Prologo Settembre 1980, Ponte Casale (Avellino
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Prologo Settembre 1980, Ponte Casale (Avellino
Se in fondo al volume non è presente il catalogo, potete consultarlo su www.robinedizioni.it Prologo Settembre 1980, Ponte Casale (Avellino) Ogni riferimento a fatti o persone reali è da ritenersi del tutto casuale. Edizione a cura di Silvia Roia © 2006 ROBIN EDIZIONI SRL Via Silla 35 - 00192 Roma Tel. 06.39.726.745 Fax 06.39.722.835 e-mail: [email protected] sito web: www.robinedizioni.it Erano appena le otto del mattino e il sole schiaffeggiava con violenza i tetti delle case nella valle del Calore. Vito Solomita, detto ’o Sodomita, seduto all’interno della cabina di un escavatore, armeggiava una leva al centro del quadro dei comandi. Prima avanti, poi indietro, poi ancora a destra e infine a sinistra. Il motore tossí facendo sobbalzare il mezzo che si trovava in prossimità di un’enorme fossa. Il braccio meccanico si era arrestato bruscamente a metà corsa e la grossa spatola dai denti affilati ondeggiò cigolando. In quella prigione di lamiere la temperatura superava i sessanta gradi. Esasperato dal caldo e dalla fatica, si asciugò il volto sudato con uno straccio sudicio che aveva appoggiato sul sedile. Girò la chiave dell’accensione ma, dopo un fremito catarroso, il motore si spense di nuovo. Avrebbe aspettato che i circuiti elettrici si fossero raffreddati. Dopo aver lavorato ininterrottamente per tutta la notte, poteva permettersela una pausa. Lo sportello laterale si aprí. Saltò agilmente a terra e si allontanò velocemente dalla macchina in avaria. Raggiunta la sommità di un cumulo di terra si sedette a guardare quello spettacolo desolante. Il profilo dell’escavatore luccicava sul bordo del piccolo cratere artificiale. L’ultimo dei quindici che aveva scavato quella notte. Profondi tre metri, di forma circolare, distanziati qualche metro l’uno dall’altro. La radura di fronte al cimitero di Ponte Casale si era trasformata in un’enorme groviera. Alla Robin Edizioni srl sono riservati i diritti di sfruttamento e la proprietà esclusiva del marchio BdV 5 SALVATORE SAVIGNANO UN POSTO SOTTOTERRA Tra poco sarebbe arrivato il camion con il carico. Per un momento si complimentò con se stesso per la professionale puntualità che avrebbe dimostrato a quella banda di bastardi. Se lo ricordava come se fosse ieri. Erano venuti a chiamarlo direttamente nella sua casa di Montoro Inferiore dove viveva in solitudine da anni. Non si era mai sposato, non aveva figli. Del resto come avrebbe potuto? A Vito Solomita piacevano i ragazzi e a Montoro lo sapevano tutti. Lo trattavano come un appestato. Dopo anni di ingiurie e umiliazioni, Vito ci aveva fatto il callo e quasi si era affezionato al suo soprannome. ’O Sodomita, che per cercare compagnia era costretto a muoversi di notte con il suo furgone. Si faceva cinquanta chilometri di autostrada per ritrovare i suoi amici. Tutti truccati a festa, avvolti in pellicce sintetiche e in vestiti di latex nero, i maschietti lo aspettavano in piedi tra i fuochi improvvisati del rettifilo di Napoli. Accanto alla follia notturna la vita di tutti i giorni. Un disgraziato qualunque che si arrabbattava in mille modi per campare. Muratore di cantieri improvvisati, si spaccava la schiena dalla mattina alla sera. Ultimamente si era specializzato, un vero asso con escavatori, bulldozer e ruspe. Il lavoro non era mai fisso e Vito si arrangiava con piccoli lavoretti per arrivare alla fine del mese. Trasportatore di