no e corruzione politica

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no e corruzione politica
SOMMARIO
Culture Economie e Territori
Pag. 3
Presentazione di Giuseppe Gangemi
Rivista Quadrimestrale
Numero Cinque, 2002
Capitale sociale e non solo
a cura di Giuseppe Gangemi
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
Pag. 4
Pag. 26
Capitale Sociale, opinioni sul governo e corruzione politica di Donatella della Porta
Il capitale sociale nella transizione di Miroslav Prokopijevic
Il faro
Pag. 39
Pag. 61
Valutazione delle politiche pubbliche e sviluppo del capitale sociale. Considerazioni
critiche in margine a recenti riflessioni sul tema. di Luciano Vettoretto
Il capitale sociale nell’impresa tradizionale for profit di Rosetta Lombardo
Passaggio a NordEst
Pag. 93
L’opera di costruttore della città di Padre Marcolini, prete e ingegnere.
di Roberto Busi
Il sestante
Pag. 119 Capitale sociale ed economia di Stefano Solari
Pag. 137 Capitale sociale e scienza delle politiche di Giuseppe Gangemi
Pag. 151 Capitale sociale e qualità della democrazia di Marco Almagisti
Mayday Mayday
Pag. 168 Storia della Mafia, Palermo, Sigma Edizioni, 1997 di Francesco Renda
Asterischi
Pag. 172 A. MARSON, Barba Zuchòn Town. Una urbanista alle prese col Nordest F. ANGELI;
G. DE RITA & A. GALDO, Capolinea a Nordest, MARSILIO
1
Giuseppe Gangemi
Presentazione
Questo numero è dedicato al tema del capitale sociale ed esce in un momento
in cui, sia all’estero che in Italia, molti studiosi si stanno confrontando con questo tema. Il volume ha lo scopo di presentare qualche strumento di riflessione su
alcuni aspetti del (o tipi di) capitale sociale.
La prima sezione della rivista, con due saggi, di Donatella della Porta e di Miroslav
Prokopijevic, è dedicata al tema del “cattivo” capitale sociale. Il saggio di della
Porta è dedicato al circolo vizioso tra corruzione e sfiducia nel governo per
mostrare che la corruzione necessita di più risorse di fiducia e reciprocità di
quante sia capace di produrne. Il saggio di Prokopijevic è dedicato al “cattivo”
capitale sociale che avrebbe appesantito a tal punto le economie dei Paesi ex
socialisti da essere stato uno dei fattori che più hanno contribuito alla sconfitta
ad opera dell’Occidente, nel corso della guerra fredda.
La seconda sezione della rivista, con altri due saggi, di Luciano Vettoretto e
Rosetta Lombardo, è stata dedicata a due aspetti “specialistici” del capitale sociale. Il saggio di Vettoretto al tema del capitale sociale prodotto nella valutazione delle
politiche pubbliche (seguendo l’idea che non solo queste politiche, ma anche la
loro valutazione contribuisca alla produzione di capitale sociale) e quello di Rosetta
Lombardo al modo in cui gli economisti stanno trattando il tema del capitale sociale e a come possa questa stima essere inserita in una funzione di utilità.
La terza sezione contiene un solo saggio, di Roberto Busi, e descrive l’opera di
un prete e ingegnere bresciano, Padre Marcolini per mostrare che la fiducia non
si può misurare attraverso domande di questionari, ma che la si misura nei fatti,
nelle cose che sono state realizzate. Padre Marcolini è un esempio di come, se si
andasse a domandare ai bresciani, o anche alle persone che in tutto il Nord vivono nei 20.000 appartamenti a basso costo da lui costruiti, chi sia la persona del
presente o del passato che, a loro parere, abbia meritato di più la loro fiducia,
probabilmente si rileverebbero centinaia di nomi e Padre Marcolini non sarebbe
certamente tra i primi. Invece, se si va a valutare quello che ha fatto, la fiducia
che ha dato e ricevuto appare una eccezione irripetibile.
Due delle tre note critiche, quelle di Stefano Solari e di Marco Almagisti prendono in esame contributi provenienti da fonti eterogenee. Solari esamina il punto
di vista degli economisti collegandolo a quello di studiosi di altre discipline e
Almagisti connette il tema del capitale sociale al problema della qualità della
democrazia. La nota critica di Gangemi ha centrato l’attenzione su alcuni autori
(Burt, Lowi, etc.) che hanno trovato poco spazio nel disegno complessivo del
numero.
Il libro da salvare prescelto è quello di Francesco Renda sulla Storia della Mafia,
e la scelta vuole essere un altro modo di collegarsi alla prima sezione di questa
rivista dando una ulteriore descrizione di come si possa formare il “cattivo” capitale sociale.
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n.5 / 2002
Donatella della Porta
Capitale Sociale, opinioni sul governo e corruzione politica*
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
Introduzione
* Una precedente versione di questo testo è
stata pubblicata in
Pharr e Putnam
(2000). Ringrazio la
Princeton University
Press per il permesso
di riutilizzare il materiale lì contenuto.
4
Questo saggio focalizza l’attenzione sulla interazione tra capitale sociale, opinioni sul governo e corruzione politica. Ci sono principalmente tre modi di pensare su capitale sociale, fiducia nel governo e rendimento istituzionale. Prima di
tutto, vi è la possibilità che le tre variabili non siano correlate tra loro. Che la corruzione politica riduca la fiducia nel governo (e in generale la fiducia come una
componente del capitale sociale) può essere considerata un’affermazione ovvia
– perché i cittadini debbono fidarsi di governanti che sono là per curare i propri
interessi? Infatti, l’insoddisfazione dei cittadini nei confronti della corruzione di
coloro che governano sarebbe la difesa principale di una democrazia di fronte
alla corruzione politica. I cittadini insoddisfatti dovrebbero votare politici
“buoni”, scacciando i “cattivi”. Per molte ragioni, comunque, quanto appare
come una verità evidente, può anche non funzionare nella realtà. Prima di tutto,
la corruzione può rimanere nascosta, invisibile al pubblico. Secondariamente,
anche se è visibile, può essere tollerata dall’elettorato e/o dall’élite. La corruzione politica può non lavorare contro il “bene pubblico” – o almeno, ci può essere la percezione (che è, infatti, coltivata da molti politici corrotti) che per “fare le
cose” bisogna “sporcarsi le mani”. Comunque, la corruzione può essere considerata come il modo in cui le cose funzionano, e i politici corrotti come quelli
che in realtà producono servizi e lavoro – almeno per i propri collegi elettorali.
Secondo, e non in alternativa, la corruzione può essere considerata come una
questione secondaria di fronte a questioni più serie – e i cittadini possono quindi sentirsi costretti a votare ripetutamente per politici corrotti quando i “non corrotti” sono considerati peggiori su altri aspetti della loro politica. Il capitale sociale può essere considerato come indipendente dalle opinioni sul governo – e
infatti, la ricerca indica che almeno una componente del capitale sociale, la fiducia sociale, non è collegata con la fiducia pubblica. I livelli di rendimento del
governo sono stati spesso spiegati con altre variabili diverse dal capitale sociale:
modernizzazione o disegno istituzionale, per esempio.
Tra coloro che affermano l’esistenza di una correlazione tra capitale sociale, fiducia nel governo e rendimento istituzionale, alcuni considerano il capitale sociale
come la variabile indipendente. Nel suo influente lavoro, Robert Putnam suggerisce che “la qualità della vita pubblica e il rendimento delle istituzioni sociali (...)
Donatella della Porta
Capitale Sociale, opinioni sul governo e corruzione politica
sono certamente più fortemente influenzati dalle norme e dalle reti di impegno
civile” (Putnam 1995, 66). Nella sua analisi del rendimento dei governi regionali
italiani, Putnam (1993) attribuisce il loro successo differenziato alle differenze di
capitale sociale presente nelle varie Regioni. Come ha sintetizzato più tardi, in
Italia “la qualità della governance era determinata dalle tradizioni di lunga durata dell’impegno civico (o dalla sua assenza). Il turnout elettorale, il numero di lettori di giornali, l’iscrizione a associazioni di coristi e circoli di calcio – questi
erano i marchi di una regione di successo” (Putnam 1995, 66). Secondo Putnam,
la presenza di associazioni è certamente un indicatore di successo in molti
campi: “Ricercatori in settori quali l’educazione, la povertà in aree urbane, la disoccupazione, il controllo del crimine e l’abuso di droghe, e persino la salute
hanno scoperto che risultati positivi sono più probabili in comunità impegnate
sul piano civico. Allo stesso modo, la ricerca sui conseguimenti economici di differenti gruppi etnici negli U.S.A. ha dimostrato l’importanza dei legami sociali
dentro ciascun gruppo. Questi risultati sono coerenti con la ricerca in diverse
aree che hanno dimostrato la vitale importanza delle reti di relazioni sociali per
gli impieghi di lavoro e molti altri risultati economici” (Putnam 1995, 66). Il capitale sociale produce buon governo in quanto produce fiducia negli altri – incluso il governo. Per analogia con la nozione di capitale fisico e capitale umano –
strumenti e formazione che intensificano la produttività individuale – ‘il capitale
sociale’ si riferisce ad aspetti importanti della organizzazione sociale, quali le reti,
le norme, e la fiducia sociale che facilitano il coordinamento e la cooperazione
con reciproco vantaggio. Per una varietà di ragioni, la vita è più facile in una
comunità benedetta da una ricca riserva di capitale sociale. Prima di tutto, le reti
di impegno civico nutrono forti norme di reciprocità generalizzata e incoraggiano l’emergere della fiducia sociale. Tali reti facilitano coordinamento e comunicazione, amplificano le reputazioni, e di conseguenza permettono di risolvere i
dilemmi dell’azione collettiva (...). Allo stesso tempo, le reti di impegno civico
incorporano i successi passati di collaborazione, che possono servire come un
modello culturale per collaborazioni future. Infine, dense reti di interazione probabilmente estendono l’identità dei partecipanti, sviluppando l’ “Io” in un “noi””
(Putnam 1995, 67). Le associazioni orizzontali, con le loro interazioni faccia a faccia, tendono ad aumentare la fiducia negli altri, permettendo quindi di superare
il “dilemma del prigioniero”. Alcune tendenze contemporanee che – quali il welfare state, la televisione, il lavoro delle donne, etc. – riducono le interazioni faccia a faccia, tendono a ridurre parallelamente il capitale sociale.
Lavorando su questa ipotesi, noi potremmo aspettarci che la mancanza di capitale sociale produce sfiducia nel governo, e cattivi rendimenti.
Diversi studiosi hanno comunque contrastato gli assunti di Putnam. Prima di
tutto, seguendo James Coleman, il primo che abbia formulato il concetto di
“capitale sociale”, qualcuno ha suggerito che il capitale sociale non sempre
aumenta il rendimento pubblico. Secondo Coleman, infatti, il capitale sociale è
composto da tutte quelle risorse utili per fare le cose – cioè, quegli aspetti della
struttura sociale, come obblighi e aspettative, potenziale di informazione, norme
e sanzioni, autorità, organizzazioni sociali, che facilitano l’azione. Come hanno
osservato Foley ed Edwards, per Coleman, il capitale sociale non necessariamente conduce all’armonia sociale: “certamente, superiori risorse di capitale
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sociale possono essere più caratteristiche di società altamente polarizzate o
frammentate che delle società che funzionano in modo più armonico” (1997,
551). Anche Greely concorda che “Per Coleman, il capitale sociale è neutro.
Dove è presente facilita gli obiettivi degli attori, siano o meno gli obiettivi socialmente e moralmente desiderabili” (1997, 589). C’è perciò il problema del “cattivo capitale sociale” – il capitale sociale che fu usato per esempio dai nazisti e che
portò al crollo della Repubblica di Weimer (Barman 1997), o quello disponibile
per gli appartenenti alla mafia di oggi (Levi 1996) o, ancora, quello utilizzato per
lo sviluppo di organizzazioni terroristiche (della Porta 1995). È quello che
Roberto Cartocci (2000, 446) ha di recente definito come “indeterminatezza e
fungibilità etica” del concetto. Del resto, in una concezione influente del capitale sociale, esso è una risorsa individuale, con effetti ambigui sull’ambiente
(Bourdieu 1980).
Fig. 1
“comunità benedette”
“comunità sfortunate”
capitale sociale
Mancanza di capitale sociale
fiducia nel
governo
buon
governo
sfiducia nel
governo
corruzione
politica
Una seconda linea di critiche si riferisce alle capacità delle associazioni di produrre fiducia e cooperazione. Secondo Boix e Poster (1996), per esempio, associazioni come le società di coristi o le leghe dei giocatori di bowling non producono beni pubblici, e di conseguenza non aiutano a contrastare le tendenze
verso comportamenti da free-rider. Esse, infatti, non producono norme di reciprocità, sanzioni per chi viola le norme, informazioni. Comunque, la fiducia
generata dentro un associazione non si estende automaticamente alle altre. Nelle
parole di Margaret Levi, “Per loro propria natura reti dense generano localismo,
che è spesso estremamente resistente al cambiamento [...] Le relazioni di vicinato (e certe altre reti di impegno civico) sono una fonte di fiducia e le relazioni di vicinato sono una fonte di sfiducia. Esse promuovono la fiducia di coloro
che sono conosciuti e la sfiducia di coloro che non lo sono, come di coloro che
sono nel vicinato o al di fuori delle reti” (Levi 1966, 51). Non è sempre il caso che
“l’appartenenza a un genere di società porta a superare il problema del free rider
in un altro” (Levi 1966, 49). Inoltre, persino la cooperazione non spiega l’azione
politica: “Le effettive domande possono non essere domande democratiche o
esse possono rappresentare solo uno spettro limitato dell’elettorato” (Levi 1996,
49). Le analisi più recenti hanno infatti guardato alla diversa capacità di diversi
tipi di associazioni nel costruire capitale sociale, indicando ad esempio la maggiore efficacia nel creare rapporti di fiducia e reciprocità delle associazioni di
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Donatella della Porta
Capitale Sociale, opinioni sul governo e corruzione politica
volontariato sociale rispetto a quelle di difesa di interessi di piccolo gruppo (ad
esempio, Stolle e Rochon 1998). Non sempre, inoltre, la fiducia in sé stessi e
negli altri si traduce in fiducia nelle istituzioni rappresentative (Diani 2000). Lo
stesso Putnam ha distinto del resto tra il bonding delle associazioni chiuse verso
l’esterno e il bridging prodotto invece dalle associazioni inclusive (Putnam
2000). Recenti analisi empiriche hanno poi messo in discussione il collegamento tra esistenza di reticoli sociali e fiducia (in particolare fiducia nello Stato),
anche nelle forme di associazionismo orizzontale e orientato alla produzione di
beni collettivi (Caiani 2002, Diani 2000). Si spiega così come mai, mentre in genere nelle democrazie occidentali la fiducia nel governo, e spesso anche la fiducia
negli altri, diminuisce, la partecipazione in associazioni volontarie tende invece a
crescere.
Terza critica: le associazioni non hanno il monopolio della produzione di
capitale sociale. Il capitale sociale può essere prodotto da altre istituzioni collocate “al di sotto” delle associazioni, come la famiglia o i rapporti sul lavoro
(Newton 1997), o da istituzioni “al di sopra” delle associazioni, quali la scuola
(Newton 1997, Younnis et al. 1997), le chiese (Wood 1997), le organizzazioni di
movimenti sociali nazionali (Minkoff 1997), le comunità “immaginarie” (Ewards
e Foley 1997), o persino da partiti politici e governi (Tarrow 1996). Infatti, la fiducia può derivare da relazioni non faccia a faccia (ampie appartenenze socio-politiche, identità collettive) e da organizzazioni non orizzontali (quali le autorità
verticali). Le caratteristiche del welfare state come quelle del sistema educativo
spiegano la sopravvivenza di una forte vita associativa in Gran Bretagna (Hall
1997). I governi cittadini sponsorizzano attivamente le associazioni civiche (per
esempio, Tarrow 1996; Portney e Berry 1997). Il capitale sociale può, di conseguenza, dipendere dal rendimento del governo: come Levi ha osservato, “i
governi possono anche essere una fonte di capitale sociale. Il rendimento politico può essere una fonte di fiducia, non un risultato” (1996, 50). Infatti, “Le obbligazioni, le aspettative, le norme, le sanzioni, e l’autorità dello Stato – per non
menzionare le sue funzioni come distributore di informazioni e risorsa organizzativa – costituiscono la fondamentale istituzionalizzazione del capitale sociale
alla Coleman” (Foley ed Edwards 1997, 557). E, secondo Huntington (1968),
fiducia e cooperazione sono i risultati del governo efficiente.
Infine, dal punto di vista empirico è stato messo in discussione il declino del
capitale sociale di tipo associativo (suggerendo che esso è invece divenuto, nella
“seconda modernità” più informale e, di conseguenza, non misurabile attraverso
le operazionalizzazioni proposte da Putnam), e quindi anche gli effetti dei processi citati da Putnam come cause di riduzione del capitale sociale. Non solo, ad
esempio, si è messo in dubbio che la televisione riduca il capitale sociale, ma si
è anche osservato che le nuove tecnologie possono produrre capitale di tipo
nuovo: ad esempio, Internet sembrerebbe facilitare relazioni non solo virtuali,
offrendo risorse aggiuntive per processi di aggregazione e costruzione di fiducia
(ad esempio, Freschi 2002).
Sintetizzando, dalle critiche fin qui esposte, emerge una concezione di capitale
sociale diversa rispetto a quella proposta da Putnam. In effetti nel concetto di
capitale sociale “à la Putnam” sono state combinate insieme non solo singole
variabili (e diverse dimensioni di capitale sociale), ma anche complesse concate-
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nazioni di nessi causali, in quello che appare più come un insieme di ipotesi che
come una definizione concettuale. Reticoli sociali (principalmente di tipo associativo) produrrebbero norme di comportamento che scoraggiano la defezione,
riproducendo così una fiducia che tenderebbe ad estendersi a sempre nuovi
attori, inclusi i governi. In realtà, questi nessi causali andrebbero controllati
empiricamente ed indagini empiriche recenti suggeriscono infatti che, soprattutto, le diverse dimensioni della fiducia non sono cumulative (né tutte benefiche per il bene comune, o il rendimento istituzionale) e che diversi tipi di reticoli hanno diversi effetti su di esse. Se definiamo quindi, come farò in quello che
segue, capitale sociale in modo neutrale come risorse di relazione che permettono di superare, all’interno di un gruppo, il problema della defezione, occorre
tener presente che il capitale sociale non è necessariamente orientato al bene
pubblico, ma alla realizzazione dei fini (buoni o cattivi) dei singoli gruppi nella
società.
Secondo i critici di Putnam, dovremmo, di conseguenza, modificare il modello
esplicativo, come è mostrato nella figura 2.
Fig. 2
“comunità benedette”
“comunità sfortunate”
buon governo
corruzione politica
fiducia nel
governo
buon
capitale sociale
sfiducia nel
governo
mancanza di
“buon capitale
sociale”
Un primo passo nell’analisi dovrebbe essere rivolto a controllare se e fino a che
punto la corruzione e la fiducia nel governo sono correlate l’una con l’altra.
Prima di tutto (in questo testo, nel paragrafo che segue), userò i dati disponibili
sulla corruzione e le opinioni sul governo al fine di discutere le ipotesi sopra
elencate. Come vedremo, la corruzione è infatti inversamente correlata con la
fiducia nel governo – sebbene questo non produca lo stesso genere di effetti in
tutti gli aspetti della partecipazione politica. Che cosa comunque determina questa relazione? Quale è la direzione causale? E come questa interagisce con la presenza/assenza di capitale sociale?
Quindi (in questo testo, nel paragrafo sulla fiducia nel governo), userò i risultati
di una ricerca sulla corruzione politica in Italia per investigare le qualità di questi legami. Prima di tutto (in questo testo, nei paragrafi sulla corruzione politica
e in quelli seguenti), suggerirò che la corruzione politica attualmente indebolisce il rendimento istituzionale, riducendo di conseguenza la fiducia nella capacità del governo di indirizzare le richieste dei cittadini. Secondo, comunque, e
meno ovvio, la mancanza di fiducia nel governo effettivamente favorisce la cor-
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Donatella della Porta
Capitale Sociale, opinioni sul governo e corruzione politica
ruzione in quanto trasforma i cittadini in clienti e corruttori, che cercano protezioni private per ottenere accesso al mercato delle decisioni (in questo testo, nel
paragrafo sulla fiducia nel governo). La relazione tra (s)fiducia nel governo e corruzione politica non è comunque una relazione causale, dove la direzione della
causalità possa essere facilmente tracciata: al contrario, corruzione e sfiducia si
alimentano l’un l’altra, producendo circoli viziosi.
Lo stesso può essere detto del capitale sociale. Lontano dall’essere il dominio di
relazioni anomiche, gli scambi tra corrotti sono favoriti quando la corruzione
diventa sistemica – cioè, quando si sviluppa un sistema di norme sociali e reti nel
quale, corrotti, corruttori, mediatori, clienti possono ridurre i rischi e i costi che
sono impliciti nella partecipazione ad attività illegali. Il “cattivo” capitale sociale
è infatti necessario per produrre la reciproca fiducia che è tanto più indispensabile per condurre affari in clandestinità – dove nessuna legge formale, nessuna
polizia, nessun giudice può essere utilizzato per implementare gli accordi di
fronte a possibili defezioni (in questo testo, nel paragrafo sul “cattivo” capitale
sociale). A sua volta, la corruzione politica riproduce il “cattivo” capitale sociale,
riscrivendo quelle cose che appartengono alle “giuste” reti e che implementano
le “giuste” norme. Ancora una volta, la ricerca sul caso italiano può aiutare a sviluppare alcune ipotesi sulle caratteristiche di questo “cattivo” capitale sociale (in
questo testo, nel paragrafo sui corruttori).
Subito, farò riferimento, in forma illustrativa, a una ricerca sulla corruzione politica in Italia basata su documenti giudiziari relativi a 40 episodi di corruzione,
interviste in profondità con esperti, atti parlamentari e la stampa quotidiana e
settimanale1. Osservazioni comparate verranno sviluppate sulla base di un’analisi secondaria della ricerca in materia (della Porta e Mény 1997; della Porta e
Vannucci 1999).
La fiducia nel governo è influenzata dalla corruzione politica?
Verificare empiricamente la relazione tra la corruzione politica e la fiducia nel
governo non è impresa facile. La costruzione di spiegazioni causali sulla corruzione politica è ostacolata dalla difficoltà di misurare le frequenze degli scambi
corrotti. Come in ogni forma di crimine, le statistiche ufficiali – basate su fonti
giudiziarie e politiche – includono solo la parte emergente del fenomeno. Non
soltanto esse sottostimano l’ammontare della corruzione, ma non vi è ragione di
credere che la parte emersa dell’iceberg sia rappresentativa della parte sommersa. Al contrario, sarebbe più saggio ipotizzare che la distribuzione degli eventi di
corruzione “scoperti” e le loro caratteristiche sono influenzate sia dalla strategia
investigativa degli apparati repressivi dello Stato, sia dal grado di tolleranza per
le attività illegali in certi gruppi sociali, o nella pubblica opinione in genere.
Questi problemi sono persino più seri per un crimine che, come la corruzione,
spesso non ha vittime visibili, mentre il potenziale rischio per coloro che denunciano un’azione corrotta può essere piuttosto alto. Recenti esperimenti con indici di corruzione basati sulle percezioni del fenomeno da parte di esperti sono
soggetti a serie critiche in termini di affidabilità – almeno, se ci si aspetta che essi
riflettano il reale ammontare della corruzione.
Questo significa che ogni tentativo di costruire modelli esplicativi della corruzio-
1
I risultati di questa
ricerca sono presentati in della Porta
(1992), Vannucci
(1997), della Porta e
Vannucci (1994,
1994a e 1994b). Vedi
anche della Porta e
Pizzorno (1996). Per
una prospettiva comparata, vedi della
Porta e Mény (1996).
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ne politica si scontra con la difficoltà di misurare accuratamente la variabile dipendente. Siccome noi vogliamo, comunque, indagare gli effetti della corruzione sulla
fiducia, possiamo assumere che, per influenzare la fiducia nel governo, la corruzione ha, nei fatti, bisogno di essere visibile. I dati dell’Indice sulla Percezione della
Corruzione di Transparency International possono costituire un punto di partenza per una comparazione cross-nazionale. Come per la fiducia nel governo, possiamo partire dall’analisi dell’opinione sul governo nella classica formulazione
dell’Eurobarometro. Focalizzeremo l’attenzione sul caso italiano, considerato
come un caso di corruzione diffusa.
Grado di non-corruzione percepita
Fig. 3 Percezione della corruzione
Paese
Fonte: 997 Transparency International (TI); misure ordinate di corruzione of 54
paesi. L'indice è basato su 10 surveys con esperti sulla diffusioine percepita della
corruzione (10 = assenza di corruzione; 0 = massima corruzione).
Fig. 4 Soddisfazione con il funzionamento della democrazia
Year
Germania
Francia
Italia
Fonte: Eurobarometro, 1974-95, anche in della Porta e Vannucci. 1999.
10
Donatella della Porta
Capitale Sociale, opinioni sul governo e corruzione politica
Confrontando i dati sulla percezione della corruzione (fig. 3), con i dati sull’opinione sul governo (fig. 4), possiamo osservare una certa correlazione tra le due variabili. I rispondenti che sono insoddisfatti (“non molto soddisfatti” e “non soddisfatti
del tutto”) del funzionamento della democrazia tra il 1974 e il 1995 oscillano tra 70
e 90% in Italia (invece, per esempio, tra 40 e 60% in Francia e tra 15 e 40% in
Germania). Nell’Indice di Trasparency International, l’Italia è il paese più corrotto
dell’Unione Europea, seguita da Belgio, Grecia, Francia, Portogallo, Regno Unito,
Germania, Irlanda, Lussemburgo, Finlandia, e Danimarca2 . Infatti, i dati
dell’Eurobarometro per il 1995 indicano che i più soddisfatti della democrazia (con
livelli di molto o abbastanza soddisfatti che variano tra 70 e 83%) sono precisamente i Danesi, i Norvegesi, i Lussemburghesi, gli Olandesi e gli Irlandesi, cioè i cittadini di quei paesi che si collocano al vertice dell’indice di “non-corruzione”. In un’analisi cross-nazionale della percezione della corruzione e della fiducia nella democrazia nel Sud Europa, Morlino osservava infatti che, almeno in Italia e Grecia, “la
coerenza tra il trend di insoddisfazione e l’estensione della copertura della corruzione è molto forte” (Morlino 1998, 315). In generale, nel Sud Europa, “la rassegna
delle fonti giornalistiche dà forte sostegno empirico alla rilevanza delle notizie sulla
corruzione per la crescita dell’insoddisfazione” (Morlino 1998, 317). Lo stesso è
stato dimostrato essere vero per il Giappone, dove l’insoddisfazione politica tra il
1978 e il 1995 si correla molto bene con la corruzione “scoperta”, come indicata dal
numero di articoli di corruzione nei giornali (Pharr 2000). Se guardiamo alla evoluzione nel tempo, vediamo che la fiducia nel governo declina negli anni Novanta,
quando emergono gli scandali politici, di diversa rilevanza, in tutti e tre i Paesi. In
Italia, i cittadini insoddisfatti del funzionamento della democrazia sono sopra l’80%
negli anni Settanta, scendono al 70% negli anni Ottanta (con il livello più basso nel
1988), e aumentano di nuovo dopo il 1989, raggiungendo un picco nel 1994. Anche
le tendenze nella percezione della corruzione, misurate secondo gli Indici di
Transparency International, indicano un costante aumento dal 1980 al 1996, con un
declino solo nel 1997 (della Porta 2000). Se compariamo la tendenza italiana all’insoddisfazione per il funzionamento della democrazia con le statistiche ufficiali sulla
corruzione (secondo l’Istituto Italiano di Statistica, ISTAT) presentate nella fig. 5,
possiamo osservare comunque che la relazione tra corruzione “scoperta” e fiducia
nel governo non è una facile, diretta correlazione inversa.
2
Una correlazione
tra diffusione della
corruzione percepita e
soddisfazione con il
funzionamento della
democrazia si può
osservare anche in
Europa dell’Est e
America Latina
(Klingemann 1999,
tab. 2.10).
Fig. 5 Statistiche ufficiali sulla corruzione in Italia, 1984-95
Year
Delitti commessi
Numero di persone coinvolte
Fonte: ISTAT
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n.5 / 2002
Infatti, la mancanza di fiducia nella democrazia declina negli anni Ottanta, quando il numero dei crimini di corruzione presente nelle statistiche era più o meno
stabile; aumenta insieme con il primo aumentare dei reati di corruzione; e quindi declina mentre la curva del crimine è ancora al suo picco. Questo significa che
le tendenze di insoddisfazione della democrazia sembrano essere correlate alla
corruzione politica visibile specialmente quando lo scandalo emerge, mentre
l’attivismo del potere giudiziario contro i politici corrotti (e le riforme “forzate”
del sistema politico che sono seguite alle investigazioni giudiziarie) aumentano
la fiducia nella democrazia anche se il numero di crimini scoperti è in crescita, o
almeno è ancora alto. Dopo un primo “shock”, la scoperta di casi di corruzione
può essere considerata dal pubblico un segnale positivo: il segno che le autorità
sono impegnate in una battaglia contro la corruzione.
Inoltre, se compariamo la curva della sfiducia nel governo in Italia con quella
della scoperta di casi di corruzione, possiamo osservare che mentre la corruzione aumenta negli anni Ottanta, la sfiducia nel governo segue un differente percorso. Come indicano Leonardo Morlino e Marco Tarchi (1996, 54-55; cfr. anche
Morlino 1998, cap. 7), comparando le curve dei totalmente insoddisfatti con
quelle dei leggermente insoddisfatti, vi sono infatti due tipi di sfiducia, che
seguono differenti modelli: la sfiducia ideologica nella democrazia tende a decrescere, con una legittimazione della democrazia persino nei sostenitori dei partiti di opposizione; la sfiducia strumentale nei presenti risultati del governo democratico invece aumenta tra i sostenitori dei partiti al governo. Mentre negli anni
Ottanta c’è un declino della insoddisfazione (ideologica) per la democrazia sul
versante della Sinistra, l’aumento della insoddisfazione (strumentale) per la
democrazia interessa non solo gli elettori di sinistra ma anche quelli di centro
(Morlino 1998, 305-07).
Una seconda avvertenza emerge se guardiamo alla fiducia per diverse istituzioni
(tab. 1). Secondo i dati relativi alla fiducia in diverse istituzioni nel 1981 e nel
1990, l’Italia, se comparata con la media europea, è caratterizzata da una bassa
fiducia nel sistema di istruzione (con un brusco declino tra gli anni Ottanta e i
Novanta), nel Parlamento e nell’amministrazione pubblica (stabile in entrambi i
casi). Come per il sistema di istruzione, non solo la fiducia è bassa, ma la tendenza declinante contrasta con un significativo aumento in altre democrazie
europee, quali la Francia e la Germania. Comunque, gli Italiani non sono sfiduciati rispetto a tutte le istituzioni: essi credono (spesso più di quanto facciano i
tedeschi) nelle grandi imprese e nella Chiesa. Allo stesso modo, i giapponesi reagivano agli scandali politici attribuendo differenti tassi di fiducia a varie istituzioni domestiche, penalizzando – come nel caso italiano – le più importanti istituzioni della democrazia rappresentativa (Pharr 2000). Ultima osservazione: secondo l’Eurobarometro, tra il 1976 e il 1993 la fiducia tra i cittadini aumenta, in Italia,
con una tendenza opposta rispetto alle opinioni sul governo. Non si può affermare, dunque, che la corruzione influenza la fiducia nelle differenti istituzioni
nello stesso modo. Sulla base dei dati riferiti prima, la corruzione sembra ridurre
la fiducia nelle istituzioni rappresentative pubbliche e nei partiti politici, ma non
sembra influenzare la fiducia nelle istituzioni private o la fiducia interpersonale.
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Donatella della Porta
Capitale Sociale, opinioni sul governo e corruzione politica
Tab. 1: Fiducia nelle istituzioni in Italia, Francia e Germania nel 1981 e 1990
Fiducia
nelle
istituzioni
Chiesa
Sistema
educativo
Stampa
Sindacati
parlamento
Amministra- Grandi
zione statale imprese
Italia 1981
58
56
32
29
30
27
33
Italia 1990
63
48
39
34
32
27
62
Francia 1981
54
57
33
40
56
53
49
Francia 1990
50
66
38
32
48
49
67
Germania 81
44
43
32
38
52
33
34
Germania 90
40
54
34
36
51
39
38
Europa 81
54
64
33
40
50
45
41
Europa 90
50
67
35
41
48
44
50
Sintetizzando, la fiducia nel governo appare influenzata dagli scandali politici –
sebbene la corruzione politica non influenzi nello stesso modo la fiducia in varie
istituzioni.
Come la corruzione politica produce sfiducia nelle istituzioni
Qual’è la spiegazione per la correlazione osservata tra la corruzione politica e la
fiducia nel governo? Prima di tutto, la corruzione politica riduce la fiducia nel
governo nella misura in cui riduce l’efficienza e l’efficacia dell’attività della pubblica amministrazione – almeno in relazione alla sua capacità di produrre beni
pubblici. Questa non è un’affermazione banale. Per lungo tempo, l’approccio
funzionalista alla corruzione politica ha enfatizzato gli effetti positivi che la corruzione può avere sia nell’“oliare” i meccanismi politici e burocratici “bloccati”,
che avrebbero, altrimenti, ostacolato lo sviluppo, sia nel modernizzare il sistema
politico, sia nell’attenuare il ricorso alla violenza politica, sia nel favorire l’integrazione sociale e la formazione del capitale economico3. La ricerca sul caso italiano indica che la corruzione peggiora efficacia ed efficienza della pubblica
amministrazione. Infatti, la corruzione: a) introduce distorsione nella domanda
pubblica; b) aumenta il costo, riducendo la qualità e ritardando il completamento dei lavori pubblici; c) produce ritardi nell’accesso alla pubblica amministrazione per quelli che non pagano tangenti; d) riduce la produttività delle imprese che interagiscono con la pubblica amministrazione.
La corruzione e la distorsione della domanda pubblica
La definizione della domanda pubblica è un passaggio centrale nel processo politico democratico dal momento che è qui che il sistema amministrativo si confronta con i bisogni e le domande dei gruppi sociali. La mediazione politica è il
filtro attraverso il quale gli interessi sono articolati e aggregati e il suo compito è
3
Sulle funzioni positive della corruzione
politica nei paesi in
via di sviluppo, cfr.
Huntington (1968),
Merton (1957), Leff
(1964) and Nye (1967),
tra gli altri, e un
numero di recenti analisi economiche, per
esempio Beck e Maher
(1986), e Lien (1986).
Per una rassegna critica, cfr. Cartier-Bresson
(1997, in particolare
pp. 52-55).
13
n.5 / 2002
"di individuare i bisogni e i desideri della popolazione, interpretarli, selezionarne quelli politicamente esprimibili, generalizzarli, proporre provvedimenti e
politiche, e avanzare giustificazioni e critiche di queste, o, nel caso, dar ragioni
riguardo al perché certe domande non si possano soddisfare" (Pizzorno 1992,
22). La corruzione altera radicalmente questa funzione, privilegiando la soddisfazione della cosiddetta “domanda interna” (Chevallier e Loschak 1983, 113). La
corruzione, e la complicità tra coloro che sono corrotti, causa un indebolimento
nei vincoli istituzionali designati a proteggere l’interesse generale nella formulazione della domanda pubblica, e quest’ultima viene decisa essenzialmente dagli
interessi di quelli che partecipano allo scambio corrotto.
Quando la corruzione politica è sistemica, la gestione discrezionale della spesa
pubblica spesso diventa un obiettivo in sé. Lo scopo degli amministratori è di
attrarre la quantità di risorse più ampia possibile verso le aree in cui essi hanno
potere per intascare una ricompensa per la mediazione nella forma di una tangente e/o guadagnare sostegno come un risultato degli effetti dell’investimento
pubblico in termini di occupazione (gestita attraverso scambi clientelari). La
spesa pubblica è, quindi, distorta verso quei settori dove i guadagni dalla corruzione sono maggiori e nei quali la natura discrezionale delle procedure riduce i
rischi di un illecito. In generale, una attenzione limitata è prestata alla misura in
cui questi lavori o servizi rispondono ai bisogni della collettività. Non è nemmeno necessario che i lavori siano completati o messi in funzione, come è dimostrato dai progetti infiniti mai terminati o mai realmente usati. Come si legge in
una sentenza di primo grado sul “Clan Teardo” di Savona, in Italia, le azioni degli
amministratori corrotti producono "una più radicale e grave distorsione dell'attività amministrativa, consistente nella scelta dei lavori da appaltare non in funzione delle effettive necessità tecniche, ma solo in funzione della più sicura e
comoda esazione delle tangenti" (TRIS 1985, 155; cfr. anche Somogyi 1992, 80).
Di nuovo in Italia, i massicci investimenti di fondi speciali per eventi quali le
Colombiadi o la Coppa del Mondo del 1990, per esempio, si sono indirizzati
verso lavori pubblici che più tardi si sono rivelati non necessari, esorbitanti o
semplicemente impossibili da realizzare, ma che erano stati lucrativi in termini di
tangenti per alcuni amministratori degli enti interessati dai progetti.
L’aumento dei costi
La ricerca sulla democrazia contemporanea ha suggerito che soltanto molto
raramente la corruzione assume caratteristiche estorsive (della Porta e Mény
1996; della Porta e Vannucci 1994). In molti casi, gli imprenditori non sono le vittime di avidi politici, ma piuttosto i loro complici. Come tali, essi godono tanto
quanto i politici corrotti dei vantaggi di uno scambio corrotto e volontario. Le
tangenti non sono infatti prese dalle “tasche” degli imprenditori: esse provengono invece da una rendita prodotta politicamente. Grazie alla protezione dei politici corrotti, gli imprenditori ottengono infatti profitti extra dai loro contratti con
la pubblica amministrazione: essi sono pagati più del valore di scambio dei loro
prodotti sul mercato privato, oppure pagano meno del valore di mercato per servizi forniti dallo Stato. I giudici italiani hanno osservato che "grave è il danno concretamente subito dagli enti pubblici (...), attraverso il meccanismo innescato
14
Donatella della Porta
Capitale Sociale, opinioni sul governo e corruzione politica
dalla necessità, per gli imprenditori depauperati a profitto dei colpevoli, di reintegrare le perdite subite a causa delle concussioni, dalla conseguente lievitazione dei prezzi, dalla non buona esecuzione delle opere, dalla proliferazione delle
revisioni, dai lavori extra-contrattuali e dalle perizie suppletive" (TRIS 1985, 434).
Entrambi, corruttore e corrotto, condividono un interesse nell’avere i costi delle
tangenti coperti dal denaro pubblico al fine di allargare i loro margini di guadagno. Alla fine del processo, come altri magistrati hanno osservato, "non è più
possibile distinguere chi conduce il gioco da chi lo subisce, perché le indebite
richieste dei funzionari hanno potuto indurre i fornitori a rincarare ulteriormente i prezzi e i funzionari, abituati ad essere compensati a percentuale, non solo
non hanno avuto interesse a far osservare i listini ufficiali ma hanno avuto, semmai, l'interesse contrario" (ACA 1991, 60-1). Offerte più basse di quelle che il
mercato avrebbe permesso, assegnazione discrezionale di contratti, continue
revisioni dei prezzi e modificazioni dei servizi contratti permettono che gli ostacoli legali procedurali vengano evitati e, come risultato, la pubblica amministrazione si comporti (usando un’espressione incontrata frequentemente nel corso
della ricerca) “come il più irresponsabile degli attori privati”.
In Italia, la scoperta di casi di corruzione normalmente coincide con la realizzazione che la pubblica amministrazione sta pagando troppo per beni e servizi che
non infrequentemente risultano essere di scarsa qualità. Per esempio, un’indagine della Corte dei Conti sul programma di costruzione di prigioni ha rivelato casi
in cui il costo finale era venti volte quello originariamente stimato o nei quali i
lavori erano durati venti anni (L’Espresso, 13/3/88, 11). Di 20 progetti approvati
nel 1972, solo 4 erano stati completati al 31 dicembre 1987. La variazione nel
costo per ogni carcerato era straordinaria, variando da 27 milioni di lire per
Bergamo a 320 milioni per Firenze. Anni di ritardo si accumulano aspettando l’ispezione finale dopo la fine dei lavori (tre anni e mezzo nel caso di Salerno).
Varianti nel progetto dopo che il lavoro era già in corso d’opera portavano a far
demolire edifici già quasi completati, come accadde ad Ascoli Piceno. Anni sono
passati con lavori sospesi o rinviati: 1.019 giorni a Ivrea, per esempio, o 1.135 a
Vercelli. In aggiunta, più del 40 per cento dei progetti per nuovi istituti di pena
sono stati da allora abbandonati perché era stato scoperto più tardi che non
erano disponibili terreni su cui costruirli (CC, 1988, vol. III, 28). Questi esempi
di lavori estremamente superpagati e ritardati significativamente si sovrappongono allo scandalo delle “prigioni d’oro” che, nel 1988, ha rivelato una vasta rete
di corruzione, gli imprenditori che si erano aggiudicati contratti avendo pagato
funzionari, politici locali e ministri di governo. Una storia simile può essere raccontata della privatizzazione nella ex Repubblica Democratica Tedesca, dove
imprenditori corrotti, versando tangenti ai funzionari pubblici responsabili, potevano comprare proprietà pubbliche o licenze a molto meno del loro valore effettivo (Seibel 1997).
Spesso, un modo per i politici corrotti di produrre rendita politica per una fabbrica protetta è quello di pagare – con denaro pubblico – per servizi inesistenti.
I beni più impalpabili, come una valutazione di esperti o una mediazione, sono i
più difficili da controllare – e di conseguenza i preferiti per questi scambi. Infatti,
come indica il caso italiano, i partiti politici possono, in via non ufficiale, costituire imprese – spesso senza esperienze professionali – e queste possono par-
15
n.5 / 2002
tecipare alle aste pubbliche. Come indica il caso francese, simili imprese possono anche essere utili per raccogliere tangenti dagli imprenditori. In Francia, per
esempio, varie associazioni, spesso finanziate dallo Stato, sono cresciute attraverso i legami con i partiti politici, permettendo loro di raccogliere denaro ed
aggirare, allo stesso tempo, le regole dei controlli pubblici. Queste associazioni
danno salari ai membri dei partiti con cui sono collegate, finanziano in vario
modo le loro campagne e pagano le attività dei partiti (Becquart-Leclerc 1993, 910; Mény 1992). Uno degli scandali che spinsero i Socialisti fuori dal governo era
collegato alla rivelazione delle attività di Urba, un ufficio studi che raccoglieva
finanziamenti illegali per il Partito Socialista, distribuendoli, nelle parole del suo
Direttore, “secondo il principio del 40-30-30 (40% per i funzionari di Urba, 30%
per i referenti nazionali del partito, 30% per gli politici eletti negli enti locali)” (Le
Monde, 3/3/1995). Raccogliendo tangenti dagli imprenditori locali (mascherate
come compensi per servizi che non erano stati forniti), Urba pagava il salario di
funzionari della sede centrale del partito, così come varie spese della campagna
politica a livello centrale e locale (Le Monde, 3/3/1995).
Corruzione, corsie “veloci” e corsie “lente”
Quando lunghi ritardi divengono la regola, un funzionario può chiedere una tangente semplicemente per fare il suo lavoro entro tempi regolari. Ma quando un
trattamento preferenziale è ottenuto attraverso la corruzione, il resto del pubblico è ancora di più soggetto agli effetti negativi dell’inefficienza attraverso ingorghi ed ostacoli. Dal momento che il tempo dei funzionari è una risorsa limitata
che deve essere sottratta da un obiettivo per realizzarne un altro, allora l’impresa che riceve i pagamenti più rapidamente attraverso tangenti rallenta i pagamenti alle altre. Infatti, l’agente corrotto deve trascurare casi ugualmente meritevoli per avvantaggiare la persona che ricorre alla corruzione; la rapidità di un
dossier, ritarda l’altro. Per esempio, il funzionario in cerca di pagamenti per il
Servizio Sanitario Locale Siciliano (USL 35), più tardi condannato per corruzione,
"lasciava giacere per un certo lasso di tempo una gran mole di fatture, adducendo la scusa che non era in grado di definire queste pratiche, mentre era sollecito nel vistare alcune fatture senza il rispetto dell'ordine cronologico" (ACA 1991,
58-9).
