco altro. Era, e rimane, periferia. Hanno tratto il meglio da un territorio costellato da rifugi antiaerei allagati, dai resti delle baracche di lamiera Nissen e delle americane Quonset, oltre che dai prefabbricati di emergenza postbellici; un panorama ravvivato dal casuale dettaglio sopravvissuto su un edificio comunale vittoriano ricoperto di graffiti, o da un’insolita baracca tra gli orti di guerra. Ci sono anche una o due chiese di Hawksmoor, ma fino a poco tempo fa non era questa la parte di Londra che attira la gente da mezzo mondo. La Londra dei sogni è la swinging London: la King’s Road di Austin Powers e dei punk dalle creste arcobaleno; i turisti sulle strisce pedonali di Abbey Road; il Big Ben e la statua di Eros a Piccadilly Circus. È più precisamente il West End, da trecento anni, il cuore cosmopolita della città; l’attempato signore vestito in modo impeccabile abbandonato sul sedile posteriore di una scintillante Rolls-Royce con autista che viaggia lungo Hill Street a Mayfair alle tre del mattino; gli ubriachi che cercano di uscire da Leicester Square; i bevitori nottambuli che sbucano da Gerry’s su XX London Calling Dean Street, strizzando gli occhi alla luce del sole mentre la gente diretta al lavoro li spinge da parte. È il Robinson di Chris Petit, Adrift in Soho di Colin Wilson, Mother London di Michael Moorcock e i romanzi di Jerry Cornelius. La swinging London sopravvive nell’immaginario, ma la scena ora si è spostata a est. Di recente, percorrendo Great Chapel Street a Soho, ho sentito per caso due giovani parlare. “Sai” diceva uno dei due, “guardandomi in giro, potrei anche essere a Shoreditch”. È vero: la vasta superficie dell’East End rappresenta adesso il quartiere artistico di Londra, sebbene sia troppo esteso per avere un vero e proprio centro e gli artisti hanno studi ovunque, da Hoxton a Stoke Newington a Bow. Debbono confrontarsi con chi vi risiede da più tempo, ma spesso i loro atelier – che per molti servono anche da casa – si trovano in aree semiindustriali con pochi abitanti nei paraggi. Le piccole gallerie sono moltissime, ma non appena hanno successo di solito si spostano nel West End. Questo libro è dedicato al ruolo di calamita esercitato da Londra, con i suoi club e pub a fare da centri di energia. Con l’avvento di Internet, dell’Eurostar e di voli aerei economici a livello europeo, l’importanza di Londra in quanto luogo fisico si è ridotta, poiché le persone si spostano a Barcellona, Berlino, Parigi, ovunque in occasione di mostre e fiere d’arte, si tengono aggiornate riguardo gli ultimi eventi di New York, Sydney e Mosca grazie alla rete, e usano Skype per chattare con gli amici che lavorano a Vancouver o ad Amsterdam. Grazie alla globalizzazione e a una rapida comunicazione a basso costo, indipendentemente da quanto possa essere scandaloso o d’avanguardia un evento, le persone di tutto il mondo ne vengono a conoscenza nel giro di pochi secondi; il vero underground è attualmente impossibile, a meno che i partecipanti non facciano voto di segretezza. Per lo stesso motivo, sebbene molti artisti e musicisti usino Londra come ispirazione, molti di più potrebbero altrettanto facilmente emergere da Parigi o Berlino. Questo è il xxi secolo, e le cose sono cambiate. Prima della Seconda guerra mondiale Londra era la più grande città del mondo, ma nel ve Day, l’8 maggio 1945 giorno della vittoria in Europa, era distrutta: edifici danneggiati che si stagliavano su un mare di pietre, aree bombardate e invase dalle erbacce, dune di mattoni sbriciolati e polverizzati, macerie ammucchiate lungo strade ripulite alla meglio. Fabbricati devastati se ne stavano lì con le finestre spalancate sul cielo, strisce di tappezzeria che pendeva a brandelli, scale che non portavano più da nessuna parte. Nel Blitz, le incursioni aeree tedesche, erano state distrutte più di un milione di abitazioni, un londinese su sei era rimasto Introduzione XXI senza casa. Molti edifici erano occupati da gente impavida che si era sistemata tra muri a cui l’impatto delle bombe aveva dato angolazioni curiose, talvolta puntellati da pali di legno. Le cantine erano allagate da acqua stagnante e torbida, da cui spuntavano detriti e cadaveri di topi, ed egualmente pericolosi erano i serbatoi d’acqua di emergenza, grandi cisterne in ferro rettangolari collocate nei pressi di edifici a rischio, per neutralizzare le bombe incendiarie tedesche quando le condutture principali dell’acqua si spaccavano: erano profonde poco più di un metro e riempite fino all’orlo, quanto bastava per affogare un bambino. Ad Hampstead Heath pascolavano le pecore, a Hyde Park c’era un allevamento di maiali e i fiori di Kensington Garden erano stati