legna, pulitore di cantine, raccoglitore di pomodori in estate, addetto allo spargimento di verderame sulle vigne e gli alberi da frutta. Come avrebbe potuto rifiutare una proposta cosí allettante? Si annunciano al portone come degli amici di don Rafele. Due bei manzi di maschio, con le spalle enormi e i muscoli delle braccia e del torace che guizzano ipertrofici sotto la trama delle magliette attillate. Senza dire né buongiorno né buonasera, gli dicono di seguirlo. Volti duri, sguardi veloci come proiettili rimbalzano dalle pareti al soffitto della casa. – Facimmo ampresso! – Eccoci, pronti. Vito Solomita, che sta mangiando una scodella di pasta e fagioli sciapi e freddi della sera prima, lascia che il cucchiaio affondi nella minestra. Si asciuga i baffi grondanti di sugo e si alza sull’attenti come per una chiamata alle armi. Lo fanno viaggiare su dei comodi sedili di pelle nera, all’interno di una macchina di grossa cilindrata dai vetri schermati. Uno di loro gli siede accanto senza dire una parola, strofinandosi la barba ispida con una mano. “Cosa credono, che me la voglia squagliare aprendo lo sportello della macchina in corsa?” L’altro guida a gran velocità per vie dissestate e tornanti scoscesi. Di tanto in tanto, lo controlla attraverso lo specchietto retrovisore, occhi come fessure sottili. “Un malavitoso in stato di arresto,” pensa ’o Sodomita, “sarà per il femminiello che mi sono fatto ieri sera alla fine della partita? Ah! Ah!”. Che strano umorismo, proprio quando si comincia a temere per la propria vita. Non ne è certo, ma la campagna più aspra e brulla gli fa pensare di trovarsi da qualche parte nel Beneventano. Dal nulla di quel deserto monotono e lunare, sbucano di fronte a un grosso cancello che si apre automaticamente. L’automobile segue a passo d’uomo il tortuoso percorso di un viale. Eccoli che giungono in uno slargo ricoperto di fine ghiaia bianca che riflette la luce abbagliante del sole di primavera inoltrata. Di fronte a loro la facciata di un’imponente villa a tre piani. Di pianta rettangolare, con due leoni di marmo ai lati dell’entrata principale, un porticato delimitato da un ordine di colonne con capitelli corinzi. Una selva di motivi ornamentali e ghirigori pacchiani appesantiscono la facciata principale su cui si aprono numerose finestre. Si intuisce la pretesa di conferire alla costruzione uno stile originale e raffinato con note liberty e postcoloniali. Il risultato è però un mostro di abusivismo edilizio. Due sguatteri in divisa lo fanno accomodare su un divano di paglia su cui poggiano cuscini foderati di raso. Vito Solomita rimane stordito dal luccichio di una piscina al centro di un giardino all’inglese, circondato da una barriera verde di siepi perfettamente tosate. 6 7 SALVATORE SAVIGNANO UN POSTO SOTTOTERRA Poi arriva don Rafele che si stravacca su una comoda sdraio. Gambe divaricate, un gomito appoggiato al bracciolo, un sigaro tra le dita. Un corteo di gesti e aggiustamenti della mimica facciale studiati a tavolino. Senza questa cosmesi scenica, don Rafele potrebbe sembrargli un contadinozzo dal volto grasso e rubizzo. Il boss assume una posizione di comando assoluto. Gli parla con voce afona e strascicata, senza neppure guardarlo in faccia. – L’organizzazione ti fornirà gli strumenti e la tranquillità necessari – di poche parole, va subito al sodo. Tira una lunga boccata dal sigaro puzzolente e allunga un braccio facendo tintinnare sul polso un Rolex d’oro. – Se fai quello che ti dicimmo nuie e non ti metti a fà ’o strunzo, campi