La selezione “in negativo” delle imprese
Dove la corruzione è diffusa, non è solo l’efficienza produttiva – cioè, l’abilità di
realizzare l’obiettivo richiesto più rapidamente e con un minore consumo di fattori produttivi – ad essere ridotta, ma anche la capacità di costruire relazioni di
amicizia e fiducia con coloro che prendono le decisioni pubbliche, per esempio,
o mostrano un’assenza di scrupoli morali. L’abilità di offrire prodotti di maggiore qualità o a minore costo è comunque solo uno (e spesso non il più importante) dei fattori che aumenta la probabilità di ottenere un collegamento con un
sistema dove domina la corruzione. Al contrario, le imprese più efficienti possono non avere successo precisamente perché i loro competitori, non avendo prospettive sul mercato privato, sono desiderosi di pagare tangenti e accettare pro-
16
Donatella della Porta
Capitale Sociale, opinioni sul governo e corruzione politica
fitti ridotti per mantenere una quota del mercato del settore pubblico. Appena
fonti alternative di profitto si presentano in misura crescente sul mercato privato (o all’estero), le imprese più produttive, in questo modo marginalizzate, sono
le prime ad abbandonare il settore pubblico e sono rimpiazzate dalle meno efficienti. Dato the il ritorno di investimenti nei contatti privilegiati con agenti pubblici probabilmente si rivela maggiore di quello in ricerca e sviluppo di nuove
tecnologie, l’incentivo a seguire l’ultimo corso diminuisce per le imprese che
stanno nel settore pubblico. Le imprese che lavorano regolarmente per la pubblica amministrazione, di conseguenza, tendono a formare un gruppo separato,
produttivamente insufficiente.
Concludendo, risultato della corruzione politica è il cattivo funzionamento dell’amministrazione pubblica. Questo probabilmente riduce la componente “strumentale” della fiducia pubblica. Come il caso italiano indica, in generale, il cattivo funzionamento della pubblica amministrazione genera anche diffuse critiche
tra cittadini e imprenditori con riferimento all’efficienza e all’imparzialità delle
procedure pubbliche – cioè, dell’uguale accesso ai diritti formalmente riconosciuti dalla legge.
Come la sfiducia nel governo facilita la corruzione
Se la corruzione, peggiorando il rendimento della pubblica amministrazione,
sembra ridurre la fiducia nel governo, la sfiducia e le basse aspettative da parte
degli individui nei confronti dell’efficienza e dell’imparzialità delle procedure
pubbliche facilitano lo sviluppo della corruzione. Come un politico siciliano ha
osservato, “La paralisi trasforma tutti i diritti in favori. Se lei ha bisogno di un certificato o di una licenza di costruzione e li aspetta inutilmente per uno o due
anni, alla fine li chiede e li paga come un favore” (La Repubblica, 17/10/91). Allo
stesso modo, in Francia, lo sviluppo della corruzione politica è stato collegato
con una elementare forma di sfiducia nei confronti dei cittadini che ha moltiplicato i controlli ex-post, che usualmente producono ritardi nei processi amministrativi (Mény 1996, 17).
Per questa ragione, i politici e gli amministratori corrotti hanno interesse a presentare il funzionamento della pubblica amministrazione come inefficiente e
imprevedibile perché essi possano selettivamente offrire protezione da questi
inconvenienti. In cambio di tangenti essi sono desiderosi di garantire più veloce
considerazione di particolari casi, favorevoli interpretazioni delle regole, procedure più semplici e un risultato positivo nei conflitti con la pubblica amministrazione. Dove la corruzione raggiunge quei centri di potere che influenzano le
regole che gli attori devono seguire, procedure irrazionali e contorte tendono a
moltiplicarsi mentre la struttura organizzativa tende a riflettere gli interessi dei
corrotti. Così, la soluzione positiva di una caso particolare viene a dipendere
dalla personalizzazione delle relazioni con la pubblica amministrazione.
Comunque, i politici corrotti usano le inefficienze che essi hanno prodotto per
aumentare la sfiducia nel funzionamento della pubblica amministrazione. Per
esempio, ad un proprietario di terreni edificabili a Firenze fu chiaramente detto
da un intermediario vicino all’amministrazione locale che “nel caso egli non
acconsentisse a pagare [la tangente], il valore dei terreni sarebbe stato imme-
17
n.5 / 2002
diatamente deprezzato perché sarebbe stato risucchiato in un inestricabile labirinto amministrativo”. In breve, “se tu paghi la tangente, lo puoi vendere per un
buon prezzo; altrimenti, un tormento senza fine contro il quale il privato cittadino non ha, in tutti i sensi, altra difesa che ricorrere a un tribunale per un giudizio che, come è noto, richiederà molti anni” (QGF 1986, 338 e 342).
Insieme alla corruzione, cresce così il pessimismo circa l’arbitrarietà dell’azione
amministrativa. L’insoddisfazione per il funzionamento dell’amministrazione
pubblica fa aumentare, di conseguenza, la propensione a cercare protezione tra
coloro che sono inizialmente esclusi dal mercato della corruzione.
Come il (cattivo) capitale sociale favorisce la corruzione
Come entra il capitale sociale in questo disegno? Come qualsiasi altro scambio,
la corruzione politica necessita dello sviluppo di norme di reciprocità. Come una
forma di crimine organizzato, la corruzione necessita, al fine di diventare sistemica, dello sviluppo di fiducia tra i differenti attori che prendono parte allo scambio illegale. Senza la presenza di un “cattivo” capitale sociale, di un insieme alternativo di norme e fiducia, radicato in particolari reticoli, la corruzione non si diffonderebbe. Infatti, la corruzione si è sviluppata insieme ad un sistema alternativo di regole del gioco, fondato su una concezione patrimonialistica dello Stato e
in violazione del potere legale e impersonale della burocrazia.
La relazione tra il corruttore e il corrotto è regolata da un complesso sistema di
norme informali. Come la ricerca sul caso francese ha indicato, “Norme nascoste
regolano la corruzione. La corruzione sistemica non è di conseguenza anomica
ma non sembra così perché le norme sono parallele e implicite. Queste norme,
comunque, sono chiare a coloro che sono ‘nel’ gioco. Essi sono i vincitori …”
(Becquart-Lequercq 1989, 207). Per esempio, nell’inchiesta giudiziaria che conduce all’imputazione del precedente Primo Ministro francese Alain Carignon,
tutte le imprese coinvolte nel sistema di corruzione pagavano la stessa percentuale di tangente per ottenere un contratto pubblico, come una sorta di “giusto
prezzo” per la corruzione (La Repubblica, 27/1/1995, 18). Anche in Italia, la presenza di percentuali fisse da pagare in forma di tangenti in ciascun tipo di asta
pubblica è divenuta una “regola del gioco”, informale, ma ben nota e implementata da coloro che prendevano parte nel gioco corrotto. In queste situazioni, il
pagamento della tangente era facilitato dalla convinzione diffusa – enfatizzata da
coloro che cercavano contributi - che essa fosse inevitabile. La presenza di precisi tassi di pagamento riduceva il rischio di sfibranti negoziazioni tra il corruttore e il corrotto.
Un complesso sistema di valori era sviluppato al fine di neutralizzare ogni senso
di colpa circa la partecipazione allo cambio corrotto. Sul lato del pubblico ufficiale, l’accettare tangenti era giustificato come la via per pagare ai politici quanto “dovuto” – spesso presentato come la capacità di comprendere come la politica lavora realmente. Dal lato degli imprenditori, il pagare tangenti era legittimato in nome del supremo bisogno di fare profitto – spesso concepito come il
dovere di non licenziare operai. L’interiorizzazione di alcune regole del gioco è
quindi necessaria al fine di corrompere politici e imprenditori per raggiungere i
loro accordi. In un sistema illegale di scambio, un alto grado di fiducia e reci-
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Donatella della Porta
Capitale Sociale, opinioni sul governo e corruzione politica
procità era necessario tra i differenti attori. Una buona reputazione nel rispettare i termini dello scambio illegale – spesso chiamata “onestà” – era infatti considerata un’importante qualità dagli attori coinvolti nella corruzione.
Queste norme e fiducia sono intrecciate in speciali reticoli. Le reti di potere, i cui
fini ufficiali si estendono dalla carità alla promozione della cultura, servono per
illecite pressioni e la negoziazione di, più o meno legali, affari. In questi luoghi si
incontrano differenti interessi e patti illegali sono negoziati. Nel caso italiano,
come in quello francese, per esempio, libere logge massoniche deviate giocavano un importante ruolo nello sviluppo della corruzione politica. I Cavalieri di
Malta, il Club degli Anysettiers, i Cavalieri del Santo Sepolcro sono società, più o
meno esclusive, menzionate negli scandali italiani (della Porta 1992; per la
Francia, Mogiliansky 1995, 2). Imprenditori, professionisti, mediatori, politici e
burocrati affaristi, variamente implicati in scambi corrotti, possono sentire il bisogno di incontrarsi l’un con l’altro in un contesto confidenziale, dove essi possono conoscersi, mostrare la rispettiva disponibilità, negoziare e scambiare promesse e retribuzioni. Con la partecipazione nelle associazioni formali e informali (trasversali e riservate) nelle quali gli affari della loro città erano solitamente
decisi, essi potevano acquisire le informazioni necessarie a identificare occasioni
per corruzione e gente corruttibile. Al fine di adempiere a questa funzione di
stanza di compensazione per particolari interessi, i luoghi di incontro dell’élite
locale devono possedere specifiche caratteristiche: essi devono essere “protetti”
dall’attenzione indiscreta o, in altre parole, avere procedure di accettazione
selettive degli appartenenti; ed essi devono riunire, trasversalmente, i vari attori
interessati in, o necessari per, lo scambio. La sfiducia nelle istituzioni visibili,
democratiche può, di conseguenza, convivere con una forte fiducia nelle principali forme di potere nascosto – come Norberto Bobbio (1980) ha segnalato
molti anni fa, in Italia, la corruzione politica così come i tentati colpi di Stato
erano forme di “criptocrazia” spesso intrecciate insieme tra loro.
Concludendo, la presenza di “cattiva” fiducia sociale in termini di un sistema normativo alternativo e di reti nascoste di potere facilita il diffondersi della corruzione.
Come i corruttori creano (cattivo) capitale sociale
A loro volta, la presenza di corruzione politica riproduce queste norme e queste
reti. In particolare, le “strutture” nascoste dei partiti politici coinvolti nella corruzione italiana giocavano l’importante ruolo di una sostenibile “socializzazione”
alle attuali regole del gioco (in generale, cfr. Sherman 1980, 480). Come criminologi hanno osservato tempo fa, “il comportamento criminale è appreso in interazione con altre persone nel processo di comunicazione” (Sutherland e Cressey
1974, 75). Nel caso della corruzione politica in Italia, questo processo comunicativo si sviluppava in particolare dentro il partito politico. Il partito “piazzava” i
suoi uomini in varie posizioni di responsabilità negli organi pubblici; in cambio
pretendeva che essi “si conformassero” alle “regole”, utilizzando quelle posizioni non soltanto per l’arricchimento personale, ma anche per il finanziamento
(illegale) dei partiti.
Attraverso l’assunzione da parte dei partiti di questo ruolo nel socializzare la cor-
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ruzione, il sistema di transazioni occulte si espande. Il partito corrotto socializza
alle regole del gioco (illegale), permettendo al sistema di transazioni occulte di
espandersi. Politici già “introdotti” alle regole del mercato illegale introducono
altri a loro volta. La fedeltà al partito serve per ottenere nomine, che sono successivamente pagate attraverso la distribuzione del denaro acquisito attraverso la
corruzione. Comunque, la creazione di reti nelle quali la corruzione potesse proliferare era un importante obiettivo dei politici corrotti. Gli “uomini politici affaristi” italiani erano infatti ben dotati in termini di altre capacità tradizionalmente
considerate valide per una carriera politica: l’abilità di costruire reti, saldare relazioni, creare legami di fiducia e incoraggiare obblighi e favori reciproci (Pizzorno
1992). Certamente molti dei politici coinvolti dalle investigazioni passavano gran
parte del loro tempo creando questo intreccio di reciproci collegamenti, amicizia strumentale e fiducia reciproca. Simili meccanismi si sviluppano dal lato delle
imprese.
Il circolo vizioso della corruzione e della sfiducia nel governo:
alcune conclusioni
Il capitale sociale, la fiducia nel governo e il rendimento istituzionale sono, nella
nostra analisi, correlati l’un l’altro. I dati disponibili sulla percezione della corruzione e della fiducia nel governo indicano che la fiducia nel governo appare
declinare quando la corruzione è percepita come diffusa. Comunque, il declino
della sfiducia al governo negli anni Ottanta, quando la corruzione era in crescita,
può essere spiegato dalle differenti dinamiche della fiducia/sfiducia “ideologica”
contro la “strumentale”. Inoltre, il declino della fiducia in alcune istituzioni coesiste con l’aumento della fiducia in altre. Perché e come corruzione e fiducia nel
governo sono correlate l’una con l’altra? Per ritornare alle questioni poste nella
nostra introduzione, quale è la variabile indipendente e quale la variabile dipendente? È la corruzione a produrre sfiducia, o la sfiducia a produrre corruzione?
Come è indicato nella fig. 6, nella nostra ricerca, i due fenomeni appaiono interrelati tra loro, evidenziando spirali e circoli viziosi più che chiari nessi causali.
Fig.6: Il circolo vizioso tra cattiva amministrazione, sfiducia nel governo e corruzione
Cattiva amministrazione
sfiducia nell’implementazione dei diritti dei cittadini
Ricerca di protezione
propensione a pagare tangenti(domanda di) corruzione
inclusione selettiva
aumentata (percezione di) cattiva amministrazione.
Da una parte, le indagini sulla corruzione politica indicano che la corruzione
produce cattiva amministrazione attraverso la distorsione della domanda di lavori pubblici, arbitrari aumenti di prezzo dei lavori pubblici, ritardi nell’assegnazione di servizi pubblici per coloro che non pagano tangenti, e selezione inversa
delle imprese. La cattiva amministrazione indotta dalla corruzione riduce la fiducia nel governo di coloro che giudicano il funzionamento di una istituzione
democratica sulla base del suo effettivo rendimento. L’emergere di scandali, con
la evidenza che la cattiva amministrazione è collegata alla corruzione, produce
20
Donatella della Porta
Capitale Sociale, opinioni sul governo e corruzione politica
un ulteriore declino della fiducia. In questo caso, le reazioni sembrano essere di
tipo “morale”, più che di tipo ideologico o strumentale.
D’altro canto, la sfiducia nel governo facilita la corruzione. Prima di tutto, la cattiva amministrazione (qualche volta reale, qualche volta abilmente manipolata)
aumenta il potere discrezionale e arbitrario degli amministratori in ciascuna fase
del processo portando all’acquisto delle decisioni pubbliche con tangenti: dalla
creazione di domanda artificiale alla distorsione del sistema di assegnazione e
all’indebolimento dei controlli. In tale contesto, l’inefficienza generalizzata delle
strutture pubbliche, delle quali i funzionari stessi sono in parte responsabili,
permette loro di “privatizzare” (e vendere) le risorse dei loro uffici in cambio di
tangenti. Il potere discrezionale che accompagna l’inefficienza amministrativa
può essere usato per favorire gli interessi di aspiranti corruttori: quindi, la corruzione si alimenta dell’inefficienza. Quando lunghi ritardi nel portare a compimento certe procedure diventano la regola, persino un funzionario che si limiti
a realizzare il suo lavoro entro i tempi previsti dai regolamenti può domandare
una tangente in cambio di questo, non più atteso, “servizio”. Inoltre, la cattiva
amministrazione causa la crescita di sfiducia nella pubblica amministrazione e
aspettative pessimistiche rispetto all’effettivo godimento dei diritti riconosciuti
per legge, da parte di cittadini e imprenditori. Di conseguenza, vengono cercati
canali privilegiati di accesso alle decisioni pubbliche. La necessità di contatti personali aumenta il desiderio di “comprare” l’accesso pagando le tangenti, in altre
parole, la domanda di corruzione. Attraverso la diffusione di pratiche corrotte,
infatti, si realizza una inclusione selettiva di coloro che pagano. Se uno degli
obiettivi dei funzionari è di raccogliere tangenti, essi hanno un interesse a incoraggiare le condizioni di ritardo procedurale, vischiosità e non prevedibilità che
ampliano i margini per transazioni corrotte. La corruzione quindi aumenta l’inefficienza, ricominciando il circolo vizioso.
Questo modello di interazioni è anche collegato ad un altro circolo vizioso, che
interessa la produzione di “cattivo” capitale sociale. Lo sviluppo della corruzione
politica richiede la presenza di norme informali, reciprocità e reti clandestine. Al
fine di rendere sistemica la corruzione, i costi morali come pure i costi materiali
(quali il rischio di essere denunciati) devono essere abbassati da un sistema normativo nel quale la corruzione è considerata come comportamento “normale”.
La diffusione della stessa corruzione assicura che coloro che rispettano l’accordo illegale saranno ricompensati, mentre i politici che non cercano tangenti,
come pure gli imprenditori che non pagano tangenti, saranno lentamente espulsi dal mercato pubblico e dal sistema politico. A loro volta, gli attori della corruzione politica aiutano la produzione di “cattivo” capitale sociale, socializzando i
nuovi arrivati nel sistema normativo alternativo, imponendo il rispetto dei patti
illegali, e costruendo reti nascoste per gli scambi politici.
Questi circoli viziosi aiutano a spiegare l’aumento della corruzione nel caso italiano: non soltanto il crescente numero di casi giudiziari e il numero di articoli
(che sono, come abbiamo detto, indicatori non molto affidabili dell’ammontare
di corruzione realmente esistente), ma anche la testimonianza di informatori,
indicavano infatti che la corruzione era drammaticamente aumentata negli anni
Ottanta. Un “cattivo equilibrio” si era assestato allora, mentre questi circoli viziosi indebolivano ogni possibile opposizione alla corruzione politica dall’interno e
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dall’esterno del sistema politico. Nelle opinioni diffuse, la corruzione era niente
altro che “il modo nel quale le cose funzionano”. In questa situazione, la corruzione produceva certamente sfiducia nelle istituzioni rappresentative – ma la sfiducia alimentava la corruzione, invece di produrre il crollo del sistema corrotto.
Proprio lo stesso caso italiano indica comunque che il “cattivo equilibrio” della
corruzione diffusa è certamente dopo tutto instabile – distruggendo sia le risorse materiali che simboliche nel tentativo di “comprare” un consenso personalistico. Inoltre, come qualsiasi sistema illegale, la corruzione necessita di più risorse di fiducia e reciprocità – cattivo capitale sociale, nel nostro precedente linguaggio – di quanto sia capace di produrne. Mancando le istituzioni formali specializzate nel compito di rafforzare gli accordi tra gli attori dello scambio corrotto, la tentazione di “vendere fregature” è sempre molto forte. Per sua stessa natura, il sistema corrotto deve espandersi sempre di più, per vincere la complicità di
coloro che, se esclusi, potrebbero denunciare i politici e gli imprenditori corrotti, ma più il sistema si espande, più difficile è tenere un certo grado di controllo
interno sulle reti corrotte. In questa situazione instabile, i circoli viziosi che
riproducevano corruzione si sono temporaneamente interrotti quando la caduta del muro di Berlino produsse una definitiva delegittimazione di quei partiti
politici che avevano costruito la loro raison d’etre sulla difesa dal comunismo.
Allo stesso tempo, la globalizzazione del mercato – come simbolizzato dal trattato di Maastricht –aumentava l’impazienza nei confronti dell’inefficienza dello
Stato che consumava risorse senza produrre i servizi necessari a reggere la competizione dall’estero. Questi sviluppi hanno ridotto la complicità diffusa con il
sistema corrotto, aiutando le indagini di un potere giudiziario che aveva aumentato, sempre di più, la sua autonomia dal sistema politico – ed era sempre più
orientato a surrogare il potere di una classe politica corrotta. Allo stesso tempo,
anche i media (o almeno parte di essi) lanciavano una campagna contro l’immoralità dei politici, cambiando il frame di lettura della corruzione nell’opinione
pubblica.
Le recenti vicissitudini italiane indicano, comunque, che il crollo dei tradizionali
partiti politici e il cambiamento nella classe politica che ha seguito gli scandali
politici non erano sufficienti a produrre un “equilibrio positivo” di buon governo. L’aumento del “buon” capitale sociale, in termini di crescita di partecipazione nelle associazioni di volontariato, non si è riflesso infatti in aumento della
fiducia nel governo.
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Corte di Savona, Sentenza della corte n.145/85, 8/8/1985.
Donatella Della Porta è docente di scienza politica all’università di Firenze e, dal
2003, docente di sociologia allo European University Institute di Firenze. I suoi
principali obbiettivi di ricerca riguardano i movimenti sociali, la violenza politica,
il terrorismo e la corruzione.
La traduzione del testo dall’inglese delle parti non rielaborate in italiano, dall’autrice è stata realizzata da Giuseppe Gangemi. Il testo tradotto é stato ricontrollato dall’autrice.
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n.5 / 2002
Miroslav Prokopijevic
Il capitale sociale nella transizione*
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
Semplicemente non abbiamo buoni modelli di policies
per le economie del Terzo Mondo, della transizione o altre economie
D.C. North 2000, 8
* Questo lavoro è
stato prodotto durante
la permanenza, nel
2002, all’ICER (Centro
Internazionale per la
Ricerca Economica),
Torino, Italia. Non
sarebbe stato scritto
senza il gentile invito
del prof. Roberto
Toniatti (Università di
Trento), a tenere una
conferenza ai suoi
studenti sul capitale
sociale durante la
transizione.
Nessuno potrà sconfiggere il socialismo
fin quando il saccheggio privato continuerà ad essere
l’interesse principale del Parlamento
F. Bastiat, The Law, 1850
In molte società primitive con c’è alcuna regola formale che ordini alla gente di
stare zitta su alcuni temi sui quali la loro società sia particolarmente sensibile.
Ciononostante, si può raramente incontrare qualche individuo di una di queste
società che affronti con mente aperta qualcuno di questi temi delicati. Quello
che impedisce alla gente di discutere temi delicati sono le regole e le norme
informali, piuttosto che quelle formali. In altri termini, una proibizione di costume (tabù), a discutere qualche tema. In molte città europee uno deve pagare per
parcheggiare la macchina, e in aggiunta, deve anche concedere una mancia a
qualche ragazzo del posto, perché la macchina rimanga sicura. Pagare per il parcheggio è una obbligazione legale e formale, mentre dare una mancia ad un
ragazzo o a un esponente di una banda – cosa che qualche volta viene chiamata
racket – è una regola informale, un modo per comprare la sicurezza per una
macchina. In alcuni Paesi, entrambe le spese sono ugualmente importanti ed
entrambe influenzano il comportamento della gente.
Transizione e capitale sociale
La transizione nei Paesi post-comunisti riguarda circa 27 Stati in Europa ed Asia,
con 380 milioni di abitanti in circa 24 milioni di chilometri quadrati.
Le popolazioni dei Paesi in transizione sono così differenti tra loro: parlano 25
diverse lingue ufficiali, e un numero ancora più elevato di dialetti, appartengono
a due razze e almeno a cinque grandi religioni, differiscono tra loro nelle loro origini etniche, abitudini e tradizioni. Alcune popolazioni hanno acquisito dimestichezza con quella che Max Weber ha chiamato “l’etica del lavoro”, altre non
hanno mai sperimentato il lavoro nelle imprese industriali o professionali, alcune vivono in sistemi quasi feudali di comunità locali, altre sono integrate nella
26
Miroslav Prokopijevic
Il capitale sociale nella transizione
società globale (“large society”).
Alcune comunicano con l’aiuto dei mass media e di Internet, altre sono dominate da una psicologia tribale. E alcune sono reciprocamente sconnesse e
sopravvivono di agricoltura estensiva, mentre altre godono i frutti della società
informatizzata.
Così, la transizione è un processo, che non accade nel vuoto. In tutti i più o
meno 27 casi, la transizione è collegata a società specifiche, che hanno ereditato
abitudini e costumi specifici. Le regole informali hanno giocato un ruolo confuso durante il comunismo. Da una parte, esse erano state severamente soppresse, dall’altra hanno notevolmente contribuito al collasso del comunismo.
Le regole informali, come i costumi e le tradizioni, vengono a giocare durante la
transizione un ruolo più grande di quello che hanno giocato sotto il precedente
regime comunista per un’ovvia ragione: il comunismo si è basato su un brutale
rafforzamento delle regole ufficiali e formali e su una forte spinta alla soppressione di quelle informali. Il prezzo notevolmente aumentato per l’indifferenza
delle regole comuniste formali ha indicato che il popolo non ama queste regole.
Un enorme investimento per il controllo e il rispetto dei costi ha drasticamente
aumentato il prezzo di mantenimento del gioco (comunista)1.
Gli alti costi di mantenimento e la più bassa produttività, agendo in combinazione, hanno compresso le risorse nei Paesi comunisti, contribuendo molto al loro
collasso. Con l’innalzamento del prezzo per la violazione delle regole formali, i
leader comunisti intendevano indurre la cooperazione della gente lungo linee
disegnate in modo formale. In alcune aree, le regole comuniste hanno rafforzato l’obbedienza, almeno fin quando il comunismo è durato, mentre in altre
hanno fallito nel farlo. La gente ha smesso di rivolgersi l’un l’altro usando Signore
o Signora, nella conversazione giornaliera, e ha cominciato a usare “camerata” o
“compagno”; la maggioranza della gente si è allontanata dalle proprie pratiche
religiose, anche se queste pratiche non sono sparite del tutto.
D’altra parte, gli sforzi dei comunisti di abolire il matrimonio, come un’abitudine
e istituzione borghese, e di rimpiazzarlo con la poligamia (poliandria) sono completamente falliti, sebbene questo fosse anche una materia di nuova, rivoluzionaria ideologia. Sembra che l’accettazione di regole formali dipenda da due fattori:
primo, in quale relazione le regole formali stanno con quelle informali? Secondo,
se le regole formali debbono essere accettate, cosa c’è in gioco e come questo è
importante per gli individui in questione? Il matrimonio appare una istituzione
più vitale quando comparata con il riferirsi l’un l’altro con i termini Signore o
Signora, e così il matrimonio è stato capace di sopravvivere e persino sopprimere la nuova legislazione comunista, in contrasto con il cortese rivolgersi l’un l’altro dei cittadini, che è temporaneamente scomparso dalla vita pubblica.
Ma persino in quelle aree in cui la legislazione comunista ha malamente fallito,
la classe dirigente comunista ha ordinato che non vi fosse alcuna comunicazione
circa questo fallimento. Nessuno nell’Unione Sovietica, dopo il 1920, ha parlato
della fallita riforma del matrimonio, nessuno ha scritto su coloro che hanno continuato le loro pratiche religiose, non c’era alcuna comunicazione sui media pubblici e sui libri intorno alla prostituzione e al mercato nero.
Se i comunisti hanno fallito nel rafforzare qualche regola, essi si sono procurati
che non vi fosse nessuna notizia sul fallimento. A prima vista, il comunismo sem-
1
Per esempio, la polizia segreta dell’ex
Repubblica
Democratica della
Germania (GDR) ha
impiegato in modo
permanente circa
100.000 poliziotti, e
parecchie centinaia di
migliaia di spie informali, le quali ottenevano ricompense in
forma di onorari
provvisori, migliori
posizioni di lavoro o
permessi di viaggio
all’estero. Questo esercito ha prodotto circa
sei milioni di dossier
su una popolazione di
circa 15 milioni di
persone.
27
n.5 / 2002
2
J.K. Galbraith ha
persino detto:
“L’economia sovietica
ha compiuto un grande progresso nazionale negli anni recenti”
(New Yorker
Magazine, 1984)
3
Ci sono alcuni progetti generali per
misurare quanto è
adatto un qualche
ambiente per realizzare affari (Cfr. The 2002
index of economic
freedom). L’Istituto
Fraser, di Vancouver,
fornisce un altro indice generale.
“Transparency
International” fornisce
una classificazione
nazionale centrata sul
grado di corruzione.
28
brava essere una armonica, buona società. La gente comune, in Occidente, non
può essere biasimata per avere accettato queste notizie, se persino alcuni importanti intellettuali hanno così malamente giudicato la situazione. “È un volgare
errore pensare” – disse Paul Samuelson nel suo Economics nel 1981 – “che molta
gente nell’Europa dell’Est sia miserabile”2 . Questo è stato detto da un economista che ha vinto il premio Nobel qualche anno prima che il comunismo crollasse
da solo nel 1989.
Quando il comunismo ha collassato nei tardi anni Ottanta, la situazione delle
regole formali e informali è stata cambiata.
La transizione post-comunista implica un movimento dal comunismo a qualche
tipo di regime più libero. La transizione consiste – principalmente, ma non
esclusivamente – in un triplice movimento: dalla dittatura alla democrazia, dalla
regola di un partito (o uomo) alla regola della legge, e dall’economia pianificata
all’economia di mercato (Prokopoijevic 2001, 4). “Principalmente, ma non esclusivamente” significa che i cambiamenti trascinano tutti i segmenti in vita, cioè
essi vanno oltre le tre sfere sopra menzionate, ma il che cosa accade in queste
tre sfere semplicemente determina il successo della transizione.
La transizione implica il riconoscimento degli alti costi di transazione, originati
dai comunisti. La democrazia, la rule of law e l’economia di mercato riducono
questi costi. Se la gente non accetta la decisione dittatoriale e le strane norme
comuniste, cosa che aumenta i costi di transazione, la democrazia li ridurrà, selezionando accettabili costruttori di decisioni in una società e promuovendo le
norme prevalenti attraverso canali democratici.
La rule of law rimpiazzerà il ruolo dell’élite comunista privilegiata; proteggerà i
diritti di proprietà degli individui o delle minoranze, e contribuirà così a una
riduzione dei costi di transizione. Infine, l’economia di mercato permetterà agli
individui di usare più risorse libere oltre quelle di cui essi dispongono; invece di
perseguire imperativi di un organo di pianificazione centralizzato, i cittadini possono seguire i loro propri interessi; la qual cosa, di nuovo, riduce i costi di transazione. Dal momento che la transizione riduce i costi di transizione, essa può
essere considerata come un processo di risparmio dei costi. I costi sono ridotti
in proporzione differente in differenti Paesi, e ognuno può persino misurare il
successo della transizione attraverso la misurazione di questi costi3.
Che cosa è stato cambiato del capitale sociale durante la transizione? Ci sono
almeno due cambi degni di essere menzionati. Primo, un movimento dalla dittatura alla democrazia fornisce un più reattivo ambiente per calcolare le preferenze individuali. Se i Paesi socialisti sembravano uniformi al tempo del comunismo,
essi correntemente (durante la transizione) largamente divergono per ciò che
riguarda le preferenze e le abitudini dominanti nelle società post-comuniste.
Secondo, in una forte opposizione al precedente regime (comunista), dove
diversità e conseguenze non intenzionali erano fortemente scoraggiate, la più
larga libertà politica dopo il collasso del comunismo ha reso possibile che la
diversità almeno apparisse e qualche volta persino fiorisse. Diversità di preferenze, conseguenze non intenzionali e aspetti negativi della vita ricevono anche
pubblicità. Si può dire che la transizione non ha soltanto aperto la via alle regole informali sulla scena pubblica; inoltre, essa ha promosso costumi, tradizioni e
abitudini locali nella società allargata (“larger society”).
Miroslav Prokopijevic
Il capitale sociale nella transizione
Capitale sociale
Prima di cominciare una sostanziale analisi del capitale sociale nella transizione,
permettetemi di tentare di delineare il concetto di capitale sociale e qualche
altro concetto strettamente collegato a esso. Il capitale è uno stock che ha valore come fonte di attuali e futuri flussi di produzione e reddito. Lo stock di capitale è path dependent, dal momento che indica che la gente ha risparmiato e
investito nel periodo precedente, e quindi che essi hanno disponibilità oggi. Se
il capitale umano fosse lo stock di abilità e conoscenza produttiva incorporata
negli individui, il capitale sociale sarebbe lo stock di regole formali e informali
incorporato in individui che appartengono a un gruppo, tribù o nazione. Per analogia, la gente ha qualche capitale sociale perché essi hanno investito in quel
modo. E precisamente a causa del fatto che essi hanno una storia. La storia è la
passata prova del come la gente ha investito in qualche periodo. Al fine di essere accettate, le abitudini necessitano di passare il test del tempo. Gli attori individuali adottano norme che essi considerano essere requisiti del loro benessere
individuale e collettivo. Non c’è certezza che le regole selezionate siano utili e
belle. In un mondo libero, individui e gruppi sono perfettamente liberi di operare le loro scelte, ma la scelta è una opportunità per un buono o cattivo risultato. Così, gli individui e i gruppi possono scegliere di fare qualsiasi cosa essi
vogliono, ed essi sono perfettamente legittimati a farlo, ma nel fare qualsiasi scelta essi non possono evitare di pagare il costo delle loro scelte. Specializzazioni e
conoscenza di una specifica persona in parte consistono di elementi che sono
caratteristiche soltanto di quella persona, considerata separatamente dal suo
ambiente sociale, e in parte consistono di elementi che appartengono al suo
ambiente sociale. Al fine di essere sociale, una norma dovrebbe essere dominante in un gruppo, o almeno, dovrebbe essere accettata dalla maggioranza nel
gruppo, e necessita di essere sostenuta dalla loro (dis)approvazione. Norme
interiorizzate sono meno dipendenti dalla (dis)approvazione esterna. Il capitale
umano emerge da una complicata interazione tra abilità individuali e ambiente
sociale, e come una regola, questa demarcazione è possibile soltanto per scopi
analitici. Il capitale sociale è meramente collegato a costumi, credenze e tradizioni espresse in regole formali, mentre le regole formali sono contestualizzate
nelle costituzioni, nelle leggi, negli statuti e in altra legislazione ufficiale. In qualche caso, le regole informali sono implicite, in qualche altro sono esplicite.
Qualche volta le regole informali sono in parte o completamente integrate in
quelle formali, e qualche volta sono in conflitto le une con le altre.
Il fatto che alcune regole siano informali non implica che esse siano inefficienti.
E il fatto che qualche regola sia formale, non implica che sia efficiente. Entrambi
i tipi di regole godono di diversi gradi di accettazione, ed entrambe godono di
un molto elevato grado di coercizione.
Leggi e statuti emergono dall’attività legislativa (un corpo legittimato a questo),
mentre le regole e le norme informali emergono gradualmente attraverso ripetute interazioni umane. Così, come una regola, possiamo sapere, chi e quando
qualche legge è stata decretata, ma non possiamo sapere da chi e da quando è
stata accettata qualche abitudine. Questo produce un’impressione, che le leggi
siano meramente artificiali, il che non è sempre il caso, dal momento che alcune
29
n.5 / 2002
4
Rent-seeking è generalmente una ricerca di
reddito, al di là del mercato, cioè attraverso l’attività legislativa
leggi semplicemente codificano norme informali esistenti, mentre le norme
informali sono in qualche modo naturali. Ma, sia le norme naturali che quelle
artificiali possono essere strane e contro gli interessi di alcuni individui, gruppi
o persino contro l’intero gruppo (la nazione). Gruppi e società che praticano
norme estremamente strane non sopravvivranno e così nemmeno sopravviverà
quella norma in quel gruppo. Le regole comuniste nell’Europa Centrale e
Orientale sono soltanto un esempio di sparizione di norme che non erano state
accettate; la qual cosa è stata spiegata in una precedente affermazione, a proposito del prezzo da pagare per la scelta di quelle regole. Più frequente è il caso di
qualche norma che sia utile per qualche gruppo, e dannosa per qualche altro.
Questo dà origine a una competizione tra gruppi nello sforzo di promuovere
(prevenire) la comparsa di qualche legge che è ben nota come rent-seeking4.
Infine, le conseguenze da alcune regole necessitano anni e persino decenni per
mostrare se la regola è buona o no, e quanto è buona o cattiva.
Regole informali e formali
Il capitale sociale influisce su tutte le transazioni ed è specialmente visibile nel
comportamento opportunista, nel degrado della moralità, nella contrattazione,
nel controllo e consolidamento delle procedure. In altre parole, il capitale sociale influenzerà le transazioni in differenti modi sotto differenti circostanze. Là,
dove prevale l’incertezza, la gente avrà orizzonti di breve periodo, e preferirà le
transazioni in contanti, i contratti di breve periodo, gli accordi informali, e l’attività del mercato nero, alle transazioni con pagamenti dilazionati, contratti di
lungo termine, accordi formali e mercato regolare. E il prodotto delle transazioni sarà differente sotto differenti circostanze. Il capitale sociale sta per essere
sfruttato molto di più in circostanze di incertezza, che sotto chiare condizioni di
rottura rispetto al fare affari, e questo è dovuto a un’attiva tendenza dell’essere
umano a trarre vantaggio dall’opportunità: “tutto il disponibile serve” è più facile da impiegare sotto incerte, meno restrittive circostanze. La buona codificazione e il buon rafforzamento delle regole mette fuori legge alcuni mezzi, e in questo modo riduce l’incertezza e provvede incentivi per sane strategie cooperative.
Altri elementi che influenzano l’uso del capitale sociale sono la frequenza con cui
si realizzano le transazioni, le condizioni specifiche, i fattori di disturbo a cui
sono soggette, e il punto fino al quale esse sono supportate dagli assetti specifici della transazione. Al contrario del classico mercato delle transazioni attraverso
il contrattare a distanza o in modo impersonale, al di fuori delle quali la normale economia opera, la specificità dell’assetto dà modo a un contrattare nel quale
l’identità delle due parti conta; la qual cosa mette di nuovo in gioco il capitale
sociale. Ci sono vari assetti specifici, quali:
- la specificità della qualità, quando una qualità specifica è richiesta;
- la specificità del tempo, quando le transazioni possono realizzarsi solo in qualche particolare momento;
- la selezione del posto (fissata o relativa a luoghi successivi);
- la specificità dell’assetto, specialmente nella componente della produzione;
- la specificità del capitale umano, che emerge attraverso il learning by doing;
- la specificità dei costumi, cioè i prodotti adattati a un particolare tipo di costumi.
30
Miroslav Prokopijevic
Il capitale sociale nella transizione
Il capitale sociale prevalente influenza le azioni umane in differenti modi, come
la restrizione delle scelte, il mutamento delle preferenze o il mantenimento delle
preferenze.
Per esempio, le norme restrittive riducono la portata dell’azione. La gente cresciuta in un gruppo dominato da valori comunitari sarà esitante sulla privatizzazione, la gente che proviene da famiglie avverse al rischio ignorerà, almeno in
prima istanza, le transazione rischiose, e opterà per queste azioni soltanto quando tutte le altre opzioni saranno esaurite. A troppe società tribali le abitudini
commerciali appaiono piuttosto strane. Tirando le somme, le norme informali in
alcun casi allontaneranno (renderanno impossibili) alcune scelte.
Più frequentemente di quanto restringano la scelta, le regole informali cambiano
le preferenze. Sebbene l’intero mondo degli affari sia finalizzato al profitto, la
gente di alcune culture nemmeno lo menziona, ed essi si comportano nelle
transazioni commerciali come se fossero interessati di tutto tranne che del profitto. Nel fare affari in tale contesto, uno deve fare attenzione alle preferenze prevalenti che cambiano i modi della negoziazione, del mercanteggiamento e della
realizzazione della transazione. Per esempio, molti dell’Occidente hanno sperimentato che gli uomini d’affari orientali partono con prezzi molto alti, e che ci
sono due soli modi per ottenere un prezzo normale: o mercanteggiare5 pazientemente o voltarsi (facendolo sembrare, affermandolo) per andarsene (il che è
in realtà la minaccia dell’opzione di exit) e aspettare la reazione del commerciante.
Non succede sempre che il capitale sociale prevenga o cambi qualche scelta.
Esso può anche facilitare qualche scelta, fornendo un rafforzamento per qualche
regola selezionata. Questo è precisamente il caso là dove le regole formali e
informali coincidono.
Se le regole informali vanno a restringere, cambiare o facilitare alcune scelte,
questo è principalmente combinato attraverso la relazione delle regole formali
con le informali. Seguendo la ricerca condotta da McAdams (1997), Steve Pejovic
(1999, 5-6) codifica soprattutto le deliberazioni con l’individuare le quattro relazioni tra istituzioni formali e informali.
1) Le istituzioni formali possono sopprimere, ma esse non possono cambiare le
istituzioni informali. Le restrizioni sul fumo hanno represso, ma hanno fallito dall’annullare questa abitudine. Un simile bando legale del duello ebbe più successo, dal momento che il duello era già fuori moda alla fine del XIX secolo, mentre il fumare, a quanto pare, non lo è ancora.
2) Le regole formali sono in diretto conflitto con le regole informali. Pejovic
osserva che la differenza tra regole formali che sopprimono le regole informali e
che sono in conflitto è soltanto una questione di grado. La proibizione dei liquori negli U.S.A. negli anni Trenta e in Russia negli anni Ottanta fornisce esempi per
questo caso. Entrambe le regolazioni formali sono fallite di fronte a una forte abitudine a bere alcool6 ed entrambe – in modo interamente prevedibile – hanno
rafforzato la mafia, dal momento che questa organizzazione ha offerto illegalmente quello che la gente voleva ottenere, e i suoi principali uomini sono diventati ricchi. Nessun altro singolo evento ha rafforzato la mafia di più che il bando
dell’alcool in questi due Paesi .
3) Le regole formali sono o ignorate o neutralizzate. La gente ignora qualche
5
In ogni caso rimane
l’impressione che il
mercanteggiare sia
più per divertimento
personale che per
scopi affaristici e che
la sua presenza riflette
semplicemente l’abitudine a giocare mentre
si fanno affari.
6
È interessante sottolineare che in entrambi i casi i gruppi di
sinistra sono stati i
più convinti sostenitori del bando dell’alcol,
ma anche molto convinti nel biasimare la
mafia per essere
diventata ricca e più
forte, sebbene sin dall’inizio era chiaro che
questo sarebbe stato il
risultato.
31
n.5 / 2002
7
La tesi interattiva
nella sua forma più
debole è sostenuta
anche da numerosi
economisti, come
Buchanan, Arrow o
North
volta le regole legali e stabilisce i propri accomodamenti usando norme informali, che essi considerano essere più efficienti. In alcuni Paesi, la gente usa metodi tradizionali per risolvere le proprie dispute, in modo simile ai metodi delle
ditte, nel caso di alcune industrie americane, che usano, per regolare lo scambio,
le loro disposizioni per specifiche attività.
4) Le regole formali e informali cooperano. Esempi di questi casi includono la
protezione della reputazione individuale, la protezione della proprietà privata, la
regola del “guidare a destra o guidare a sinistra”, etc. Questa coincidenza si realizza in casi nei quali interessi individuali e interessi sociali coincidono e per quella ragione è facile controllare e rafforzare le regole del gioco descritte al prossimo paragrafo.