rimpiazzati da file di cavoli. La città era distrutta, tetra e monocroma, senza gioia. C’era un rigido razionamento persino degli alimenti primari e del carburante, la povertà si manifestava dappertutto, dai ragazzini pelle e ossa, che giocavano nelle aree bombardate, alle stanche puttane di Soho e Park Lane ai senzatetto borbottanti, che dormivano all’addiaccio sul Lungotamigi settentrionale, molti dei quali resi pazzi dalla guerra. Ma a dispetto del grigiore e dello smog, un po’ dello spirito prebellico prevalse. Le vecchie zone bohémien di Fitzrovia e Soho mandavano ancora bagliori di vita. A Soho c’erano diverse comunità sovrapposte: la gente del luogo impiegata nei mercati, nei ristoranti e nei piccoli laboratori artigiani; le lavoratrici del sesso e le modelle degli artisti, insieme a qualche pittore, scrittore, agli eccentrici e ai bohémien che stazionavano nei bar e nei club da metà mattina a notte inoltrata. La distruzione di Soho era spaventosa, alcune zone erano state pesantemente bombardate. Il novanta per cento della popolazione si faceva il bagno a Marshall Street; il venerdì pomeriggio era il giorno dei camerieri. Un bagno caldo di prima categoria veniva 6 penny e di seconda 2 penny, i bagni freddi costavano la metà. La gente arrivava con involti di carta marrone contenenti gli abiti puliti, sapone e asciugamano. In gran parte si trattava delle famiglie dei camerieri italiani che vivevano nelle anguste stanze di Dean Street e Greek Street, e che risparmiavano ogni singolo penny per ritornare in Italia e comprarsi una fattoria una volta in pensione. Poiché era praticamente impossibile procurarsi prodotti mediterranei come l’olio di oliva e il vino, questi ristoratori facevano miracoli quotidiani per offrire una parvenza di cucina continentale e creare l’atmosfera necessaria a mantenere vivo lo spirito di Soho. Soho assomigliava ancora parecchio a un villaggio, malgrado le evacuazioni dovute alla guerra e i bombardamenti. Lo stesso spirito libertario che aveva sempre attratto artisti e scrittori, studenti e giornalisti, XXII London Calling attirò anche spogliarelliste e maîtresse, giocatori d’azzardo e pornografi. Nel corso della guerra il quartiere sopravvisse grazie a migliaia di soldati inglesi e americani, che vi si recavano più per i bordelli e le bische che per il cibo, e tennero in vita Soho, attribuendole la nomea di quartiere a luci rosse che ancora permane nell’immaginario popolare. Non c’era praticamente strada di Soho che non fosse danneggiata dalle bombe; persino St. Anne’s era distrutta, con il campanile che spiccava solitario in mezzo a una catena montuosa di calcinacci. Malgrado la distruzione, furono in molti a non abbandonare quelle strade; altrove si sarebbero sentiti dei profughi. Circola una storia a proposito della modella di un artista, cliente abituale di Highlander in Dean Street, che un sabato mattina comparve vestita di tutto punto, calze e guanti compresi. Portava persino un cappello, cosa mai vista in precedenza. Le domandarono se stesse andando a un matrimonio, ma lei replicò: “No. Vado fuori per il fine settimana. A Swiss Cottage”. Come scriveva Sammy Samuels, proprietario di una serie di spieler, o bische, a proposito di uno dei suoi clienti: “Ha trovato la sua strada a Soho e a quanto ne so non riesce a uscirne. Soho cattura certe persone in questa maniera. Forse è l’aria, o la sensazione di essersene andati ‘all’estero’, in Africa o in India, e si sta troppo bene per cambiare”. Alcuni artisti e scrittori abitavano nel quartiere, ma la maggior parte vi arrivava in taxi, metropolitana o autobus, per mangiare e, cosa più importante, per accaparrarsi i loro posti preferiti nei bar. La comunità bohémien di Londra conduceva i propri affari nei pub e nei caffè delle vie tra Charlotte Street a Fitzrovia e Dean Street a Soho; pochi minuti a piedi. Non ci voleva molto a trovare qualcuno che si conosceva perché indipendentemente dal posto in cui la gente abitava, si spostava sempre a Soho per vedere gli amici. I pub erano bui e inospitali e tutti stavano in piedi. Non si andava lì per le comodità, ma per la conversazione, le idee, l’alcool e l’atmosfera di maschile bonomia che a poche donne era concesso condividere. La birra era alla spina, si bevevano whisky e Guinness, l’aria era una densa nebbia di Craven ‘A’ e Senior Service. Soho e dintorni erano il palcoscenico, i caffè, i pub e i club le scenografie, e all’interno, appoggiati al bancone, c’erano i personaggi, che parlavano e parlavano. George Melly: “Soho era forse l’unica zona di Londra in cui le regole non si applicavano, tolleranza era la parola d’ordine, una zona bohémien senza polizia e con il culto della cattiva condotta”.