cent’anni e fai ’nu sacco ’e denari. – Sarò una tomba, don Rafè, se è quello che volevate dicere. – E io mi voglio fidare, ma statte accuorto che io tengo cento orecchie. – Don Rafè non vi preoccupate. Si strofinò ancora la testa lucida come una palla da biliardo. Poi gettò via lo straccio. Lasciò che un refolo d’aria gli rinfrescasse il volto arso dal sole, mentre due finestre, su una facciata laterale della cappella dentro al cimitero, occhieggiavano severe su quello sfacelo desolante. L’ombra obliqua del braccio meccanico sembrava un artiglio rapace pronto a scattare su chi si fosse avvicinato troppo a quella dannata buca. Ripensò ancora al gesto lento di don Rafele che allungava il braccio foderato da un accappatoio di ciniglia gialla, mentre teneva in una mano un assegno con una cifra da capogiro. – Non li hai mai visti tutti ’sti soldi, eh? Sai quanti te ne puoi fottere adesso? Uno a sera… è ’o vero, ricchione? La risata feroce di don Rafele echeggiò nella sua mente. Si alzò e percorse rapidamente i metri che lo separavano da quella buca. Respirò l’odore di terra misto a quello di olio bruciato che proveniva dalla cabina della ruspa. Ebbe voglia di vomitare. “Vito, sei un uomo morto.” Guardando il fondo della buca ebbe un senso di vertigine. “È stata una grossa imprudenza spifferare la storia delle buche da scavare e del carico che ci andava sotterrato dentro.” Eppure Vito era sicuro di non essere il solo a sapere a cosa servissero tanti buchi nella terra. Ormai erano almeno due anni che questa storia andava avanti. La terra attorno a quel cimitero era un campo minato di immondizia puzzolente. Ma se tanta gente sapeva, perché l’altra sera i carabinieri avevano fermato proprio lui? Tutte quelle domande solo perché era un invertito? L’avevano picchiato duramente con un manganello di gomma e l’anima di piombo. Ai fianchi e al torace, in modo che i lividi non si notassero troppo. E dopo che aveva detto loro tutto quello che sapeva, perfino i nomi, l’avevano lasciato andare. – Sodomita! – Si sentí chiamare alle spalle ed ebbe un brivido gelido lungo la schiena. Un tipo alto e muscoloso sui quaranta, con un coppola sulle ventitré. Una canottiera nascondeva la pelle bianca del torace possente, in contrasto con l’abbronzatura delle spalle, del collo e del volto praticamente ustionati dal sole. Indossava pantalonacci di tela tutti inzaccherati di terra e di calce. Aveva un viso stranamente curato che contrastava con la tenuta da cantiere. Sul viso maschio e squadrato spiccava una grossa cicatrice sulla guancia. Occhi bruni sormontati da sopracciglia tagliate sottili, di fronte a uno specchio con una pinzetta. L’uomo gli sorrise con denti bianchi splendenti mentre il sole luccicava sulla sua pelle sudata. Quella sí che era una bella visione per riprendersi da una lunga notte di lavoro! Se non fosse stato tanto stanco, gli avrebbe proposto una passeggiata nel bosco, magari con una bella sosta sotto l’ombra ristoratrice di un castano. Poi vide un tatuaggio sulla superficie glabra dell’avambraccio destro, un drago dalla bocca fiammeggiante e la lunga coda 8 9 SALVATORE SAVIGNANO UN POSTO SOTTOTERRA attorcigliata tra le zampe posteriori in assetto d’attacco. Una sensazione di déjà vu, prima che quel confuso mosaico notturno gli apparisse di fronte agli occhi. Si erano conosciuti in un bar di Mercogliano due settimane prima. Lo aveva avvicinato facilmente. Dopo aver bevuto, si erano allontanati in macchina che erano decisamente ubriachi. Era stato come un gioco, divertente. Non sapeva