Sulla base della precedente analisi, Pejovic suggerisce la tesi interattiva: “Se i
cambiamenti nelle regole formali sono in armonia con le regole informali prevalenti, l’interazione dei loro incentivi tenderà a ridurre i costi di transazione nella
comunità (cioè, il costo per realizzare uno scambio e il costo per mantenere e
proteggere la struttura istituzionale) e riordinare le risorse per la produzione di
ricchezza. Quando le nuove regole formali sono in conflitto con le prevalenti
regole informali, l’interazione dei loro incentivi tenderà ad aumentare i costi di
transazione e ridurre la produzione di ricchezza nella comunità” (1999, 7). Al fine
di far prosperare un’economia di mercato, l’implementazione delle necessarie
istituzioni esterne può non essere sufficiente se esse non sono sostenute da istituzioni interne compatibili con loro7. Come Pejovic giustamente sottolinea, varie
osservazioni sostengono questa convinzione. Alcuni esempi sono già stati menzionati, con la transizione che non costituisce eccezione. I Paesi che più hanno
ottenuto risultati nella transizione sono quelli, come l’Estonia, La Repubblica
Ceca o l’Ungheria, nei quali l’economia privata dominava alcuni decenni fa, cioè
prima che i comunisti prendessero il potere, là dove si era affermata una cultura
del lavoro. Altri Paesi come la Moldavia, la Bulgaria o la Macedonia non possono
semplicemente ripetere questo modello, dal momento che la storia e il capitale
sociale là sono differenti. Se la storia e il capitale sociale contano, il miglior modo
di operare, per alcuni Paesi durante la transizione, dovrebbe essere quello di rafforzare soltanto quelle regole dove le norme formali e quelle informali coincidono, e di lasciare la gente lavorare e tirare fuori soluzioni ottimali, che possono
essere codificate ex post. Altrimenti, cioè imponendo le regole e i programmi, i
Paesi rischiano un intenso conflitto tra istituzioni formali e informali, e il risultato di questo potrebbe essere soltanto un disastro economico e sociale.
Il rafforzamento delle regole
Un brutto errore che qualcuno può fare è quello di dire che tutti questi Paesi
post-comunisti debbono seguire lo stesso modello di sviluppo. Questo sarebbe
impossibile persino se questi popoli concordassero nell’accettare tale modello
unitario di riforma. La loro eventuale volontà di cambiare il percorso di sviluppo
entrerebbe in un duro conflitto con le regole e gli stratagemmi che essi usano al
momento. Il risultato sarà simile a quanto accaduto nell’America Latina, dove
molte popolazioni e le loro élite hanno accettato i principi della Costituzione
degli U.S.A. Ciononostante, l’applicazione e parziale rafforzamento di questi
32
Miroslav Prokopijevic
Il capitale sociale nella transizione
(identici) principi diede un risultato completamente diverso negli U.S.A. e da un
capo all’altro del mondo latino-americano8. La spiegazione è semplice. I principi
della Costituzione U.S.A. e le leggi sono cresciute da qualche tipo di regole informali che è caratteristico del mondo anglo-americano; questi principi non sono di
casa nell’America Latina dove prevalgono altre abitudini e tradizioni. Lo sforzo di
impiantare semi di una cultura in una completamente diversa, fallirà, dal
momento che il nuovo impianto può contraddire le regole informali che lì prevalgono. Così le disposizioni della Costituzione U.S.A. sono rimaste lettera morta
sulla carta in America Latina, e le pratiche sono state condotte secondo le usuali regole informali fatte in casa. Questo ha aumentato i costi di transazione, cioè
i costi del mantenimento del gioco sociale. Le regole formali hanno richiesto un
tipo di comportamento, mentre le regole informali richiedevano qualcosa di
diverso. Avere più alti costi di transazione significherebbe che alcune risorse debbono essere sprecate, disinvestite. Malgrado questo sforzo di investimento – che
apparve essere uno spreco di risorse – il gioco economico rimase incerto.
Questo ha ridotto il risultato, e così anche i tassi di crescita dei Paesi dell’America
Latina sono rimasti molto indietro rispetto a quelli degli U.S.A. Dal 1870 al 1990,
gli Stati Uniti sono cresciuti con un tasso medio di 1,75%. Se avessero avuto,
durante lo stesso periodo, un tasso di crescita di soltanto un punto percentuale
inferiore di quello che hanno avuto, gli Stati Uniti sarebbero, oggi, allo stesso
livello di sviluppo del Messico, che ha, oggi, una media di reddito nove volte più
bassa di quella che hanno gli Stati Uniti9. L’unico modo di assicurarsi che alcune
regole funzionino in un contesto è quello di fornire agli individui incentivi per
accettarle. Questo può accadere sia per un flusso di benefici per gli individui sia
per qualche forza che punta sulle regole. Ma, l’obbedienza basata soltanto sul
potere durerà poco.
Non soltanto differenti Paesi della transizione hanno differenti eredità. Essi
hanno anche differenti situazioni macroeconomiche, differente geografia, differenti stock di conoscenza economica, e differente abilità ad adattarsi agli stratagemmi economici.
Tutti sappiamo che un’economia di mercato privata è più efficiente di una economia di Stato e questa intuizione è confermata, molte volte, in ricerche differenti e reciprocamente indipendenti (Megginson e Netter 2001, 322-5).
Comunque, se c’è una norma sociale o un diffuso sentimento sociale contro la
proprietà privata, e i sistemi educativi sotto il socialismo hanno diffuso tali sentimenti, una veloce ed efficiente privatizzazione è quasi impossibile, dal momento che l’appena menzionata credenza sarà un ostacolo alla privatizzazione e alla
riforma. Questo risultato non cambierà niente della nostra convinzione circa i
vantaggi dell’economia privata rispetto a quella di Stato, ma questa sola convinzione non è sufficiente a cambiare il Paese in questione.
Il capitale sociale incorporato nelle norme sociali è rafforzato dai membri della
comunità sociale (“general society”), nel caso in cui questi membri abbiano interiorizzato le norme. Se questo non è il caso, è necessario il rafforzamento sociale. Ciononostante, il rafforzamento privato è molto efficiente, sebbene esso
appaia raro. In altre parole, le regole e le norme sono (privatamente rinforzate
o) autorafforzantesi, soltanto se il guadagno ricavato dalla loro accettazione è
maggiore della perdita nel caso della loro violazione. Così, per esempio, alcune
8
Douglas C. North
(1990, 101), un Premio
Nobel vincitore per l’economia, osserva:
“Molti Paesi latinoamericani hanno
adottato la
Costituzione degli
U.S.A. (con qualche
modifica) nel XIX secolo e molti dei diritti di
proprietà di Paesi occidentali di successo
sono state adottati da
Paesi del Terzo Mondo.
I risultati, comunque,
non sono simili a quelli degli Stati Uniti o di
altri Paesi occidentali
di successo. Sebbene le
regole siano le stesse, il
meccanismo di rinforzo, il modo in cui il
rafforzamento si realizza, le norme di comportamento e i modelli
soggettivi degli attori
non sono [gli stessi]”
9
Cfr. R. Barro e Sala-yMartin (1995, 1): “ …
se il tasso di crescita
fosse stato più basso
appena di un punto
percentuale per anno,
il prodotto interno
lordo (GDP) reale pro
capite degli U.S.A., nel
1990, sarebbe stato
vicino a quello di
Messico e Ungheria, e
sarebbe stato di circa
1000 dollari inferiore
a quello del Portogallo
e della Grecia”. Questi
autori affermano inoltre che il reddito U.S.A.
è cresciuto di 8,1 volte
dai 2244 dollari del
1870 ai 18.258 dollari
del 1990, con cifre
entrambe misurate in
base al valore del dollaro nel 1985. Questo
corrisponde a un
tasso medio di crescita
di 1,75% durante i 120
anni in questione.
33
n.5 / 2002
delle principali regole del traffico sono autorafforzantesi. Se uno viola le fondamentali regole del traffico (guida a destra-guida a sinistra, non attraversare con il
semaforo rosso, etc.) egli/lei può andare incontro a pagare costi molto elevati.
Alcune altre regole del traffico, come il limite di velocità, non sono comunque
autorafforzantesi e, come conseguenza, un numero di poliziotti è necessario per
ottenere un ragionevole livello di osservanza di queste regole.
I Paesi post-comunisti (in transizione) non hanno un buon ricordo storico di che
cosa significhi la rule of law. Alcuni elementi del “Rechsstaat”, un più giovane e
meno sviluppato cugino della rule of law, che esisteva in alcuni Paesi nei quali i
comunisti hanno preso il potere, sono stati definitivamente cancellati sotto il
governo comunista. I comunisti, naturalmente, avevano qualche sistema legale,
ma è stato utilizzato per promuovere il potere dello Stato e dei burocrati piuttosto che per restringerli. Come tale, è stato semplicemente una parodia della giustizia. In un tale contesto sarebbe stato poco realistico aspettarsi che la rule of
law potesse emergere rapidamente e con successo.
Avendo in mente che l’idea della rule of law era uscita fuori da una molto lunga
evoluzione della common law anglosassone, ognuno può immaginare la difficoltà nel trasferirla in un piuttosto diverso contesto, quale quello dei Paesi postcomunisti. I costumi, le abitudini e il capitale sociale della gente nei Paesi postcomunisti sono differenti da quelli negli U.S.A. o nel Regno Unito, così che le
importazioni sarebbero inadatte a funzionare se non adattate, come in Svezia,
Spagna o Svizzera, dove la rule of law è mescolata alla legge prodotta dallo Stato
e dai costumi locali. Anche se la rule of law dovesse essere in qualche modo confermata dai Parlamenti, è discutibile fino a che punto la gente rispetterebbe quelle regole. Regolarità osservate mostrano che la gente tende a rispettare quelle
regole formali che concordano con le loro regole informali e abitudini e ad ignorare quelle regole formali che non si accordano – come suggerisce la tesi dell’interazione. Se la gente viola le regole formali solo occasionalmente, è facile rafforzare la legge. Ma se la violazione diventa la regola o se la gente semplicemente ignora le regole, la maggioranza non può essere imprigionata. Le regole che
la gente ignora o viola regolarmente devono essere aggiustate, cambiate o persino rimpiazzate. Persino i meccanismi di rafforzamento devono essere aggiustati
alle abitudini e alle regole informali che prevalgono nella popolazione. È importante tenere in mente che in nessun posto vi sono regole completamente rispettate e completamente rafforzate. Se significative differenze esistono tra Paesi sviluppati, perché non dovrebbero esistere persino tra i Paesi in transizione?
L’importanza del capitale sociale e delle regole informali è così ovvia, che sono
rari gli autori, come Williamson (1983), che credono che tutta la legge e il suo
rafforzamento sia imposto esclusivamente dal governo. Questo non è il caso persino se si assume che ci sono popoli e Paesi senza alcun capitale sociale. Persino
in uno Stato senza capitale sociale ed interamente di State law, assumendo qualcosa del genere allo scopo di realizzare un esperimento mentale, gli individui
possono usare differenti strategie (che dipendono dal gioco) per influenzare l’altra parte – come l’usare opzioni di uscita o defezione. L’idea di Williamson è sorprendente alla luce del fatto che, in quasi tutti i Paesi, - al di là di qualche codice
commerciale uniforme che definisce un comprensivo blocco di regole contrattuali accettate per default – esiste anche la legge commerciale privata. Questa è
34
Miroslav Prokopijevic
Il capitale sociale nella transizione
un blocco di regole default, specifiche di una data attività, che sono create dalle
imprese e dalle loro private associazioni (Camere di Commercio) e che sono rafforzate nei tribunali delle associazioni di arbitrato. Negli U.S.A. ci sono più di 50
leggi commerciali private, che includono le industrie per i diamanti, il cotone, il
riso, le arachidi e il grano. In alcuni campi, l’accettazione di uno specifico codice
è una condizione per diventare membro dell’associazione, la qual cosa è frequentemente una precondizione per realizzare specifici affari. Infine, questo non
è l’unico esempio di regole rafforzate privatamente, come mostra il caso di alcune regole del traffico.
Non c’è analogia, qualunque cosa sia, tra regole della transizione e della privatizzazione, da una parte, e le principali regole del traffico, dall’altra. Sia la transizione che la privatizzazione hanno chi ci perde e chi ci guadagna. Ed entrambi i
gruppi, sebbene essi possano essere in condizioni non egualitarie, hanno interesse a ottenere quello che vogliono. Così, transizione e privatizzazione non possono semplicemente accadere o fluire da loro stesse, come un traffico su qualche autostrada, esse possono essere implementate proprio con l’uso dei meccanismi di rafforzamento dello Stato. Qualsiasi azione discrezionale dello Stato
implica che ci sono varie differenti opzioni e che qualcuno deve decidere quale
opzione deve essere adottata e rafforzata.
Il capitale sociale nei Balcani
Identicamente che in altre parti dell’Europa, quali la Scandinavia, la penisola iberica, i Paesi di lingua tedesca o il Benelux, i Balcani hanno il loro proprio capitale sociale. Qualcuno dice persino che i Balcani hanno prodotto tanta storia che
non può essere consumata in casa. Per il fatto di avere una drammatica storia di
divisioni e conflitti, occupazione straniera e guerre, i Paesi balcani sono rimasti
piccoli, diffidenti e sottosviluppati10 . Le incertezze politiche e di altro tipo hanno
impedito lo sviluppo di un’economia più forte e il sottosviluppo ha di nuovo fornito alimento a incertezze, creando un circolo fatale: incertezza-sviluppo poveroincertezza. Il capitale si accumula nel corso di lunghi periodi di tempo dove
ottiene protezione effettiva, e questa è mancata. Persino, benché la democrazia
abbia messo radici nei Balcani, la rule of law è stata largamente assente.
Prevedibilmente, la crescita economica è stata episodica.
Essendo piccoli e coinvolti in frequenti conflitti, i Paesi balcani hanno sviluppato
diffidenza nella filosofia prevalente. La lunga occupazione turca, gli attacchi tedeschi durante le guerre mondiali e le minacce sovietiche dopo la Seconda Guerra
Mondiale hanno fortemente contribuito alla percezione del mondo esterno
come nemico. I poteri più ampi hanno fornito continuità a tale percezione strumentalizzando i Paesi balcani per i loro propri scopi durante il tempo di pace.
L’inefficienza economica dei Paesi balcani completa il quadro di piccoli Stati isolati quasi tagliati fuori dal resto d’Europa.
Con poche eccezioni, e questo anche per un breve periodo di tempo11 , i Paesi
balcani non furono democrazie fino agli anni Novanta. Invece della rule of law,
i Paesi balcani (dopo la liberazione dalla Turchia nella parte centrale del XIX
secolo) furono dominati dalla State law, che semplicemente era una brutta copia
della legislazione austriaca. Con l’esclusione della Slovenia e dell’Ungheria, i
10
Balcanizzazione è
diventato sinonimo di
conflitto, confronto e
divisione su linee etniche, religiose e di altro
tipo
11
La Grecia è stata
una democrazia nel
tardo XIX secolo e successivamente nel 195366 e dal 1974 ad oggi;
la Serbia fu una
democrazia nel periodo 1881-1914.
35
n.5 / 2002
Balcani sono rimasti largamente non industrializzati fino alla seconda parte del
XX secolo. Slovenia e Grecia sono adesso i più sviluppati, mentre Albania, Bosnia
e Macedonia sono i meno sviluppati tra i Paesi balcani.
La minaccia esterna, unita con la povertà interna, ha trasformato lo Stato in una
agenzia che deve garantire la sicurezza di tutti i propri cittadini. Lo Stato è percepito come una madre che deve prendersi cura dei bambini (cittadini) “dalla
culla alla bara”. Diversamente dagli U.S.A. o dall’Europa Occidentale, i fondatori
dei Paesi balcani sembrano essere stati lusingati dai loro ethos sociali locali a
ignorare il dilemma che essi avrebbero creato con il delineare nella legislazione
la richiesta della società (Stato) di offrire sicurezza da rischi economici o di altro
tipo per tutti i suoi membri. Sebbene questa richiesta sia venuta fuori dal capitale sociale, modellato da minacce storiche, sottosviluppo economico, povertà
locale, questo non può in pratica essere facilmente allineato con una robusta
libertà individuale, responsabilità individuale ed efficienza economica. Più o
meno, la gente in tutte le nazioni dei Balcani valuta la sicurezza più della libertà,
e una graduale giustizia distributiva prioritaria all’efficienza allocativa. Gli sforzi
per creare la sicurezza sociale in condizioni di povertà procurano, da una parte,
incentivi per il rent-seeking, e dall’altra favoriscono i demagoghi e i predatori tra
i politici. Conducono a questi ultimi una redistribuzione della povertà e il mantenimento di una economia stagnante. Ancora, in pratica e nel fluire del tempo,
i gruppi di interesse hanno imparato (migliorando i metodi) a sfruttare il capitale sociale e le clausole basate su di esso. Dall’altra parte, quando i politici promettono di realizzare “giustizia”, “eguaglianza sociale ed economica” o “un
decente livello di vita”, essi in effetti tengono in conto che l’attività dello Stato
non è propriamente forzata e che essi sono capaci di ridistribuire la ricchezza trasferendola da un gruppo all’altro: quello che potrebbe essere chiamato un classico furto, come Bastiat sosteneva, nel frammento, all’inizio di questo scritto,
diviene un’attiva e corretta politica di governo. Invece di distribuire promesse,
questa politica semplicemente aumenta la corruzione, il rent-seeking e l’instabilità e induce più ampie promesse e intervento dello Stato nel turno successivo.
Il socialismo sovietico è collassato dappertutto nell’Europa del Centro e dell’Est,
ma i semi di socialismo sono sopravvissuti e può accadere che nel secondo giro
il socialismo sia introdotto in una forma completamente democratica. Coloro
che non vogliono prendere parte a questo gioco nei Balcani furono capaci di
optare, dalla rassegnazione all’emigrazione. L’emigrazione dai Paesi balcani è
stata molto intensa dall’inizio del XIX secolo ad adesso e in qualche periodo ha
preso la forma di un’emigrazione di massa agli U.S.A., all’Europa Occidentale e
all’Australia. Attraverso l’emigrazione, i Paesi balcani hanno perso la loro popolazione più produttiva, più disponibile ad assumere rischi e più innovativa.
Questo ha aumentato la partecipazione relativa dei cittadini mediocri e poveri
per tutta la regione. I cittadini poveri sono anche rent-seekers, i quali coltivano
le abitudini socialiste e spingono i comunisti al potere. Se l’apertura dei mercati
suggerisce che molti dei tipi di beni, correntemente prodotti da membri relativamente non specializzati della forza di lavoro locale, sarà importata, le coalizioni politiche organizzate in opposizione all’estensione del mercato troveranno
sostegno tra i sindacati e i loro rappresentanti politici. Il concetto di Stato come
madre che si prende cura dei bambini non è né buono per la stabilizzazione della
legalità e nemmeno per l’economia e la democrazia. La legge subisce una tra-
36
Miroslav Prokopijevic
Il capitale sociale nella transizione
sformazione: invece di proteggere gli individui dall’usurpazione del potere
governativo, essa diventa il potere che permette al governo di signoreggiare sul
popolo. Invece di proteggere il popolo dalle costrizioni dello Stato, la legge
diventa lo strumento che permette il potere dello Stato. Questo aumenta il potere dei legislatori, cui viene richiesto di introdurre persino più politiche socialiste,
anche se questi legislatori, in prima istanza, non intendevano fare così. Lo stesso
avviene con la democrazia. Invece di “una regola del popolo, dal popolo e per il
popolo”, la democrazia degenera nella rigida regola della maggioranza, e qualche
volta persino nella tirannia della maggioranza. I politici eletti in questa onda di
sostegno popolare tendono a biasimare la costituzione e le leggi legando le proprie mani in una aperta ricerca di più potere; quando essi lo ottengono, sospendono o ignorano leggi e istituzioni, comunicano direttamente con le masse (in
un dichiarato sforzo di indirizzare i loro bisogni), velocizzano le politiche redistribuitive, e minano le basi economiche della società. Tale ambiente non è percepito come buono per le minoranze e in effetti diventa una forza guida per scatenare movimenti di indipendenza tra le minoranze12. Quando un gruppo decide di secedere dal Paese madre, questo aumenta la pressione sugli altri gruppi a
seguire l’uscita. Maggioranze etniche o religiose omogenee rispondono alle tendenze secessionistiche con la centralizzazione; la qual cosa aumenta ulteriormente la pressione sulle minoranze. E questo diventa un sistematico incentivo a
creare Stati etnicamente omogenei sempre più piccoli. Al fine di essere capace
di sopravvivere, questi piccoli Stati sono indirizzati all’aiuto estero. Dal momento che niente si fa gratis, più larghi poteri condizionano l’eventuale assistenza
con qualche concessione ai propri interessi. Questo induce sistematicamente
più larghi poteri ai Balcani e si risolve in un conflitto tra loro sulla stretta terra dei
Balcani; la qual cosa di nuovo spiega perché una guerra mondiale è cominciata
qui, insieme a numerose guerre locali. Altre politiche sono necessarie per impedire che la perpetuazione di cattive condizioni sia promossa in una seconda
natura umana, cioè nella convinzione che non vi sia alternativa a quel cattivo
stato di affari. La maggioranza dei Paesi balcani o non sono capaci di trovare da
se stessi un’uscita da questa situazione o questa uscita sta diventando un processo che richiede molto tempo. Poteri stranieri non possono semplicemente
implementare e stabilizzare il governo della legge, dell’economia di mercato e
della democrazia, come gli U.S.A. le hanno restaurate nell’Europa Occidentale
dopo la Seconda Guerra Mondiale. Era facile restaurarle in Europa Occidentale,
dal momento che esse erano esistite prima della Seconda Guerra Mondiale, ed è
impossibile implementarle velocemente nei Balcani, dal momento che non sono
quasi mai esistite là. Questo parlava e parla a sfavore di un altro Piano Marshall
per i Balcani, in analogia all’Europa Occidentale. Che cosa deve essere fatto in
tale disperata situazione, quando le cose importate non funzionano e i semi
domestici della democrazia di mercato sotto la rule of law sono troppo deboli?
Probabilmente una combinazione di sforzo dall’interno e incentivi dall’esterno
possono essere utili. La fine della guerra fredda e il collasso del comunismo tengono la scena per tale sforzo. Più larghi poteri e la comunità internazionale possono incoraggiare i Paesi balcani – attraverso una politica “del bastone e della
carota” – per aumentare la democrazia e i loro sistemi legali basati sulle leggi o
per creare un miglior ambiente per l’investimento privato piuttosto che aspettare le donazioni, che hanno piccolo effetto sulle condizioni reali, e che sono sem-
12
Questo attualmente
dipende da quale logica prevale – integrativa o disintegrativa.
Sull’approccio integrativo, cfr. Woelk (2001).
Per il caso della secessione, vedi
Prokopijevic (1995).
37
n.5 / 2002
plicemente sprecate attraverso cattivi investimenti dello Stato o corruzione. Una
zona di libero mercato da introdurre nel 2004 tra i Paesi balcani è un modo per
aumentare la produttività attraverso la specializzazione. Ulteriori miglioramenti
nella rule of law sono proprio essenziali sia per incoraggiare il commercio che
per ridurre gli incentivi per socialisti demagoghi e rent-seekers. La concentrazione dello sforzo produttivo su un bene seguita da scambi per altri beni diventa un
mezzo per ottenere, di tutti i beni, più di quanto possa possibilmente ottenersi
in autarchia. E cominciare con il cambiare l’autarchia sarà equivalente a cominciare a cambiare il capitale sociale prevalente, cioè quegli elementi nel capitale
sociale che prevengono scambio e sviluppo reciprocamente proficui. Essi sono
stati identificati, già da molto tempo, come sfiducia, frustrazione e mancanza di
fiducia in se stessi.
Riferimenti bibliografici
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North, D.C. (2000), ”Big-bang Transformation of Economic Systems: An Introductory
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Pejovic, S. (1999), The Effects of the Interaction of Formal and Informal
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pubblicazione sul Journal of Market And Morality
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M. Karlsson (eds), Law, Justice and the State, II, Stuttgart, Steiner
Prokopijevic, M. (2001), Transition, Torino, ICER, disponibile anche al sito
www.icer.it, paper n. 15/01
The 2002 Index of Economic Freedom, Washington D.C., The Heritage
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Ullmann-Margalit, E. (1977), The Emergence of Norms, Oxford, Clarendon
Williamson, O.E. (1983), “Credible Commitments: Using Business to Support
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Woelk, J. (2001), “Sudtirol: ein Lehrbeispiel für Konliktlösung“, Die FriedensWarte, 1, pp. 101-24
Miroslav Prokopijevic ha insegnato Public Choice e Filosofia Politica in Serbia,
ma anche all’estero. Attualmente insegna in Germania. Le sue principali pubblicazioni: Understandig and Rationality del 1988, Public Choice del 2000 e
Transition del 2001.
[email protected]
La traduzione dal testo dall’inglese è stata realizzata da Giuseppe Gangemi
38
Luciano Vettoretto
Valutazione delle politiche
pubbliche e sviluppo del capitale
sociale. Considerazioni critiche in
margine a recenti riflessioni sul
tema.
Il faro
La questione
Che la valutazione, come pratica professionale, vada acquisendo una rilevanza
crescente è del tutto evidente. La spinta deriva da molteplici fattori, dalle istanze
di apprendimento e controllo da parte della Commissione Europea, dalla filosofia dei tentativi di riforma dell’amministrazione pubblica italiana nella prospettiva del cosiddetto new public management, dalle esigenze di razionalizzazione
della spesa pubblica, dalle procedure nazionali inerenti l’implementazione di
politiche di sviluppo locale del tipo Patti territoriali, dalle istanze politico-gestionali di accountability…
Non deve perciò stupire che, nell’ultimo Congresso Nazionale dell’Associazione
Italiana di Valutazione, una sessione plenaria sia stata dedicata al tema del contributo della pratica valutativa allo sviluppo del capitale sociale1. Né, d’altra parte,
ci si deve stupire che le riflessioni, che ormai pervadono ogni dimensione delle
politiche pubbliche (ed in particolare quelle urbane e territoriali: housing,
ambiente, sviluppo economico locale, sviluppo di comunità, ecc.), non arrivassero a lambire anche la ridefinizione del senso e delle funzioni di alcune pratiche
professionali connesse alla scelta pubblica, come appunto la valutazione. Pur
non essendo un valutatore (mi occupo normalmente, nell’ambito accademico, di
analisi delle politiche pubbliche urbane o territoriali in senso lato, e di questioni
di teoria della pianificazione territoriale), ho trovato fin da subito interessante la
connessione tra valutazione e capitale sociale, per le ragioni seguenti:
- consente di riflettere sull’eventuale valore aggiunto e sul carattere eventualmente innovativo del dibattito sul capitale sociale rispetto ad una lunga ed
importante tradizione di analisi dell’utilità, degli usi e della rilevanza sociale
della valutazione. Più in generale, il tema consente una riflessione più ampia
rispetto al ruolo ed al senso delle diverse tipologie di conoscenza esperta connesse alla scelta pubblica, tema che interessa diverse figure professionali e aree
1
In quest’occasione, lo
scrivente è stato invitato come discussant
di un paper (De
Filippi e Pennisi 2002)
che, tra l’altro, riprendendo argomentazioni di un autorevole
esponente della Banca
Mondiale (Picciotto
2001), proponeva
un’interpretazione
della valutazione
come capitale sociale
(l’Annuario Aiv ospita
questo dibattito, e contiene una versione
sintetica del presente
saggio).
39
n.5 / 2002
disciplinari, ed una varietà di metodologie e pratiche, oltre alla valutazione, come
ad esempio gli scenari (o altre forme della previsione di lungo periodo) o gli
esercizi descrittivo-interpretativi situati a monte o a valle della costruzione di
politiche pubbliche (dalle “analisi di sfondo” che sempre accompagnano i documenti programmatici ed i piani, fino al senso ed alle funzioni dello “studio di
caso”);
- induce una riflessione sul significato e le funzioni dell’informazione (prodotta professionalmente e/o secondo modi variamente “partecipati”) nel quadro del
tema del capitale sociale;
- rinvia alle possibilità d’uso – intenzionale – del capitale sociale nelle pratiche
di costruzione e produzione di valutazioni e, più in generale, nei processi di formazione di sfondi conoscitivi condivisi;
- introduce la questione della valutazione degli effetti di specifiche politiche
pubbliche in termini di incremento del capitale sociale; o, anche, rinvia ad una
valutazione della consistenza del capitale sociale come elemento o condizione plausibile di fattibilità o di successo di una politica di sviluppo locale.
Mentre i primi due punti fanno riferimento ad una riflessione sugli effetti delle
pratiche valutative, in particolare per quanto riguarda i nessi con i temi del capitale sociale, gli altri rinviano ad una dimensione più tradizionale (una visione
quasi oggettivistica e razionalistica del capitale sociale come obiettivo e/o come
mezzo). Queste ultime prospettive strutturano le riflessioni (teoriche ed operative) sulle politiche di sviluppo di importanti istituzioni come la Banca Mondiale
o la Commissione Europea.
In questa nota, per brevità, ci occuperemo della prima questione, e cioè del
senso delle pratiche valutative (della loro rilevanza sociale) in rapporto ai temi
del capitale sociale. Più in particolare, alcuni autori sostengono che la ricerca
valutativa costituisce “un supporto fondamentale per la diffusione della logica
della nuova programmazione”, poiché, proprio per la rilevanza della concertazione come forma della decisione pubblica (ma anche come fine in sé), i modi e
le forme della produzione, diffusione e condivisione dell’informazione tipicamente prodotta nella pratica valutativa (obiettivi, esiti, impatti, esempi, ecc.)
diventano decisivi come condizione di un’azione congiunta (Scettri 2000, 222).
Un brevissimo richiamo al dibattito sugli usi della valutazione
L’interesse dei valutatori per la rilevanza sociale delle loro pratiche non è nuovo,
come accade peraltro in altri campi professionali/disciplinari legati all’azione
pubblica, come l’urban o regional planning. Le convergenze tra questi campi
sono documentate da molti osservatori; Dente (cfr. i testi citati in bibliografia) e
Weiss (2000) mostrano gli sviluppi paralleli delle riflessioni nell’ambito dell’analisi delle politiche pubbliche e della valutazione; la raccolta curata da
Mandelbaum et al., (1996) mostra con altrettanta evidenza la convergenza con i
temi del planning.
Questo interesse ha assunto forme diverse nel corso del tempo e rispetto alle
modificazioni dell’amministrazione pubblica e delle forme del policy-making. Le
riflessioni più interessanti, tra le diverse direzioni della valutazione, riguardano
in particolare il campo dell’evaluation research, forse il più maturo per quanto
40
Luciano Vettoretto
Valutazione delle politiche pubbliche
riguarda le tematizzazioni sul significato e le funzioni sociali di questa pratica,
che, sullo sfondo di una marcata varietà di metodi ed approcci, può essere definita in termini molto generali come l’analisi degli effetti di una politica pubblica
o di un programma rispetto ai destinatari ed agli obiettivi2.
Fin dagli anni Sessanta, il dibattito sulla rilevanza politico-sociale della evaluation research, anche in connessione con le più generali riflessioni sulla applied
social science (per cui cfr. ad es. Panebianco 1989), è stato intenso. In termini
generali, la riflessione parte dalla constatazione di un utilizzo modesto, se non
addirittura nullo, da parte dei decisori, della valutazione, rispetto alle aspettative
dei valutatori. In una lunga e preliminare fase di questo dibattito, l’interesse era
centrato sulla decisione, e sugli effetti diretti della valutazione sulla decisione. Si
veniva a stabilire così un nesso tra conoscenza ed azione poco problematico, che
tendeva a spostare il fuoco sulla dimensione tecnico-metodologica (i linguaggi,
le forme di rappresentazione), non cogliendo così la questione: se, nella produzione delle politiche pubbliche, è problematico il nesso conoscenza/azione, lo è
perché è problematica l’azione pubblica (Crosta 1990, 139-140).
Il dibattito (per il quale rinvio a Stame 1998), dopo aver esplorato negli anni ’60
e ’70 l’ipotesi metodica (che riprendeva i temi del neopositivismo logico o del
falsificazionismo popperiano), si è orientato, anche sotto la spinta post-positivista ed argomentativa (cfr ad es. Fischer e Forester 1993) a considerare più opportunamente gli usi (piuttosto che l’utilità) della valutazione dentro le pratiche del
policy-making e rispetto alle concrete dinamiche dei processi decisionali. Come
nel planning, più ancora che le correnti radicali riferite al cosiddetto approccio
della political economy, sono state influenti, nel rinnovamento dei metodi e
nella riflessione critica sulla rilevanza sociale della valutazione, le riflessioni locali in termini di filosofia della scienza e della crisi della ragione scientifica. I risultati più interessanti riconoscono l’impossibilità di un’influenza diretta tra valutazione e decisione, e mostrano invece i modi complessi e di lungo periodo delle
relazioni tra prodotti della valutazione e quadri di senso degli attori. Queste
riflessioni indicano inoltre come, accanto ad una dimensione cognitiva della
valutazione, agisca sempre un’importante dimensione simbolica3, associata alle
strategie di legittimazione istituzionale o dell’azione di singoli attori, alla posizione dell’indagine scientifica (di norma quantitativa) nell’immaginario collettivo, ecc.
Da tempo, dunque, il dibattito sulla rilevanza della valutazione ha spostato l’interesse dalle metodiche (le forme di rappresentazione, i linguaggi, le tecniche,
ecc.) e dalla decisione (essendo il problema percepito come un diretto trasferimento di una conoscenza scientifica nella decisione politica, ovvero di un’influenza diretta della valutazione sulla decisione) alle pratiche ed ai processi di
costruzione ed implementazione delle politiche pubbliche, e, quindi, al senso,
alle funzioni ed agli effetti delle diverse forme di conoscenza in questi processi.
Spesso, tuttavia, il dibattito è ancora dominato da un’idea della valutazione come
professione in senso tradizionale (per una critica, riferita al contiguo campo del
planning, cfr. Allmendinger 2001). L’interesse è pertanto soprattutto centrato
sulla figura del valutatore, sebbene in forme più complesse e sofisticate rispetto
ad un tempo, e l’obiettivo è ancora spesso quello della ricerca di adeguati standard (o criteri, o test) di adeguatezza del prodotto valutativo (Stame 2001, 314-
2
Nello spazio breve di
questa nota, non è
possibile riportare
neppure per sommi
capi la varietà degli
approcci dell’evaluation research.
I manuali distinguono tra valutazione
ricapitolativa (a
dominante quantitativa, basata essenzialmente sulla misura
dei risultati) e valutazione formativa (centrata prevalentemente
sul processo).
Interessanti sono gli
esiti locali della riflessione post-positivista,
che hanno prodotto
approcci quali il multiplist approach (che
considera e rende
conto della pluralità
dei punti di vista, in
una prospettiva di
uno scambio pluralista di conoscenze) o il
naturalist approach, di
tipo partecipativo. Per
un’ampia rassegna
critica cfr. Stame
(1998).
3
Oltre il campo della
valutazione, il tema
delle funzioni e della
rilevanza simbolica
dell’analisi ‘scientifica’ è superbamente
esplorato da March
(1993).
41
n.5 / 2002
316). Solo in contributi più recenti, soprattutto degli anni ’90, si comincia a dare
rilievo al rapporto tra usi della valutazione e forme del processo di policy, a spostare l’attenzione dagli intended users al più ampio insieme di attori – ed alle
forme delle loro interazioni - del processo di policy-making (Stame 2001, 318319), e ad affermare che la valutazione non costituisce un fatto tecnico, ma è
parte costitutiva dei processi politici. Commentando le posizioni di Campbell,
March e Lindblom, l’autorevole Carol Weiss afferma che la valutazione è un atto
politico, che avviene dentro contesti strategici, dentro i quali il valutatore è
essenzialmente un attore tra gli altri (Weiss 2000, 299).
Una nuova versione depoliticizzata del policy-making?
Le riflessioni sugli usi della valutazione appaiono dunque avanzate (almeno
quanto accade in altre aree disciplinari contigue, come il planning e l’analisi
delle politiche pubbliche), e la critica spesso incisiva, soprattutto per quanto
riguarda il riconoscimento del carattere essenzialmente politico della produzione e degli usi della valutazione, quindi del significato di queste pratiche dentro
gli orizzonti strategici dell’azione politica. Non è dunque chiaro quale può essere il contributo dell’introduzione del concetto (ambiguo ma estremamente pervasivo - sulle ragioni della pervasità, cfr., per una riflessione critica, Baron et al.
2000 e Fine 2001) di capitale sociale, che in effetti comincia a lambire anche
quest’area di riflessioni, con esiti ancora incerti.
In via del tutto generale, il dibattito sul capitale sociale, per l’attenzione che pone
sulla dimensione relazionale della produzione di beni comuni, potrebbe forse
contribuire ad una chiarificazione concettuale del significato sociale della valutazione (che, ricordiamo, è un campo formato da un arcipelago sconnesso di pratiche, associate a diversi paradigmi in senso kuhniano). In effetti, tuttavia, tra
alcuni esiti del dibattito più recente sugli usi della valutazione ed alcune direzioni delle riflessioni sul capitale sociale vi sono forse alcuni punti di contatto.
Sorgono comunque alcuni dubbi sull’opportunità di internalizzare il dibattito sul
capitale sociale nelle riflessioni sugli usi della valutazione.
Da un lato, chi ragiona sui nessi tra valutazione e capitale sociale pone prioritariamente l’attenzione sulle virtù dell’informazione nella generazione di buone
condotte istituzionali, ipotizzando relazioni virtuose tra informazione, conoscenza, azione e capitale sociale (relazioni non adeguatamente problematizzate).
Dall’altro, l’interesse per una visione essenzialmente consensualista, che è veicolata da autorevoli studiosi del tema del capitale sociale, sembra di fatto proporre una versione depoliticizzata del processo di policy-making (dopo la tentata, senza successo, depoliticizzazione tecnico-professionale), mettendo in discussione proprio alcuni degli esiti più interessanti della lunga riflessione sulla
rilevanza sociale e gli usi della valutazione.
Le virtù cognitive della valutazione, ed i loro nessi ambigui con
le virtù civiche e di governo
Le virtù cognitive, civiche e di governo che Pellizzoni introduce discutendo i
temi della democrazia deliberativa (Pellizzoni 1988) possono essere riprese nella
42
Luciano Vettoretto
Valutazione delle politiche pubbliche
nostra discussione, e possono essere intese come esiti virtuosi dell’attivazione di
capitale sociale non distorto, ovvero come categorie di benefici collettivi prodotti mediante l’appartenenza e l’attivazione di reti o di altre strutture sociali,
attraverso processi di interazione sociale4. Ricordiamo che Portes (1998), cita,
come esempi di esiti di capitale sociale distorto o “negativo”, l’esclusione degli
outsiders, l’eccessiva attenzione nei confronti delle pretese dei membri del
gruppo, le restrizioni della libertà individuale, il livellamento verso il basso delle
norme sociali che impedisce il successo individuale e l’innovazione, ecc..
Guardare al capitale sociale dal punto di vista di queste virtù non è certo un’operazione originale. Coleman (2000), distingue, ad esempio, tra risorse cognitive e normative - fiducia, propensione alla cooperazione, regole, ecc.; Sandefur e
Laumann (1988) introducono, tra i benefici del capitale sociale, l’informazione,
l’influenza ed il controllo e la solidarietà sociale, in un senso che sembra vicino
alle virtù di Pellizzoni. Le virtù di governo sono invece messe in evidenza soprattutto nell’ambito delle riflessioni degli economisti istituzionalisti sul capitale
sociale (per una breve introduzione cfr. ad es. Woolcock e Narayan 2000, o diversi dei saggi compresi in Dasgupta e Saralgedin 1999).
L’argomento della virtù cognitiva allude ai grandi temi del pensiero pluralista (la
molteplicità dei punti di vista, lo scambio, la fertile competizione delle idee, il
valore delle differenze, ecc.), della “razionalità limitata” (nessuno possiede tutta
l’informazione rilevante) e della razionalità comunicativa e delle pratiche deliberative. Come nota Pellizzoni, in questa prospettiva la sfera pubblica non avrebbe
solo una funzione politica, ma anche cognitiva; la ricerca di buone ragioni nell’esercizio deliberativo avvia processi di apprendimento, di ristrutturazione del
problema, di riconoscimento di interessi comuni in issues apparentemente o originariamente conflittuali. In definitiva, questa conoscenza (che è prodotta interattivamente, “per l’azione durante l’azione” - Crosta 1998, 20) migliorerebbe la
qualità della decisione. La valutazione entra in relazione con le virtù cognitive
producendo informazione, che, in via di principio, costituisce una risorsa per la
decisione, per la costruzione del consenso e per la legittimità dell’azione istituzionale. In particolare, nel nostro caso specifico, le informazioni sugli esiti delle
politiche (le valutazioni) potrebbero o dovrebbero contribuire, da un lato, a
migliorare l’efficienza e l’efficacia delle prestazioni, e, per questa via, dovrebbero generare effetti cumulativi sulla fiducia istituzionale ed ambientale, rafforzando l’accountability ed abbassando i costi di transazione.
In sostanza, si sostiene che la valutazione, a partire dalle proprie virtù cognitive,
avrebbe effetti sulle virtù civiche e sulle virtù di governo. Le prime, seguendo
ancora Pellizzoni, possono intendersi come l’esito (ma anche come condizione)
dell’interazione comunicativa orientata all’intesa, che “produce cittadini migliori”, più informati, attivi, responsabili, aperti, cooperativi, capaci di affrontare con
efficacia i problemi, di modificare le proprie opinioni, e di orientarsi al bene
comune. Nei termini consueti delle riflessioni sul capitale sociale, il riferimento
è alla sfera della produzione di condotte, delle norme e delle sanzioni sociali e
dei meccanismi della fiducia generalizzata. Le seconde, rinviano soprattutto ai
temi dell’affidabilità istituzionale, e quindi della legittimazione sociale dell’azione pubblica5, e alludono ai temi della “fiducia istituzionale” come percezione
collettiva dell’equità, imparzialità ed efficacia dell’azione istituzionale (Rothstein
4
Secondo la definizione di capitale
sociale di Portes
(1998, 8).
5
Alcuni importanti
autori come Douglass
North sostengono,
ribaltando il discorso
rispetto ad altre autorevoli posizioni (come
ad esempio quelle di
Putnam), che la vitalità delle reti e della
società civile è il prodotto dell’ambiente
istituzionale. La capacità di agire dipenderebbe in modo cruciale dalla qualità delle
istituzioni formali.
43
n.5 / 2002
e Stolle 2001; altra questione, che esula dagli obiettivi di questa nota, è il rapporto tra civismo e virtù di governo, quindi tra fiducia generalizzata e fiducia istituzionale, e, più in generale, tra civismo, performance istituzionale e sfera politica).
Ragionando intorno al nesso valutazione-capitale sociale, ed intendendo, almeno in via provvisoria, la valutazione come, principalmente, un prodotto di genere professionale dell’applicazione di una conoscenza esperta, la questione principale riguarda dunque il nesso tra virtù cognitiva (ammesso di pensare l’informazione come produttrice di virtù cognitiva) e le virtù civiche e di governo, considerando, come nella tradizione, l’informazione non solo come antecedente
all’azione, ma anche, illuministicamente, produttrice di buone condotte e di
buon governo. Tuttavia, è facile mostrare che, in via generale, non vi è un nesso
causale, e neanche solo debolmente sequenziale, tra le diverse tipologie di virtù.
Anzi, queste virtù sembrano legate da nessi circolari e da rapporti ambigui ed
ambivalenti (Pellizzoni 1998). In particolare, non si può affermare che la virtù
cognitiva possa generare civismo o buon governo (come ad esempio si ammette nel quadro della tradizione riformista delle politiche pubbliche o anche nelle
più recenti concezioni neo-moderniste del planning: su questo punto cfr.
Allmendinger 2001). Al contrario, sembra invece plausibile affermare che l’informazione può diventare risorsa e bene comune solo in situazioni nelle quali vi sia
almeno una certa soglia di civismo e di buon governo, cioè in presenza di alcune condizioni minime che consentono la comunicazione, dal momento che l’informazione, per costituire conoscenza diffusa, deve essere comunicata. Lo scambio di informazioni richiede qualche livello di capitale sociale.
Anche se sembra ragionevole sostenere che una valutazione delle performance
istituzionali, contribuendo a rendere conto dell’affidabilità e correttezza dei
policy-makers e dell’efficienza dei sistemi di implementazione delle politiche,
accresce la fiducia istituzionale e l’affidabilità del contesto, è sempre possibile
sostenere che solo “buone istituzioni” o un contesto ricco di capitale sociale
saranno in grado di proporre e comunicare valutazioni aperte, trasparenti e intelligibili. L’impossibilità di stabilire un primato della conoscenza rispetto all’azione
o alla qualità istituzionale o civica di un contesto contribuisce a problematizzare
radicalmente il senso della valutazione rispetto al tema del capitale sociale.
Informazione e capitale sociale, nella prospettiva rational
choice
Va inoltre osservato che l’informazione non può essere considerata capitale sociale finché non entra nei circuiti dell’interazione sociale; finché l’informazione non
viene utilizzata, nota Coleman, rimane solo un’informazione potenziale.
I modi d’uso dell’informazione valutativa rinviano peraltro alle riflessioni di
lungo periodo sulla rilevanza sociale della valutazione. Nella prospettiva del capitale sociale è forse possibile un avanzamento, rispetto a quel dibattito, ad esempio considerando i nessi tra informazione e razionalità individuale; da questo
punto di vista, l’informazione costituisce una risorsa ed un elemento funzionale
nel quadro dell’azione strategica (quindi intenzionale) dell’attore. Dopotutto,
“norme e fiducia sono questioni importanti, ma l’idea di capitale sociale ha
soprattutto a che fare con i benefici individuali e con il calcolo strategico”
44
Luciano Vettoretto
Valutazione delle politiche pubbliche
(Bielasiak 2000). Quando il contesto di riferimento è quello della scelta pubblica
o collettiva entro il campo delle pratiche politico-amministrative, molti importanti osservatori sono concordi nell’affermare che l’informazione “è sempre un
elemento importante del gioco di potere e d’influenza, poiché non la si scambia
in modo neutro” (Crozier e Friedberg 1978, 270); risorsa strategica degli attori,
essa appare sempre, come notano Lindblom e Cohen (1979), giocata entro ambiti di “mutuo aggiustamento partigiano”, anche quando assume (apparentemente) uno “sguardo da nessun luogo” o si riferisce all’interesse generale, come
appunto accade all’informazione esperta (come osserva ancora Lindblom).
In questa prospettiva, nulla assicura esiti virtuosi dal punto di vista collettivo, che
possono tuttavia darsi non intenzionalmente, come effetto emergente. Inoltre,
questi esiti spesso non sono attribuibili all’informazione in sé, quanto, ad esempio, alle “regole del gioco” - ad esempio, seguendo Elster, in un contesto “deliberativo” si è indotti a giustificare le proprie posizioni in termini di un interesse
generale, in virtù della “forza civilizzatrice dell’ipocrisia” (Elster 1993), e questo
processo potrebbe generare meccanismi di fiducia -, o all’accoppiamento casuale di problemi, informazioni e soluzioni sotto la pressione del tempo (come nel
modello del garbage can).
Una prospettiva che consideri il senso dell’informazione rispetto alla “politicità”
dei processi decisionali sembra forse più interessante rispetto a quella che enfatizza le virtù cognitive della valutazione ed i nessi con il capitale sociale, e più
prossima alle recenti riflessioni sugli usi della valutazione. Tuttavia, questa strada non viene seguita, probabilmente perché non molto utile da un punto di vista
operativo o retorico; invece, la prospettiva che sembra emergere assume una
chiara impostazione normativa e funzionalista, che ripropone in nuove forme
una prospettiva “imperialista” che gli osservatori più attenti hanno da tempo
denunciato come uno dei limiti più evidenti della rilevanza sociale di questa pratica (Weiss 2000, 298).
Le virtù della valutazione e dell’informazione, come varianti
della razionalità comunicativa
Le riflessioni sui nessi tra capitale sociale e valutazione sono essenzialmente legate, come abbiamo notato, alle virtù cognitive della valutazione. In un contributo
particolarmente significativo (Picciotto 2001), si sostiene che il bisogno di valutazione emerge dalla presenza di asimmetrie informative nei processi decisionali (intesi come processi di interazione sociale), che innalzerebbero i costi di
transazione. La valutazione, consentendo di mettere in relazione esiti e comportamenti, e, quindi, di rendere conto di condotte non adeguate e del grado di
soddisfazione del “contratto” instaurato tra decisori, attuatori e destinatari delle
politiche, tenderebbe appunto ad eliminare le distorsioni informative e ad
instaurare le regole di una razionalità comunicativa, costituendo al limite una
sorta di equivalente funzionale di un dialogo sociale trasparente.
I benefici della valutazione, in questa prospettiva in parte ispirata all’economia
istituzionalista, derivano dunque dal fatto che la valutazione agirebbe come
deterrente per i comportamenti opportunistici e come incentivo per un progressivo allineamento delle funzioni di preferenza degli attori verso obiettivi di
45
n.5 / 2002
interesse generale, secondo meccanismi di apprendimento organizzativo e
sociale. In sostanza, la produzione di informazioni sulle performance delle politiche pubbliche rafforzerebbe la legittimazione dei policy-makers e delle istituzioni mediante un incremento dell’accountability; la fiducia nelle istituzioni a
sua volta contribuirebbe a contenere i costi di transazione. Attraverso la definizione di standard di valutazione, il giudizio sull’efficacia e l’efficienza, e l’“illuminazione” dei decisori, la valutazione verrebbe a costituire una dimensione essenziale di una pratica di buon governo. Ancor più, la valutazione costituirebbe, al
pari di un’istituzione, un insieme di vincoli che guidano le relazioni tra individui
e gruppi (si vedano ad es. i saggi di Nugent e di Stiglitz in Picciotto e Wiesner
1988). La valutazione svolgerebbe così importanti funzioni sociali legate alla
razionalità dell’azione collettiva (poiché l’informazione e il processo comunicativo “ben informato”, indotto dalla valutazione, favoriscono la cooperazione), alla
partecipazione (soprattutto poiché l’informazione costruita dal basso consente
una migliore comprensione dei problemi da parte dei policy-makers) e al coordinamento (poiché l’informazione condivisa genera efficienza nelle situazioni di
interdipendenza). Questa prospettiva ben si coniuga con le retoriche sulle virtù
delle partnership che sono veicolate in modo autorevole, tra l’altro, nelle politiche e nei programmi dell’Unione Europea (ma, per una lettura critica, cfr.
Papadoupolos 2000).
L’idea fondamentale è che l’informazione costituisca l’elemento chiave (purché
la valutazione non sia giocata strumentalmente, secondo prospettive partigiane
– verrebbe da dire: “politicamente” – quindi senza violare le “pretese di validità”
del discorso habermasiano: Habermas 1986, 97-104 e 417-433) della cooperazione e dell’intesa; in termini più generali, l’idea è che la valutazione, intesa come
istituzione – o come pratica istituzionalizzata – definisca un contesto che induce alla cooperazione e prevenga il comportamento opportunistico attraverso il
meccanismo del dialogo e della comunicazione bene informata. La valutazione
assumerebbe così funzioni – anche pedagogiche - di intelligenza della società,
secondo modelli peraltro già ampiamente sperimentati nell’esperienza riformista (ed in modo particolare nelle esperienze del planning, secondo l’autorevole
interpretazione di Friedmann 1987), nei quali l’informazione e la conoscenza
esperta si ritenevano generatrici, oltre che di un buon governo (di una, se non
ottima, almeno soddisfacente definizione delle politiche pubbliche), anche di
virtù civica.
L’informazione è antecedente all’azione? Qual è la funzione
dell’informazione professionalmente prodotta in contesti di
significati plurimi?
Un nesso tra accountability, apprendimento istituzionale e capitale sociale sembra plausibile, anche se può e deve essere problematizzato. Una relazione diretta e unidirezionale tra valutazione e capitale sociale, proprio per la circolarità ed
ambiguità dei nessi tra virtù cognitive, civiche e di governo, sembra invece incerta e discutibile. Un punto di partenza per problematizzare questa questione si
può ritrovare nelle riflessioni sulle pratiche d’uso dell’informazione nei processi
di policy-making. In questo contesto, l’informazione professionalmente prodot-
46
Luciano Vettoretto
Valutazione delle politiche pubbliche
ta viene raramente assunta come elemento decisivo della produzione di politiche. Gli argomenti si possono ricondurre a due tipi: in uno, si pone particolare rilevanza al carattere socialmente costruito dell’informazione, ed alle relazioni tra
quadri di senso ed informazione; nell’altro, si problematizza il nesso tra informazione, conoscenza ed azione, stabilendo il primato dell’azione sulla conoscenza.
Il primo insieme di argomenti mostra che l’informazione viene incorporata gradualmente dagli attori, mediante processi di sensemaking (il riferimento per i
temi del sensemaking è Weick 1997), entro dinamiche interattive che possono
essere cooperative o conflittuali. L’informazione che è influente, che diventa
senso comune, è spesso poco visibile, e si incorpora di norma nel lungo periodo nei quadri cognitivi degli attori. Raramente vi è un nesso evidente con la decisione, ma l’influenza agisce semmai sui quadri di senso, e, conseguentemente,
sulla strutturazione dei problemi e sulla selezione delle azioni plausibili e dei criteri di valutazione. L’informazione non è influente se non è l’esito di un processo di costruzione sociale (Innes 1998; Dery 1990); quindi, ciò che conta non è
tanto l’adeguatezza della conoscenza esperta, ma la trama evolutiva di un insieme diversificato ed intrecciato di forme di conoscenza, in un contesto spesso
densamente popolato di significati plurimi. L’informazione professionale gioca
comunque – normalmente - importanti ruoli simbolici, rituali e retorici (March
1993, 393 e segg.), e si può perciò avanzare l’ipotesi che la valutazione possa contribuire a rafforzare l’identità di un’organizzazione o di una rete di attori, come
effetto sottoprodotto, costituendo così effettivamente una forma di capitale
sociale. Ma la coesione identitaria non necessariamente produce virtù civiche e
di governo, e può alimentare circoli viziosi di cumulazione di capitale sociale distorto. Questa ambivalenza del capitale sociale viene ormai ampiamente riconosciuta nell’ambito delle politiche pubbliche, in particolare per quanto riguarda alcune
letture critiche della produzione via partnership di politiche locali (ad esempio con
riferimento alle politiche sociali – Mackian 2002; alle politiche di riqualificazione
urbana – Geddes 2002; alle politiche europee di sviluppo rurale, Shucksmith 2000),
ma tali riflessioni raramente trovano spazio negli esercizi valutativi.
D’altronde, autorevoli commentatori mostrano i deboli nessi tra conoscenza
esperta ed azione. Ad esempio, si afferma che, dentro processi nei quali il legame tra problemi e soluzioni è sempre un legame debole, la conoscenza esperta,
più che migliorare le risposte, tende a moltiplicare le domande e l’incertezza
(March 1998, 274). Così che, per non paralizzare l’azione, sembra addirittura preferibile applicare il principio della “mano che nasconde” (Hirschman 1975, 21 e
segg.), cioè attribuire priorità all’azione e porre attenzione agli effetti, ed in particolare agli effetti inattesi. Peraltro, un’intensa attività di monitoraggio, auditing
e valutazioni può provocare l’effetto di inibire l’innovazione e condurre all’ossificazione delle politiche e delle pratiche organizzative (Leew 2002; Perrin 2002):
un grado eccessivo di controlli e sanzioni contro gli “errori” può al limite provocare l’effetto perverso del blocco dell’innovazione.
Ambivalenza della valutazione rispetto ai processi organizzativi
Più specificatamente, molte esperienze di valutazione sembrano provocare l’effetto di ridurre la visibilità e di cristallizzare la discussione, quando troppa enfasi
47
n.5 / 2002
viene posta solo sulle dimensioni del calcolo (Bifulco 2001, 64). “Riducendo i
servizi ad entità da computare, c’è il rischio di privarli del tessuto di azione e
comunicazione sui problemi di cui sono fatti. Nel momento in cui questo tessuto – che è squisitamente intersoggettivo, perciò problematico e aperto – viene
sottratto alla discussione esplicita, vengono meno le condizioni di riconoscibilità e di trattamento collettivo di problemi e soluzioni” (Bifulco 2001, 64). Ma
anche le valutazioni che pongono come centro esclusivo di interesse la rispondenza degli esiti agli obiettivi, con un’enfasi sugli obiettivi come un dato sottratto alle dinamiche della costruzione e ricostruzione sociale, opacizza i processi e
“cristallizza le scelte collettive”. È questo il tema lindblomiano dell’impairment,
inteso in termini generali come ciò che, dentro una prospettiva pluralista (ma
analoghe considerazioni si ritrovano tra gli autori che mettono in relazione
expertise ed impoverimento dei “mondi vitali”), indebolisce la fertile competizione tra posizioni alternative a causa, in particolare, del predominio di idee che
derivano spesso da vantaggi comunicativi o da altre forme di influenza
(Lindblom 1990). La conoscenza esperta, che nella prospettiva di Lindblom
dovrebbe assumere una modesta funzione di contributo al miglioramento dei
processi di costruzione sociale di problemi e soluzioni, tenderebbe invece a
sostituire tali processi, paralizzandoli. Vale inoltre forse la pena ricordare che,
nelle politiche pubbliche come peraltro nella vita quotidiana, non vi sono solo
forme esplicite ed esperte di valutazione come pratica specifica, prodotte più o
meno tradizionalmente, ma che ogni interpretazione o descrizione (o discorso)
contiene implicitamente elementi valutativi. L’attività valutativa è così un’attività
diffusa a tutti i livelli del policy-making e delle esperienze che i soggetti ricavano dalle conseguenze dell’azione pubblica.
La cultura degli indicatori di performance nelle istituzioni pubbliche, pur se contribuisce a combattere il privatismo e le inefficienze, veicola talora un’idea delle
relazioni interpersonali a “bassa fiducia” nelle organizzazioni (Lewis 2001), e questa ragionevole constatazione certo confligge con l’idea di un nesso positivo tra
valutazione e capitale sociale. D’altra parte, spesso i sistemi di performance si
dimostrano ciechi ai dati ostili (Dary 1990, 62), e questa osservazione contribuisce a problematizzare le stesse virtù cognitive della valutazione.
Le situazioni si prestano dunque a molti paradossi, per i quali la valutazione
potrebbe produrre effetti perversi dal punto di vista del capitale sociale: caduta
di fiducia, inibizione del cambiamento e dell’innovazione, impairment, inibizione della partecipazione. I costi di transazione potrebbero, anziché diminuire,
aumentare.
Ambivalenza della valutazione nei confronti del policy change
Ragionando più specificatamente sul nesso innovazione-capitale sociale, si può
osservare che situazioni con una forte intensità di capitale sociale (e identitario),
possono produrre valutazioni eminentemente autoreferenziali e inibire il policy
change. Lo stallo dei processi decisionali non è solo connesso ai conflitti d’interesse, ma anche a percezioni inadeguate della situazione nella quale sono coinvolti gli attori; tali percezioni sono spesso stabili e di lungo periodo (in altri termini, sono habitus profondamente interiorizzati), e generano non solo e non
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Valutazione delle politiche pubbliche
tanto disaccordi sui mezzi e sui fini, ma sulla natura stessa del disaccordo. È questo il caso di situazioni di fissazione cognitiva (quando gli attori hanno una definizione stabile e di lungo periodo del problema, con una scarsa propensione
riflessiva ed innovativa) e/o di fissazione sociale (le relazioni ed i modelli di interazione sociale sono stabili, chiusi e ritenuti non problematici) (Termeer e
Koppenjan 1997; cfr. inoltre Knoepfel e Kissling-Näf 1998). Si tratta di situazioni,
relativamente comuni nelle organizzazioni burocratiche, che sono quelle che ci
interessano, che nel lessico del capitale sociale si potrebbero definire di tipo
bonding, connotate da una evidente chiusura ed esclusione nei confronti dell’esterno, fondata su una forte omogeneità ed identità di gruppo (Gittel e Vidal
1998, 15; Putnam 2000, 22); si tratta, in altri termini, di situazioni connotate dai
quei “legami forti” studiati da Granovetter (Granovetter 1973). Queste situazioni
possono essere più frequentemente associate con le forme distorte o negative di
capitale sociale (Portes 1998). È appena il caso di ricordare quanto queste osservazioni siano rilevanti nell’interpretazione delle “azioni locali”, che, trattandosi di
politiche competitive (dove la competizione è sia tra attori locali, sia tra diversi
territori), hanno bisogno di una forte carica di apertura verso l’esterno, che
metta gli attori in grado di riconoscere e cogliere strategicamente le opportunità (sui nessi tra capitale sociale e sviluppo locale cfr. Bagnasco et al. 2001).
Se, in queste situazioni di fissazione sociale e cognitiva, la valutazione è un atto
esogeno ed indipendente, il modello stimolo-risposta potrebbe non funzionare,
proprio a causa della social embeddedness delle percezioni. Se lo scopo di una
valutazione è, in generale, influenzare le rappresentazioni (Perret 2001, 105) o
incentivare un “cambiamento di mentalità” degli attori (Dente 1989, 87), gli esiti
delle pratiche valutative in questi contesti sembrano piuttosto problematici. I
tentativi di cambiare le percezioni e le rappresentazioni degli attori mediante
nuove rappresentazioni esogene sono quanto meno problematici, in quanto presuppongono che le percezioni possano essere influenzate in una data direzione.
Ma poiché le percezioni sono costruite nell’interazione, gli esiti sono incerti ed
“emergenti”, così come la definizione del problema al quale si vuole rispondere.
L’informazione viene sempre selezionata dagli attori, e resa coerente con i loro
quadri di senso. D’altra parte, valutazioni endogene ed autopromosse potrebbero rafforzare forme di capitale sociale distorto.
I nessi dunque tra informazione esperta e capitale sociale sono almeno ambigui.
La valutazione può costituire un mero episodio rituale nei contesti nei quali è
elevata la condivisione degli scenari e le forme di strutturazione dei problemi, o
dove prevale uno stile decisionale ed una razionalità eminentemente orientati al
controllo legale-formale. Può dar luogo a circoli viziosi cumulativi di riproduzione di capitale sociale distorto nei contesti nei quali tale situazione è già rilevante e la valutazione assume ruoli prevalentemente difensivi ed autoreferenziali; oppure, può generare circoli virtuosi cumulativi in presenza di elevati stock
di capitale sociale virtuoso e di senso dell’accountability; ancora può, da evento esogeno, generare processi di re-framing (Schön e Rein 1994) e di innovazione, o, al contrario, costituire un evento del tutto rituale e ininfluente (se non
addirittura regressivo rispetto ai processi). La valutazione come evento esogeno
rinvia inoltre alla questione dell’influenza, che può essere considerata come
uno degli esiti (talora positivi) dell’attivazione di capitale sociale (Sandefur e
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n.5 / 2002
Laumann 1988). Diversi autori associano l’influenza all’expertise (come ambito di
specializzazione o di monopolio istituzionalizzato su un campo di pratiche); tuttavia, l’influenza richiede, primariamente, fiducia nei confronti dell’esperto (o
meccanismi sanzionatori di vario genere), e, quindi, in sostanza, una dotazione
originaria di capitale sociale o efficienti dotazioni originarie di potere e prestigio.
Quanto la valutazione professionale possa costituire “bene comune” non dipende dunque tanto dalla sua forma, quanto piuttosto dal processo (e dal contesto),
nel quale viene giocata, e comunque i suoi effetti saranno probabilmente indiretti e di lungo periodo (Lindblom e Cohen 1979, 54 passim), e gli esiti virtuosi sono
comunque sempre eventuali. Ciò non significa che non si debba valutare, ma che
occorre una prudente miscela, per citare Wildavsky, di scetticismo ed intenzionalità (Wildavsky 1987), e che, comunque, occorre considerare che il primato non è
della valutazione (che ha essenzialmente lo scopo – limitato - di portare informazione nei processi interattivi di policy-making), ma dei processi e dell’azione.
Orientamento al controllo ed orientamento all’apprendimento
sociale
Occorre probabilmente distinguere (e non invece confondere) le istanze di controllo rispetto ad un orientamento che si interroga sul contributo della valutazione nei processi di apprendimento organizzativo o sociale (naturalmente, questa distinzione è prevalentemente analitica, poiché spesso tra controllo ed
apprendimento vi sono intrecci e relazioni complesse). Nelle due situazioni, è
plausibile che le forme, le funzioni ed i processi di costruzione della valutazione
mutino significativamente. Ambedue le prospettive possono avere dei nessi con
la formazione di capitale sociale (tipicamente, la prima, per quanto riguarda le
virtù di governo; tipicamente, la seconda, per quanto riguarda le virtù cognitive),
ma è evidentemente la seconda prospettiva che appare più interessante e rilevante, per quanto riguarda la dimensione del capitale sociale, poiché mette in
gioco le dimensioni dei significati e dell’innovazione. I processi politico-sociali
nei quali si collocano le valutazioni non sono solo connotati da incertezza (per
trattare la quale è ovviamente cruciale l’informazione), ma da situazioni spesso
sovraccaricate da informazione e da significati plurimi. Soprattutto in queste
situazioni, le relazioni tra valutazione e capitale sociale si fanno più incerte ed
ambigue.
Paradossi implicati dal carattere di presupposto alla valutazione del capitale sociale
La prudenza sulle virtù della valutazione non significa l’abbandono delle pratiche
valutative; come osserva March, “la conoscenza è spesso elusiva, e usarla è spesso difficile, ma normalmente i benefici che ne derivano rendono la sua ricerca
degna di essere perseguita” (March 1998, 250).
Ragionando sui nessi tra valutazione e capitale sociale, non si può affermare con
certezza che la produzione di informazione generi comportamenti cooperativi,
fiducia istituzionale, o costituisca un deterrente per i comportamenti opportunistici. Molto dipende dal tipo di processo nel quale (o per il quale) l’informazio-
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Luciano Vettoretto
Valutazione delle politiche pubbliche
ne viene prodotta.
Ciò che interessa, in definitiva, è se la valutazione possa divenire bene comune,
con effetti positivi sulla fiducia istituzionale, sulla propensione cooperativa e
sulla formazione di visioni condivise.
Nel campo dei policy studies, l’apprendimento viene spesso riferito all’idea del
conflitto ben informato ed adeguatamente regolato. In una autorevole versione
(Sabatier e Jenkins-Smith 1993), l’apprendimento richiederebbe un’equa distribuzione delle risorse informative e l’esistenza di forum di discussione, dominati
da norme di tipo professionale, abbastanza prestigiosi da indurre la partecipazione di autorevoli esperti. Ma persino in queste situazioni ideali, che avvicinano
forse poco realisticamente il gioco politico alla discussione tecnico-scientifica, la
generazione di conoscenza condivisa, nel senso di conoscenza in comune, sulla
quale non vi è necessariamente consenso (che peraltro non è indispensabile per
l’azione collettiva), la condizione è una fiducia di base nell’informazione che
entra nei processi di interazione (oltre ad un consenso sulle norme procedurali
e ad una fiducia istituzionale), che deriva non tanto dall’autorevolezza o dalla
legittimità del produttore, quanto dalle relazioni sociali tra gli attori, dalla consuetudine dell’interazione e dalla storia istituzionale. Il nesso circolare tra informazione e capitale sociale si presenta ancora, ed apre la strada ad un insieme di
paradossi, ed in particolare a quello riferibile al nesso “qualità dell’istituzione –
senso e funzioni della valutazione”.
In via generale, sembra plausibile affermare che le situazioni e le istituzioni più
problematiche sono quelle che avrebbero una maggior necessità di valutazione;
mentre sono invece proprio nelle istituzioni e nelle organizzazioni più efficienti
ed efficaci, amministrazioni che apprendono, “che hanno una propensione per i
principi di messa in connessione, [che] puntano sulla reciprocità e sulla cooperazione, [che] promuovono le responsabilità e le decisionalità diffuse, [che]
attribuiscono peso alla comunicazione” (Bifulco 2001, 62) che le pratiche valutative hanno una rilevanza ed un impatto maggiore. Sono dunque i quadri di maggiore certezza ed affidabilità istituzionale che producono buone pratiche valutative, con circoli cumulativi virtuosi tra valutazione, civicness e buon governo. Nei
contesti organizzativi dove invece la valutazione dovrebbe essere necessaria, gli
eventi valutativi sono per lo più rari, o rituali o irrilevanti. In queste situazioni,
l’intervento esogeno6 , la valutazione cosiddetta “indipendente”, potrebbe, ma
solo eventualmente, modificare lo stato delle cose, ma queste ipotetiche dinamiche sono quanto meno incerte, e sicuramente poco dipendenti dall’evento
valutativo in quanto tale. Ciò che conta sono piuttosto i processi di attivazione
dei soggetti; in questo quadro, eventualmente, forme aperte e processuali di
valutazione collettiva come riflessione sui quadri locali di senso dell’azione pubblica potrebbero risultare efficaci.
Requisiti funzionali e di senso dell’informazione, e nessi con il
capitale sociale
6
Alcuni osservatori
notano che la valutazione, introdotta in
termini tecnocratici
dalla Commissione
Europea, ha prodotto
effetti di apprendimento a scala locale.
In realtà, la questione
appare più complessa.
L’informazione non può dunque essere considerata in prima istanza generatrice
di capitale sociale. Nel caso della scelta individuale, come afferma Coleman, è
l’informazione potenziale a costituire una possibile forma di capitale sociale
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n.5 / 2002
(Coleman 2000, 25). Perché l’informazione potenziale diventi risorsa per l’attore
individuale, in una prospettiva di azione razionale e strategica, occorre che presenti specifiche caratteristiche funzionali, come l’accessibilità, la tempestività e
l’affidabilità (Adler e Kwon, 2000). Naturalmente, poiché il capitale sociale fa riferimento agli “investimenti in relazioni sociali mediante le quali si accede alle
risorse incorporate” (Lin 2001, 17), diventa essenziale l’accessibilità alle reti
(oltre che la loro forma e struttura), e, dunque, i sistemi e le forme di interazione tra attori; nel capitale sociale, si osserva opportunamente, vi è sempre un delicato equilibrio di interessi e di costituzione e ricomposizione degli assetti di
potere (Ostrom 1994, 559).
Queste considerazioni possono tuttavia valere solo in parte nel caso della valutazione come pratica istituzionale, che costituisce solo un tassello dell’argomentazione nella sfera pubblica. I requisiti funzionali non sono più sufficienti, perché
si pone la questione, che abbiamo più volte richiamato, del significato dell’informazione dentro processi politico-sociali connotati da situazioni di compresenza
di significati plurali. Il senso di queste affermazioni è che, poiché la valutazione
(e le informazioni che questa produce in un’arena o sfera pubblica) sono embedded in relazioni sociali ed in quadri di senso, ciò che diventa prioritario non
riguarda tanto le metodiche della valutazione, quanto i processi che si attivano
nella (o a causa della) valutazione, e gli esiti in termini di cambiamento delle percezioni e di istituzionalizzazione degli effetti di retroazione misurati dalla rilevanza degli effetti di cambiamento nelle politiche e nei comportamenti degli
attori (Dente 2000). Tuttavia, la valutazione non è una condizione sufficiente: gli
effetti dipendono anche da una pratica di “cura” della valutazione, poiché il
potenziale di apprendimento dipende in parte da fattori strutturali di produzione e di disseminazione della conoscenza, dal rafforzamento di depositi di conoscenza e dagli accessi formali a questa (come osservano Knoepfel e Kissling-Näf
1998).
Forme di conoscenza attivate nei processi di valutazione, intenzionalmente o non intenzionalmente
Interessano dunque i processi mediante i quali l’informazione può diventare
bene comune, costituire, secondo modalità normalmente non intenzionali,
conoscenza condivisa. Questa conoscenza può essere di tre tipi: conoscenza
sostantiva; conoscenza di processo; conoscenza del secondo ordine.
La conoscenza sostantiva riguarda l’oggetto della politica, e, più che un deposito di asserzioni relative ai mezzi ed ai fini di una politica, si può considerare un
frame, un processo di “selezione, organizzazione, interpretazione e significazione di una complessa realtà, che fornisce indicazioni sui modi di conoscere, analizzare, persuadere e agire. Un frame è una prospettiva dalla quale una situazione problematica e mal definita può acquisire senso per l’azione” (Rein e Schon
1993, 146). Questo processo si nutre di credenze, miti, ipotesi sulle relazioni
azione-risultato, modelli di riferimento, esempi di successo e controesempi di
fallimento, percezioni sull’efficacia degli strumenti di policy, e si struttura sulla
base di differenti linguaggi e forme di rappresentazione: il prodotto esperto che
utilizza il linguaggio e la retorica della dimostrazione, ma anche e soprattutto
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Luciano Vettoretto
Valutazione delle politiche pubbliche
(secondo alcuni autori) la storia, il racconto, l’argomentazione, il caso edificante, la metafora,… La valutazione, come prodotto aperto all’interpretazione ma
soprattutto come processo, si intrama nei processi di costruzione di frames e nei
processi di reframing, e costituisce un evento che può anche risultare rilevante
nelle dinamiche di strutturazione dei quadri cognitivi.
Per quanto riguarda la conoscenza di processo, si deve osservare una tendenza
a considerare la valutazione, come altre forme della conoscenza esperta, come
atti (nella loro fenomenologia di “testi”). Così considerata, la valutazione trascura i processi che precedono, strutturano e seguono la produzione del testo.
Questi processi sono spesso ricchi di eventi e di interazioni, dall’esplorazione del
contesto politico, all’emergere di conflitti, alle pratiche spesso negoziali di definizione del problema, ai processi di inclusione ed esclusione di attori, all’attivazione di soggetti terzi, alla selezione collettiva dell’informazione rilevante, ecc.
Dentro questi processi, si sperimentano e si ridefiniscono forme di interazione
ed aspettative rispetto agli altri partecipanti. È nel corso dell’interazione che si
forma una conoscenza del processo e degli attori, delle loro strategie, delle regole e delle poste in gioco, delle risorse disponibili e scambiabili, dei modi più adeguati della comunicazione; si tratta di una conoscenza contestuale, che riguarda
la dimensione propriamente politica dei processi, ma che presenta anche contenuti “tecnici” (ad esempio, sui modi della negoziazione, della mediazione,
della persuasione, ecc.). Di norma, per la valutazione tradizionale questi sono
esiti non intenzionali, anche per quella famiglia di pratiche valutative variamente interattive o partecipative, che perseguono intenzionalmente l’obiettivo del
consensus-building.
La conoscenza del secondo ordine rinvia ai meccanismi riflessivi che sono associati alle pratiche organizzative e del policy-making, ed indica l’applicazione di
analisi, giudizi e valutazioni sui modi nei quali l’organizzazione (o la rete di attori) analizza, giudica, valuta ed agisce. Dunque, questo è il campo del learning to
learn, o, per altri aspetti, della regolazione delle regole, della conoscenza della
conoscenza, ecc. Sebbene lo sviluppo di questi meccanismi riflessivi sia normalmente imputato all’emergere di situazioni problematiche o a fallimenti, si può
sostenere (con Luhmann 1983, 105 e segg.) che questo abbia più in generale a
che fare con l’incertezza che connota l’esperienza contemporanea, incertezza
che riguarda sia la tematizzazione dell’“ambiente” sia i meccanismi di stabilizzazione delle aspettative (questioni che alludono alle due forme di conoscenza
citate in precedenza). In definitiva, la conoscenza sostantiva e di processo possono costituire stimoli per la conoscenza del secondo ordine, ma anche questa
tende a strutturare i modi nei quali conoscenza sostantiva e di processo vengono prodotte (secondo il noto schema della cibernetica del secondo ordine). La
valutazione può in effetti concorrere all’attivazione di meccanismi riflessivi, almeno per quanto riguarda l’aspetto metodico (come trasferimento di uno stile rigoroso e sistematico di presa in considerazione di aspetti rilevanti di un’azione a
livello generale delle pratiche di produzione delle policies; questa possibilità
ricorda per certi aspetti il nesso deweyano scienza-democrazia) e per quanto
riguarda la funzione della valutazione nella generazione di habit istituzionali
orientati civicamente al “render conto”.
Mentre la conoscenza sostantiva può generare fiducia istituzionale (per la pre-
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senza di visioni condivise, o per quella di una sfera pubblica impegnata a produrre tali visioni, o per la riduzione di incertezza associata all’emergere di credenze intorno ai nessi azione pubblica-risultati), la conoscenza di processo e
quella riflessiva incidono su altri meccanismi di formazione del capitale sociale
(costituzione e rafforzamento di reti, fiducia interpersonale, generalizzata ed istituzionale, costruzione di regole del gioco). Naturalmente, tali esiti, come abbiamo più volte ribadito, sono eventuali, e normalmente un effetto sottoprodotto
di interazioni che avevano altri scopi.
Un’ecologia di pratiche valutative
La questione metodica viene chiaramente ad essere subordinata alle forme dei
processi. Per questa ragione, nelle discipline che si occupano di expertise per la
scelta pubblica, si tende ad associare diverse pratiche esperte a diverse contingenze politico-amministrative. In generale, queste riflessioni connettono carattere della issue (in termini di incertezza e/o di novità del problema) e carattere
conflittuale o cooperativo del contesto di policy, e, più in generale, sfera cognitiva e sfera politica. Nel campo della valutazione (per i temi del planning cfr.
Christensen 1985), queste prospettive sono discusse ad es. in Dente e Radaelli
(1996) (cfr. inoltre Valovirta 2002), sulla base di uno schema che coniuga:
- le situazioni di produzione di azioni pubbliche di routine, dentro quadri non
conflittuali. Queste situazioni sembrano quelle nelle quali la conoscenza è disponibile e condivisa, o anche persino istituzionalizzata (Dente e Radaelli 1996),
e nelle quali è ragionevole un’istanza di razionalità tecnica in rapporto ai temi
dell’efficienza e dell’efficacia. Le questioni rinviano ai problemi (tutt’altro che
ovvi) della misura e del calcolo, e dunque al repertorio della tradizione della
policy analysis e della valutazione, ed a temi più sottili della trasparenza dell’azione politico-amministrativa e dell’accountability. Questa pratica sembra dunque contribuire a processi di apprendimento (del tipo “per prova ed errore”) e
al consolidamento della fiducia istituzionale. Va comunque notato che il carattere routinario di queste pratiche si associa ad una “sospensione del dubbio” e
della riflessività, rispetto tuttavia a situazioni che sono spesso cariche di significati sociali e di esigenze di innovazione.
- le situazioni non conflittuali, ma nelle quali si percepisce la necessità dell’innovazione, per la quale non è disponibile un corpo di conoscenze ritenute adeguate. Questo sembra il contesto della scoperta, della sperimentazione, della costruzione collettiva di ipotesi e quadri cognitivi, della descrizione, dell’esempio.
L’ambito della produzione di scenari e visions (qualitativi, interattivi) appartiene
a questa situazione, di tipo essenzialmente “deliberativo” e costruttivo, nella quale
tuttavia la volontà di intendersi (e quindi la dotazione originaria di capitale sociale e/o il favore di una positiva path dependency istituzionale) è essenziale.
- le situazioni conflittuali associate alla presenza di politiche innovative. In questi
contesti, sono normalmente disponibili stock di conoscenza (partigiana), che nel
processo assumono forme diverse, dall’argomentazione all’elaborazione analitico-dimostrativa. Il caso tipico rinvia alle politiche ambientali. Questo è l’ambito
del conflict management, nel quale si intrecciano strategie cognitive (le pratiche
di reframing secondo la prospettiva di Schon e Rein, le ridefinizioni collettive
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Luciano Vettoretto
Valutazione delle politiche pubbliche
dei problemi e delle poste in gioco, ecc.) e strategie del gioco politico (la mediazione, la negoziazione, lo scambio, la compensazione, la minaccia). Il limite della
pratica è dato dalla presenza delle “controversie intrattabili” (ma su questo
punto rinvio a Pellizzoni 1988).
- infine, le situazioni conflittuali in presenza di debole innovazione, nelle quali
possono risultare efficaci le funzioni “illuministe” della valutazione, piuttosto che
quelle strumentali, e dove tuttavia sono rilevanti le azioni sulla trasformazione
dei modelli di interazione (ad esempio, secondo modelli deliberativi o di giochi
iterati) e sulla dotazione di risorse cognitive degli attori (Dente e Radaelli 1996).
Queste situazioni (e le relative forme dell’intervento) possono essere compresenti in un medesimo contesto istituzionale (e, a maggior ragione, in un contesto locale), con riferimento a diverse issues. A livello macro, si può dunque notare un’ecologia di pratiche valutative (e, più in generale, di pratiche di pilotaggio
dei processi), i cui effetti reciproci sono complessi e in sostanza inesplorati. Si
può tuttavia ipotizzare che le ultime tre forme di valutazione (quelle con un contenuto tecnico apparentemente minore, o comunque connesse in modo più evidente a processi di interazione sociale), abbiano a che fare con processi di generazione di conoscenza di processo (oltre che sostantiva). Inoltre, poiché i messaggi che vengono scambiati durante l’interazione (che sono sempre oggetto di
interpretazione da parte degli attori che li ricevono) veicolano, per lo più implicitamente, giudizi e valutazioni non solo sulla specifica issue, ma anche sui modi
stessi dell’interazione e sulle forme di strutturazione delle conoscenze, questi
processi potrebbero essere produttivi anche di conoscenze del secondo ordine.
Infine, le conoscenze di processo (come apprendimento, per via di esperienza,
di regole e strategie dell’interazione e della comunicazione) e le conoscenze del
secondo ordine (come capacità riflessiva che consente l’adattamento di regole
generali a casi specifici, o come capacità di apertura all’innovazione) possono
costituire una forma di capitale sociale nella misura in cui possono essere utilizzate per altri scopi ed in altri contesti di policy, o per gli effetti che possono produrre sui meccanismi della fiducia. Comunque sia, i nessi con i temi del capitale
sociale sono tutt’altro che univoci, per le ragioni che abbiamo già richiamato.
Opportunità di osservare i processi di social capitalising (o di
pensare il capitale sociale come processo)
Il tema delle relazioni tra valutazione e capitale sociale è dunque complesso ed
ambiguo. Da un lato, il capitale sociale appare una risorsa fondamentale e un
presupposto per la produzione di buone pratiche valutative e dell’attivazione di
circoli virtuosi cumulativi. Dall’altro, si ipotizza che la valutazione possa concorrere alla formazione di capitale sociale. Il capitale sociale – sebbene in forme che
possono talora essere distorte - diventerebbe cosi un prodotto del processo di
valutazione. Questa considerazione pone alcuni problemi, ed allude all’opportunità di osservare i modi della costruzione del capitale sociale, ma queste dinamiche processuali sono scarsamente studiate. Sembrerebbe rilevante rendere
conto dei processi mediante i quali l’informazione valutativa (assieme ai modi ed
alle forme della sua diffusione) diventa – eventualmente - capitale sociale, i modi
della sua appropriazione e le modalità d’uso da parte degli attori (quali?). In altri
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n.5 / 2002
7
Questo tema è emerso durante una conversazione con
Pierluigi Crosta.
Naturalmente, le
responsabilità dell’argomentazione sono
solo mie.
termini, piuttosto che affermare che l’informazione (o, meglio, il potenziale di
informazione) costituisce capitale sociale in quanto tale, sarebbe interessante
osservare come avviene il processo di social capitalising7 , ovvero come un’informazione, o un’informazione potenziale, si costituisce come risorsa effettiva
per l’azione collettiva – o di attori specifici - e diventa bene comune, oppure
costituisce un bene esclusivo.
L’attenzione per il social capitalising induce a considerare i processi di sensemaking e la dimensione “politica” dei processi di policy-making; ma, come abbiamo
notato in apertura, il dibattito sul capitale sociale tende ad oscurare proprio quella dimensione agonistica (per riprendere un’espressione di Sheila Benhabib) della
politica, che invece era ben presente nella più recente riflessione sui nessi tra politica/politiche/valutazione. Questa dimensione è invece essenziale per qualsiasi
argomentazione sulla rilevanza sociale della valutazione (e sulle forme più adeguate dei processi della sua produzione), oltre che per comprendere gli effetti che
la valutazione può produrre sulle forme dell’interazione sociale.
Valutazione come prodotto e come processo
La valutazione è un prodotto, che si presenta normalmente nella forma di un
testo; come ogni altro testo, una volta affidato agli attori sociali, è aperto a molte
interpretazioni e produce, spesso non intenzionalmente, i suoi effetti.
Da questo punto di vista, non vi è una superiorità di specifiche metodologie; la
questione metodica non sembra particolarmente rilevante (naturalmente, la
forma ed il linguaggio della valutazione può avere effetti sui modi del suo uso e
sugli effetti, come mostra il dibattito e la cosiddetta “svolta argomentativa” nella
policy analysis).
Gli effetti di una valutazione saranno sempre, come mostra ampiamente il dibattito, mediati e mai diretti, e dipenderanno sostanzialmente dalle dinamiche del
processo politico. Se, ed in quale misura, una valutazione costituirà, con molti
altri eventi, un processo di social capitalising, potrà essere detto solo a posteriori. Se, seguendo ancora Elinor Ostrom, il capitale sociale si riferisce alla “shared knowledge, understanding, norms, rules, and expectation about patterns of
interaction that groups and individuals bring to a recurrent activity” (Ostrom
1999, 176), la questione-chiave non riguarda tanto gli strumenti operativi, ma
piuttosto il modo nel quale la valutazione, come pratica istituzionale e/o organizzativa, costituisce effettivamente una “recurrent activity” (un’attività istituzionalizzata, una pratica, dove ciò che importa non è l’atto tecnico ma la costruzione sociale come modo di fare le cose: Weick 1997, 37); quanto quindi il significato di un’attività valutativa diviene senso comune e conoscenza condivisa (in
quanto tale, difficile da riconoscere e da articolare, e, sostiene ancora la Ostrom,
difficile da costruire mediante interventi esterni e/o intenzionali), che si intrama
nei processi e nella produzione di conoscenza interattiva, certezza ambientale,
fiducia, ecc. (su questo punto cfr. anche Bifulco 2001, 62).
Dunque, l’attenzione va posta sul processo, e sulle dinamiche dell’interazione.
Alla fine, non si può trascurare che la valutazione – come pratica professionale è solo uno dei possibili modi dell’apprendimento ed è solo uno degli input dei
policy-makers (Weiss 1999), e che la valutazione professionale costituisce solo
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Valutazione delle politiche pubbliche
una parte minima del processo di critica, giudizio e valutazione di una politica
pubblica, che è costantemente sotto osservazione da parte di molti soggetti
(Majone 1989, 169), che costituiscono il pubblico secondo l’accezione che ne ha
dato John Dewey alla fine degli anni venti dello scorso secolo.
La forma della valutazione dipende dal processo, e non viceversa; così se, come
abbiamo già osservato, tradizionali valutazioni quantitative possono essere anche
adeguate in situazioni di routine e a-conflittuali, in situazioni di disaccordo,
incertezza o conflitto, processi guidati di valutazione (o, come si usa dire, di
“valutazione partecipata”), che coinvolgono gli attori nella definizione del problema e nei criteri del giudizio, possano costituire delle pratiche pertinenti e
forse efficaci nella costruzione del consenso o almeno nella gestione dei conflitti (tra i molti riferimenti possibili, cfr. Guba e Lincoln 1989).
Ma anche in questo caso, con prudenza, senza pretendere, come avviene presso
alcune scuole anglosassoni di planning, che vi sia un nesso diretto tra formazione del consenso e produzione di beni comuni (per una critica cfr. Crosta 1998,
72). Le pratiche valutative non dovrebbero solo generare apprendimento sugli
effetti di specifiche politiche e/o sull’efficacia ed efficienza di una struttura organizzativa; come nota Wildavsky (1987, 139), ciò che interessa è che le istituzioni
e le organizzazioni, mediante l’esercizio valutativo, dovrebbero essere permeate
da un’etica valutativa (il rinvio è a quel learning to learn che abbiamo citato in
precedenza), che costituisce sia un indizio della presenza di capitale sociale (ad
esempio, dei livelli di fiducia tra gli attori) sia un esito (come generazione, per
via interattiva, di norme e regole e senso comune).
Conclusioni: la nozione di capitale sociale come riferimento
meta-valutativo?