nemmeno come si chiamasse. E ora, il drago impresso sulla pelle del braccio pareva fibrillare proprio come la notte che quello sconosciuto lo teneva amorevolmente bloccato con la faccia schiacciata sul sedile della macchina… – Ti piace a fare la femmina? – Con te assai, ma accussí mi fai male… – Fermo, non ti ha’ movere o ti faccio ascí ’o sangue! Vito Solomita sorrise al suo amante tornando a guardarlo negli occhi che gli scintillavano sotto il sole, rispose a sua volta al sorriso dell’occasionale amante. Ipnotizzati l’uno dall’altro, rimasero a fissarsi per qualche istante. Poi il gesto leggero e sensuale della mano, come una carezza. Dalla tasca dei pantaloni spuntò la canna nera di una pistola. Con la mente volò ancora a quella sera. – Sei forte come ’nu toro, voglio stà sempe cu’ te! – Vito lo sente ansimare al culmine del piacere. Cerca di guardare in faccia il suo amante che continua a spingere, sempre più forte dentro di lui… – Statte citto, zoccola! Due spari echeggiarono in tutta la valle, un fremito d’ali d’uccello nella boscaglia, poi di nuovo silenzio. Vito era riverso a terra con un sorriso amaro scolpito sul volto. Nell’ultimo lampo di luce attraverso gli occhi spalancati, vide un autoarticolato che parcheggiava sul ciglio della strada. L’altro guardò il corpo della sua vittima. Tra le zolle di terra cominciò a disegnarsi un’ombra scura e umida. Morto stecchito, pensò l’esecutore. Con una pedata lo fece rotolare sulla schiena. Occhi sbarrati, sangue rosso vivo dal foro nero al cen- tro della fronte e dalla nuca. Un’altra pedata e il cadavere piombò in fondo alla fossa. – Te la sei scavata un po’ troppo grande, tesoro mio, – commentò con un ghigno feroce. Era ora di dare il segnale a quelli del camion perchè scaricassero i bidoni nei crateri. 10 11 La terrà presto tremerà. Cosí forte da sconquassare tutti i container seppelliti. Cosí forte da liberare un terribile fetore. I Ore 19:35, 23 novembre 1980 la terra trema ininterrottamente per un minuto e venti secondi su una vasta area dell’Appennino Meridionale a cavallo tra Campania e Basilicata. Decimo grado della scala Mercalli, un minuto e venti secondi, poi l’inferno. Morte e distruzione. Duemila morti, diecimila feriti, trecentomila senza tetto. Più di settantamila costruzioni rase al suolo. Nell’edizione speciale del Tg Sud, ore 21.15, Nicola Colaprico raccoglie le prime testimonianze dalla gente del posto. I suoi occhi dilatati dietro le lenti da ipermetrope, la fronte sudata, il fiato corto… pochi fotogrammi sul piccolo schermo e l’Italia intera comprende che su quella povera gente si è abbattuta una sciagura. Cosí la definisce anche il ministro Zamberletti. Viene costituita un’unità di crisi. La catena di aiuti si attiva. Tutta l’Italia si stringe in un abbraccio doloroso attorno ai paesi colpiti, uniti da una immaginaria linea rossa, una ferita profonda e sanguinante. Ponte Casale è un paesino di settecento anime a 547 metri sul livello del mare, a dodici chilometri da Avellino. Terre dimenticate da Dio e dagli uomini. Qui la vita scorre lenta e accidiosa, proprio come il fiume da cui prende nome la valle su cui affaccia Ponte Casale, la valle del Calore. Il corso melmoso della storia di questo paese, sconosciuto alla gente di città e ignorato anche nelle più dettagliate carte stradali dell’Irpinia, venne scosso improvvisamente. Alfredo Tarantola, la sua famiglia e gli altri abitanti poterono definirsi 13 SALVATORE SAVIGNANO UN POSTO SOTTOTERRA fortunati, perché Ponte Casale fu colpito soltanto marginalmente