Per concludere, il valore aggiunto della mobilitazione del quadro teorico (peraltro ambiguo) del capitale sociale rispetto ai temi della valutazione sembra incerto, se valutato rispetto alle questioni emergenti dalle riflessioni disciplinari sulla
rilevanza sociale e gli usi della valutazione. Ma, anche se gli effetti in termini di
capitale sociale dei processi valutativi sono ambigui ed ambivalenti, interrogarsi
su questi significa dare un giudizio sull’effettiva influenza delle pratiche valutative nei processi di scelta collettiva.
Ovviamente, non basta asserire le virtù ipotetiche della valutazione; occorre
invece analizzare se ed in quale misura i processi concreti di valutazione (e quali
processi, rispetto a quali forme del policy-making e dell’interazione sociale)
sono eventualmente produttivi di forme di capitale sociale.
Dunque, uno degli elementi di novità della riflessione sugli usi della valutazione,
potrebbe rinviare alla questione se quali forme della valutazione, in quali contesti, per quali tipi di politica, generano effetti in termini di quali elementi del capitale sociale (incrementi di fiducia generalizzata o istituzionale, usi allargati e virtuosi dell’informazione, visioni condivise, ecc.). Perciò, la riflessione sugli usi e
gli esiti della valutazione, in questa prospettiva, potrebbe costituire un quadro di
riferimenti per esercizi di “valutazione delle valutazioni”.
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Luciano Vettoretto insegna Teoria dell Pianificazione Territoriale nella Facoltà di
Pianificazione del Territorio allo IUAV di Venezia.
[email protected]
60
Rosetta Lombardo
Il capitale sociale nell’ impresa
tradizionale for profit*
Il faro
Introduzione
Le relazioni sociali sono state a lungo trascurate dagli economisti che, concentrandosi principalmente sulla nozione di scelta razionale come fattore motivante
del comportamento economico, hanno adottato un modello di rapporti anonimi. In esso gli individui sono considerati come agenti egoisti il cui comportamento contribuisce alla formazione delle disposizioni sociali e dei valori culturali ma non ne è influenzato. Essi traggono utilità solo dal consumo di beni materiali, competono per l’allocazione di risorse scarse, si comportano in modo solipsistico e ignorano le conseguenze del loro comportamento sugli altri.
L’economia si basa, cioè, sull’individualismo metodologico.
A differenza degli economisti che hanno escluso dalla considerazione sistematica le relazioni sociali, i teorici di altre scienze sociali, attribuiscono molta importanza a tali relazioni - che, spesso, si fanno coincidere con la nozione di capitale
sociale - nella spiegazione dei problemi dell’azione collettiva.
La letteratura sul capitale sociale sottolinea proprio il ruolo che le relazioni non
di mercato hanno nella determinazione del comportamento individuale e di
quello collettivo. Questa letteratura è piuttosto confusa perché il concetto è mal
definito. Parte dell’ambiguità del concetto deriva dal fatto che è, spesso, definito
nei termini dei suoi effetti piuttosto che nei termini delle sue caratteristiche; esso
racchiude cose come il grado di affidabilità, norme sociali e partecipazione a reti
ed associazioni, qualità delle società utili di per sé, oltre che per il contributo che
possono dare al successo economico.
In una definizione strumentale, il capitale sociale viene creato dagli individui che
formano reti sociali e le usano per produrre beni e servizi, non monetizzabili e
monetizzabili. L’assunzione che l’individuo tratti le relazioni sociali che intrattiene come mezzi per il perseguimento di determinati fini, riduce il capitale sociale
ad un insieme di risorse a sua disposizione che, insieme ad altre risorse, facilitano il perseguimento dei suoi obiettivi e, quindi, con poche eccezioni, il capitale
sociale è considerato un fattore che condiziona positivamente il funzionamento
di un sistema economico.
Un termine vago - per quanto non sia riuscito ad ottenere uno status appropriato di intelligibilità accettata - è diventato, comunque, un concetto popolare
(Schuller, Baron e Field 2000, 24). La popolarità del concetto di capitale sociale
riflette la credenza diffusa che l’approccio economico convenzionale al compor-
* Desidero ringraziare il prof. Giuseppe
Gangemi per le osservazioni puntuali e i
suggerimenti che mi
hanno permesso di
apportare significativi
miglioramenti al lavoro. Il mio ringraziamento va anche al
prof. Maurizio
Franzini e al dott.
Stefano Solari per
averne letto una versione precedente e al
prof. Davide Infante
per le utili discussioni
sul tema. La responsabilità di eventuali
errori ed omissioni
rimane, ovviamente,
mia.
61
n.5 / 2002
1
Numerosi lavori empirici cercano di dimostrare che il capitale sociale
influenza il processo di
sviluppo. Associazioni ed
istituzioni consentono di
condividere l’informazione, coordinare le attività
e prendere decisioni collettive. Il capitale sociale,
secondo alcuni economisti, genera buone istituzioni. La presenza di elevati livelli di fiducia predice la crescita economica (Knack e Keefer 1997;
Easterly e Levy 1997) e lo
sviluppo finanziario
(Guiso et al. 2000).
L’assenza di capitale
sociale può spiegare
bassi livelli di spesa per
l’istruzione e il welfare
(Alesina et al. 1999;
Harris et al. 2001;
Poterba 1997; Miguel e
Gugerty 2002).
2
Spagnolo (1999), ad
esempio, dimostra che
l’esistenza di un legame
tra relazioni produttive e
sociali facilita il raggiungimento di un più efficiente risultato cooperativo in entrambe le relazioni e può rafforzare
l’osservanza di altre
norme sociali.
3
Si rinvia a Lombardo
(2000).
62
tamento umano sia, per alcuni aspetti, inadeguato.
Dalla prospettiva di una scienza sociale come l’economia, la letteratura sul capitale sociale - poiché si allontana dall’enfasi sul modo in cui gli individui effettuano scelte propositive, auto-interessate per comprendere come le norme sociali
e le strutture sociali emergono e condizionano i comportamenti individuali - rappresenta un modo relativamente eterodosso di pensare (Durlauf 2002, 259).
Ma se si rivede l’idea secondo la quale, se il mercato risponde a precisi requisiti
e l’efficienza è l’unico metro di valutazione, il comportamento di individui autointeressati in rapporti anonimi può condurre a risultati sociali pregevoli e si
ammette che il mercato fallisce - anche a causa dell’egoismo degli individui - e
che i governi non sono sempre in grado di porvi rimedio, il capitale sociale può
fare il suo ingresso nella teoria economica.
In effetti, il concetto ha attirato l’attenzione di alcuni economisti ma i lavori prodotti - per lo più empirici1 , nella maggior parte dei casi, riflettono la confusione
esistente nella letteratura sul concetto stesso.
Il nostro interesse per il capitale sociale è dovuto alla sua possibile relazione con
i risultati raggiunti da un’impresa. L’obiettivo di questo lavoro è, infatti, quello di
mostrare – dopo aver cercato di fare chiarezza sul concetto di capitale sociale come le imprese possono ottenere un maggiore impegno da parte dei lavoratori2 senza sopportare costi aggiuntivi. La qualità delle relazioni interpersonali è
probabile che agisca come un incentivo influenzando: i) le decisioni dei lavoratori relative al livello di effort da esercitare; e ii) la performance economica dell’impresa (Borzaga e Depedri 2002, 2). Fiducia, reciprocità, valori condivisi, reti
e norme, inoltre, aggiungono valore ad un’impresa, velocizzando il trasferimento delle informazioni (McElroy 2001, 2). La teoria economica, tuttavia, ha prestato poca attenzione al ruolo che gli aspetti relazionali possono avere sulle decisioni relative allo sforzo. Per essa, queste decisioni sono influenzate solo o principalmente dal salario e dalle ore di tempo libero di cui un lavoratore può godere. Un maggiore sforzo può essere considerato come una perdita di tempo libero; un lavoratore, perciò, lavorerà più duramente solo se riceve un salario più elevato. In realtà, come sostiene Frey (1997), l’analisi dell’offerta di lavoro e dello
sforzo deve prestare più attenzione a motivi umani intrinseci che differiscono da
quelli estrinseci. Secondo Borzaga e Depedri (2002) le relazioni interpersonali in
un posto di lavoro andrebbero considerate come un insieme di beni che danno
un’utilità aggiuntiva ai lavoratori.
Non ci soffermeremo a ripercorrere le posizioni - che hanno alimentato una fiorente letteratura - di Coleman e Putnam3, ma presenteremo sinteticamente quelle di Arrow, Becker, Bowles, Solow e Stiglitz meno note e che, a differenza delle
prime, non hanno dato inizio alla proliferazione di lavori sul tema.
Pur non ripercorrendo le posizioni più note, vedremo che le diverse concezioni
di capitale sociale presenti in letteratura possono essere ricondotte essenzialmente a due categorie: quella dei rapporti comunitari e quella dei valori introiettati (Lombardo 2000). Anche se non è facile far rientrare in queste due tipologie
tutte le posizioni presenti in letteratura - molte di esse riuniscono, infatti, in
un’unica definizione aspetti concettualmente diversi – ai fini della nostra analisi
è importante tenere teoricamente distinti l’approccio dei valori introiettati e
quello delle reti di relazioni.
Nell’accezione di rapporti comunitari il capitale sociale incorpora aspettative di
Rosetta Lombardo
Il capitale sociale nell’ impresa tradizionale for profit
reciprocità e costituisce, a nostro avviso, un correttivo all’ipotesi di rapporti anonimi. Esso è, infatti, inerente alle relazioni sociali. La comunità fa si che certi comportamenti siano adottati per il timore della sanzione diffusa. Il capitale sociale
inteso come reti di relazioni può essere socialmente costruttivo oppure no,
dipende dall’uso che ne viene fatto. L’uso che ne viene fatto, a sua volta, non è
casuale ma dipende da certe caratteristiche dell’individuo, come vedremo in
questo lavoro.
I valori introiettati inducono l’individuo ad adottare un comportamento diverso
da quello che viene normalmente ascritto ad un individuo guidato dall’egoismo
– in particolare un comportamento non opportunista. Il comportamento dell’individuo che introietta valori è indipendente dal timore di sanzioni o dall’aspettativa di remunerazioni. Nella seconda tipologia, il capitale sociale è un correttivo all’ipotesi di egoismo.
Nell’analisi presentata unificheremo le due tipologie di capitale sociale individuate - che, in realtà, non sono nettamente distinte - basandoci sul legame che,
a nostro avviso, esiste tra capitale sociale inteso come capitale relazionale e opinioni degli altri. La sensibilità dell’utilità dell’individuo all’opinione altrui sarà da
noi considerata come capitale sociale - nell’accezione di valori introiettati.
L’analisi cercherà di far emergere l’influenza che esso può esercitare sulle scelte
degli individui.
Quello presentato è un tentativo di illustrare come una interdipendenza tra interessi economici e sociali può fungere da correttivo dei comportamenti individuali, in particolare, del comportamento di un lavoratore che svolge un lavoro di
squadra. Il capitale sociale, soprattutto nell’accezione di valori introiettati, può
indurre gli individui ad astenersi dai comportamenti opportunistici che danneggiano la controparte (il datore di lavoro) ma anche a contenere le azioni che
hanno effetti negativi sulla terza parte (gli altri lavoratori nella squadra)4 . Perché
il capitale sociale produca effetti positivi, l’individuo deve avere una funzione di
utilità allargata.
Il lavoro è organizzato come segue. Nel prossimo paragrafo vedremo che il capitale sociale – pure se accolto con sospetto dagli economisti – come concetto
(seppure non come termine) era presente nella teoria economica già nel XVIII
secolo. Nel paragrafo sulla proliferazione dei capitali presenteremo la famiglia
allargata dei capitali e vedremo quali delle caratteristiche del capitale sono possedute dal capitale sociale. Nel successivo paragrafo vedremo in che modo
Becker concilia l’individualismo metodologico con le relazioni sociali.
Nell’interrogarci sul se il termine capitale sociale sia da abbandonare, presenteremo la posizione di due autorevoli economisti propensi all’abbandono della
metafora del capitale sociale mentre nel paragrafo successivo presenteremo
quella di Bowles che, al contrario, è favorevole ad un approfondimento del tema
anche se preferisce il termine comunità al termine capitale sociale. Quindi, analizzeremo molto sinteticamente il ruolo che, nella visione di Stiglitz, il capitale
sociale ha nelle organizzazioni. Infine, presenteremo le due concezioni di capitale sociale, quella delle reti di relazioni e quella dei valori introiettati, rispettivamente. Dopo aver cercato di fare chiarezza sul concetto in esame, passeremo ad
analizzare, nel paragrafo con relativo titolo, i fattori che influenzano la scelta. Nel
paragrafo successivo, vedremo come l’utilità dipende dalle opinioni.
4
Il tema del capitale
sociale – nella questione relativa ai rapporti tra operai e
datori di lavoro anche se trattato con
altro nome, è stato
cruciale nel dibattito
economico da Smith a
Marx. Al centro del
dibattito vi era la constatazione che la divisione del lavoro
aumenta la produttività individuale
media e globale. Il
surplus che ne deriva
è capitale socialmente
prodotto. Marx lo
attribuisce al lavoro
operaio. In questo
lavoro non ci soffermeremo su questo
tema ma rinviamo a
Fine (2001).
63
n.5 / 2002
Presenteremo poi un’analisi dell’influenza che il capitale sociale può avere sulla
scelta dell’effort. Nell’ultimo paragrafo, infine, racchiuderemo le considerazioni
conclusive.
È solo un termine nuovo per concetti noti?
5
A partire dagli anni
settanta, il termine
capitale sociale è stato
utilizzato dagli economisti per indicare
infrastrutture fisiche o
attività finanziarie. Il
capitale è stato qualificato con il termine
sociale per attribuire
ad esso una valenza
collettiva morale o
legale.
64
Il termine capitale sociale è usato in modo differente in differenti campi di studio. Nella letteratura di scienza politica, sociologia e antropologia, il capitale
sociale si riferisce, generalmente, all’insieme di norme, reti e organizzazioni
attraverso le quali gli individui ottengono l’accesso al potere e risorse che sono
strumentali nel processo di decisione.
Nella letteratura economica Loury (1977) ha introdotto il concetto di capitale
sociale5 in un’analisi della disuguaglianza sociale il cui obiettivo era quello di catturare la relazione esistente tra i legami sociali e la possibilità di accesso dei giovani al mercato del lavoro.
Più in generale, gli economisti sostengono che aspetti del capitale sociale - come
le istituzioni - sono sempre stati considerati nell’analisi economica. A livello
microeconomico, essi considerano il capitale sociale nei termini della sua capacità di migliorare il funzionamento del mercato; a livello macroeconomico, analizzano gli effetti che istituzioni e intervento pubblico producono sulla performance macroeconomia (Seregeldin e Grootaert 2000, 45).
Una visione del capitale sociale ampia include un ambiente sociale e politico che
permette alle norme di svilupparsi e foggiare la struttura sociale. Oltre alle relazioni orizzontali informali (incluse nella definizione di Putnam) e alle organizzazioni gerarchiche verticali (incluse in quella di Coleman), questa visione comprende relazioni istituzionali formali.
North (1994) e Olson (1982) hanno analizzato questa definizione di capitale sociale ampia in relazione ai risultati macroeconomici. I due autori sostengono che le
differenze nei redditi pro capite tra paesi non possono essere spiegate dalla distribuzione pro capite delle risorse produttive (terra e risorse naturali, capitale
umano, capitale fisico, tecnologia). Istituzioni e altre forme di capitale sociale,
insieme a politiche pubbliche, determinano i rendimenti che un paese può ottenere dalle sue altre forme di capitale. Olson sostiene che i paesi a basso reddito,
anche quelli con un’ampia dotazione di risorse, non possono ottenere guadagni
consistenti da investimenti, specializzazione e scambi. Questi paesi sono limitati
dall’assenza di istituzioni - che fanno rispettare i contratti in modo imparziale e
assicurano i diritti di proprietà - e da politiche economiche incaute.
Molto di ciò che oggi si definisce capitale sociale era al centro degli interessi degli
studiosi che facevano capo alle tradizioni durkheimiane, weberiane e marxiste
nella sociologia classica influenzate da dibattiti e problemi economici del periodo.
Portes e Sensenbrenner (1993) individuano nelle suddette tradizioni di pensiero
sociologiche quattro tipi di capitale sociale che hanno a che fare con aspettative
economicamente rilevanti.
Da Durkheim (1984) i due autori estraggono l’importanza del “valore di introiezione”, l’idea che i valori, gli imperativi morali, i commitment precedono le relazioni contrattuali e plasmano obiettivi individuali diversi da quelli strettamente
strumentali. I valori introiettati spingono gli individui a comportarsi in modi
Rosetta Lombardo
Il capitale sociale nell’ impresa tradizionale for profit
diversi da quelli dettati dalla semplice avidità; essi diventano, perciò, una risorsa
per altri individui o per la collettività e costituiscono una forma di capitale sociale.
Da Simmel (1955) viene ripresa l’idea di “transazioni di reciprocità”, le norme e
le obbligazioni che emergono dall’esistenza di reti personalizzate di scambio. Il
capitale sociale che deriva dalle transazioni di reciprocità consiste nell’accumulazione di “note” relative alle buone azioni compiute, in precedenza, nei confronti degli altri, avallate dalla norma della reciprocità. In questo caso ci si aspetta che gli individui perseguano fini egoistici.
Da Marx ed Engels (1948), Portes e Sensenbrenner (1993) deducono la nozione
di “solidarietà limitata”, cioè, l’idea secondo la quale circostanze avverse possono agire come una fonte di coesione di un gruppo. Se sufficientemente forte, la
reazione di una classe di persone - che affrontano avversità comuni in un particolare tempo e luogo - conduce all’osservazione di norme di supporto mutuo,
una risorsa per gli individui.
L’“enforceable trust” è basata sull’idea - di Weber (1947) - che le istituzioni formali e i gruppi particolaristici usano meccanismi diversi per assicurare la conformità alle regole di condotta stabilite. Le prime (per esempio, le burocrazie)
usano meccanismi legali/razionali, i secondi (per esempio, le famiglie) quelli
sostantivi/sociali. La forza motivante, in questo caso, è rappresentata dall’aspettativa di utilità associata al “good standing” in una collettività (Portes e
Sensenbrenner 1993, 1325).
La ricostruzione proposta dai due autori, è apprezzabile perché fa emergere
aspetti diversi dalle relazioni sociali che pure costituiscono capitale sociale
(Lombardo 2000, 51).
Anche tre filosofi-economisti del XVIII secolo, Hume, Smith e Genovesi hanno
elaborato teorie non troppo distanti dall’idea di capitale sociale.
Hume (1978, 481) sostiene che la benevolenza deriva dalla solidarietà e la forza
della solidarietà deriva dalla densità delle relazioni tra le persone: siamo benevoli
con la nostra famiglia, con i nostri amici e con quelli la cui felicità “is brought
near to us, and represented in lively colours”. La sua spiegazione dell’assistenza
mutua come prodotto del self-interest – l’idea che possiamo aiutare gli altri
senza fare loro alcuna gentilezza reale, è abbastanza vicina all’idea di obbligazioni, una delle forme di capitale sociale di Coleman (1988).
L’approccio di Adam Smith nella sua Teoria dei sentimenti morali è un approccio relazionale alla persona umana vista come costituzionalmente in relazione
con altri. Per l’economista scozzese, la principale forza motivante del comportamento morale dell’individuo è il suo desiderio di ottenere l’approvazione degli
altri. Una persona è fortunata se riceve considerazione e sfortunata se è indifferente agli altri. Il comportamento morale è sostenuto dal valore della reputazione. La reputazione di affidabilità, secondo Adam Smith, è trasmessa attraverso le
reti di relazioni di scambio le quali fanno sì che le violazioni di principi morali
diventino note; più densa è la rete di relazioni, maggiore è il valore della reputazione e così – per ragioni legate al puro auto-interesse – più elevato è il grado di
fiducia. La logica di questa analisi è molto simile a quella delle moderne teorie di
Granovetter e Putnam. La principale differenza tra Smith e i moderni teorici del
capitale sociale è relativa alla possibilità che un’economia di mercato possa creare e sostenere la fiducia senza il supporto fornito da reti non economiche di
65
n.5 / 2002
impegno civico. Per il filosofo-economista, infatti, il mercato stesso crea l’affidabilità necessaria per il suo funzionamento in quanto è esso stesso una rete densa
di associazioni all’interno delle quali gli individui sono indotti dal self-interest a
costruirsi e mantenere una reputazione di affidabilità (Bruni e Sugden 2000, 34).
L’economista napoletano Antonio Genovesi sostiene che i tre quarti delle azioni
umane dipendono dalla simpatia. L’elemento fondamentale della sua visione
della persona è la socialità – il desiderio di relazionarsi con i suoi simili. Le relazioni sociali non sono solo mezzi attraverso i quali soddisfiamo l’auto-interesse;
esse sono utili di per sé. Secondo Genovesi (1765-67), ciascuno, individualmente, può raggiungere più facilmente la felicità se stabilisce relazioni di amicizia con
altri che hanno inclinazioni simili. Il capitale sociale consisterebbe, perciò, nella
fede publica – in un impegno comune e mutuamente riconosciuto alle virtù dell’amicizia e dell’assistenza reciproca (Bruni e Sugden 2000, 43). Oggi diremmo
che il capitale sociale è costituito dalle reti di associazioni che sono basate su
quelle virtù e che le propagano.
Nel Capitale, Marx afferma che la ricchezza “è una relazione tra persone espressa come una relazione tra cose” ma sottolinea la necessità di recuperare le relazioni umane nascoste e definisce l’economia politica come la scienza dello studio delle relazioni sociali dietro le cose (Bruni 2002, 10).
Nel suo pensiero, il sociale annesso al capitale assume la forma di relazioni di
classe. Marx riconosce che il potere socialmente riproduttivo del lavoro si sviluppa come un “free gift” al capitale ogni volta che i lavoratori sono messi in
certe condizioni. Egli, perciò, vede questa forma di cooperazione sociale nell’attività economica come una fonte preziosa di capitale anche se non usa il termine capitale sociale (Brown e Lauder 2000, 236).
Prima di passare a presentare le posizioni di alcuni economisti contemporanei
sul capitale sociale, vediamo sinteticamente la relazione esistente nei componenti della famiglia ampliata dei capitali.
La proliferazione dei capitali
6
Gli altri fattori sono,
come è noto, terra e
lavoro.
66
L’economia tradizionale considera capitale un’attività fisica o di altro tipo che fornisce un flusso di utilità futuro agli individui.
Il termine “capitale” implica: (a) estensione nel tempo; (b) sacrificio deliberato
nel presente per il beneficio futuro; e (c) alienabilità (Arrow 2000, 4)
Il capitale fisico - uno dei fattori di base6 che, secondo gli economisti classici,
determinano la crescita economica - è lo stock di risorse materiali che possono
essere usate per produrre un flusso di reddito futuro. L’origine del capitale fisico è il processo di utilizzazione di tempo e di altre risorse per costruire strumenti, impianti e altre risorse materiali che possono, a loro volta, essere impiegate nella produzione di altri beni. Esso è tangibile, essendo incorporato in
forma materiale osservabile.
Gli individui hanno la possibilità di fare i calcoli di convenienza e l’incentivo ad
investire in capitale fisico non manca poiché, essendo ordinariamente un bene
privato, i diritti di proprietà consentono alla persona che investe in capitale fisico di appropriarsi del rendimento dell’investimento.
Negli anni Sessanta, economisti come Becker (1962) e Schultz (1963) hanno
Rosetta Lombardo
Il capitale sociale nell’ impresa tradizionale for profit
introdotto il concetto di capitale umano, ma la sua importanza è stata riconosciuta in tempi relativamente recenti. Il capitale umano è (rispetto al capitale fisico)
meno tangibile, essendo costituito da abilità e conoscenza acquisite da un individuo attraverso l’istruzione e attraverso l’esperienza di lavoro. La persona che investe tempo e risorse per costruirlo ottiene benefici nella forma di un lavoro più soddisfacente, di una remunerazione più elevata, di uno status più elevato, ecc.
Le decisioni di investimento in capitale fisico e in capitale umano sono basate sui
rendimenti attesi. Il valore del capitale fisico7 e di quello umano è, almeno teoricamente, strettamente collegato all’investimento di tempo e denaro in questi
beni capitali. Così il tempo speso per l’istruzione può essere una misura adeguata del valore del capitale umano.
L’alienabilità - una caratteristica che il capitale fisico non sempre possiede (investimenti irreversibili) - non è una caratteristica del capitale umano. Il capitale
umano, comunque, con il capitale fisico ha in comune almeno un elemento: gli
individui decidono sugli investimenti.
Diversamente dal capitale umano, che ormai ha un posto di rilievo nella teoria
economica, il concetto di capitale sociale è ancora considerato con sospetto da
molti. Il capitale sociale è la forma di capitale meno tangibile; nella definizione
più ricorrente in letteratura, esso si costruisce attraverso le relazioni tra persone
che facilitano l’azione. Non è possibile fare alcun calcolo di convenienza, non esiste un prezzo da pagare, non sono determinabili costi e benefici.
La letteratura sul capitale sociale enfatizza l’idea secondo la quale la socializzazione produce benefici che si estendono oltre il suo proposito iniziale. Collier
(1998), in particolare, sostiene che il capitale sociale è capitale se ha l’effetto economico di sostenere un flusso di reddito. Esso è sociale perché implica interazioni non di mercato che hanno effetti economici. Gli effetti economici, di conseguenza, non sono internalizzati nelle decisioni di calcolo di ciascun agente
attraverso i prezzi di mercato. Nel linguaggio dell’economia sono esternalità che
facilitano gli scambi successivi.
È probabile che il capitale sociale si accumuli nel tempo attraverso l’interazione
economica. In questo, il capitale sociale è simile al capitale fisico che si accumula nel tempo attraverso il reinvestimento di profitti passati. Si potrebbe sostenere che il capitale sociale differisce dal capitale fisico in quanto non è accumulato
deliberatamente. Che si accumuli nel tempo non significa che non è importante:
anche il capitale fisico si accumula nel tempo e nessuno dubita che esso sia
essenziale per la produzione (Fafchamps e Minten 2002, 176-177).
Gli aspetti cognitivi del capitale sociale aiutano a spiegare due caratteristiche che
lo differenziano dal capitale fisico. Primo, il capitale sociale non si deteriora con
l’uso. Utilizzando il capitale sociale per un proposito si creano comprensioni
mutue e si stabiliscono modi di rapportarsi che possono essere usati per svolgere attività differenti a costi di start-up molto più bassi.
Secondo, se non utilizzato, il capitale sociale si deteriora in modo relativamente
rapido8. Inoltre, col passare del tempo, alcuni individui vengono sostituiti da altri
nell’aggregazione sociale e il capitale sociale si può dissipare.
Il capitale sociale, come quello umano, non possiede tutte le caratteristiche del
capitale fisico. Come sostiene Arrow (2000), l’estensione nel tempo è una caratteristica che per il capitale sociale può valere solo in parte; la costruzione di repu-
7
In relazione al capitale fisico Hirshleifer
(1970) spiega che la
parola “capitale” è
una fonte di confusione a causa dei suoi
differenti significati.
Tra le altre, l’autore
sottolinea la differenza tra capitale reale e
valore capitale. Il
capitale reale si riferisce ad un insieme di
beni capitali come
oggetti fisici esistenti
nel presente ma costituenti la fonte di benefici nel futuro. La discussione sul capitale
umano, tuttavia, ha
chiarito che un bene
capitale non è necessariamente fisico o
materiale.
L’istruzione, per esempio, è un bene capitale immateriale. Il
capitale sociale è un
altro esempio di bene
capitale immateriale.
Il valore capitale, al
contrario, è la valutazione presente di una
sequenza di redditi o
pagamenti futuri. Così
l’esistenza di un bene
capitale (materiale o
immateriale) e la sua
valutazione sono due
differenti argomenti
che non dovrebbero
essere confusi.
8
In modo analogo, gli
individui che non
esercitano le loro abilità possono perdere
capitale umano abbastanza rapidamente.
67
n.5 / 2002
tazioni o di relazioni di fiducia non è assimilabile all’investimento fisico. La condizione (b), in particolare, non è rispettata. Le reti sociali sono costruite per
ragioni diverse dal valore economico che possono avere per i partecipanti.
Stabilire il valore del capitale sociale sembra essere piuttosto difficile. Anche se
spendere tempo nei club, partecipare a conferenze o qualsiasi altra cosa atta a
costruire relazioni può essere interpretato come un investimento in capitale
sociale, il capitale sociale è in larga parte un sottoprodotto degli affari che gli
individui concludono o del bisogno umano di appartenenza (Annen 2001, 7-8).
Capitale personale e capitale sociale
Anche se l’economia non è la disciplina che dà il contributo principale allo studio del capitale sociale, da tempo la scienza economica ha annesso territori tradizionalmente ritenuti di dominio sociologico come quelli delle relazioni di famiglia o dei comportamenti criminali e ha adottato il concetto di capitale umano
per descrivere l’accumulazione di conoscenze e abilità con le quali l’individuo
contribuisce alla produzione della ricchezza. Alla formazione del capitale umano
contribuiscono le relazioni sociali.
L’apporto al dibattito sul capitale sociale da parte della teoria economica non si
allontana dall’ambito dell’individualismo metodologico e della scelta razionale in
risposta alle imperfezioni di mercato. L’uso del capitale sociale da parte dell’economista è basato, infatti, su ciò che può essere sintetizzato nella formula
e=(im) dove e sta per economia ed im sta sia per individualismo metodologico sia per imperfezioni di mercato (Fine 2001, 17).
In questo paragrafo prenderemo in considerazione il contributo di Gary Becker,
uno tra i primi economisti ad essere attratti dal tema in questione.
Becker, premio Nobel per l’economia, definisce il capitale sociale come qualsiasi interazione sociale, o non di mercato, con un effetto continuativo; esso rende
più importante ciò che rimane dopo aver tenuto conto di altri tipi di capitale,
come il capitale naturale, fisico e umano. Anche per altri economisti, il capitale
sociale è semplicemente una sorta di “residuo” (Fine 2001, 194).
Il paradosso è che debba essere Becker l’economista all’avanguardia nell’impiegare la nozione di capitale sociale. L’autore, come è noto, aveva negato il sociale come risultato di un approccio basato sull’individualismo metodologico che
considerava la società alla stregua di un mercato. Evidentemente il mondo virtuale di Becker senza il capitale sociale si è dimostrato incapace di dare una
risposta ai quesiti che si era posto.
Becker incorpora esperienze e forze sociali nelle preferenze attraverso due stock
di capitale. Il capitale Personale, P, include il consumo passato e altre esperienze personali che influenzano le utilità correnti e future. Il capitale Sociale, S,
incorpora l’influenza delle azioni passate da parte dei pari e di altri individui
appartenenti alla stessa rete sociale alla quale appartiene un individuo.
Mentre l’on-the-job-learning può generare capitale umano, il consumo corrente
cambia la capacità futura dell’individuo di trarre utilità da beni e servizi; è questo
che Becker (1996) definisce capitale personale, la capacità di godimento costruita attraverso l’esperienza personale. Il capitale personale è capitale perché é il
risultato dell’accumulazione passata di esperienze e promette un flusso futuro
68
Rosetta Lombardo
Il capitale sociale nell’ impresa tradizionale for profit
di utilità. Esso rappresenta la progressione logica per l’approccio della scelta
razionale basato sull’ipotesi che gli individui siano isolati e che agiscano in una
data società che fornisce loro risorse ed esperienze, attraverso il mercato e altri
meccanismi. Le loro scelte ottimizzanti conducono alla loro evoluzione personale e a quella della società. Tutti gli altri fattori che influenzano l’utilità di un individuo sono designati come capitale sociale (Fine e Green 2000, 81).
Becker (1996, 4) sostiene che capitale sociale e capitale personale sono una
parte dello stock totale di capitale umano di un individuo. La metodologia sviluppata per studiare gli effetti degli investimenti in capitale umano sui guadagni
è, secondo l’autore, applicabile agli investimenti in capitale personale e sociale,
sebbene i tassi di rendimento di tale capitale non possano essere misurati direttamente poiché le utilità non sono osservabili.
Uomini e donne desiderano rispetto, riconoscimento, prestigio, accettazione e
potere. Consumo e altre attività hanno una componente sociale in parte perché
hanno luogo in pubblico. Di conseguenza, gli individui, spesso, scelgono ristoranti, scuole, libri, attività per il tempo libero, ecc. cercando di compiacere i pari
e gli altri individui appartenenti alle loro reti sociali.
Nell’ottica di Becker (1996, 12) il capitale sociale è qualcosa che gli individui possiedono e può crescere o decrescere come il capitale fisico o il capitale umano.
Essi lo dividono e lo creano con altri individui. In questo senso limitato tale capitale è reso sociale.
La funzione di utilità allargata proposta dall’economista americano dipende,
oltre che da differenti beni consumati - x, y e z - dallo stock di capitale personale e dallo stock di capitale sociale disponibili:
u= u (xt , yt , zt , Pt , St )
(1)
Tale funzione di utilità è indipendente dal tempo. Capitale sociale e capitale personale, come già accennato, evolvono durante la vita dell’individuo. Se le sue esperienze individuali e sociali, scelte in modo ottimale o derivanti da eventi accidentali, influenzano i livelli futuri di capitale personale e sociale, la funzione di utilità
nel futuro non cambia, ma cambia il livello di utilità (Fine e Green 2000, 80-81).
In una formulazione semplice il capitale sociale di un individuo i nel periodo successivo viene posto uguale al consumo di beni sociali da parte di tutti gli appartenenti alla rete di i più la porzione non deprezzata del suo capitale sociale corrente. Il capitale sociale al tempo t+1 sarà, cioè:
Sti+1 = Xi + (1-ds )Sit
dove ds è il tasso di deprezzamento del capitale sociale e Xi (=Σxj ) è l’effetto
delle scelte dei membri j della rete di i sul capitale sociale di quest’ultimo. La
dipendenza del capitale sociale di una persona dal comportamento degli altri
può creare importanti esternalità (Becker 1996, 12).
Il capitale sociale à la Becker cattura gli effetti del milieu sociale ed è distinto dal
capitale personale in quanto dipende da fattori che sfuggono al controllo dell’individuo e che esulano dalla sua scelta ma che, come variabili nella funzione di
utilità estesa, influenzano il benessere e le scelte. S dipende principalmente dalle
69
n.5 / 2002
9
Se un adolescente è
spinto a fumare dalla
pressione dei pari, la
sua utilità può ridursi
(Becker 1996, 12).
10
La razionalità è
definita in due modi
piuttosto differenti: in
termini del perseguimento del proprio selfinterest, oppure in termini della coerenza
del comportamento. I
difensori del primo
approccio sembrano
riferirsi ad osservazioni di A. Smith sul
cosiddetto uomo economico, ma trascurano The Theory of
Moral Sentiment e
buona parte di The
Wealth of the Nations,
scritti nei quali l’economista Scozzese
adotta una visione
più ampia della motivazione umana nella
società e non considera il perseguimento
del self-interest come
completamente razionale. Il secondo
approccio è basato
sull’idea che la razionalità coincide con la
coerenza delle scelte si
è razionali se si sceglie in modo coerente
anche se si
70
scelte di altri individui appartenenti alla rete rilevante di interazioni. In una data
rete sociale, i singoli individui hanno, in sostanza, scarso controllo sulla creazione del loro capitale sociale perché quest’ultimo è determinato principalmente
dalle azioni degli altri appartenenti alla rete.
Pur non avendo influenza diretta sul loro capitale sociale, gli individui, spesso,
hanno un’enorme influenza indiretta su di esso, poiché cercano di diventare
parte delle reti sociali che li favoriscono piuttosto che di quelle che li danneggiano. Un aumento nel capitale sociale può accrescere o ridurre l’utilità9. Un
aumento del capitale sociale di una persona accresce la sua domanda di beni e
attività che sono complementi di tale capitale e riduce la domanda per quelli che
sono sostituti. Mentre lo stock di beni durevoli ordinari e gli acquisti di beni
durevoli sono generalmente sostituti nelle preferenze, il capitale sociale e gli
investimenti in questo capitale sono, spesso, stretti complementi. Se una sola
persona in una rete sociale ha un incentivo a variare l’investimento nel suo capitale sociale, ciò ha un’influenza contenuta sul capitale degli altri. Allora gli investimenti possono cambiare di poco, anche quando investimenti e stock di capitale sociale sono complementi nelle preferenze (Becker 1996, 13-14).
Becker è passato in progressione dal capitale fisico al capitale umano e dal capitale umano al capitale personale e da questo al capitale sociale. Anche per
Becker, comunque, il capitale sociale è un residuo utilizzato per raccogliere e
riordinare tutto quello che altrimenti sarebbe inspiegabile. È un sociale di portata limitata perché è relazionale solo nel senso di riassumere le interazioni individuali in modo diverso rispetto al mercato (Fine 2001, 50).
La definizione di capitale sociale utilizzata consente a Becker di mantenere le
assunzioni di massimizzazione di utilità e preferenze esogene ed amplia lo spazio esplicativo dell’approccio della scelta razionale (Fine e Green 2000, 80).
Capitale sociale, un termine da abbandonare?
Gli economisti affrontano il tema del capitale sociale nel tentativo di rappresentare tutte le aree della vita sociale nella struttura concettuale della massimizzazione dell’utilità (come nel caso di Becker) oppure in quello di rifiutare il concetto come impreciso e confusionario (Schuller, Barron e Field 2000, 26).
Questo secondo tentativo presenteremo in questo paragrafo.
La combinazione di razionalità10 e avidità che è alla base dell’analisi economica
del comportamento individuale non può spiegare importanti aspetti della performance economica. Si deve ammettere che molti di tali aspetti sono socialmente determinati. I modelli di comportamento nascono come norme sociali,
fatte rispettare in qualche modo e poi internalizzate (Solow 2000, 7-8).
Solow (2000) è dell’avviso che coloro i quali scrivono e parlano di capitale sociale cercano di chiarire qualcosa di complicato e importante: il modo in cui le istituzioni di una società e gli atteggiamenti condivisi interagiscono con il modo in
cui l’economia funziona.
Fiducia, disponibilità e capacità di cooperare, propensione a contribuire a uno
sforzo comune anche quando non si è osservati, hanno un payoff in termini di
produttività aggregata. Solow, premio Nobel per l’economia, considera naturale
cercare di sfruttare il successo intellettuale della nozione di capitale umano per
Rosetta Lombardo
Il capitale sociale nell’ impresa tradizionale for profit
aggiungere una terza gamba al ceppo. Ciò consente di trattare influenze importanti sulla produzione e, in precedenza, non analizzate, tutte alla stessa stregua,
come capitale sociale.
Per capitale sociale si intendono sia le relazioni e le obbligazioni che esistono
nelle situazioni sociali sia il prodotto delle interazioni. Perciò, non è sorprendente che sia sorta una certa confusione sulla sua misurazione11. Portes e Landolt
(1996) avvertono che il concetto potrebbe essere tautologico. I ricercatori che lo
impiegano devono distinguere attentamente tra indicatori che riflettono il livello di capitale sociale e le determinanti di una tale misura12.
Uno stock di capitale è il risultato di investimenti passati. Che cosa sono e come
possono essere misurati gli investimenti passati in capitale sociale? Solow (2000)
dubita che il “capitale sociale” sia il concetto appropriato qualsiasi cosa si stia discutendo – i modelli di comportamento citati prima, per esempio. L’autore
sostiene che l’adozione del termine capitale sociale è un tentativo di rafforzare
una convinzione attraverso una cattiva analogia e sottolinea l’importanza di guardare ai meccanismi attraverso i quali le società e i gruppi instillano le norme e,
perciò, ai modi in cui i modelli di comportamento vengono fortificati.
Arrow (1971), premio Nobel per l’economia, ha fornito la prima dimostrazione
della congettura di A. Smith sull’efficienza delle allocazioni della mano invisibile,
ma gli assiomi richiesti dal Teorema Fondamentale dell’Economia del Benessere
si sono rivelati così stringenti che l’autore ha sottolineato l’importanza di quello
che oggi verrebbe chiamato capitale sociale per affrontare i problemi derivanti
dai fallimenti del mercato (Bowles 1999, 7):
In the absence of trust .... opportunities for mutually beneficial cooperation would
have to be forgone .... norms of social behavior, including ethical and moral codes
[may be] ... reaction of society to compensate for market failures (Arrow 1971, 22).
A distanza di trent’anni, però, Arrow (2000) sostiene che il tentativo di misurare
l’interazione sociale può tradursi in una delusione e che urge l’abbandono della
metafora del capitale e del termine “capitale sociale”.
La relazione tra mercato e interazioni sociali è ambigua. Da una parte, la teoria
economica moderna sottolinea che anche nei paesi sviluppati il mercato ha bisogno (per ragioni di efficienza) di essere integrato da relazioni non di mercato.
Questo è vero per l’impresa e anche per i mercati in cui le relazioni personali
sono importanti. Dall’altra parte, il turnover del lavoro in risposta a variazioni dei
prezzi può distruggere la disponibilità a investire nella relazione futura. Questo
induce, Arrow (2000), a chiedersi se è il mercato a distruggere legami sociali che
hanno implicazioni positive per l’efficienza.
In effetti, come sostiene Annen (2001), non è chiaro se il capitale sociale debba
essere considerato come una risposta imperfetta all’assenza di mercati perfetti,
o come la causa dell’imperfezione stessa dei mercati. Questo solleva questioni
teoriche sul valore economico del capitale sociale e sui fattori che ne influenzano il valore.
Due premi Nobel, Arrow e Solow, propongono, in sostanza, l’abbandono dell’
espressione e difendono il monopolio degli economisti sul concetto di “capitale”.
Secondo Dasgupta (2000), invece, è prematuro considerare il capitale sociale
sceglie il contrario di
ciò che si vuole e che
si ritiene sia utile
(Klamer 1989, 141).
11
Il capitale sociale è
stato misurato utilizzando indicatori di
partecipazione di
gruppo quali attività
di volontariato,
appartenenza ad
organizzazioni, partecipazione al voto e
indicatori della forza
dei legami di rete
come la fiducia (Costa
e Kahn 2002, 2). Per
quanto riguarda i
macroindicatori
vanno ricordate le
analisi cross-country
di Knack e Keefer
(1997) e Klitgard e
Fedderke (1995).
12
Un problema che
pervade le scienze
sociali è l’esagerazione delle implicazioni
di particolari studi
empirici. Il fatto che
in un certo set di dati
si trovi un coefficiente
statisticamente significativo di un segno
particolare, spesso,
viene considerato
come la dimostrazione che la variabile
associata è una determinante causale del
processo studiato.
Questo non significa
che l’inferenza causale nei processi della
scienza sociale è
impossibile, significa
solo che è molto più
complessa di quello
che appare (Durlauf
2002, 266-267).
71
n.5 / 2002
nello stesso modo in cui viene considerato il capitale fisico. Prima di cercare di
misurare qualcosa, ci si dovrebbe chiedere perché la si vuole misurare. A suo
avviso, anche se non si è in grado di arrivare a una stima del capitale sociale di
un Paese o di una Regione, il concetto di capitale sociale è utile perché attira l’attenzione su istituzioni particolari, importanti per la vita economica e di cui, altrimenti, non si terrebbe conto.
La comunità e le motivazioni pro-sociali
Passiamo ora a presentare la posizione di Bowles che, pur preferendo il termine
comunità al termine capitale sociale, non respinge il concetto in esame.
La convinzione che il sistema di mercato è, come scrisse Hayek (1948), “un sistema nel quale gli uomini cattivi possono fare meno danni”, è tra le caratteristiche
attrattive dei mercati. Questo non significa che i mercati rendono norme e valori ridondanti.