dal sisma. Qualche crepa lungo i muri delle case più vecchie, un po’ di calcinacci per le strade e tanta paura. I danni più gravi furono riportati nei paesi dell’alta Irpinia. Rosa Cifariello, nonna amatissima di Alfredo Tarantola, abitava in una vecchia casa di Sant’Angelo dei Lombardi e quella sera maledetta era di fronte al televisore. Forse la sua sordità non le permise di udire le urla della gente che si buttava per strada in preda al panico. – ’O terremoto, Madonna mia! Solo quando vide oscillare i pesanti vasi di rame che da sempre torreggiavano su solidi scaffali, sopra al focolare, si accorse che la terra aveva preso a tremare. Con rassegnata lucidità, capí che avrebbe avuto poche possibilità di salvare la pelle. Una brutta malattia alle articolazioni limitava notevolmente i suoi movimenti. Alzarsi dalla grossa poltrona di feltro, avrebbe richiesto uno sforzo titanico. Per raggiungere l’atrio del vecchio palazzo in cui abitava, avrebbe dovuto zoppicare penosamente fino alla porta, combattere per buoni trenta secondi con la serratura arrugginita che puntualmente si incagliava sulla mandata decisiva, aggrapparsi allo scorrimano e affidarsi a qualche santo per l’impresa più ardua, le scale. Di solito era Cettina, la donna che sbrigava piccole faccende o che l’aiutava a lavarsi la schiena con un panno di daino una volta alla settimana, a darle il braccio quelle rare volte che donna Rosa aveva desiderio di prendere un po’ d’aria nella piazza del paese. E anche con un aiuto, impiegava almeno cinque minuti per raggiungere il portone. Pensando a tutte queste cose, strinse forte al petto la catenina del rosario. Le sue labbra tremanti presero a pronunciare un’Ave Maria silenziosa e segreta come il contenuto dei suoi ultimi pensieri. Trasalí alla vista del pesante lampadario di cristallo che si schiantava sulla tavola, al centro della sala. Mille schegge impazzite si sparpagliarono ovunque sulla tovaglia e sul pavimento. Caddero calcinacci dal soffitto e la finestra, che abitualmente inondava di luce la sala, venne oscurata da una nube di polvere bianca, densa come nebbia in una sera di dicembre. Prima che i suoi pensieri venissero travolti dalla furia di quel boato, ebbe un moto di disperazione per le botti di buon vino e le damigiane di olio di oliva che sarebbero andate distrutte sotto le macerie della casa. Per un momento l’odore umido e rancido della cantina ritornò a pizzicarle il naso. Poi si addormentò al buio sotto il peso di un enorme blocco di calce. Rosa aveva settantotto anni quando venne giù la casa di Sant’Angelo dei Lombardi. Alfredo amava ricordarla con i radi capelli grigi raccolti dietro la nuca, con un fermacapelli di madreperla in una cipolla un po’ deforme e spelacchiata, il viso affilato, segnato da solchi profondi. E il pronunciato naso aquilino che assieme agli occhi castani, sempre vivi di passione, le conferivano l’aspetto di una maschera tragica. Un plaid sulle gambe ormai atrofiche, lo scialle di lana intriso dell’odore della legna bruciata nel focolare, le carezze ruvide di quelle mani deformate dall’artrite. Nella fantasia di Alfredo sarebbe tornata spesso l’immagine di nonna Rosa che si faceva il segno della croce sulla poltrona, prima di precipitare e di essere inghiottita dalle fondamenta del vecchio palazzo. Alfredo aveva otto anni la sera del 23 novembre 1980. Quando la terra smise di tremare, tutto il paese di Ponte Casale si ritrovò nella piazza. Le voci della gente si accavallavano, le notizie si rincorrevano contraddittorie in un crescendo di apprensione. Si parlava di migliaia di persone sepolte sotto le rovine dei paesi dell’alta Irpinia. Alfredo sentiva la mano fredda di sua madre che lo teneva vicino a sé nel timore di perderlo nella calca. Nei suoi occhi dilatati dalla paura, si rifletteva l’immagine della folla, una creatura mitologica dalle mille braccia, dalle mille teste. Gesticolava e sbracciava freneticamente. La gioia, a stento contenuta, di essere scampati a quel disastro si mischiava con il pianto disperato di chi aveva parenti nei paesi più colpiti dal sisma. 14 15 SALVATORE SAVIGNANO UN POSTO SOTTOTERRA – Dov’è tuo fratello Ciccio? In mezzo a questa ressa ce lo siamo perso, – il viso di sua madre era una maschera di angoscia e dolore. Due rivoli neri di rimmel le rigavano il viso, sfatto dall’angoscia. – L’ho visto che si allontanava con Gerardo ’ncopp ’o motorino, sta bene, – rispose Alfredo tirando su col naso. – ’Ncopp ’o motorino? Neanche ’o terremoto pote fermà chillo fetente, – ringhiò suo padre Attilio. – Papà, bisogna andare a prendere nonna a Sant’Angelo. Hanno detto che sono crollate tutte le case vecchie di Sant’Angelo dei Lombardi. – Mamma Rosa! – Adele non seppe dire altro e scoppiò a piangere. Alfredo sentí un tuffo al cuore. Diede uno strattone al cappotto di Attilio. – Non c’è tempo da perdere, nonna sta sola! Attilio lo guardò dall’alto della sua imponente statura, con occhi vacui e inespressivi. Stordito da quell’abbraccio notturno di folla, acconsentí quasi meccanicamente. – Mammà! – Ciccio sbucò da una selva di braccia. – Ciccio, figlio mio! Prima che potesse abbracciare la madre, il ragazzo assaggiò la violenza di un ceffone in pieno volto. – Papà, ma che aggia fatto? – mentre si teneva una mano sulla guancia dolorante. – La prossima volta che ti vedo ’ncopp ’o motorino con quel delinquente di Gerardo t’accido ’e mazzate! Adesso vattenne a casa con tua madre. Noi andiamo a Sant’Angelo. Man mano che si allontanavano dalla piazza, il frastuono si affievoliva fino a diventare un lontano brusio. Alfredo saltellava dietro la scia dell’acqua di colonia del padre che sembrava preso da tutt’altro. La terra tremava e lui si fumava il sigaro calcolando gli utili di quella tragedia. “Ci voleva proprio un giro in macchina ché stavo quasi soffocando in mezzo a tutta quella gente. Certo che se è vero quel- lo che dicevano in piazza, la vecchia deve essere tra quelli morti sotto le macerie… beh, prima o poi, arriva per tutti. Che si credeva di campare in eterno? Adele è l’unica erede diretta. Pure se Rosa Cifariello ci avesse sputato in faccia a tutte e due, quando ci vedeva arrivare a casa sua, per forza ci spetta un beneficio. Con tutto quel denaro che teneva bloccato su quel conto del Banco dell’Irpinia…” – Papà, prendiamo chesto vico’ che accossí ci arriviamo prima al garage. – E jammo, tanto sempre tre quarti d’ora ci vogliono per arrivare a Sant’Angelo. – Un rombo di fumo nero e la macchina s’avviò schizzando via per i tornanti della provinciale Serino-Atripalda. I fari dell’Alfa Sud lampeggiavano anticipando il loro veloce passaggio. Sul parabrezza scorrevano le sagome scure di uomini e donne in fuga chissà dove, disperati per la loro casa ridotta a un ammasso di macerie. Le mani tra i capelli, lo sguardo nel vuoto, una madre con in braccio un bimbo rischiò di essere travolta al bivio per Sant’Angelo dei Lombardi. Lasciarono la macchina in uno slargo nei pressi della casa della nonna. La casa di Rosa Cifariello non c’era più. Due mezzi dei pompieri e diverse ambulanze