Le comunità sono uno dei modi in cui norme e valori sono sostenute. Bowles
(1998a) cita Arrow (1971) e considera un sottoinsieme di norme che chiama nice
trait. Tali tratti sono strategie come cooperazione condizionata o incondizionata in un gioco del dilemma del prigioniero, disponibilità a contribuire alla fornitura di un bene pubblico, propensione a giocare colomba in un gioco falcocolomba. I comportamenti determinati dai nice traits influenzano gli altri in modi
che non possono essere contrattati. Essi sono tipici della comunità anche se possono facilitare gli scambi nel mercato.
Per comunità Bowles (1999, 6) intende un gruppo di individui che interagiscono, direttamente, frequentemente e in molteplici modi. La caratteristica che definisce una comunità è la connessione e non l’affezione. L’autore preferisce il termine comunità al termine capitale sociale perché quest’ultimo si riferisce a cose
possedute dagli individui; anche Robinson Crusoe aveva una scure e una rete da
pesca. Al contrario, gli attributi che sono considerati costitutivi del capitale sociale - come la fiducia, l’adesione alle norme sociali e la punizione di chi le viola –
descrivono relazioni tra persone e sarebbero state incomprensibili per Robinson
prima della comparsa di Venerdì.
L’idea che la motivazione di un individuo sia una funzione, tra le altre cose, della
struttura sociale, difficilmente si adatta al paradigma economico standard; in
quest’ultimo, infatti, la motivazione individuale è considerata indipendente dalle
istituzioni sociali.
L’incapacità – dovuta alla nostra scarsa conoscenza della natura umana - di predire come le strutture sociali plasmano la motivazione, non significa che la motivazione è indipendente da tali strutture. È realistico assumere che le disposizioni pro-sociali si formino nella comunità. La densità delle reti sociali potrebbe perciò influenzare il peso della motivazione pro-sociale nella determinazione del
comportamento individuale (Torsvik 2000, 468).
Più l’informazione è acquisita facilmente e diffusa, più i membri della comunità
hanno un incentivo ad agire in modi che si traducono in risultati collettivamente benefici. La comunità supera il problema del free-rider da parte dei suoi membri punendo direttamente le azioni anti-sociali di altri. Monitoraggio e punizione
72
Rosetta Lombardo
Il capitale sociale nell’ impresa tradizionale for profit
da parte dei pari in una squadra di lavoro, nelle associazioni di credito, nelle partnership, nei quartieri residenziali, ad esempio, sono spesso mezzi efficaci per
attenuare i problemi di incentivo che sorgono quando le azioni individuali che
influenzano il benessere degli altri non sono soggette a contratti enforceable.
I membri della comunità disposti ad impegnarsi nella punizione dei free-rider
generano benefici per il gruppo senza un’aspettativa ragionevole di essere ripagati personalmente per i loro sforzi. Questa è la forma di reciprocità che Bowles
(1998b) chiama forte13 . Il fatto che essa imponga costi individuali elevati - sia perché coloro i quali la praticano danno più contributi al gruppo rispetto a coloro i
quali non la praticano, sia perché essi sopportano i costi relativi alla punizione
della violazione della norma – non ne favorisce, in realtà, la diffusione.
Le comunità, secondo Bowles (1999), risolvono problemi che rientrano tra i fallimenti del mercato o dello Stato - cioè insufficiente fornitura di beni pubblici
locali, assenza di assicurazione e altre opportunità di risk-sharing anche quando
sarebbero mutuamente benefiche, esclusione dei poveri dai mercati del credito
ed eccessivo ed inefficace monitoraggio dell’effort di lavoro.
Esse possono, talvolta, fare cose che i governi e i mercati non riescono a fare perché hanno informazioni cruciali su comportamenti, capacità e bisogni dei loro
membri. L’informazione viene utilizzata da questi ultimi sia per mantenere le
norme sia per far uso di meccanismi di assicurazione efficienti che non sono
afflitti dai problemi di azzardo morale e selezione avversa.
Gli individui, spesso, ottengono risultati migliori coordinandosi e condividendo
i benefici delle loro attività piuttosto che agendo da soli. Il beneficio per il gruppo derivante dalla cooperazione di ciascun individuo in tali casi è maggiore del
costo per l’individuo. Chiaramente, ciascun individuo, però, starebbe meglio se
non incorresse nei costi della cooperazione e traesse beneficio dagli sforzi degli
altri membri del gruppo. Se tutti i partecipanti seguissero questa logica auto-interessata, comunque, la cooperazione fallirebbe. Perché gli atteggiamenti prosociali non sono esclusi dal comportamento di agenti auto-interessati? Questo è
ciò che Gintis (2002) chiama puzzle of prosociality. Uno dei principi della teoria
della socializzazione è che i valori della società sono trasmessi da generazione in
generazione attraverso l’internalizzazione delle norme. Nel linguaggio della teoria dell’ottimizzazione, le norme internalizzate sono accettate non come strumenti verso e vincoli sull’acquisizione di altri fini, ma come argomenti nella funzione obiettivo che l’individuo massimizza (Gintis 2002, 2).
In ultima analisi, le comunità funzionano perché sono in grado di far rispettare
le norme. Se questa è una cosa positiva dipende da quali sono le norme. Molti
sostenitori della tradizione filosofica liberale considerano le comunità come residui anacronistici di un’epoca meno illuminata in cui erano assenti diritti di proprietà, stati e mercati adeguati al compito della governance. In questa visione le
comunità non sono parte della soluzione dei fallimenti di Stati e mercati, ma parte
del problema del populismo parrocchiale o fondamentalismo tradizionale.
Secondo Bowles e Gintis (2000, 15) coloro i quali difendono il capitale sociale, o
community governance, come un aspetto importante del policy making e della
costruzione delle istituzioni sono insoddisfatti di questa visione, dubitando che
13
L’applicazione di
sanzioni per indurre
gli individui ad esercitare livelli di sforzo di
lavoro più elevati,
aderire alle norme, o
preservare l’ambiente
può minacciare la
reciprocità (Bowles e
Gintis 2000, 17).
73
n.5 / 2002
14
March e Olsen
(1997), pur non parlando di capitale
sociale ma di governance, forniscono
una definizione di
organizzazione che è
utile quando si affronta il tema del capitale
sociale.
15
Per ragioni di chiarezza, il termine organizzazione deve essere
distinto dal termine
istituzione. Le istituzioni insieme con gli
individui che dalla
loro presenza traggono vantaggi sono
chiamate organizzazioni (North, 1994). Le
istituzioni sono distinte dalle organizzazioni e dai loro obiettivi
allo stesso modo in cui
i mezzi differiscono
dai fini. Mentre i
mezzi includono
(oltre a risorse materiali e tecnologiche) le
istituzioni, i fini definiscono l’organizzazione (Khalil 1999,
62).
16
Secondo Burt
(1993, 66) dalla constatazione che “il capitale sociale delle persone si aggrega nel
capitale sociale delle
organizzazioni”
discende l’idea che le
imprese sono dotate di
capitale sociale.
17
Il problema è che
può appartenere
simultaneamente a
molti gruppi sociali
che possono avere
regole incompatibili.
Ciò rende necessaria
una gerarchia nelle
regole.
74
Stati e mercati possano essere così perfetti da rendere le norme ridondanti e credendo che gli inconvenienti di questa terza forma di governance possano essere
attenuati da una politica sociale adeguata.
Il capitale sociale nella teoria dell’organizzazione
In anni recenti, la natura e la performance delle organizzazioni14 sono state sempre più scrutinate. Tra le organizzazioni che gli economisti hanno studiato più da
vicino ci sono le imprese. Quanto succede all’interno dell’organizzazione, infatti, è, spesso, solo imperfettamente mediato dai meccanismi di mercato. Ci sono
ragioni, come quelle suggerite da Coase (1937), collegate ai costi di transazione,
che rendono le imprese più vicine alle organizzazioni che ai mercati15 .
Il valore di mercato di un’impresa eccede generalmente di molto il valore delle
sue attività fisiche e del suo capitale umano. Stiglitz (2000) – che si avvicina al
concetto dalla prospettiva della teoria dell’organizzazione - ritiene che tale eccedenza sia simile a ciò che molti definiscono capitale sociale16 .
Il capitale sociale può essere interpretato nel contesto della teoria organizzativa
come l’insieme di mezzi sociali necessari per affrontare i problemi di azzardo
morale e quelli di incentivo. Man mano che le società si sviluppano economicamente, il loro capitale sociale deve adattarsi, permettendo alle reti interpersonali
di essere in parte sostituite da istituzioni formali di un’economia di mercato.
Anche se non è direttamente mediato dal sistema di mercato, il capitale sociale è
influenzato da (e a sua volta influenza) l’economia di mercato (Stiglitz 2000, 59).
Stiglitz (2000) sostiene che: 1) il capitale sociale è conoscenza tacita; è in parte
un elemento che produce coesione ma anche un insieme di attitudini cognitive
e predisposizioni. È capitale perché la sua produzione richiede tempo e sforzo
(ha un costo opportunità) ed è un mezzo di produzione; 2) il capitale sociale
può essere pensato come un insieme di reti o gruppi sociali. Quando l’individuo
si trova in uno dei gruppi sociali ai quali appartiene sa come comportarsi, sa che
cosa aspettarsi17; 3) il capitale sociale è sia un’aggregazione di reputazioni sia un
modo per selezionare le reputazioni. Gli individui investono in reputazione (una
forma implicita di capitale) perché essa riduce i costi di transazione ed aiuta a
superare le barriere all’entrata in una varietà di relazioni di produzione e di scambio; 4) il capitale sociale include il capitale organizzativo che i manager creano
attraverso stile di direzione, incentivi, reclutamento, sistemi di risoluzione delle
dispute e così via (Stiglitz 2000, 60-61).
Non pochi economisti considerano il capitale sociale – e più estesamente le istituzioni sociali – come un fattore in grado di compensare le deficienze dell’economia di mercato. Guardare al capitale sociale da una prospettiva organizzativa
aiuta, secondo Stiglitz (2000), a concentrarsi sui suoi aspetti non di mercato.
Alla radice delle diverse concezioni del capitale sociale
L’enfasi sull’azione collettiva può essere problematica per gli economisti che
vogliono utilizzare il termine perché essi difficilmente pensano alle comunità
come decision maker; le definizioni aggregate possono ostacolare, perciò, lo svi-
Rosetta Lombardo
Il capitale sociale nell’ impresa tradizionale for profit
luppo di una struttura analitica utile per modellare il capitale sociale.
Nei due sottoparagrafi che seguono presenteremo le due concezioni di capitale
sociale individuabili nella letteratura18. Distingueremo tra una concezione
“comunitaria” o delle relazioni sociali e una concezione “aperta” dei valori
introiettati19. La prima presta attenzione al concetto di Coleman di una risorsa
per “fare le cose”, la seconda descrive attributi di individui che favoriscono il loro
impegno civico20 .
La distinzione tra i due tipi di capitale sociale aiuta a chiarire il significato di un
termine abusato.
1. Il capitale sociale nell’accezione di reti di relazioni
La definizione di capitale sociale prevalente in letteratura è macchinosa riferendosi a reti sociali, fiducia interpersonale, norme di reciprocità, ecc. ma può essere, a nostro avviso, ricondotta ad una rete di relazioni tra individui che facilita lo
svolgimento delle transazioni. Denomineremo tale concezione rapporti comunitari o reti di relazioni.
La maggior parte dei lavori presenti in letteratura ricade, a nostro avviso, nella
categoria dei rapporti comunitari. In questo caso il capitale sociale è una caratteristica delle reti di relazioni sociali di cui si giovano, principalmente - se non esclusivamente, gli individui coinvolti nelle reti ed è, quindi, specifico alla relazione.
Come il capitale fisico e il capitale umano, il capitale sociale produce un flusso di
benefici nel tempo. Attraverso il capitale di relazioni - di cui un soggetto individuale o un soggetto collettivo dispone in un determinato momento - si rendono
disponibili risorse cognitive (come le informazioni) o normative (come la fiducia) che permettono agli attori di raggiungere obiettivi che non sarebbero altrimenti raggiungibili, o lo sarebbero a costi molto più alti21 .
Normalmente, nella comunità la sanzione è efficace e lo è tanto di più, secondo
Coleman, quando le reti sono dense22 . Quando le persone coinvolte in una rete
sono in relazione tra di esse, si conoscono, sanzioni e remunerazioni efficaci possono essere applicate per monitorare il comportamento. In una rete che manca
di densità le persone influenzate negativamente da qualche azione non si conoscono e hanno una minore capacità di unire le forze per sanzionare il comportamento deviante.
Nel caso di rapporti anonimi tra individui egoisti, ad esempio, la difficoltà di ottenere informazioni favorisce la diffusione dei comportamenti opportunistici e
rende l’efficienza dei risultati difficile da raggiungere. Il capitale sociale nell’accezione di rapporti comunitari può essere considerato come un correttivo ai rapporti anonimi.
I benefici derivanti dai rapporti comunitari sono, infatti, in termini di informazione. Dato un limite al volume di informazione che ciascuno può elaborare e usare,
la rete diventa un espediente per lo screening e facilita l’accesso all’informazione
utile. Essa fornisce l’informazione in tempi rapidi e questo conferisce all’attore un
vantaggio anche se solo su chi non appartiene alla rete (Burt 1992, 47).
Se, da una parte, la densità delle reti facilita il sanzionamento, dall’altra essa
tende, però, a rendere alcune informazioni ridondanti. Il capitale sociale è positivamente correlato al numero di structural holes – questi esistono quando due
18
McElroy (2001)
nella teoria del capitale sociale individua
due scuole di pensiero. La prima è la
cosiddetta “prospettiva
egocentrica”, in cui il
capitale sociale è visto
come il valore delle
relazioni dell’individuo con altri individui in un’impresa.
L’altro è il modello
sociocentrico in cui il
capitale sociale è
ancora detenuto dagli
individui, ma ha a
che fare con il valore
aggiunto della loro
posizione nella struttura di un’impresa
piuttosto che con le
loro relazioni interpersonali, per se.
19
La ricerca empirica
sul capitale sociale è
stata avviata alla fine
degli anni Ottanta da
due distinte letterature nella cosiddetta
“nuova sociologia
dello sviluppo economico” - gli studi sull’imprenditorialità
etnica e gli studi istituzionali comparati
delle relazioni statosocietà (Woolcock
1998, 161-162). Queste
letterature si basano
su due concetti distinti
ma complementari:
l’embeddedness e l’autonomia. A nostro
avviso, ciò incoraggia
ad adottare lo schema
interpretativo che
distingue tra “rapporti
comunitari” e “valori
introiettati”
20
Anche Uphoff (2000)
delinea due principali
categorie di capitale
sociale: strutturale e
cognitivo. Nella sua
75
n.5 / 2002
analisi, norme, valori
e credenze costituiscono capitale sociale
cognitivo. Le reti insieme con ruoli, regole e
procedimenti costituiscono capitale sociale
strutturale.
21
La conoscenza degli
altri con cui l’individuo forma delle reti
potrebbe facilitare lo
screening nei mercati
del lavoro e del credito, ridurre i costi di
ricerca per le opportunità di mercato e
migliorare la diffusione delle informazioni
sulle innovazioni.
Buona parte del lavoro sugli effetti individuali del capitale
sociale nella letteratura economica è stato
dedicato allo studio
dei mercati in cui i
problemi di azzardo
morale sono severi
come quello del credito e quello del lavoro
(Fafchamps e Minten
1999, 3).
22
La dimensione è il
numero di contatti
primari in una rete
mentre la dimensione
effettiva è il numero
di contatti non ridondanti; la dimensione
effettiva di una rete
può essere minore di
quella osservata. Due
contatti sono ridondanti se forniscono
all’individuo gli stessi
benefici in termini di
informazione (Burt
1992, 47).
76
persone o gruppi sono legati entrambi ad una terza parte ma non sono legati
direttamente essi stessi. Potrebbe, inoltre, anche essere vero che la sanzione è
più efficace nelle comunità caratterizzate dalla presenza di reti dense, questo,
però, non ci assicura che gli individui si comporteranno correttamente, cioè che
non adotteranno comportamenti opportunistici, quando le relazioni cambieranno e supereranno i confini della comunità.
Secondo la teoria del capitale sociale, individui o gruppi meglio connessi raggiungono performance migliori. L’esistenza di relazioni personali chiuse tra
agenti può facilitare, però, anche la collusione. Quale delle due spiegazioni – collusione o riduzione dei costi di transazione – è responsabile del successo di
agenti meglio connessi è perciò critico per il policy making.
L’idea, a nostro avviso, meno condivisibile, anche se piuttosto diffusa, della letteratura che definisce il capitale sociale come “rapporti comunitari” è quella
secondo la quale l’esistenza di associazionismo (à la Putnam) segnala l’esistenza di capitale sociale: individui che si associano si comportano diversamente da
come si comporterebbero in assenza di relazioni sociali. Questo è un “segnale”
di un comportamento diverso nelle relazioni ma il capitale sociale dovrebbe consistere in un comportamento diverso al di fuori delle associazioni.
Le reti sono tenute insieme da aspettative mutue di beneficio e in modo cruciale da aspettative (cioè, da norme) di reciprocità (Uphoff 2000, 219). La reciprocità, però, non è sempre e comunque desiderabile. Realizzare una transazione in
condizioni di reciprocità significa, secondo l’interpretazione prevalente, che il
corrispettivo non è contestuale, che esso non è necessariamente in moneta e
che il suo ammontare non è determinato in modo preciso. Il fatto che viga il
“principio regolativo” della reciprocità, non è sufficiente per escludere che si
verifichino comportamenti opportunistici.
Essa, inoltre, sembra scarsamente influente sull’efficienza. Inefficienze derivanti
da difetti di coordinamento del tipo dilemma del prigioniero, ad esempio, non
possono essere risolte dalla reciprocità - che è una modalità di svolgimento della
transazione; occorre, invece, che gli individui si reputino reciprocamente affidabili (Franzini 1997, 33).
Nella letteratura sui costi di transazione la fiducia si crea attraverso l’acquisizione
di reputazione. La reputazione si crea attraverso le relazioni, attraverso rapporti
ripetuti.
Se la reputazione è stata acquisita in rapporti comunitari, l’individuo può decidere di non dare un valore economico al capitale sociale. Le relazioni sociali per
tizio, ad esempio, contano molto; si presenta l’opportunità di avere una relazione economica, ma tizio non sa se è capace di collaborare con la persona con la
quale intrattiene relazioni sociali. Il timore di provocare una delusione nell’altra
parte e, quindi, di pregiudicare le relazioni sociali lo può indurre a rifiutare la
relazione economica. Il valore che si riconosce alle relazioni sociali, spesso, si
manifesta nel rifiuto di relazioni economiche che sarebbero vantaggiose.
Le reti di relazioni di scambio sono caratterizzate da bassi costi di enforcement
perché l’obiettivo di preservare la reputazione induce gli individui inclusi nella
rete ad adottare comportamenti cooperativi. Una reputazione di individuo cooperativo in una rete ampia e diversificata potrebbe generare un valore del capitale
sociale più alto che una reputazione di affidabilità in una rete ristretta e omoge-
Rosetta Lombardo
Il capitale sociale nell’ impresa tradizionale for profit
nea grazie ai più elevati guadagni derivanti dallo scambio23 (Annen 2001, 9).
La letteratura sul capitale sociale non riesce, però, a differenziare tra un tipo di
rete e un altro in termini che potrebbero suggerire l’attribuzione di differenti
livelli di valore a differenti tipi di rete24 (McElroy, 2001, 4).
Non è solo la mancanza di una misura semplice per il valore del capitale sociale
ad indicare - come sostiene Annen (2001) - che è necessario ulteriore lavoro teorico. Nella letteratura esistente sono presenti anche altre zone d’ombra.
Le reti possono avere effetti importanti sulla fiducia a sua volta critica per lo
scambio efficiente, importante per la circolazione delle informazioni e fondamentale per lo sviluppo di norme e sanzioni sociali efficaci. Il contesto sociale
può essere di importanza fondamentale per tutti i tipi di scambi (Winship e
Rosen 1997, S7). È difficile, però, immaginare come le reti sociali possono essere create se manca la fiducia che consente di avviare le relazioni. Sono le reti
sociali che generano la fiducia a dare vita a comunità efficienti oppure sono le
comunità di successo che generano questi tipi di legami sociali? Gli studi sul
capitale sociale non hanno ancora chiarito la direzione di causalità. La confusione tra possibili cause e possibili effetti nella stessa definizione non può che
ostacolare gli auspicabili progressi nel processo di raffinamento del concetto
in esame (Newton 1997, 577).
Se il capitale sociale viene considerato sinonimo di “relazioni non anonime”,
cioè, ripetute, il mercato sembra destinato a registrare l’assenza più che la carenza di capitale sociale. In realtà, la continuità di un rapporto può generare comportamenti, da parte di individui astuti, scaltri o senza scrupoli, che potrebbero
essere altrimenti interpretati come sciocchi o altruisti: in società primitive, codici che proibiscono l’inganno all’interno di una tribù lo permettono in altre; in
genere, gli uomini d’affari evitano i conflitti se intendono proseguire i rapporti,
anche al di fuori della comunità (Ben-Porath 1994, 100).
Inoltre, a parte il fatto che possono aversi relazioni ripetute anche nel mercato,
nulla esclude che gli individui acquisiscano capitale sociale fuori dal mercato e lo
“usino” anche nel mercato. Ciò è vero se il capitale sociale è di un altro tipo,
come vedremo nel prossimo sottoparagrafo.
Se si cerca uno strumento che aiuti a superare il conflitto tra interesse individuale e interesse collettivo, è improbabile che questo possa esse trovato nel
capitale sociale inteso come rapporti comunitari. Le relazioni tipiche delle comunità solidali possono dare origine a enormi problemi di free-riding. Gli individui
che, sfruttando la fiducia degli altri, si comportano da free-rider, sono dei potenziali parassiti che contano: 1) sull’improbabilità di essere scoperti immediatamente; 2) sul fatto che punire la violazione di una norma, come abbiamo visto in
precedenza, ha un costo e non tutti sono disposti a sopportarlo.
Non è semplicemente l’appartenenza ad una rete/associazione che produce
capitale sociale. Né la semplice esistenza dell’associazione lo rende accessibile
agli individui e alle collettività. Se il capitale sociale è utilizzato dagli individui ma
non è un attributo degli individui, non tutti possono usufruirne in ragione del
fatto che possono non essere in grado di entrare a far parte delle reti in cui è
annidato (Edwards e Foley 1997, 670-1). Inoltre, se gli obiettivi economici di un
gruppo/associazione sono in conflitto con quelli di altri gruppi o di interessi non
organizzati, l’effetto dell’esistenza e dell’operato del gruppo sulla performance
23
Anche se i rapporti
comunitari facilitano
le transazioni, i payoff
possono essere bassi a
causa dell’incapacità
di realizzare economie di scala e di
scopo, incapacità che
discende dalle ristrette
possibilità di scambio.
24
Le reti differiscono
nella loro struttura
organizzativa. Alcune
sono verticali, altre
sono orizzontali. Per
esempio, Putnam
(1993) sostiene che le
reti verticali sono
meno utili delle reti
orizzontali nel risolvere dilemmi dell’azione
collettiva.
77
n.5 / 2002
economica potrebbe essere negativo.
Non va dimenticato, infine, che la comunità, con i suoi legami vincolanti, può
limitare la libertà degli individui e impedire loro di effettuare le scelte migliori.
2. Il capitale sociale nell’accezione di valori introiettati
25
In questo caso, il capitale sociale aumenta o
diminuisce, in un arco di
tempo, a seconda dei soggetti che incontra l’individuo che ne è dotato.
26
Seguendo Becker
(1996, 225), si potrebbe
dire che i valori, internalizzati come preferenze,
influenzano il comportamento dell’individuo.
27
Secondo Frank (1988),
l’inclinazione contraria
all’opportunismo, una
volta acquisita, può motivare un comportamento
onesto anche in relazioni
occasionali, attraverso le
emozioni che lasciano
trasparire attitudini proprie dell’individuo come,
ad esempio, l’imbarazzo
per la trasgressione di
una norma morale interiorizzata.
78
Gli individui sono depositari di norme sociali e valori, anche se possono non
esserne coscienti. Il capitale sociale sotto forma di valori introiettati è un fenomeno soggettivo composto da valori e atteggiamenti degli individui - che influenzano il modo in cui essi si rapportano agli altri - che consentono agli altri di fare
le loro transazioni con più facilità e a un costo più basso. I valori introiettati non
sono specifici ad una relazione e non sono immutabili; al contrario, possono
evolvere, nel tempo, in seguito ai risultati delle interazioni25. Il capitale sociale
trattato come attributo dell’individuo è una risorsa che l’individuo tende a non
perdere quando si sposta all’interno e all’esterno di diversi contesti sociali.
Tratti definibili nice, apparentemente tipici delle comunità o, meglio, più facilmente riproducibili all’interno di esse, in realtà superano i confini della collettività perché sono caratteristici dell’individuo, non delle relazioni che quest’ultimo intrattiene. Il comportamento indipendente da sanzioni e remunerazioni
non è diverso quando l’individuo interagisce con altri individui all’esterno della
comunità.
Gli individui che devono scegliere le loro strategie comportamentali in condizioni non note possono formare le loro aspettative solo sulla base dell’informazione derivante dall’esperienza accumulata in situazioni simili. La conoscenza
condivisa influenza, infatti, le aspettative individuali delle reazioni future degli
agenti e così il comportamento degli individui. Le interazioni tra individui che
hanno introiettato valori, possono dare luogo a regole comuni di comportamento. Norme stabilite di cooperazione diventano, così, parte della struttura istituzionale di una popolazione e rappresentano una risorsa collettiva nelle interazioni (Ostrom 1990). Il capitale sociale inteso come valori introiettati ha, quindi,
un carattere spontaneo. I valori e le norme che si diffondono attraverso processi di apprendimento sono i “risultati dell’azione umana ma non del disegno
umano” (Hayek 1967, 96).
Il capitale sociale nell’accezione di valori introiettati è una revisione del tradizionale modo di rappresentare l’individuo egoista. I valori introiettati, infatti, inducono l’individuo ad adottare un comportamento26 diverso da quello dettato dall’egoismo – in particolare un comportamento non opportunista - non solo quando si rapporta con i membri della comunità, ma, come già detto, anche quando
si rapporta con l’esterno, anche in contesti non troppo ricchi di relazioni sociali27.
Un individuo che ha introiettato valori più facilmente adotta un comportamento
cooperativo e trae utilità (anche se non è né conformista, né altruista), oltre che
dal consumo di beni, dalla considerazione degli altri che si ottiene anche tramite il rispetto di norme sociali (rispettando le norme sociali ci si costruisce la reputazione di essere nice).
Anche nel mercato, come abbiamo accennato, i rapporti possono essere ripetuti,
non anonimi. La confidenza di ciascuna parte nella durata e nella ripetitività delle
transazioni influenza il tipo di impegni. La durata prevista è influenzata da fattori
Rosetta Lombardo
Il capitale sociale nell’ impresa tradizionale for profit
che Ben-Porath (1980) definisce estranei facendo l’esempio della moralità.
Riteniamo che tali fattori estranei, che preferiamo chiamare valori introiettati,
possono indurre gli individui a stringere accordi contrattuali e a rispettarli anche
se a breve termine troverebbero conveniente fare il contrario; ciò contribuisce
ad alimentare la confidenza reciproca in rapporti di tipo continuato.
Un’obiezione che può essere mossa alla tipologia di capitale sociale presentata
in questo paragrafo riguarda la sua origine. Da dove provengono i valori introiettati, le disposizioni comportamentali che possono risolvere dilemmi economici
e sociali? In effetti, è oggettivamente non semplice individuarla.
L’analisi, però, è coerente con lavori come quello di Akerlof (1983) il quale
modella situazioni in cui gli individui agiscono contro il loro interesse di breve
periodo perché sono stat trasmessi loro valori come l’onestà e la lealtà e questo
comportamento è funzionale al loro interesse di lungo periodo. Onestà, lealtà,
altruismo possono essere inculcati dai genitori, introiettati attraverso altre esperienze formative oppure attraverso la riflessione abituale come suggerisce Adam
Smith in The Theory of Moral Sentiments quando cerca di catturare l’idea secondo la quale possiamo basare il nostro comportamento non solo sui nostri obiettivi, ma anche sugli obiettivi degli altri (Lombardo 2000, 120).
Nei prossimi paragrafi vedremo che nella funzione di utilità di un individuo che
ha introiettato valori non entrano solo beni e servizi; in questa funzione di utilità unificheremo i due tipi di capitale sociale.
Fattori che influenzano il processo di scelta
Le scelte che gli individui fanno in una data situazione sono il frutto delle loro
credenze, delle loro capacità e delle loro preferenze.
L’assunzione che gli individui sono motivati esclusivamente dal loro interesse
materiale, escludendo qualsiasi eterogeneità rispetto alle preferenze otherregarding, contrasta con l’enfasi degli economisti sull’eterogeneità dei gusti per
quanto riguarda le attività di consumo. I modelli assumono, generalmente, che i
gusti siano eterogenei per quanto riguarda mele e banane, per quanto riguarda
i lavori rischiosi e quelli sicuri, ecc.; nella sfera delle preferenze sociali l’economia tradizionale aderisce all’assunzione estrema dell’auto-interesse.
Se si esclude l’eterogeneità nella sfera delle preferenze other-regarding, è difficile comprendere questioni centrali in economia. Questo per due ragioni. Primo,
una frazione considerevole di persone, coinvolte in diversi esperimenti economici, presenta preferenze sociali, in particolare, preferenze per la fairness reciproca. Secondo, le deviazioni dall’auto-interesse hanno un impatto fondamentale su problemi centrali dell’economia.
Un individuo presenta preferenze sociali se si cura non solo delle risorse materiali
che riesce ad ottenere, ma anche delle risorse materiali che riescono ad ottenere
altri agenti di riferimento rilevanti quali i colleghi di lavoro con cui interagisce più
di frequente, i partner di scambio o i vicini (Fehr e Fischbacher 2002, C1- C2).
Sappiamo poco sul processo di formazione delle preferenze. Talvolta sono coinvolte motivazioni intenzionali28, ma le motivazioni strumentali possono avere
un’importanza limitata in confronto ad altre influenze quali la semplice esposizione, le conseguenze non intenzionali di attività motivate da altri fini e il con-
28
Si impara, ad esempio, ad apprezzare la
musica classica perché si nota che gli
appassionati sembrano goderne.
79
n.5 / 2002
29
I comportamenti
sono guidati anche da
regole e leggi. Le
deviazioni dal comportamento prescritto
sono sanzionate.
Alcuni individui possono, tuttavia, trovare
il beneficio derivante
dalla deviazione dal
comportamento prescritto maggiore del
costo della sanzione.
Intensificare la punizione significa accrescere il costo opportunità (atteso) dei comportamenti devianti.
Comunque, per quanto aumentare il costo
della deviazione possa
sembrare una soluzione ovvia, essa va
incontro a dei limiti.
Non è facile, ad esempio, trovare un deterrente che induca una
persona affamata ad
astenersi dal rubare
del pane (Cole,
Mailath, Postlewaite,
1998, 6).
30
All’inizio del secolo
scorso Veblen
(1899/1934) ha fatto
dell’interesse per l’opinione degli altri la
forza guida della sua
analisi del comportamento del consumatore. Duesenberry
(1949) e Easterlin
(1974) hanno sostenuto che gli individui si
preoccupano non solo
della loro ricchezza o
consumo ma anche
della loro posizione
relativa (Mailath e
Postlewaite 2002, 2).
80
formismo. Le persone sono motivate dal dovere e dalle obbligazioni, oltre che
dall’utilità. Le loro preferenze sono “apprese” in circostanze determinate, in
parte, dal carattere delle istituzioni economiche nelle quali esse operano ed il
loro benessere dipende dalla qualità delle loro relazioni sociali e dalle loro capacità personali, non solo dalla quantità e qualità di beni e servizi a loro disposizione (Gintis e Romer 1998, 1).
Le remunerazioni private (salari e profitti) e le remunerazioni sociali (prestigio e
status) influenzano il comportamento degli individui anche se è probabile che le
prime giochino un ruolo rilevante in certe decisioni, mentre le seconde ne guidano altre29. Alcune decisioni, comunque, sembrano essere influenzate sia da
remunerazioni sociali sia da incentivi economici (Lindbeck, Nyberg e Weibull
1999, 2).
Le remunerazioni sociali entrano nella funzione di utilità se l’individuo è di un
certo tipo per cui il suo comportamento è condizionato anche da relazioni sociali e valori introiettati. Frank (1987) fa l’esempio di una persona capace di sperimentare un forte senso di colpa in quanto dotata di una coscienza, una persona
che onora le sue promesse anche quando gli incentivi materiali la indurrebbero
a fare il contrario. È possibile che individui le cui forze emotive sono tali da
indurli a trascurare il calcolo razionale adottino i commitment device di Schelling
(1960). Molte persone si sforzano di restituire oggetti smarriti anche se appartengono a sconosciuti. La ragione di tali azioni può essere trovata in una relazione che l’individuo può avere con se stesso - una sorta di autostima - che per essere mantenuta richiede azioni coerenti con un insieme internalizzato di valori.
La dipendenza dell’utilità dalle opinioni
In questo paragrafo cercheremo di mostrare come, contrariamente a quanto
generalmente assunto dalla maggior parte dei modelli economici, il comportamento dell’individuo può essere influenzato dall’opinione degli altri.
L’homo economicus è interessato al salario che percepisce per svolgere un certo
lavoro, ma non è interessato all’ammirazione del suo supervisor o dei suoi colleghi di lavoro. Egli acquista automobili e gioielli per il loro valore utilitaristico,
non per accrescere la stima che gli altri hanno di lui.
Questa caratterizzazione materialistica ha reso l’economia una disciplina di successo, ma ha anche indotto a ritenere inadeguata la metodologia economica quando si vogliono spiegare importanti aspetti del comportamento umano, in particolare l’interesse degli individui per le opinioni degli altri30 (Postlewaite 1998, 780).
Gli economisti si rendono conto che le restrizioni da essi poste sulle preferenze
sono irrealistiche: sentimenti di affetto, invidia e rivalità influenzano le decisioni in
modi non coerenti con i modelli economici tradizionali. Essi continuano, però, ad
utilizzare modelli che escludono tali considerazioni perché: 1) aggiungere variabili che influenzano l’utilità dell’individuo indebolisce le conclusioni che possono
essere tratte dall’analisi; 2) il tentativo di “spiegare” il comportamento umano utilizzando modelli economici che escludono tali variabili ha avuto successo. È,
comunque, opportuno tentare di spingere i modelli tradizionali verso nuove direzioni per cercare di descrivere più accuratamente il comportamento umano.
L’analisi presentata in questo lavoro parte dall’idea che variabili sociali possano
Rosetta Lombardo
Il capitale sociale nell’ impresa tradizionale for profit
essere determinanti dell’utilità al pari di qualsiasi altra variabile come sostenuto
da Postlewaite31 (1998). A differenza di quanto fa Postlewaite, però, viene aggiunta una variabile come argomento della funzione di utilità. Prima di presentare gli
aspetti formali, è opportuno riprendere il concetto di capitale sociale per chiarire
il tipo di variabile che sarà utilizzato e per dare un fondamento al tentativo fatto.
Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, il capitale sociale, inteso come
valori introiettati, è ciò che spinge l’individuo ad adottare comportamenti prosociali indipendentemente dall’esistenza e dall’applicabilità della “sanzione”
sociale o legale.
Un individuo dotato di capitale sociale è un individuo che tende a proiettare i
suoi valori sugli altri: se si comporta correttamente negli affari, in linea co n i
valori che ha introiettato, tende a considerare gli altri corretti negli affari.
Pertanto, una volta sottoscritto un contratto, lo rispetta - anche se è consapevole che otterrebbe un vantaggio immediato se non lo osservasse - perché si attende che la controparte faccia altrettanto.
Nella categoria delle remunerazioni sociali, per un individuo dotato di capitale
sociale, vi è la soddisfazione derivante dalla consapevolezza di aver agito correttamente.
Le preferenze di un individuo, influenzando il modo in cui egli è considerato
dagli altri, determinano le remunerazioni sociali. Per garantirsi l’accettazione e il
rispetto, egli deve dimostrare con il suo comportamento che condivide gli obiettivi fondamentali della società. Se devia da tali obiettivi, si espone al rischio di
essere rifiutato dagli altri. L’individuo dotato di capitale sociale trae utilità dal
sapere che l’opinione che gli altri si sono fatti di lui - una utilità che Kuran (1995)
chiamerebbe reputazionale - è alta.
Si può assumere che l’interesse degli individui per la reputazione cresca con la
dotazione di capitale sociale inteso come valori introiettati. Un meccanismo di
remunerazione sociale può funzionare se, in qualche modo, gli individui sono
connessi. Inoltre, più sono connessi ad altri, maggiore è l’interesse degli individui per quello che gli altri pensano di loro (Torsvik 2000, 468).
31
Cole, Mailath e
Postlewaite (1992)
interpretano lo status
sociale come un meccanismo che determina il modo in cui si
comporta l’individuo
rispetto a decisioni
non di mercato e non
lo inseriscono nella
funzione di utilità nel
loro modello. I tre
autori sostengono,
infatti, che le persone
si preoccupano dello
status solo perché in
equilibrio esso
influenza le variabili
che entrano nella funzione di utilità.
Capitale sociale e impegno di un lavoratore
Gli economisti generalmente considerano la produzione dipendente da una
serie di risorse che l’impresa riesce a controllare. Queste risorse includono capitale fisico, capitale umano e capacità manageriali. L’efficienza della produzione
dipende da ciò che ha luogo nell’impresa. Il modo in cui l’impresa si rapporta ai
mercati è supposto non influenzare l’efficienza della produzione. Quando le
imprese acquistano e vendono in mercati in concorrenza perfetta, questo è l’approccio corretto perché le relazioni che gli agenti economici hanno con ciascun
altro sono irrilevanti (Fafchamps e Minten 2002, 175).
Ignorare il capitale sociale, tuttavia, è difficile in assenza di concorrenza perfetta.
In tal caso, il capitale sociale può influenzare il benessere economico attraverso
l’impatto che le relazioni sociali hanno sulle relazioni di mercato – facilitando
certi tipi di transazioni e rendendone altri difficili o costosi. Le relazioni, infatti,
possono conferire informazioni che minimizzano i costi di ricerca o possono facilitare l’enforcement dei contratti. Grazie al miglior enforcement dei contratti,
81
n.5 / 2002
32
Il termine sinergia
di squadra sintetizza
l’idea che l’output
della squadra eccede
la somma degli output
che sarebbero singoli
prodotti dai membri
della squadra se fossero impiegati fuori
dalla squadra (Rose
2002, 357).
82
individui e imprese possono condurre gli affari in modo più efficiente.
Nelle parole di Putnam (1993, 36): “il capitale sociale accresce i benefici dell’investimento in capitale fisico e umano”. In altre parole, non è solo un input nella
funzione di produzione ma, come la tecnologia, è un fattore di cambiamento dell’intera funzione di produzione. Nel contesto di una funzione di produzione, il
capitale sociale può essere scomposto in fattori. In questo caso, certi tipi di capitale sociale entrano nel processo in modo additivo, altri hanno effetti moltiplicativi. La tecnologia appropriata è individuata sulla base della conoscenza approfondita di un paese. Lo stesso è vero per il capitale sociale appropriato, che pure
accresce l’efficienza del processo di combinazione degli altri fattori di produzione (Serageldin e Grootaert 2000, 53-54).
Produzione e consumo sono attività sociali. Le decisioni che gli individui prendono, pur se ritenute ottimali dal punto di vista individuale, potrebbero non
essere efficienti. La struttura di interazione strategica potrebbe, infatti, essere un
dilemma del prigioniero.
La struttura sociale di un’organizzazione influenza la disponibilità dei suoi membri a cooperare, coordinarsi, condividere l’informazione e supportarsi l’un l’altro
e ciò influenza la sua performance.
Caratteristica chiave di molte situazioni di lavoro è la sinergia32 degli sforzi di
gruppi di lavoratori e la non osservabilità dello sforzo individuale. Alchian e
Demsetz (1972) considerano una situazione con una produzione di squadra, in
cui l’output è il risultato congiunto dei contributi di diversi lavoratori e il contributo attribuibile a un lavoratore è difficile da definire e certamente difficile da
osservare (a basso costo). Il messaggio centrale dei due autori è che la produzione di squadra invita allo shirking. Lo sforzo che deve esercitare per contribuire alla produzione di squadra è disutile per il lavoratore, questi deve, perciò,
decidere se lavorare al massimo delle sue capacità o fare lo scansafatiche oppure ancora se impegnarsi in modo appena sufficiente ad evitare di esporsi al
rischio di essere accusato di fare lo scansafatiche. Se i benefici derivanti dallo
sforzo del lavoratore sono ripartiti nel gruppo, possono essere così contenuti
per il singolo da essere controbilanciati dai costi dello sforzo. Egli, perciò, decide di fare lo scansafatiche. Tuttavia, se ogni membro della squadra fosse uno
scansafatiche, tutti starebbro peggio (Loch et al. 2002, 36). I processi di lavoro
possono, quindi, essere rappresentati in modo astratto come fornitura privata di
un bene pubblico. L’incapacità di accertare l’impegno di un membro di una squadra di lavoro può generare, infatti, un problema di free-riding perché, mentre il
beneficio dello shirking è privato, i costi dello shirking (output totale più basso)
gravano su tutti i membri della squadra (Rose 2002, 355).
La teoria dei salari di efficienza - nella versione dello shirking - sostiene che salari più alti (o un monitoraggio più intensivo) indurranno i lavoratori ad esercitare un livello di sforzo più elevato. La spiegazione è semplice. Da una parte, più
alto è il salario, maggiore è la perdita che sopporta il lavoratore se viene licenziato. Il lavoratore allora sceglie un livello di sforzo più elevato per evitare il licenziamento. D’altra parte, quando l’impresa intraprende un monitoraggio più
stretto, il lavoratore che fa lo scansafatiche ha una probabilità più elevata di essere scoperto e licenziato. Il lavoratore é così spinto a fornire all’impresa un livel-
Rosetta Lombardo
Il capitale sociale nell’ impresa tradizionale for profit
lo di sforzo più elevato per evitare il licenziamento.
Nella versione dello shirking della teoria dei salari di efficienza l’incentivo del
salario e il deterrente del monitoraggio sono sostituti per l’impresa (Chang e
Lai 1999, 298).
In realtà, l’impresa può, senza sopportare costi aggiuntivi, ottenere un maggiore
impegno. Quest’ultimo può essere il risultato dell’intensità dei legami tra gli attori sociali coinvolti (il loro capitale sociale); inoltre, l’effetto combinato del capitale sociale e umano può avere un ruolo determinante nel raggiungimento di
livelli elevati di performance.
In questo lavoro proponiamo un’analisi dell’influenza che il capitale sociale ha
sul comportamento del lavoratore. Come vedremo l’esistenza di un elemento
psicologico – la percezione che l’individuo ha dell’opinione che gli altri si sono
fatti di lui – induce il lavoratore a supportare l’azione collettiva (cioè, ad esercitare un livello di sforzo più elevato).
Il fatto di avere funzioni di utilità diverse da quelle tradizionalmente proposte
dalla teoria economica rende le relazioni economiche e sociali più fruttuose
rispetto a quelle che si avrebbero se l’individuo fosse guidato unicamente dall’auto-interesse ristretto.
La nostra struttura analitica segue le linee di quella sviluppata da Chang e Lai
(1999). Il beneficio che un individuo trae dal lavoro ricade in due categorie: il compenso pecuniario ricevuto (il salario) e la remunerazione non pecuniaria. I benefici non pecuniari includono le condizioni di lavoro, la sicurezza sul lavoro, le relazioni con i supervisori e il godimento di un’atmosfera particolare nella squadra.
Restringiamo l’attenzione al caso in cui il lavoratore debba scegliere tra due possibili livelli di sforzo, un livello elevato eH un livello basso eL. Ci sono, perciò, due
differenti tipi di lavoratori nell’impresa. Dato che la produzione è una produzione di squadra, l’impresa non può conoscere con esattezza il livello di sforzo esercitato da ciascun lavoratore. Di conseguenza, il datore di lavoro utilizza un meccanismo di monitoraggio parziale per indurre il lavoratore ad esercitare uno sforzo maggiore. Non esiste un codice di condotta (o costume sociale) nella squadra
di lavoratori – codice che invece esiste nel modello di Akerlof (1980). Un lavoratore, però, se dotato di capitale sociale, si cura, oltre che del suo salario, dell’opinione che gli altri lavoratori si fanno di lui.
È impossibile parlare delle preferenze di un individuo e del suo processo di decisione come se questo avvenisse in isolamento: le scelte dell’individuo dipendono dall’ambiente in cui esse vengono operate (Cole, Mailath e Postlewaite 1992).
Nella nostra analisi l’ambiente riveste un ruolo importante nella descrizione del
comportamento individuale. Probabilmente, se una persona si trovasse in una
popolazione di individui non dotati di capitale sociale non avrebbe motivo di
preoccuparsi dell’opinione degli altri: individui non dotati di capitale sociale,
infatti, non si curano di non danneggiare gli altri ed è molto probabile che non
si curino neppure di essere danneggiati dagli altri.
Usiamo la letteratura sulle funzioni di utilità allargate (Kuran 1995; Becker 1996;
Fershtman e Weiss 1998) per modellare il capitale sociale e supponiamo che l’utilità dipenda, oltre che dal consumo di beni e servizi, dall’opinione degli altri
(OP). L’idea che le persone si preoccupino dell’opinione degli altri è, a nostro
avviso, ragionevole; l’opinione può rappresentare un incentivo a non prendere
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decisioni che danneggiano gli altri, incentivo che manca nei modelli standard.
L’utilità totale di un individuo i che sceglie un livello di sforzo elevato eH, è
espressa da una funzione additivamente separabile:
UiH = w + i OP - eH
33
I modelli che prendono in considerazione l’interesse dell’individuo per la sua posizione relativa o status
sociale (Cole, Mailath
e Postlewaite 1992 e
1998) assumono che
gli individui si preoccupino dello status
perché, in equilibrio,
esso può influenzare
variabili che entrano
nella funzione di utilità. A differenza di tali
modelli che considerano indiretta l’influenza dell’interesse per lo
status sociale, noi
assumiamo che le opinioni degli altri
influenzino direttamente l’utilità dell’individuo.
dove w indica il salario e i il peso soggettivo che il lavoratore attribuisce alle
opinioni degli altri lavoratori. L’espressione i OP cattura il beneficio psicologi33
co che l’individuo trae dal sapere che gli altri hanno una buona opinione di lui .
H
In questo caso, infatti, se l’individuo sceglie il livello di sforzo e , la produttività
in una squadra in cui anche gli altri scelgono il livello alto di sforzo sarà elevata e
l’atmosfera sarà quella della cooperazione mutua.
La funzione di utilità è positiva nel primo argomento Uw’ > 0 e nel secondo
UOP’ > 0. La derivata rispetto a OP è una misura del capitale sociale inteso come
sensibilità dell’individuo all’opinione prevalente su di lui. I lavoratori sono eterogenei rispetto alla sensibilità soggettiva alle opinioni degli altri: varia tra
zero e 1 ( 0 < i < 1 ).
Il beneficio psicologico è simile al concetto di bene relazionale. I beni relazionali
possono assumere, ad esempio, la forma dell’approvazione sociale (Homans 1961).
I lavoratori che scelgono il livello basso di sforzo non si curano dell’opinione
degli altri, traggono beneficio solo dal salario atteso.
Assumiamo - come nelle teorie dei salari di efficienza - che il lavoratore venga
punito con il licenziamento se sorpreso a fare lo scansafatiche.
La probabilità che venga scoperto e licenziato è p mentre il tasso di disoccupazione è u. Il lavoratore che appartiene al gruppo che sceglie il livello di sforzo
basso può trovarsi in uno dei tre seguenti scenari: i) è occupato dal suo datore
di lavoro iniziale e percepisce w con una probabilità (1 - p) ; ii) a causa dello shirking viene licenziato ma trova un altro lavoro ad un salario w0 pagato dalle altre
imprese con probabilità p (1 - u) ; iii) viene licenziato ma non trova un lavoro e,
quindi, diventa disoccupato – con probabilità pu - e riceve un’indennità di disoccupazione pari a r.
Supponiamo che le imprese paghino tutte lo stesso salario così gli scenari si
riducono a due.
L’utilità attesa dal lavoratore i nella squadra dello sforzo basso è:
L
U = (1 - pu)(w - eL) + pur
L’individuo dotato di capitale sociale considera gli altri ugualmente dotati di capitale sociale e agisce come se l’osservabilità dei tipi e delle azioni fosse perfetta.
Le opinioni dipendono dal livello di sforzo scelto dall’individuo: OP = f( ei - ea).
L’opinione degli altri è positiva se ei > ea dove ea indica lo sforzo mediamente
scelto dai membri della squadra.
Per decidere il livello di sforzo l’individuo dotato di capitale sociale - l’individuo
che ha a cuore l’opinione degli altri - deve confrontare la variazione nella disutilità dello sforzo e la variazione di OP che una variazione di ei comporta.
In una squadra di lavoratori che, mediamente, scelgono un livello di sforzo elevato, in corrispondenza della scelta ei = eL l’opinione degli altri è negativa. Ma se
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Il capitale sociale nell’ impresa tradizionale for profit
l’individuo non è dotato di capitale sociale non se ne cura. Un individuo che non
si cura dell’opinione degli altri, cioè un individuo che ha un i = 0 e, quindi, una
funzione di utilità che coincide semplicemente con il salario atteso, farà la scelta
che gli consentirà di sopportare la minore disutilità derivante dallo sforzo.
Un individuo che ha a cuore le opinioni degli altri – un individuo che ha, cioè,
una utilità che non coincide semplicemente con il salario ma dipende anche da
OP - sceglie un livello di sforzo alto. Infatti, più forte è l’impatto che un livello di
sforzo elevato ha su OP e più forte è l’impatto di OP sull’utilità dell’individuo, più
scoraggiato sarà un livello di sforzo basso.
In altre parole, il lavoratore é più produttivo se: 1) fa parte di una squadra che,
essendo dotata di certe caratteristiche sociali, è indotta a reagire positivamente
ad aumenti dell’impegno; 2) è dotato, a sua volta, di capitale sociale e più alta è
la sua dotazione di tale capitale () più peso avranno le opinioni.
Individui dotati di capitale sociale hanno a cuore – anche se indirettamente - il
benessere degli altri non solo le opinioni degli altri. La scelta di ei da parte dell’individuo i influenza anche l’attività dei rimanenti n - i individui che costituiscono la squadra di lavoro.
La scelta di un livello di sforzo basso - in una squadra di lavoratori che scelgono
eH- avrà degli “effetti esterni”, ritarderà il lavoro degli altri e, di conseguenza l’output ottenuto sarà più basso di quello che si sarebbe ottenuto se tutti avessero
scelto un livello di sforzo alto. Ciò danneggerà il datore di lavoro.
Dalle opinioni l’individuo i deriva le informazioni circa l’effetto che le sue scelte
hanno sugli altri. Tale individuo – pur non essendo conformista – tiene conto
dell’opinione degli altri OP, rivede la scelta di ei e fa in modo da contenere l’esternalità. Se ei = eL, l’individuo i sperimenta una sorta di dissonanza morale perché sa di aver provocato un’esternalità negativa e sa che l’opinione che gli altri si
fanno di lui è negativa. L’individuo che attribuisce un peso elevato all’opinione
degli altri, ha un’utilità maggiore in corrispondenza di un livello di sforzo alto rispetto a quella che avrebbe in corrispondenza di un livello di sforzo basso perché trae utilità da una grandezza psicologica quale è OP oltre che da una grandezza monetaria (cioè dai beni che consuma).
Il lavoratore i sceglierà il livello di sforzo eH se e solo se UiH > UiL cioè se:
w + i OP - eH > (1 - pu)(w - eL)+ pur
quindi se
i OP + pu(w - r)> [eH- ( 1 - pu) eL]
Dal punto di vista del lavoratore i OP è il è costo psicologico che sopporterebbe se
si comportasse come uno scansafatiche, pu(w - r) il costo opportunità atteso dallo
shirking mentre [eH- ( 1 - pu) eL]è il beneficio atteso dalla riduzione dello sforzo.
Il lavoratore, quindi, sceglierà il livello di effort eH se il costo dello shirking supera il beneficio derivante dallo stesso.
L’individuo non isolato che vuole poter contare su un capitale di relazioni, cioè
sulle informazioni che dalle conoscenze possono derivare, cercherà di avere opinioni positive. Infatti, solo se gli altri avranno un’opinione positiva di lui, l’individuo potrà usufruire del capitale relazionale. Allo scopo di poter sfruttare le rela-
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34
Come sostengono
Griffith e Goldfarb
(1991), norme internalizzate sono simili
ai vincoli di bilancio
nel senso che restringono il range di scelte
disponibili. Mentre i
vincoli di bilancio
sono, però, generalmente percepiti come
imposti dall’esterno, le
norme internalizzate
sono assorbite attraverso il cambiamento
comportamentale.
35
Anche Gintis (2002),
ad esempio, giunge
alla conclusione che i
lavoratori si conformano a standard
internalizzati di fairness e onestà, pure
quando sono certi che
non ci sono ripercussioni materiali dal
comportarsi in modo
auto-interessato.
86
zioni, l’individuo si impegna allora ad adottare un comportamento che genera
opinioni positive.
In altre parole, ha senso includere OP nella funzione di utilità di un individuo dotato di capitale sociale perché: 1) ha interiorizzato l’importanza del giudizio altrui
fine a se stesso34; 2) è attento alle conseguenze che le sue azioni hanno sul suo
capitale relazionale. In una cultura che enfatizza l’importanza del comportamento
corretto e rispettoso del benessere collettivo, le scelte degli individui sono influenzate non solo dalle remunerazioni monetarie ma anche dalle opinioni degli altri.
Le buone relazioni sociali - essendo funzionali all’efficienza dei processi produttivi in cui i lavoratori debbono operare in gruppi e contribuendo a rendere più
affidabili i comportamenti - rappresentano un asset prezioso per l’impresa
(Chillemi 2002, 492). Va detto, però, che anche se il capitale sociale - tramite
l’effetto che le opinioni esercitano sull’utilità dell’individuo che di esso è dotato - potrebbe aiutare a contenere le esternalità negative derivanti dall’opportunismo di un lavoratore in una squadra35, é probabile che il processo attraverso cui le preferenze private rispondono al clima delle opinioni sia lento: gli
individui, in generale, manifestano una certa resistenza alle informazioni in
contrasto con i loro sistemi di credenza (Kuran 1987 658).
Le relazioni sociali, inoltre, in assenza di valori introiettati possono favorire i comportamenti collusori; nel caso specifico di una squadra di lavoratori possono determinare la conclusione di accordi per ridurre lo sforzo.
Considerazioni conclusive
Non vi è dubbio che gli obiettivi individuali sono modificati da relazioni, vincoli
sociali e valori. Il termine capitale sociale, però, si è fatto strada nell’analisi economica solo di recente, anche se alcuni significati del concetto sono stati utilizzati,
sotto nomi diversi, pure in passato. La natura e le conseguenze del capitale sociale sono molto più complesse di quanto riconoscano le comunità accademiche.
Lavorare con differenti interpretazioni e testare differenti misure di concetti
ambigui e imprecisi come il capitale sociale è un processo significativo in una
scienza. Come riconosce Merton (1970) riferendosi al bisogno di spostarsi dalle
considerazioni di carattere generale (affermazioni vaghe e indeterminate che
sono basate su particolari inconfrontabili) alle generalizzazioni (regolarità che
sono state distillate da un confronto sistematico di dati comparabili) il capitale
sociale si qualifica come una generalità che ha bisogno di raffinamento prima che
possa diventare una generalizzazione testabile.
È possibile riconoscere le ambiguità nella definizione di capitale sociale, semplicemente sorvolare, scegliere o aggiungere una definizione che si adegui ai propri propositi. Il capitale sociale perciò diventa un sacco di patate analitiche.
La nozione è caotica e, spesso, è considerata come una metafora. Si riconosce
anche che è difficile da misurare. Ciò che è capitale sociale è facilmente confuso
con quello che esso fa (Fine 2001, 190). Inoltre, in una definizione funzionale quale può essere considerata quella delle reti di relazioni, il concetto diventa
dipendente dal contesto; in altre parole, ciò che costituisce capitale sociale in
uno scenario può non esserlo in un altro.
Per quanto il concetto in esame sia vago, è nostra convinzione che sia opportuno,
oltre che naturale, considerare il comportamento umano come socialmente inte-
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Il capitale sociale nell’ impresa tradizionale for profit
grato e le decisioni individuali influenzate da bisogni personali e relazioni sociali.
Questo lavoro si presenta come un contributo alla discussione sul capitale sociale attraverso l’illustrazione dell’effetto economico che il capitale sociale può
avere sulla scelta del livello di effort di un lavoratore. L’aver distinto tra i due tipi
di capitale sociale ci ha consentito di analizzare meglio i potenziali effetti di tale
fattore che sarebbero rimasti ambigui se avessimo adottato la definizione comunitaria che, come abbiamo visto, ingloba concetti diversi e che ha un respiro
meno ampio. Questo è un aspetto originale dell’analisi.
Il nostro individuo potrebbe sembrare un altruista: egli ha a cuore il benessere
degli altri. A differenza di un altruista, però, l’individuo dotato di capitale sociale
è interessato all’opinione degli altri. Come abbiamo detto OP e sono strettamente legati: l’individuo sta attento a non danneggiare gli altri e ciò farà sì che
gli altri abbiano una buona opinione di lui – e questo non è esattamente altruismo; l’opinione positiva, a sua volta, gli consentirà di usufruire di un capitale
relazionale.
Quello presentato è solo uno dei modi in cui l’idea può essere formalizzata.
Ovviamente, ne discende un comportamento che differisce da quello riscontrabile nel caso in cui l’individuo si preoccupa solo della sua remunerazione monetaria e non è certo questo l’aspetto originale dell’analisi. Non è, infatti, il primo
tentativo di introdurre le opinioni degli altri nella funzione di utilità dell’individuo. Il più noto dei lavori in tale senso è quello di Akerlof (1984) che fa riferimento all’esistenza di un codice di comportamento ed introduce nella funzione
di utilità la reputazione. Nel modello di Akerlof la reputazione è funzione della
obbedienza al codice e della frazione della popolazione che crede al codice. Lo
scenario è quello del mercato del lavoro. Lo scenario da noi presentato – pur
essendo quello del mercato del lavoro - non contempla l’esistenza di un codice
di comportamento che guida le azioni degli individui, quantomeno di quelli che
credono in esso. È noto, però, agli individui che scegliere un livello di sforzo
basso danneggia gli altri. Date le caratteristiche sociali della squadra di lavoro, il
danno causato agli altri si traduce in un’opinione negativa e, per questa strada,
in una riduzione dell’utilità dell’individuo che si cura dell’opinione degli altri.
L’individuo che aspira a raggiungere, oltre al benessere fisico, l’approvazione
sociale farà scelte che non danneggiano le persone con le quali è in stretto contatto nel posto di lavoro.
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Rosetta Lombardo è dottore di ricerca in Economia Politica; è attualmente assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Economia e Statistica dell’Università
della Calabria, e professore a contratto di Economia delle Istituzioni per il corso
di laurea in Scienze del Servizio Sociale presso la Facoltà di Scienze Politiche –
polo didattico di Crotone – della medesima Università.
[email protected]
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Roberto Busi
L’opera di costruttore della città di
Padre Marcolini, prete e ingegnere.
Passaggio a Nordest
Premessa
Si constata con elevata frequenza, nelle più diverse materie, che la notorietà di
attori di un determinato periodo storico non sia proporzionale al merito che le
azioni compiute ed i risultati conseguiti comporterebbero.
Così, talora, figure nella sostanza modeste occupano in modo aggressivo ed invadente la scena nel loro tempo ed addirittura anche, e sempre invasivamente, nei
tempi successivi; il tutto magari solo per la capacità di costruirsi un’immagine
accattivante, a fronte della modestia (se non addirittura della nullità o della negatività) delle proprie azioni e dei risultati derivanti.
Per converso, vi sono reali protagonisti che, per innata discrezione o per l’umiltà che talora contraddistingue chi è attento ai contenuti, sono sconosciuti, o sottoconosciuti od addirittura misconosciuti dai contemporanei e da chi segue; e
talora solo casualmente (e magari dopo, o molto dopo, la loro scomparsa) si
pongono in essere le condizioni che consentono la corretta e dovuta attribuzione dei loro meriti e, quindi, il riconoscimento in sede storica della loro opera.
È questo il caso, fra gli altri, di alcune figure del ventesimo secolo appartenenti
al mondo cattolico che, incuranti di ogni attenzione alla propria immagine pubblica od addirittura malgrado velenose denigrazioni, hanno con determinazione
e con coerenza operato nel loro tempo tenendo solo ai risultati concreti, visti
come testimonianza della visione sociale assunta come obiettivo. E solo adesso
si comincia, talora, a far luce sulla loro opera, sui buoni risultati conseguiti e sul
perdurare – e magari sull’accentuarsi – nel tempo della bontà di tali risultati.
Emblematica è, in merito, la figura del bresciano Ottorino Marcolini, prete ed
ingegnere.
La figura e l'opera di Ottorino Marcolini ha da sempre suscitato in me fascino ed
interesse sia per il modo originale ed efficace che l'ha caratterizzato di far attività pastorale, come prete, che per la quantità e la qualità di quanto ha saputo realizzare, come ingegnere. Ed i due modi di essere si completano in lui e nel suo
fare in modo tanto specifico e fecondo da porsi, il suo caso, come del tutto originale nel quadro di riferimento sia per quanto attiene al mondo dell'associazionismo cattolico che a quello della tecnica urbanistica.
Va da sé che, da quando ho preso servizio nell'Università degli Studi di Brescia
(e sono ormai oltre quattordici anni!), mi si è posto l'imperativo morale di contribuire ad eliminare una lacuna della disciplina urbanistica: la diffusa non cono-
93
n.5 / 2002
scenza di quanto realizzato dal Padre, di come la sua opera continui così bene
anche dopo di lui e di come si vedano sempre più tangibili sul piano della qualità urbana i buoni effetti del suo modo di costruire le case e, casa dopo casa, di
costruire la città.
Se, infatti la biografia di Marcolini è nota (in particolare per il lavoro di Fappani
e Castelli), da ingegnere e docente di materia urbanistica avvertivo la necessità
che si facesse fronte alla non conoscenza in sede scientifica della sua opera di
ingegnere e - nei fatti - di urbanista.
La disponibilità e la sensibilità delle organizzazioni che a lui si rifanno hanno
posto in essere le indispensabili condizioni economiche perché si effettuasse la
ricerca che ha prodotto il libro da me curato (Busi 2000b) oltre che alcuni articoli scientifici.
L'appassionata ed infaticabile opera di giovani colleghi e collaboratori ha consentito che si svolgessero le dovute indagini e che si redigessero i vari capitoli
del libro da me curato, di cui sopra.
Il presente articolo si propone di offrire al lettore un quadro sintetico – ma con
un adeguato livello di sistematicità e di autonomia – della tematica, con apertura particolare alle implicazioni sociologiche derivanti dalle originali implicazioni
di realizzare la “città della pietra” poste in essere da Marcolini.
Riferimenti biografici
Nato a Brescia nel 1897 da famiglia della piccola borghesia, si laureò col massimo
dei voti e con lode nel 1920 in ingegneria industriale nel Politecnico di Milano e
nel 1924, sempre con il massimo dei voti e con la lode, in matematica
nell’Università degli Studi di Padova.
Ufficiale dell’esercito nella prima guerra mondiale, fu decorato con croce al merito di guerra. Dal 1921 lavorò come direttore dell’Officina del gas di Brescia.
Fin da bambino aveva frequentato le organizzazioni dei Padri della Pace, in
Brescia; ed anche durante il lavoro, intenso fu l’impegno nel movimento cattolico giovanile.
Dopo seria maturazione, nel 1924 entrò nella Congregazione dei Padri della Pace
e nel 1927 ne fu ordinato sacerdote.
Per tutta la vita esercitò l’insegnamento in varie scuole cittadine, alternandosi tra
la matematica e la religione; operò nell’Oratorio della Pace, fu assistente della
FUCI e della S. Vincenzo.
Già nei primi anni ’30 mise al servizio di chi ne aveva bisogno la propria professionalità di ingegnere: la realizzazione, per opera di Marcello Piacentini di piazza della
Vittoria in Brescia, inaugurata il 28 ottobre 1932 (per il decennale della Marcia su
Roma), comportò cospicui lavori di sventramento, con la distruzione del quartiere
di S. Agata in centro storico; Marcolini curò la realizzazione di case per i circa 3.000
sfrattati (quartiere “dei libici”) lungo il fiume Mella, ora demolite.
Cappellano durante la seconda guerra mondiale, fu su vari fronti; fra l’altro in
Russia, con gli alpini e, dopo l’8 settembre 1943 e fino al 1945, sempre con gli
alpini, in campo di prigionia.
Dopo la guerra riprese l’insegnamento e l’apostolato alla Pace, alla FUCI ed alla
S. Vincenzo. Morì nel 1978, a seguito di incidente stradale.
94
Roberto Busi
L’opera di costruttore della città di Padre Marcolini
La figura di Marcolini si connota, pertanto, innanzitutto come quella di un prete
di grande iniziativa e carisma, efficacemente inserito in diversi contesti sociali:
quello dei giovanissimi e dei giovani bresciani, come quello degli alpini e dell’assistenza.
L’eccezionalità della sua opera è però costituito da quanto, talora anche senza il
sostegno e l’aiuto di confratelli e superiori e qualche volta forse anche con la loro
ostilità, seppe fare operando fin dai primi anni ’50 per dare casa ai ceti sociali
economicamente deboli.
La casa per “la Famiglia”
Con riferimento all’ultimo dopoguerra si parla, correntemente, di “ricostruzione” quando, invece, più propriamente si dovrebbe parlare di “costruzione”.
I pur cospicui danni bellici (particolarmente rilevanti nel nord dell’Italia dove i
fatti militari si protrassero più a lungo e dove più severa fu la distruzione operata dal bombardamento aereo) furono rimediati in un tempo relativamente
modesto, dell’ordine dei pochi anni (o, al massimo dieci o quindici), a far capo
dal 1945.
Poi, a partire dai primissimi anni ’50 iniziò quell’ampio processo di sviluppo produttivo che doveva portare, già nella seconda metà degli anni ’50, al cosiddetto
“boom” o “miracolo economico” che dir si voglia.
Caratteristico di quel momento storico fu, come noto, l’accentuarsi del passaggio di addetti del settore primario al secondario (soprattutto); ma anche da questo (o direttamente dal primario) al terziario.
Il tutto, in Italia, con emigrazione interna dal sud al nord e, nel nord, dall’est
all’ovest; ovunque dalla campagna alla città.
Brescia ed il “bresciano” furono pesantemente interessati da tale fenomeno
migratorio, il cui indicatore più evidente fu costituito dalla domanda di alloggi
popolari sia da parte dell’inurbato (giunto in città per lavorare) sia da parte dello
sfrattato (per la sostituzione, in centro città, dell’abilitazione col terziario).
Forte e radicata era in Brescia, nella città e nel territorio, la tradizione cattolica
dell’attenzione al debole; ancor più forte e radicata – se mai possibile – era (ed
è sempre stata) nella città e nel territorio la capacità imprenditoriale, che fa di
ogni bresciano il possibile (e frequentemente il reale) protagonista di importanti fatti produttivi.
Marcolini seppe porre in atto la sua elevata attenzione al debole coniugandola
con capacità imprenditoriali non comuni; il tutto utilizzando lo strumento della
cooperazione che proprio da quegli anni già dava prova delle proprie potenzialità.
Nel 1953 Padre Marcolini iniziò, con alcuni collaboratori, la propria attività per
dar casa a chi ne avesse bisogno; a chi gli obiettava che si trattava di un compito
inusuale per un prete egli faceva notare che tale attività era un’accezione innovativa dell’opera di carità del “vestire gli ignudi”.
Padre Marcolini manifestò sin dall’inizio una costante attenzione alle esigenze
della famiglia come livello organizzativo di base e fondante della società; proprio
per privilegiare al massimo le capacità funzionali della famiglia egli individuò
come necessario operare realizzando unità abitative con tipologie, modulazioni
95
n.5 / 2002
e dimensioni che mettessero la singola famiglia occupante nelle migliori condizioni di realizzarsi.
Significativo è, in questo senso, il ricorrere a tipologie a schiera (quando non
addirittura a quelle bifamigliari e monofamigliari) e la presenza costante (anche
se talora, per forza di cose, ridotta) di verde privato. Il tutto con modelli che,
riproponendo anche in città un ambiente di tipo quasi semirurale, mettessero al
massimo a proprio agio gli inurbati provenienti dal mondo agricolo (cui erano
proposti così schemi abitativi non troppo distanti da quelli della loro tradizione)
ed anche gli sfrattati dal centro storico (cui venivano messi a disposizione spazi
al coperto ed all’aperto prima inusuali). Ma la caratterizzazione dell’opera di
Marcolini particolarmente rilevante in sede urbanistica è il rifuggire da interventi abitativi singoli, ognuno additivo nella propria individualità all’esistente, e
generanti nel loro insieme la magmatica ed indifferenziata periferia che in quegli
anni si andava ovunque producendo; anzi, Marcolini procede tramite la realizzazione di unità urbanistiche (da lui detti “villaggi”), ognuno con dimensioni oscillanti da qualche decina a qualche migliaio di alloggi (ma la dimensione ricorrente è di qualche centinaio).
I più piccoli, del resto, erano usualmente inseriti in più vaste articolazioni urbanistiche di edilizia economico-popolare ed integrati con interventi abitativi dovuti ad altre iniziative. I villaggi hanno schemi funzionali conchiusi in se stessi escludendo, ad esempio, il traffico di transito. Le relative vie sono pertanto concepite
al solo servizio dell’abitazione (o, meglio, della famiglia) per consentire gli accessi e per essere luogo pubblico di tranquillo e qualificato riscontro del luogo privato (l’abitazione). Significativa verifica della effettiva riuscita dei villaggi è il fatto
che le relative vie sono a tuttora luoghi sicuri sia in quanto ad incidentalità sia in
quanto a criminalità; cosa che, in genere, non si può dire per altri casi – nostrani e non – di edilizia economico-popolare.
Gli strumenti
Nella scelta del sito per l’insediamento delle abitazioni il criterio fondamentale
risulta essere quello di individuare aree acquisibili a prezzi bassi, rispetto a quelli correnti.
Per Padre Marcolini, infatti, il parametro economico è determinante, essendo la
fattibilità economica la evidente condizione necessaria perché l’impresa si realizzi. Egli si circonda di collaboratori che basano la loro ricerca sull’obiettivo del
minor costo di realizzazione degli interventi e si fa carico personalmente, sempre nell’ottica di un rigoroso controllo delle spese, della fornitura dei materiali.
Nel periodo che va dal novembre 1953, quando la prima cooperativa “La
Famiglia” ha iniziato la sua attività, all’inizio degli anni Sessanta, l’edilizia popolare non usufruiva ancora dell’arma dell’esproprio delle aree per l’edificazione e
la scelta del sito risultava quindi fortemente condizionata dall’obiettivo di minimizzare il costo degli alloggi, utilizzando aree a bassa “attesa” insediativa.
Si trattava dunque di reperire aree agricole, non eccessivamente adiacenti allo
sviluppo urbano e tali quindi da generare aspettative di imminente innalzamento del valore di mercato a seguito di espansioni e conseguenti trasformazioni in
aree edificabili.
96
Roberto Busi
L’opera di costruttore della città di Padre Marcolini
La preoccupazione nel mantenere basso il costo dell’area è ben evidenziata dalla
testimonianza di un collaboratore (Astori 1979) di Marcolini: "Lo ricordo (...) in
ufficio e successivamente alla Badia allorché assistetti allo svolgimento delle
pratiche per la cessione del terreno, la determinazione dei confini, le opere di
urbanizzazione, gli accessi dalle strade del villaggio ai terreni rimasti agricoli, ecc. Era sempre rapido, sintetico nella trattazione dei problemi, prepotente
nel voler ottenere ciò che desiderava, nel pagare poco il terreno e nel farsene
regalare per le opere sociali o cedere a prezzo particolare".
1
Un altro collaboratore suggerisce un ulteriore interessante criterio di scelta :
"Non c’erano dei criteri precostituiti o standardizzati; si era però vincolati
alla omogeneità delle aree. Le aree non dovevano avere una diffusione o tagli
tali da impedire la creazione di strutture organiche, bisognava cioè avere la
possibilità di realizzare un numero sufficiente di abitazioni che potessero sia
sopperire alle esigenze, sia essere ripetute in un numero sufficientemente
ampio per poter ridurre i costi di costruzione al minimo. Il sito doveva quindi consentire di creare lotti di dimensioni tali da poter realizzare le case
secondo tipologie edilizie precostituite".
Dunque pareva importante, giustamente, l’individuazione di aree di forma e
dimensione adeguata, sia per creare unità urbanistiche che avessero status di
quartiere, non dunque un semplice aggregato di abitazioni, sia di nuovo per contenere i costi, grazie alle economie di scala che si creano in caso di interventi
simili (organizzazione del cantiere, forniture di materiale, ecc.).
Non si può però non analizzare, pur rischiando di interpretare soggettivamente
a posteriori il processo decisionale, anche il fattore localizzativo/geografico
rispetto allo sviluppo urbano esistente, ed in particolare con riferimento all’ubicazione degli insediamenti produttivi esistenti all’epoca della creazione dei villaggi e/o in via di sviluppo o consolidamento.
Non tanto perché se, si osserva oggi lo sviluppo urbano di Brescia, i villaggi delle
cooperative “La Famiglia” risultano conurbati nel tessuto urbano, ma anche perché sono sorti nelle direttrici che si proiettano esternamente alla città storica,
dove all’epoca si erano insediate le maggiori zone industriali.
Gli abitanti dei villaggi potevano raggiungere i luoghi di lavoro, sia con mezzi collettivi che propri, abbastanza facilmente, ovvero in tempi contenuti, lungo percorsi non troppo estesi; ciò evitando l’attraversamento della città consolidata,
con notevole beneficio della circolazione e risparmio di tempo.
La mancanza di villaggi ad est del centro, del resto è probabilmente legata al
diverso tipo di edilizia residenziale delle classi agiate che storicamente si era colà
consolidata.
Dunque la localizzazione dei villaggi delle cooperative “La Famiglia” probabilmente non trova rapporto di causalità diretta con la pianificazione “normata” o
di fatto “consolidata”, ma nel contempo non può dirsi estranea alle direttrici storiche di espansione, né tantomeno ininfluente sulla futura forza di sviluppo in
quelle medesime direttrici.
Da un lato la città si spinge in alcuni settori che si configurano più simili agli abituali luoghi di provenienza di molti dei primi abitanti dei villaggi quali l’ambiente agrario (connotato dal relativo paesaggio); d’altro lato si sperimenta un nuovo
rapporto tra insediamenti abitativi caratterizzati da un certo grado di autonomia
1
Dott. D.Damiani, ns.
intervista, 1998.
97
n.5 / 2002
2
Il valore indicato si
riferisce all’attività
complessiva delle
cooperative “La
Famiglia”, in aggiunta
a qualle dell’Istituto
Autonomo Case
Popolari, dell’INA
Casa-GESCAL, dello
Stato e di altri enti e
cooperative.
98
(livello di quartiere) ed i centri di vita urbani della città storica.
Un altro aspetto interessante riguarda la localizzazione di alcuni villaggi. In particolare i villaggi Badia e Violino-Bresciana, in rapporto alla composizione sociale
degli abitanti e alla loro attività lavorativa.
Tali villaggi sono entrambi ubicati lungo la direttrice di espansione ovest della
città di Brescia, in direzione del lago d’Iseo, il primo a sud e il secondo a nord
della strada statale n. 11 “Padana Superiore”.
Il villaggio Prealpino è situato lungo la direttrice nord in direzione della Val
Trompia, mentre il Sereno è a sud della città, lungo la direttrice di espansione
meridionale (verso Flero).
Mentre il villaggio Violino viene costruito in un unico lotto di 252 alloggi, il Bresciana
e gli altri tre villaggi vengono realizzati in più lotti successivi nei diversi anni.
L’entrata in vigore della legge n. 167 del 18 aprile 1962 rappresenta lo sbocco,
forse tardivo, di un disegno di legge che impiegò sette anni per superare il vaglio
di due legislature e di varie commissioni parlamentari.
La proposta di legge era uscita originariamente dal Ministero dei Lavori Pubblici
quando i Comuni già si trovavano in difficoltà per il reperimento di aree a basso
costo, in quantità ed ubicazione adeguata, per l’edilizia pubblica promossa dalle
numerose leggi allora operanti.
Di particolare interesse risulta il fatto che la legge 167/1962 trovò applicazione
nell’ambito dell’edilizia economica sia sovvenzionata che di libera iniziativa.
Pertanto, a fruire dell’acquisto a prezzo di costo delle aree espropriate ed urbanizzate non furono solo gli Enti statali e parastatali, ma anche cooperative ed enti
statutariamente senza scopo di lucro.
Inoltre agli stessi benefici poterono accedere, entro certe condizioni e misure,
anche i privati cittadini.
A ciò si aggiunse l’impegnativa funzione prevista dalla legge di rendere obbligatoria la formazione di piani particolareggiati per tali aree, sovente di dimensioni
rilevanti rispetto alla totale espansione residenziale prevista dai piani.
Nel periodo 1953-1970 in Brescia e 2.provincia vennero realizzati dalle cooperative “La Famiglia” più di 8.000 alloggi
Va rilevato che il fenomeno non ha interessato in eguale modo tutti i comuni
della Provincia: i comuni dove sono state realizzate la stragrande maggioranza
delle abitazioni nel periodo indicato sono quelli dell’hinterland di Brescia e della
pianura centrale e orientale. La maggior concentrazione dal 1953 al 1970 si è
avuta nel capoluogo, con il 58,3% di alloggi. Il fenomeno cooperativistico prende consistenza nel resto della Provincia e si sviluppa a partire dagli anni Sessanta.
Le motivazioni della concentrazione del maggior numero di alloggi costruiti in
Provincia nei Comuni dell’hinterland di Brescia e della pianura centrale ed orientale vanno ricercate per la prima zona nel fatto di essere prossime al Comune
capoluogo e di assorbire quindi in parte le richieste abitative della popolazione
che svolge la propria attività in Brescia; per la seconda zona nel fatto, da un lato,
di godere di alcune condizioni favorevoli (come disponibilità di aree a basso
prezzo) e, dall’altro, di aver usufruito della domanda creata da un certo sviluppo
industriale che nel contempo ha investito i Comuni costituenti tale regione.
Inoltre la diminuzione, a partire dalla metà degli anni Sessanta, del numero di
case realizzate nel territorio del Comune di Brescia rispetto al decennio prece-
Roberto Busi
L’opera di costruttore della città di Padre Marcolini
dente può essere dovuta anche ad alcune modifiche intervenute nelle condizioni che hanno alimentato e sostenuto il fenomeno.
Se si considera che gli alloggi delle cooperative sono in genere casette unifamigliari o bifamigliari con giardino, con caratteristiche quindi di utilizzazione estensiva del suolo, è evidente che l’area che deve essere impegnata necessita di
dimensioni piuttosto rilevanti.
Dopo il 1970 le aree erano diventate non più facilmente reperibili così a basso
prezzo come in precedenza, anche nella fascia più esterna e non urbanizzata
della periferia cittadina. All’aumento del costo delle aree si aggiunse un incremento pure del costo di costruzione, causato dagli aumenti salariali della manodopera e dal rialzo nei prezzi dei materiali.
Tutti questi fattori concorsero a far sì che nella scelta dei siti per nuovi insediamenti le cooperative tendessero a spostarsi dal capoluogo verso comuni più
esterni, allargando progressivamente il raggio d’azione.
Le costruzioni realizzate dalle cooperative “La Famiglia” sono di tipo economicopopolare, avendo le caratteristiche di ampiezza, struttura e rifiniture tali da classificarle in questo senso. Pertanto per esse valeva la legislazione relativa, ed in
particolare la normativa contenuta nel testo unico delle disposizioni sull’edilizia
popolare ed economica, R.D. del 28 aprile 1938 n. 1165, aggiornato ed integrato
poi dalla legge del 2 luglio 1949 n. 408 (legge Tupini).
Con la legge “Tupini” furono regolati i canali di finanziamento per la costruzione
di abitazioni economico popolari e opportunamente precisate, rispetto alla precedente legge “Fanfani”, le modalità tecniche per l’edilizia a basso costo, con la
previsione inoltre di nuovi enti autorizzati a contrarre mutui.
Grazie a quest’ultima legge, l’iniziativa privata fu incoraggiata a formare cooperative edilizie, finanziate dallo Stato con prestiti a basso tasso di interesse, concessi a chi avesse voluto costruire o ristrutturare la propria casa.
In particolare la legge “Tupini” prevedeva:
- la possibilità per le cooperative di ottenere mutui, da enti e istituti bancari autorizzati e a tassi agevolati e con un lungo periodo di ammortamento;
- la possibilità di ottenere un contributo dello Stato per la riduzione della spesa
di ammortamento;
- l’esenzione per le cooperative da tributi ed oneri fiscali, come per gli altri enti
operanti nel settore;
- l’obbligo3 per i Comuni di provvedere alle opere di urbanizzazione primaria
ovvero di costruire le fognature, di preparare le condutture stradali per l’acqua
potabile, di realizzare l’impianto di illuminazione, nonché sistemare strade, piazze ed altri suoli di uso pubblico;
- l’autorizzazione ai Comuni di poter cedere gratuitamente o a prezzo di costo,
o mediante corresponsione di un canone annuo, terreni propri per la costruzione di alloggi popolari a cooperative.
Essendo il fine della cooperativa marcoliniana quello di risolvere per i soci il problema abitativo al minor costo possibile, compatibile comunque con le essenziali caratteristiche di efficienza, di stabilità e di comfort, un notevole impegno
venne posto nella ricerca costante di una contrazione del costo stesso.
La decisione di costituire la prima società cooperativa “La Famiglia” venne presa
all’interno dell’U.C.I.D. (Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti) e il fatto che
3
Modificato successivamente dalla Legge
765/1967.
99
n.5 / 2002
4
Il Centro è tuttora
operativo e continua
a svolgere tale attività
di coordinamento di
tutte le cooperative.
100
l’iniziativa di Padre Marcolini sia stata assunta e definita dagli ambienti politici
della componente cattolica della classe politica bresciana sta a significare quale
importanza le venisse attribuita nella qualità di proposta residenziale che la caratterizzava, capace di rispondere ad un fabbisogno in quegli anni particolarmente
elevato di edilizia economico-popolare.
Non meno importante fu inoltre il fatto che tale classe politica si impegnò a consentire le condizioni più favorevoli per la praticabilità dell’iniziativa, sia per quanto riguarda l’acquisto delle aree che l’accesso al credito.
Padre Marcolini fu capace di costruire rapporti privilegiati con gli enti locali,
favorendo così la buona riuscita degli interventi.
A tale scopo istituì il Centro Studi e Coordinamento Iniziative “La Famiglia”,
con la funzione di formazione e coordinamento delle cooperative che di volta in
volta venivano istituite per la realizzazione dei villaggi. Tali cooperative, amministrativamente indipendenti, facevano riferimento al Centro Studi per la progettazione e l’acquisto dei materiali4.
L’Amministrazione Comunale venne dunque coinvolta direttamente dal Centro
Studi nella fase di lottizzazione del sito scelto per la localizzazione del villaggio, onde
ottenere il consenso preventivo prima di inoltrare la pratica per l’approvazione.
Al Centro Studi spettava il compito di preparare e gestire l’intero intervento il
cui iter realizzativo si può così riassumere:
- definizione delle dimensioni dell’iniziativa in base alla domanda di alloggi;
- valutazione del fabbisogno di servizi del nuovo villaggio;
- scelta dei tipi edilizi da utilizzare;
- scelta dell’area e avvio della contrattazione con il proprietario per averne la disponibilità;
- progetto della lottizzazione e, previa approvazione (quando necessaria) o parere favorevole dell’Amministrazione Comunale, redazione del progetto esecutivo
da parte del Centro Studi sul quale venivano calcolati i costi dell’intera iniziativa
(da ripartire sui soci, per ottenere i prezzi dei singoli alloggi);
- redazione di una graduatoria con assegnazione sulla carta dell’alloggio e versamento di una quota di pre-finanziamento anticipata da banche, imprenditori o
enti finanziatori;
- inizio lavori: il Centro Studi provvedeva all’acquisto dei materiali e le imprese
di costruzione fornivano la manodopera e le attrezzature indispensabili;
- realizzazione dei servizi;
- assegnazione degli alloggi “secondo criteri di imparzialità”.
L’attività delle cooperative “La Famiglia” si articolava in un modello operativo
(certamente diverso da quello degli operatori, pubblici e privati, che nello stesso periodo hanno prodotto in Brescia e provincia alloggi in edilizia economicopopolare), contenente al suo interno alcuni elementi che ne determinano la permanenza, pressoché inalterata, nel tempo: elementi che riguardano in particolare la sostanziale conservazione delle tipologie edilizie impiegate, il processo
produttivo ed inoltre la necessità di individuare un contesto sociale favorevole
alla promozione e realizzazione dell’operazione.
Tali fattori resero possibile delineare uno schema generale di comportamento
che si è mantenuto relativamente costante nel tempo e nelle aree.
Il modello operativo si articola in due parti:
Roberto Busi
L’opera di costruttore della città di Padre Marcolini
- una prima parte che comprende tutti gli aspetti relativi alla fase promozionale
e tutti gli atti che portano all’avvio del processo di costruzione degli alloggi;
- una seconda parte di realizzazione degli alloggi stessi.
La promozione dell’iniziativa marcoliniana – e, quindi, la scelta di localizzazione
– possono essere affidate a dei soggetti locali (di un Comune nel quale esiste
una domanda di abitazioni in proprietà), oppure al “Centro Studi” stesso, tramite propri agenti. In entrambi i casi è essenziale che tra i promotori vi siano personaggi inseriti nelle realtà locali che consentano un rapporto privilegiato tra l’operatore e i vari agenti pubblici intervenienti nell’operazione.
Le iniziative vengono avviate costituendo una cooperativa che in un primo
tempo si compone almeno del numero minimo di soci previsto dalla legge, i
quali rappresentano in parte i promotori locali e in parte il Centro Studi.
La cooperativa così costituita assolve al compito di gestire formalmente l’intero
intervento; si avvarrà delle strutture tecniche ed amministrative del Centro Studi.
In primo luogo vengono definite le dimensioni dell’iniziativa in base ad una
stima approssimativa dei probabili destinatari degli alloggi, tenendo conto della
domanda in atto. Inoltre viene valutata la necessità di dotare di attrezzature di
servizio il futuro insediamento, in base alle sue dimensioni ed alle preesistenze
nella zona in cui avverrà l’insediamento. Poi vengono scelti i tipi di alloggio e
quindi si passa alla scelta dell’area ed alla contrattazione per l’acquisto, con il
proprietario, col quale viene stipulato un atto di accordo preliminare, in base al
quale egli si impegna a cedere, ad un prezzo pattuito ed entro un limite di
tempo, il fondo di sua proprietà alla cooperativa.
A questo punto il Centro Studi può avviare il progetto di lottizzazione, che esegue in stretto rapporto con l’Amministrazione Comunale e, dopo l’istituzione
delle Regioni, anche con quella Regionale, onde ottenere il consenso informale
preventivo prima di attivare la pratica per l’approvazione.