sulla strada. Uomini con divise fluorescenti si arrampicavano su montagne di detriti, trascinati da cani lupo. – Mia nonna è là sotto! Salvatela, tiratela fuori! – Tenga a bada il bambino, da qui non si può passare, – aveva intimato un soccorritore con il simbolo della Croce Rossa sul giubbotto impermeabile, – non vedete che stanno lavorando per tirarli fuori vivi? Rimasero sul ciglio delle rovine delimitate da un nastro a strisce rosse e bianche. A qualche metro da loro, videro due corpi senza vita, coperti da un’infarinatura mista di calce e sangue, l’uno accanto 16 17 SALVATORE SAVIGNANO UN POSTO SOTTOTERRA all’altro, un uomo e una donna, giovani, forse due amanti sorpresi nel loro letto da una pioggia di macigni. – Ragazzi c’è qualcuno là sotto, respira ancora! È una donna, signora mi sente? – Aiutami a spostare questo trave! – È lí, la vedi? Guarda i movimenti del torace, è ancora viva, presto! Quelli della Croce Rossa si sbracciavano a più non posso, davano istruzioni ai pompieri e ai volontari. Un pompiere si calò in un pertugio in cima a una montagna di macerie. Alfredo sapeva di trovarsi nel punto giusto. Aveva riconosciuto l’insegna di un tabaccaio, appesa all’unica crosta di muro rimasta in piedi in quell’inferno. Nonna Rosa si faceva portare il giornale tutti i giorni all’ora di pranzo. Il tabaccaio chiudeva la saracinesca del negozio e, prima di andarsene a casa, passava sempre a trovarla. Alfredo se lo ricordava, quando d’estate trascorreva qualche settimana a Sant’Angelo, quell’uomo dai modi gentili, sempre sorridente, con una corona di capelli argentati sulle tempie di una testa calva e un grosso naso schiacciato, al centro della faccia. A volte la nonna commissionava ad Alfredo l’acquisto di un “collant” (cosí Rosa chiamava le calze elastiche, spesse e color carne, che gli si arrotolavano alle caviglie mentre ciabattava per casa). Il tabaccaio sorrideva e insieme alle calze gli dava sempre delle caramelle. Una volta capitò che gli regalasse anche due soldatini, un nordista e un sudista della guerra di secessione americana. – Ecco ci siamo, stanno tornando su! – Continua a respirare, vero? Avevo ragione. Presto, avviciniamo la barella. Il più anziano della squadra di sanitari continuava a spiare attraverso la feritoia nelle macerie. Alla fine di un’estenuante manovra di estricazione, portarono alla luce il corpo rinsecchito e martoriato di una vecchia. E Alfredo restò a guardare il succedersi di quei momenti surreali. Il pompiere che l’aveva tirata fuori dalle macerie l’adagiò su una barella. Rosa aveva il volto grigio della morte. L’uomo con la croce rossa sulla giacca prestò subito i primi soccorsi, chinandosi su di lei. Cominciò a dire cose incomprensibili per Alfredo. – Respirazione bocca a bocca e massaggio cardiaco, forza! La vedeva sussultare sulla terra gelida mentre qualcuno comprimeva ritmicamente il suo torace. Il dottore le prese il polso, ispezionò l’occhio sollevando la palpebra. Lasciò cadere lentamente il braccio a terra. Scosse la testa con un’espressione di sconfitta e di impotenza. – Alfredo non guardare, iammuncenne. – Attilio coprí gli occhi del figlio con una mano. Ma era troppo tardi perché l’orribile sequenza di morte aveva già attraversato gli occhi di Alfredo che cominciò a gridare. E lo fece con tutta l’aria che aveva nei polmoni fino a quando non perse conoscenza. 18 19 È notte e in via delle Rimembranze c’è silenzio. Lo spavento è passato e la gente è rientrata in casa. Le imposte sono chiuse. Non riesci a dormire questa notte. Gli occhi sono puntati alle pareti, al soffitto. A quella brutta crepa che corre lungo il muro. Manca all’appello qualche soprammobile, si è sbriciolato cadendo dallo scaffale. Tutto lí. Sono venuti gli ingegneri della protezione civile e hanno detto che non c’è pericolo a stare dentro casa. Inutile passare la notte al freddo e al gelo in un sacco a pelo. Quante altre piccole scosse hai contato questa sera? Tante, almeno una decina, alcune appena percettibili. Nell’aria immobile della notte insonne, aleggia la paura che la terra riprenda a tremare con un boato ancora più forte di quello delle sette e mezza. E questa volta sí che verranno giù tutte le case di Ponte Casale. Il terremoto ti coglie di sorpresa, proprio nel primo sonno. Apri gli occhi e vedi dondolare il lampadario sopra il letto. Una nube bianca di calcinacci, il sapore polveroso dell’intonaco che si stacca come la corteccia da un tronco secco. Poi il tetto si sfonda e vengono giù le tegole. La regola da seguire in questi SALVATORE SAVIGNANO UN POSTO SOTTOTERRA casi è mettersi sotto un muro portante, nascondersi sotto un tavolo robusto. Lo hai sentito dire una volta a scuola dalla maestra, durante una lezione di geografia. Avevi il libro aperto sul banco alla pagina del Giappone. Un posto lontanissimo nell’Oceano Pacifico. Lí i terremoti sono molto frequenti e di grande intensità. Quando la terra trema tutti sanno cosa fare senza perdere la calma. Si accucciano sotto un tavolo o sotto un arco portante. Arriva il terremoto, forte come quello del Giappone… accucciarsi sotto un tavolo oppure sotto… mamma e papà sanno quello che devono fare adesso che la terra trema? No, perché nessuno ha spiegato loro come si comportano in Giappone… certamente mamma comincia a urlare, chiama prima tuo padre che muore dalla paura più di tutti, poi chiama te e tuo fratello Ciccio. Non è il terremoto a farti perdere il controllo della situazione, ma le urla di tua madre e in quei secondi la testa smette di funzionare come dovrebbe e in un momento dimentichi le preziose istruzioni. Chissà se la maestra a casa sua si ricorda di quella lezione di geografia… tutte chiacchiere, la vedi in vestaglia con i bigodini in testa e la pesante montatura degli occhiali che inforca quando ti riempe il quaderno di sfreghi rossi sotto gli errori di ortografia. Crolla la casa della maestra, pesanti macigni riducono il tavolo sotto cui si è nascosta in una poltiglia di schegge di legno e di visceri insanguinati. Quando il terremoto arriva, non guarda in faccia nessuno. Pochi secondi e nel pavimento della tua stanza si apre una voragine. Vieni inghiottito in un sol boccone. È buio e manca l’aria. Di fuori, sotto uno strato di macerie, alto almeno cinque metri, si sente… che strano è proprio cosí… un gatto che miagola. Gridi aiuto, ma all’infuori del miagolio straziante non ricevi risposta. E ti accorgi che non puoi più muovere né gambe, né braccia. Fai fatica a respirare per un gigantesco blocco di calce che ti schiaccia contro uno strato di detriti acuminati. Basta un solo respiro che quelle mille lame ti entra- no nel torace e... Aiuto, non si sente neanche più il gattino spaventato che prima passeggiava sui ruderi della casa. Ti hanno abbandonato. Dove sono andati tutti? Sono a letto che dormono. La fine di Ponte Casale non è per questa sera. Nonna è morta. Chissa dov’è a quest’ora. Dopo che hanno visto che non c’era più niente da fare, l’hanno portata via su un furgone. – Nonna dove sei? – Sto in un posto molto freddo. Ma adesso dormi piccolo mio. 20 21