Ottenuto il parere favorevole dell’Amministrazione Comunale e della Regione
viene stipulata la convenzione tra Comune e cooperativa, che sempre prevede l’esecuzione a carico della cooperativa delle opere di urbanizzazione primaria ed in
maniera diversa delle opere di urbanizzazione secondaria, a seconda dei Comuni
che, a partire da date diverse e non tutti allo stesso modo, hanno iniziato ad addebitare in parte ai lottizzanti. Inoltre la convenzione può prevedere la cessione di
aree per opere di urbanizzazione, da effettuarsi gratuitamente, al Comune.
Il Centro Studi elabora quindi un progetto esecutivo, sul quale verrà rilasciata la
licenza edilizia (concessione). Su tale progetto viene inoltre calcolato il costo
dell’intera iniziativa, da ripartire poi per la determinazione del prezzo di ogni singolo alloggio. Entrano a far parte di tale costo:
a) il compenso dovuto al Centro Studi a copertura dei costi, per le prestazioni
svolte e da svolgere;
b) il costo dell’area stabilito con l’atto preliminare;
c) il costo dei materiali e della manodopera ricavati dai preventivi di spesa forniti dalle imprese di costruzione e dai fornitori consultati.
Viene così a concludersi la fase preparatoria dell’iniziativa, che ha una durata variabile a seconda del tempo richiesto dalla prassi dei rapporti con gli enti pubblici.
Fino all’emanazione della legge n.765 del 1967 la cooperativa riusciva ad iniziare
un villaggio anche dopo soli due mesi dalla sua costituzione. In seguito all’ado-
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n.5 / 2002
zione di nuovi strumenti urbanistici da parte dei Comuni ed al più frequente
intervento dell’Amministrazione Regionale i tempi necessari all’ottenimento
della licenza edilizia sono aumentati notevolmente.
La fase di realizzazione ha inizio con la convocazione di un’assemblea dei soci
effettivi e dei possibili futuri. In tale assemblea viene presentata l’iniziativa in tutti
i suoi dettagli tecnici e finanziari. In seguito ha inizio la raccolta delle domande
per le ulteriori e (finali) associazioni che vengono vagliate dagli organi della
cooperativa ed accettate o meno. Gli estensori delle domande accettate divengono soci mediante la sottoscrizione di almeno un’azione di L. 5.000. Per le
domande di acquisto degli alloggi viene compilata una graduatoria e per coloro
che vengono scelti si passa all’assegnazione, sulla carta, degli alloggi ed alla firma
di un atto preliminare di acquisto con il quale si impegnano a versare una prima
quota di prefinanziamento pari al 30% del costo totale dell’alloggio. In seguito i
destinatari dell’alloggio versano altre due quote di prefinanziamento: una pari al
20% del costo totale (al momento della firma del contratto), e l’altra pari al 10%
(prima della consegna dell’alloggio). Le tre quote possono essere versate anche
in percentuali diverse, a seconda delle disponibilità dell’acquirente, purché raggiungano comunque il 60% del costo finale prima della consegna.
La costruzione degli alloggi viene finanziata, oltre che con gli anticipi degli acquirenti, anche con un credito a breve concesso dalla Banca San Paolo di Brescia (almeno
per le cooperative che operano in provincia di Brescia). Il denaro prestato viene poi
restituito attraverso l’accensione di un mutuo presso la Cassa di Risparmio delle
Provincie Lombarde (poi CARIPLO), che lo concede dopo il rilascio da parte
dell’Amministrazione Comunale del certificato di abitabilità degli alloggi.
È il consiglio d’amministrazione di ogni singola cooperativa che decide sull’accoglimento della domanda di alloggio da parte del socio. L’assegnazione degli
alloggi viene effettuata dal consiglio di amministrazione prima dell’inizio lavori in
base ad una graduatoria dei soci. Al momento dell’assegnazione sulla carta viene
stipulato un atto preliminare d’acquisto: prima dell’inizio dei lavori vengono fissate le condizioni di assegnazione vincolanti per l’assegnatario fissando, di massima e salvo conguagli, il costo dell’alloggio (comprensivo del costo dell’area e
delle opera di urbanizzazione), le quote di anticipazione da versarsi all’atto dell’assegnazione, le modalità dei futuri versamenti e del riscatto e un’aliquota di
spese generali.
A lavori ultimati, il consiglio di amministrazione definisce gli importi degli eventuali conguagli e le modalità dei relativi pagamenti.
Al momento della consegna dell’alloggio viene redatto apposito verbale di consegna e verifica e si procede al perfezionamento dell'assegnazione.
Gli alloggi rimangono di proprietà della cooperativa fino al momento in cui il socio
avrà coperto per intero il costo dell’alloggio e dell’area (anche con l’intervento di
un mutuo), dopodiché viene stipulato l’atto notarile di passaggio di proprietà.
Padre Ottorino Marcolini, una volta terminata la costruzione del villaggio,
demandava la manutenzione delle abitazioni ai singoli proprietari.
Il rapporto tra la cooperativa ed il socio cessava quando gli edifici erano finiti e
pagati o direttamente dal socio o grazie ad un mutuo intestato al socio. Da quel
momento ciascun proprietario doveva provvedere alla manutenzione della propria casa e del terreno in proprietà. Tutto ciò rappresentava la completa e per-
102
Roberto Busi
L’opera di costruttore della città di Padre Marcolini
fetta realizzazione degli obiettivi che Padre Marcolini si era proposto: dare a ciascuno una casa in proprietà, con tutti i vantaggi e gli oneri che questo comporta. Ogni proprietario accudiva da sé il proprio giardino, e provvedeva alla pulizia
delle facciate o degli interni: le spese aggiuntive di miglioramento della casa e le
manutenzioni (ordinarie e straordinarie) diventavano quindi una scelta e non un
obbligo come invece sarebbe stato realizzando edilizia con parti (scoperte e/o di
edificio) di proprietà comune.
Chi lo ha conosciuto afferma che Padre Marcolini non abbandonava però il villaggio consegnati gli alloggi. Egli continuava a seguire i nuovi proprietari volendo assicurarsi che fossero soddisfatti della nuova casa: sentiva infatti moltissimo
la responsabilità dei risultati nei confronti del singolo socio. Inoltre si preoccupava della realizzazione dei servizi che riteneva necessari, in modo particolare la
chiesa e l’oratorio.
Terminata, per esempio, la costruzione del villaggio Violino volle subito la chiesa, costruita a tempo di record in 50 giorni. Ancora entro la fine del 1956, sempre per sua iniziativa, furono costruite la scuola materna ed elementare ed in
seguito l’oratorio. Anche al villaggio Badia, le case non erano ancora terminate
che veniva iniziata la costruzione di chiesa e oratorio.
Una volta realizzata la chiesa ed eretta questa a parrocchia, era poi il parroco a mantenere i rapporti con la gente ed a segnalare al Centro Studi eventuali necessità.
Vale ora comunque la pena di richiamare qui, sinteticamente, le caratterizzazioni del
metodo di operare di Marcolini, evidenziandone gli elementi peculiari e salienti.
Ebbene, le attività poste in essere da Padre Marcolini si fondano su di un metodo semplice nella concezione quanto affidabile alla prova dei fatti.
Ogni intervento è svolto da una cooperativa formata specificamente; si preferisce, a parità di altri fattori, che i soci siano pochi ed omogenei sotto il profilo economico e sociale. Ecco, allora, che, come meglio si dirà più avanti, sono state
circa ben 250 le cooperative che a tuttora hanno operato.
Il Centro Studi e Coordinamento Iniziative “La Famiglia” (pure organizzato su
base cooperativa) è da sempre stato il riferimento tecnico ed amministrativo di
alto livello che ha supportato l’azione delle cooperative di cui sopra; il Centro
Studi cura la formazione della cooperativa e ne gestisce la burocrazia, l’assiste
nell’acquisto del terreno, cura la progettazione, le pratiche edilizie ed urbanistiche, il contratto d’appalto, i rapporti con le banche nonché con l’impresa edilizia e le imprese specialistiche, provvede all’abitabilità ed all’accatastamento, ecc.;
insomma: in Centro Studi pone in essere le proprie abilità per consentire ad ogni
cooperativa di operare con certezza di riferimenti.
Le imprese (edilizie e specialistiche) sono anch’esse, di regola, cooperative di
piccole dimensioni; si tratta, per lo più, di operai di buone doti che Padre
Marcolini, apprezzandoli, ha indotto all’imprenditoria e di cui con fiducia si
serve. Il Centro Studi acquista direttamente i materiali, garantendone così l’ottima qualità (tramite le proprie strutture tecniche) e spuntando prezzi buoni (per
le grandi quantità trattate), e li cede a prezzi di costo alle imprese.
Le cooperative, realizzato l’intervento edilizio cui sono deputate e conferiti gli
alloggi ai soci, sono – di regola – sciolte essendo solo il mezzo per conseguire il
fine della realizzazione edilizia.
“La casa ve la pagate voi!” diceva Padre Marcolini ai soci delle cooperative; ed
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n.5 / 2002
era proprio così! Il sistema sopra descritto è sempre ottimamente funzionato a
fronte dell’assoluta affidabilità di ogni soggetto. La capacità imprenditoriale del
Padre ha saputo congegnare e tarare il meccanismo in modo ottimale; il suo carisma ha fatto sì che massimo sia sempre stato l’impegno di tutti per il risultato
propostosi. Così i soci sono sempre stati solventi, le banche ben disposte a finanziare anche a tassi bassi a fronte della certezza del ritorno, le imprese disponibili a lavorare bene ed a prezzi contenuti a fronte della sicurezza e tempestività dei
pagamenti. Mai vi sono state controversie; mai lamentele.
La costruzione della città
L’opera di Padre Marcolini si distingue, oltre che per i caratteri formali prima
detti, anche per la quantità delle iniziative concluse.
Si operò prima in Brescia, in particolare con la realizzazione di quattro grandi villaggi (Violino, Prealpino, Badia e Sereno); poi, dagli anni ’60, anche in altri comuni della Provincia di Brescia; dalla fine degli anni ’60 è pure stata sensibile l’attività in altre province italiane.
L’insieme delle circa 250 cooperative “La Famiglia” sorte ed operanti per iniziativa di Padre Marcolini e di quanti hanno continuato la sua opera hanno realizzato (i dati sono aggiornati al 1997) oltre 20.000 alloggi: in particolare in Comune
di Brescia 28 cooperative hanno ultimato 6.980 alloggi, in altri 77 Comuni della
Provincia di Brescia 163 cooperative hanno realizzato 9.506 alloggi, in altri 43
Comuni di altre 12 Province italiane (Ancona, Bergamo, Cremona, Gorizia,
Mantova, Massa Carrara, Milano, Pavia, Ravenna, Roma, Verona e Vicenza) 52
cooperative hanno realizzato 4.217 alloggi.
Quindi ciò che è stato realizzato effettivamente a seguito dell’opera di Padre
Marcolini è assimilabile, dal punto di vista quantitativo, al patrimonio edilizio per
abitazione complessivo (così formatosi e consolidatosi dai tempi antichi ad oggi)
di un comune di 80 o 100.000 abitanti; la dimensione cioè di una città di provincia media o medio-grande.
Si tratta di ordini di grandezza che fanno di Marcolini uno dei maggiori operatori di edilizia economico-popolare in Italia e, forse, il maggiore tra i privati.
Particolarmente sensibile è in Brescia la traccia dell’intervento marcoliniano. Si
stima, infatti, che un bresciano su sei abiti in “case Marcolini”; il che comporta
evidentemente che, tenendo conto di quanti in passato ci hanno abitato e,
comunque, dell’effetto generato anche su visitatori occasionali dei villaggi, tutta
la città risenta, direttamente od indirettamente, della conformazione fisica e dell’effetto sociale generato dai villaggi.
Padre Marcolini, con la sua opera, è riuscito a realizzarsi pienamente sia come
ingegnere che come prete. Come ingegnere, infatti, ha usato le proprie capacità
tecniche riuscendo, per quantità e qualità degli interventi, ad eccellere professionalmente. Come prete ha saputo, in modo originale, esercitare la propria
azione pastorale contribuendo in modo determinato alla formazione, nel “bresciano” ma non solo, di comunità caratterizzate da valori ben riconducibili al cattolicesimo ed al “saper fare” di quelle genti.
Significativo è il constatare che, per quanto il Padre dichiarasse umilmente come
unico obiettivo quello di fornire a chi ne avesse bisogno una casa che durasse
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Roberto Busi
L’opera di costruttore della città di Padre Marcolini
una quindicina d’anni, circa quaranta-cinquant’anni dopo i primi interventi, le
case manifestano ancora la massima solidità e gli alloggi la migliore funzionalità;
i “villaggi” sono inoltre luoghi di elevata sicurezza sociale per la forte coesione
comunitaria che, anche dopo due o tre generazioni, tiene legata la popolazione.
Particolarmente significativo è il fatto che gli alloggi nei villaggi marcoliniani
siano oggi molto appetiti sul mercato immobiliare per l’elevato livello di qualità
della vita che offrono.
Marcolini non curò affatto la propria immagine pubblica e nemmeno curò di
pubblicizzare la propria opera. Così, al momento, l’eccezionalità della sua figura
e di quanto da lui realizzato sono sostanzialmente sconosciuti al di fuori di quanti, particolarmente nel “bresciano”, abitano o frequentano i villaggi.
Per far luce sulle implicazioni territoriali dell’opera di Padre Marcolini il Centro
Studi e Coordinamento Iniziative “La Famiglia” di Brescia ha commesso una specifica ricerca alla cattedra di Tecnica e pianificazione urbanistica dell’Università
degli Studi di Brescia.
I risultati di tale ricerca sono stati pubblicati in un volume da me curato (Busi
2000b). Quest’articolo a cui prima già si è accennato deriva i propri contenuti
soprattutto da quanto acquisito nel corso della ricerca medesima.
Alcune considerazioni sui caratteri connotativi dell’opera di
Padre Marcolini come costruttore della città
Innanzitutto: un primo e rilevante aspetto dell’opera di Marcolini consiste nella
quantità del realizzato.
Sopra sono stati riportati sintetici dati – forse per difetto, poiché quanto riferito
è documentato, mentre di molti altri interventi, forse, si è persa notizia – da cui
è possibile desumere le dimensioni degli interventi effettuati.
Non so quanti, che in Italia (e non solo in Italia) abbiano operato direttamente
nel settore, possano ascrivere al proprio curriculum un tale risultato.
Pure di tutto rilievo è rimarcare come Marcolini operò.
Dagli studi di ingegneria ho tratto innanzitutto la convinzione che, a pari altre
condizioni, un meccanismo è tanto apprezzabile (perché di più sicuro funzionamento) quanto più è semplice.
Credo che gli studi di ingegneria abbiano influito, fra l’altro, su Marcolini inducendolo ad attivare, per realizzare quanto gli stava a cuore, strumenti di assoluta
semplicità che pertanto (ma anche per un’ottima messa a punto e per una attenta gestione) hanno sempre ottimamente funzionato. Da un lato lo strumento
della cooperativa, formata di volta in volta e per ogni intervento con soci omogenei per possibilità economiche e finalizzata ad un concreto obiettivo: realizzare l’alloggio e conferirlo ai soci. Dall’altro quello del Centro studi, deputato a fornire l’indispensabile assistenza tecnica ed amministrativa alle varie cooperative
nel loro operare.
Il tema è di particolare interesse proprio in sede urbanistica, dove troppe volte le
iniziative abortiscono perché mancano, o sono carenti, gli strumenti per realizzarle.
Ho sentito qualche denigratore di Marcolini sussurrare che, in fin dei conti, le
cooperative ed il Centro Studi si sono avvalsi di facilitazioni nella disponibilità
delle aree e nei finanziamenti resi disponibili dello Stato e degli enti territoriali.
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n.5 / 2002
In merito è da dire innanzitutto che ciò è accaduto meno che per altri tipi di iniziative consimili e, soprattutto, tutto sempre si è svolto alla luce del sole. Inoltre
è da dirsi che ben vengano quanti sappiano utilizzare, con lume ed onestà, le
facilitazioni previste per i diversi scopi sociali. Il tema è di particolare attualità
oggi quando, più che in altri momenti, oltre che – talora! – l’onestà sembra frequentemente difettare anche la capacità di utilizzare le risorse economiche disponibili (come è il caso eclatante di molti fondi comunitari) con le conseguenze
negative che tutti patiamo.
E poi: l’opera di Padre Marcolini ha lasciato un segno anche per quanto riguarda
le tipologie edilizie ed urbanistiche che la caratterizzano.
Alcuni anni fa ero in Inghilterra per un incontro di lavoro di un gruppo di ricerca dell’Unione europea di cui facevamo parte. Nel ritorno si percorreva in autobus la campagna tra Gloucester e Londra; il collega olandese che mi sedeva
accanto mi magnificava la coerenza ed il rigore con cui gli inglesi sapevano interpretare, coll’edilizia a schiera, il loro modo di intendere la vita familiare. Ed io:
“Anche un prete bresciano ...” “Don Bosco!” mi interruppe lui. Lo delusi senz’altro smentendo quest’ulteriore carisma ai tanti meriti del fondatore dei
Salesiani; ma soprattutto lo stupii narrandogli dell’opera di Marcolini e del suo
modo di concepire la casa ed il villaggio.
Marcolini, senz’altro, non studiò l’urbanistica. Lo dice il tipo di laurea e la relativa
data di conseguimento: come sappiamo, era ingegnere, laureatosi al Politecnico
di Milano nel 1920, nel mentre che il primo corso universitario di urbanistica fu
attivato - peraltro nello stesso Politecnico di Milano ove Marcolinini studiò - solo
nel 1929 ed era indirizzato ad allievi ingegneri civili ed architetti, mentre Marcolini
fu allievo ingegnerre industriale. Lo dice soprattutto il suo modo di essere “solido” ingegnere (come tutti quelli di un tempo), inte-ressato fondamentalmente a
realizzare manufatti solidi (appunto!), utili ed economici; un uomo, insomma, del
“primum vivere, deinde filosofare”. Ma l’opera di Marcolini è di particolare interesse - e proprio sotto il profilo urbanistico - perché il primum vivere è concepito e realizzato non sulla spinta di fatti occasionali o di mode culturali effimere,
bensì in rigorosa attuazione di un pensiero coerente con una precisa visione della
vita individuale e dell’organizzazione sociale e pertanto, in definitiva e, paradossalmente, in attuazione di una precisa “filosofia” fondante di un modo originale e
marcato di concepire e costruire la città.
Negli anni del primo dopoguerra era infatti in voga la moda generalizzata del
“condominio” la cui sciagurata attuazione generalizzata comportò l’anonimia
delle attuali periferie quando non addirittura lo sventramento dei centri storici
per realizzarvi palazzotti a tanti piani, rivestiti magari di tesserine di ceramica; il
tutto con irrimediabile abbassamento di livello anche, fra l’altro, di pratica della
vita all’aperto (per mancanza di spazi privati e pubblici a ciò deputati) e di socializzazione (per mancanza di luoghi d’incontro diffusi nella città, come prima
erano la corte, la via e la piazza). E da ciò conseguì anche il degrado sociale delle
vie, venuto meno il controllo capillare e continuo degli abitanti che, in modo diffuso, nelle vie stesse vivevano. Duole dover riconoscere che tanti tra i profeti di
culture “elevate” ed “impegnate” (od almeno tali proclamatisi nella propria autoreferenza) hanno contribuito a tale stato di cose di cui ora tutti risentiamo.
Marcolini operò in tutt’altro modo. La costante attenzione alle esigenze della
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Roberto Busi
L’opera di costruttore della città di Padre Marcolini
“famiglia” come livello organizzativo di base e fondante della società lo spinse a
privilegiarne al massimo le capacità funzionali prevedendo unità abitative di tipologie, modulazioni e dimensioni utili a mettere la singola famiglia occupante nelle
migliori condizioni di realizzarsi. Significativo è, in questo senso, il ricorrere a
tipologie a schiera (quando non addirittura a quelle bifamigliari e monofamigliari) e la presenza costante (anche se talora, per forza di cose, ridotta) di verde privato. Il tutto con modelli che, riproponendo anche in città un ambiente di tipo
quasi semirurale, mettessero al massimo a proprio agio gli inurbati provenienti
dal mondo agricolo (cui erano proposti così schemi abitativi non troppo distanti
da quelli della loro tradizione) ed anche gli sfrattati dal centro storico (cui venivano messi a disposizione spazi al coperto ed all’aperto prima inusuali.
Una critica consistente che ho sentito alcune volte rivolgere ai villaggi è che essi
non sono dotati di servizi sociali.
A tale osservazione si può innanzitutto contrapporre la considerazione che tale
situazione è peraltro comune a tutta l’edilizia economico-popolare di quegli
anni, quali ne siano i realizzatori. Peraltro, con riferimento ai villaggi marcoliniani, ciò in alcuni casi non corrisponde all’esattezza. Innanzitutto perché la chiesa
(e la parrocchia) risultano invece abbastanza diffuse, soprattutto nei villaggi dove
la dimensione demografica lo rendeva possibile. Sento già l’obiezione: ma
Marcolini era un prete: bella forza!
Certo, Marcolini era un prete e pertanto aveva come primario riferimento l’attenzione al centro religioso; di questo non possiamo fargli colpa. Peraltro è
anche da tener presente che la parrocchia è stata - ed è tuttora - anche un primario centro di aggregazione sociale; e pertanto attrezzare un villaggio con la
parrocchia vuol dire dotarlo di una comunque importantissima struttura.
Ma i villaggi sono dotati anche di altri servizi; è ricorrente, ad esempio, la presenza di negozi (in una tipologia edilizia a portici, che sottolinea e valorizza
anche la funzione aggregante dello spazio antistante) come anche di complessi
scolastici (gustoso è l’episodio di Marcolini che nel 1955 indusse Valletta, allora
presidente della FIAT, a donare l’asilo al quartiere Violino) e di altro.
Soprattutto, però, vi è la presenza di aree per attrezzature pubbliche inutilizzate.
Ed allora comprendiamo che, probabilmente, ogni eventuale lacuna in materia
non è ascrivibile a Marcolini bensì all’istituzione pubblica che non ha fatto la sua
parte a supporto del villaggio quando esso sorgeva, anche se le aree erano disponibili. E, più in generale, dobbiamo riconoscere demeriti a quegli urbanisti
che, talora forse con l’alterigia dell’intellettuale nei confronti dell’umile operatore, non hanno saputo (o voluto) conformare gli strumenti urbanistici comunali
per valorizzare al massimo i villaggi e per trarne motivo di valorizzazione per il
resto della città.
In ogni caso, la visione di Marcolini della città è comunque caratterizzata dal privilegiare l’attenzione alla qualità del vicinato (inteso come l’abitazione e tutto
quanto è contiguo e complementare all’abitazione stessa, come nel caso dei servizi sociali capillari) in coerente attuazione di una rigorosa sussidiarietà che lascia
a più elevati livelli di intervento (il quartiere e la città) solo quanto non è affrontabile e risolubile in modo diffuso. In ogni caso, pure, mai è stato possibile imputare a Marcolini irregolarità edilizie ed urbanistiche; nella fattispecie, le aree per
standard urbanistici, da quando la normativa le richiese, sempre sono state pre-
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viste e sempre almeno nella misura richiesta.
Ed anche: alcuni anni fa partecipavo, nel Politecnico di Milano, alla periodica
riunione del Collegio dei docenti del dottorato di ricerca in Urbanistica tecnica
ove operava la nostra sede di ingegneria di Brescia in consorzio con quella che
ci ospitava e con quella dell’Università di Pavia.
Alcuni dottorandi avevano il compito di illustrarci lo stato di avanzamento delle
loro ricerche. Una architetto napoletana, in particolare, ci parlava in modo documentato del suo lavoro riguardante lo stato di degrado, pressoché sempre catastrofico, dell’edilizia residenziale pubblica sia in Milano sia, soprattutto, in Napoli
nella relativa comparazione. La volli informare, nella brevità dell’intervento che
la situazione mi consentiva, dell’esperienza bresciana (e non solo bresciana) di
Padre Marcolini, che lei non conosceva. Credevo che la tipologia degli interventi marcoliniani – fondata sull’edificio ad uno, o a due alloggi, o a schiera – potesse spiegare a sufficienza la, invece, ottima vitalità e l’eccellente stato di conservazione dei “villaggi” con la eliminazione delle implicazioni condominiali e con
la riduzione al minimo della gestione delle aree comuni.
La dottoranda mi contrappose situazioni di edilizia residenziale pubblica in
Napoli con tipologia analoga a quella di Marcolini totalmente rifiutata da chi vi fu
“deportato” (sic!) ed ora in particolare grave stato di abbandono.
Nella circostanza non potei fare altro che dire che nei villaggi “La Famiglia” nessuno fu “deportato” e che anzi è stato, ed è, molto ambito il viverci.
Quanto argomentato in questo articolo credo possa testimoniare e spiegare tale
mia allora apodittica affermazione.
Ed ancora: soggetto, per eccellenza, dell’operazione fu, in modo diffuso, l’essere umano; l’uomo – insomma – anche appartenente ai ceti sociali più deboli
delle nostre città, delle nostre campagne e delle nostre valli con le proprie esigenze, prima fra tutte (in questo dopoguerra) quella di realizzarsi lavorando in
città, magari inurbandosi se già non c’era, e quindi di disporre di una casa in città.
Ma anche l’uomo di tali ceti con le proprie potenzialità che, per le nostre genti,
sono fondamentalmente la laboriosità, il senso di responsabilità negli impegni, la
puntualità nelle scadenze, la frugalità; virtù forse connaturate, certo consolidatesi nel tempo con il continuo esercizio nella dignità dell’“economia della miseria”
che ha connotato la storia sociale dei secoli passati fino ad almeno la prima metà
dell’attuale. Ma anche l’uomo che, nel Bresciano in particolare, ha sempre, almeno latente, in sé la dote dell’imprenditoria: dall’impegnarsi cioè, e anche del
rischiare, per migliorare. E anche l’uomo che ha nella famiglia la cellula primaria
e fondamentale dell’organizzazione sociale; famiglia che nel contempo è fattore
di stimolo alla crescita del singolo ma anche bene da conservare e proteggere.
Ma anche l’uomo che, purtroppo, stenta a trovare risposte adeguate alle proprie
legittime esigenze e che, soprattutto, manca troppo spesso di sollecitazioni e di
riferimenti per porre in essere le proprie potenzialità.
Padre Marcolini pose l’uomo così inteso al centro dei suoi interessi facendone il
soggetto dell’operazione per la produzione dell’oggetto casa a lui destinato.
La forma giuridica della cooperativa fu solo lo strumento (peraltro fondamentale) di cui Marcolini si avvalse, utilizzandone fra l’altro in modo opportuno le non
trascurabili agevolazioni previste dalla legge, per organizzare l’azione dei singoli,
nel rispetto delle individualità ed anzi finalizzando il tutto al consentire alle indi-
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Roberto Busi
L’opera di costruttore della città di Padre Marcolini
vidualità di esprimersi.
Ed ulteriormente: Padre Marcolini – è noto! – non credeva nel piano urbanistico come disegno onnicomprensivo ed a lungo termine della città; privilegiava,
invece, la concretezza dell’intervento a fronte dell’effettiva esigenza, con l’obiettivo dell’economicità come condizione necessaria per la realizzabilità. È noto
anche che, in qualche caso, piuttosto che attuare le previsioni in merito all’edilizia economico-popolare dello strumento urbanistico vigente, ritenne di sollecitare varianti allo strumento urbanistico per realizzare quanto effettivamente
vedeva realizzabile, a fronte della disponibilità sul libero mercato di aree a basso
prezzo (perché agricole) ed a possibilità di dimensione del villaggio che superasse soglie critiche di economicità degli interventi. Peraltro fu sempre attento al
contesto, in modo particolare nel rapporto casa-lavoro e nei collegamenti del villaggio con gli assi viabilistici.
Tale posizione praticata dal Padre, peraltro molto criticata da certa cultura urbanistica dell’epoca, ha forse anticipato la recente presa di coscienza della inutilità
di progetti deterministici sulla città, nei fatti poi inattuati perché inattuabili, e che
ha portato alla moda dell’ “urbanistica contrattata”, del “pianificar facendo” e di
altre curiose formulazioni del teorizzare, da parte di urbanisti, la rinuncia a far
urbanistica per consentire, magari, interventi altamente speculativi. Il tempo
(ormai su dimensioni storiche) ha invece chiaramente dimostrato, nel caso degli
interventi marcoliniani, da un lato la elevata vivacità dei villaggi e la loro buona
metabolizzazione, non soltanto fisica, nel tessuto urbano (a conferma della corretta impostazione anche urbanistica degli stessi) e dall’altro lato l’assoluta finalità sociale (no profit, si direbbe oggi) dell’azione del Padre.
Ricordiamo, inoltre, che Marcolini anche quando non convinto rispettò sempre
leggi, piani e regolamenti, cosicché tutti i suoi interventi ebbero sempre e
comunque il carattere della regolarità; i rapporti con gli enti pubblici furono,
insomma, improntati dalla massima correttezza formale oltre che, mi si dice,
pressoché sempre pure improntati dalla massima collaboratività e cordialità dei
rapporti.
Così pure i prestiti rientravano sempre e nei tempi previsti ai finanziatori, a conferma della moralità e solvibilità del creditore ed a riprova che i tassi di interesse concessi, usualmente ben più bassi che nella norma, potevano comunque
essere remunerativi a fronte dell’affidabilità del sistema e di chi lo praticava.
Le aree, pure e come già accennato, risultano sempre essere state acquisite a
libero mercato e quindi, anche nei casi che fossero ricomprese in piani di 167, e
perciò sotto la possibile mannaia dell’esproprio, comunque con buon gradimento del proprietario fondiario.
Particolarmente significativo risulta poi essere stato il rapporto con imprese e
fornitori di materiali. Le imprese, sempre di piccole o tuttalpiù medie dimensioni, erano molte volte cooperative (anch’esse!) di operai di buone doti sollecitati
all’imprenditoria dallo stesso Padre Marcolini, che poi se ne avvaleva. I contratti
d’appalto, sempre a trattativa privata e col presupposto della fiduciarietà e della
continuità dei buoni rapporti, avevano come controparte la singola impresa specialistica (per opere in muratura, di idraulico, di pitturazione, ecc.) e spuntavano
sempre prezzi unitari al di sotto della norma a fronte della assoluta certezza di
pagamento tempestivo dello stato di avanzamento alla fine di ogni mese, per
109
n.5 / 2002
ridurre al minimo l’esposizione bancaria dell’impresa stessa. Di più: i materiali da
costruzione erano acquistati in grandi quantitativi dal Centro Studi conseguendo
così controllo di qualità ed abbattimento dei prezzi unitari; erano poi addebitati
alle imprese in base alle quantità utilizzate, conseguendo anche gli immaginabili
benefici di scala altrimenti impossibili alla piccola e media impresa. Solo in tempi
recenti risultano essere state praticate modalità d’appalto più tradizionali.
Ebbene, non si ha notizia di controversie con imprese e fornitori, a riprova della
bontà di quanto fatto.
L’alloggio, quando ultimato, era consegnato in proprietà al socio assegnatario. E,
ad abitabilità conseguita ed ultimate le proprie adempienze amministrative e
contabili, la cooperativa poteva essere sciolta.
Il metodo posto in essere da Padre Marcolini era, pertanto, concettualmente
semplice quanto efficace nei risultati.
Da un lato la cooperativa, che nasceva per realizzare una specifica iniziativa e
moriva quando l’iniziativa stessa era stata ultimata, consentiva l’ottimizzazione
dell’insieme di energie che i singoli, necessitanti di una casa, potevano porre in
essere. Dall’altro lato il Centro Studi, destinato a durare nel tempo, poneva in
essere – con abilità e continuità – il supporto specialistico comunque necessario in un’operazione complessa.
Come qui già accennato, si racconta che Padre Marcolini fosse solito dire a quanti a lui avevano ricorso: “La casa ve la pagate voi!” Ed era proprio così, perché i
costi dell’operazione (per acquisire il terreno, per imposte, per pagare imprese
e fornitori, per far fronte agli oneri bancari, per coprire le spese del Centro Studi,
ecc.) erano comunque totalmente a carico di chi aderiva all’iniziativa; il che,
soprattutto nei tempi più lontani, quando di soldi ne giravano pochi, comportava anche una forte responsabilizzazione della famiglia interessata, tramite programmazione delle spese ed anche rinunce. Ma con il risultato di sortire, oltre
alla produzione dell’oggetto casa (utile, innanzitutto a far “crescere” la famiglia)
una “crescita” del singolo e della famiglia tutta nella gestione, da effettivi protagonisti, dell’operazione.
Ecco, allora, che appare chiaro il diverso contesto – a pari (o quasi!) tipologia
urbanistico/edilizia – che distingue il caso di edilizia pubblica citatomi dalla dottoranda napoletana (di cui sopra dicevo) rispetto a quello posto in essere da
Padre Marcolini: là si trattava di un bene (forse anche di buona qualità) “donato”
dall’ente pubblico senza nessun coinvolgimento effettivo dell’utente; e, come mi
hanno insegnato, non si dà valore a quanto non si è sudato! Qui, invece, il destinatario del bene ne è stato, in definitiva, il vero artefice; e l’atteggiamento che ne
consegue, e che permane nel tempo, è quello di poter ben godere di qualcosa
di prezioso (la casa), sentita come massimamente propria.
Una ulteriore, non trascurabile, notazione: il sistema posto in essere da Padre
Marcolini comprendeva tutto il processo produttivo edilizio, “chiavi in mano”,
escludendo però le sistemazioni del verde privato (giardinetto, orticello, frutteto od altro) annesso all'edificio; si ipotizzava, cioè, che il socio e la sua famiglia
non possedessero, di regola, le abilità professionali per costruire la casa a regola
d’arte, e che pertanto fosse indispensabile l’opera degli specialisti; il discorso del
verde privato, invece era diverso essendo ben più ridotta la specializzazione
necessaria per attrezzarlo e gestirlo direttamente ed essendo questa anche occa-
110
Roberto Busi
L’opera di costruttore della città di Padre Marcolini
sione di espressione della propria individualità; il personale coinvolgimento in
merito del socio e della sua famiglia era pertanto una ulteriore e particolarmente preziosa occasione per far sì che la casa fosse veramente sentita come propria
dai proprietari.
E pure: tra le attività che piacevolmente – ed utilmente – hanno occupato questi miei anni, quella di consigliere d’amministrazione della Triennale di Milano ha
il pregio di avermi proposto un continuo e sistematico confronto anche con
esperienze dell’urbanistica e dell’architettura complementari rispetto alle ricerche che conduco direttamente in Brescia.
Stimolante è stata, per esempio, la presa d’atto dei contenuti della mostra del
1995 “Il centro altrove. Periferie e nuove centralità” (che mi era allora sfuggita
per altri impegni) tramite il relativo catalogo pubblicato da Electa.
La situazione di Milano vi è criticamente confrontata con quella di Barcellona,
Berlino, Buenos Aires e New York: ne esce un quadro ove, alla desolante realtà
dei fatti, è contrapposta la speranza del progetto: la indifferenziata tipologia della
periferia può, insomma, essere recuperata da interventi che abbiano l’obiettivo
di crearvi un adeguato effetto diffuso di centralità urbana.
Questi pure sono esattamente gli obiettivi progettuali che, direttamente, ho avuto
recentemente modo di verificare essere a tuttora attuali in uno stimolante confronto scientifico alla Columbia University circa gli strumenti per il recupero delle
periferie del nord-est degli Stati Uniti ed in particolare di quella di New York.
L’attenzione a questi temi sembra a molti indizio di innovazione nella disciplina;
ma, forse, non è così: io ricordo, ad esempio, che oltre trent’anni fa da studente
di ingegneria civile sentivo, sui banchi del Politecnico di Milano, il mio maestro
Vincenzo Columbo che, richiamandoci fra l’altro l’insegnamento del suo maestro Giovanni Muzio (ed arriviamo così agli anni ’30), indicava nel “quartiere” il
modello insediativo (derivante dall’urbanistica storica) cui attenersi anche nella
realizzazione della città nuova quale generatore dell’effetto di diffusione della
centralità urbana.
Nulla di nuovo, allora, sotto il sole? Temo proprio sia così: l’insegnamento dei
grandi maestri è troppo spesso disatteso (per snobismo dai contemporanei e per
ignoranza da chi viene poi).
Ed ulteriormente: alcuni anni or sono ho assistito in Bologna al convegno su “Il
tempo della qualità” all’interno delle manifestazioni del SAIE 99.
Particolarmente accattivante è stata per me la circostanziata illustrazione, fatta in
tempi opportunamente ampi da colleghi olandesi, del caso di Bijlmermeer.
Si tratta di un satellite di Amsterdam realizzato tra il ’66 ed il ’75: edifici di abitazione, tutti di nove piani (sette utili più due di cantine) ad asse spezzato per creare forme composite prevalentemente di tipo semiesagonale, si estendono ininterrottamente ognuno per lunghezze anche dell’ordine di un chilometro (sic!); tra un
edificio e l’altro spazi a verde pubblico con dimensioni dell’ordine del centinaio di
metri (sic!); i centri commerciali ed i servizi sociali sono (naturalmente!) ben separati fisicamente dalle abitazioni; gli spazi per la viabilità – su ferro e su gomma –
sono (naturalmente!) ben separati fisicamente da quelli per la pedonalità.
Come meravigliarsi che gli oltre 12.000 alloggi ivi realizzati come edilizia popolare siano stati nei fatti pressoché subito rifiutati dalla quasi totalità degli assegnatari repulsi dal mix di congestione (negli edifici) e di “nulla” (fuori dagli edifici)?
111
n.5 / 2002
Come meravigliarsi che Bijlmermeer sia stato, nei fatti, un ghetto di prima accoglienza per immigrati, da essi abbandonato appena possibile?
La speranza è ora in un interessante progetto, in corso di attuazione dal 1991, di
cui si prevede la completa attuazione nel 2007: il recupero sta avvenendo tramite la (meritata!) demolizione di oltre il 30% dei volumi edilizi negli edifici multipiano, con lo scopo innanzitutto di rompere la continuità in lunghezza, e la realizzazione del doppio circa del volume edilizio demolito in edifici, come nella
tradizione olandese, bassi e – per lo più – unifamigliari, col verde privato del
caso; anche il commercio, i servizi sociali e gli spazi della mobilità recupereranno i moduli della tradizione olandese. Per inciso ricordiamo qui che proprio alla
migliore cultura urbanistica olandese, operando nell’alveo della tradizione, è da
ascrivere il woonerf consistente, come noto, nello spazio pubblico urbano
opportunamente attrezzato per l’uso misto di pedoni e veicoli, nel quale la commistione avviene però garantendo il primato d’uso da parte del pedone e consentendone un elevatissimo livello di sicurezza.
A Bijlmermeer si opera, insomma, tendendo a recuperare le storture della situazione originaria (frutto di obiettivi collettivistici e di tecniche iperrazionaliste)
portandola verso assetti di tipo tradizionale.
I risultati finora raggiunti risultano del tutto positivi, stante la elevata domanda di
insediamento e la successiva manifestazione di soddisfazione degli abitanti.
E ciò è molto incoraggiante anche per quanti, tra noi, hanno a cuore il recupero
di tante storture urbanistiche, perché dimostra che, in merito, si può fare.
Con riferimento a quanto prima detto, abbiamo ora elementi per meglio considerare, alla luce anche dei decenni passati, l’opera di Padre Marcolini.
Ebbene, nei villaggi da lui realizzati, ci troviamo di fronte da sempre a comunità
sane e vivaci, con un forte senso di appartenenza che genera empatia verso il
luogo fisico ove da tempo tanto bene si vive e dove, addirittura, molti sono nati
e felicemente cresciuti. Chi – magari al momento del matrimonio – deve lasciare il villaggio lo fa a malincuore, ripromettendosi di tornarvi; cosa, peraltro, non
facile perché chi già vi abita lo considera una fortuna, e difficilmente (e solo per
eventi eccezionali) prende in considerazione l’eventualità di trasferirsi lasciando
così libero l’alloggio.
Tra tutti gli indicatori quello che, con assoluta sinteticità e massima efficacia,
dimostra quanto sopra affermato, è il sempre più elevato valore economico degli
alloggi nei villaggi rispetto altre situazioni urbanistiche bresciane.
È così dimostrato, in barba ai detrattori di allora (e di sempre), che Marcolini vide
giusto quando, rifiutando le mode di certo collettivismo, seppe concepire originalmente un modello insediativo che si è manifestato idoneo, nel tempo, a contribuire all’armonica crescita ed alla felicità di quanti ivi insediati; Marcolini,
insomma, seppe trarre dall’osservazione delle più riuscite esperienze mondiali in
materia di edilizia economica e popolare, oltre che dall’umile, ma feconda, attenzione alla domanda dell’utenza ed alla sua storia gli spunti per una tipologia
urbanistica che ha saputo felicemente innovare la tecnica in materia pur operando nel solco della tradizione.
I villaggi consentono infatti, fra l’altro, di ottenere un elevato livello di diffusione dell’effetto di centralità urbana fuori dal centro storico; e tale effetto si è manifestato
con continuità dalla loro costruzione ed a tuttora, e sempre meglio, si manifesta.
112
Roberto Busi
L’opera di costruttore della città di Padre Marcolini
Alcune considerazioni a corollario di quanto sopra detto possono recare un ulteriore contributo alla materia. Innanzitutto: sappiamo che il Padre dichiarava
esplicitamente di avere attenzione solo alle esigenze del presente, e non a quelle del futuro; e probabilmente era proprio così, stante anche e soprattutto la primarietà dell’obiettivo di contenere i costi. Ma i brillanti risultati che noi ora
godiamo ci dimostrano che fare della buona (ma proprio buona!) urbanistica per
l’ “oggi” è ottima cosa anche per il “domani”.
L’obiettivo di far fronte alla effettiva domanda dell’utenza è condizione necessaria
(e spesso, come nel caso dei villaggi, sufficiente) per ottenere risultati soddisfacenti quando non addirittura, come seppe fare Marcolini, di ottima qualità. Ma
attenzione: bisogna essere in merito eccellenti maieuti; lo è stato, senz’altro,
Marcolini quando capì che la gente – la sua gente! – si riconosceva, in effetti, in un
modello urbanistico di tipo semirurale (in continuità, forse, con i luoghi di provenienza per i più, prima dell’inurbamento) e non nel casermone che la retorica di
allora (ed in certa misura anche in quella di oggi) predica per certa “socialità”.
Nella tradizione della nostra popolazione, forte è la sensibilità per il verde privato; è questo, infatti, il luogo ove la famiglia trova una qualificata ed intima proiezione all’aperto degli spazi conchiusi della casa. Ed è anche il luogo, spesso, ove
si può realizzare il tanto amato orto ed il frutteto, che costituiscono il passatempo preferito degli uomini e la base per una non trascurabile integrazione del reddito famigliare. Per questo il verde privato è sempre tanto ben impiantato e curato. Non è invece nella nostra tradizione il verde pubblico: la comunità, nella
nostra storia, si è infatti sempre riconosciuta negli spazi all’aperto della corte
(per i rapporti di vicinato) e della piazza (per i rapporti paesani e cittadini). E non
a caso, allora, il verde pubblico è, da noi, nei fatti, praticato scarsamente (ben
meno, cioè, di quanto meriterebbe) ed, in genere, mal tenuto. Marcolini, anche
su questi temi e pur rispettando accuratamente tutte le normative vigenti in
materia, seppe vedere giusto!
Abbiamo ancora una volta la riprova che l’attenzione al soddisfacimento delle
esigenze della “famiglia” come nucleo elementare e di base dell’organizzazione
sociale è stato l’elemento fondamentale e qualificante dell’opera di Padre
Marcolini. Tale attenzione non è pertanto “individualismo” (nel senso limitativo
e sterile che certa visione sociale attribuisce al termine) né, peggio, introversione, bensì fine individuazione di un obiettivo essenziale dell’azione urbanistica,
dal Padre perseguita in modo illuminato e coerente nonostante i detrattori.
I villaggi costituiscono ora – e così come sono! – un patrimonio urbanistico e di
alta qualificazione per le città e per i paesi ove sorgono. Certo: il tempo che
passa, e soprattutto la conseguente evoluzione sociale, ne impone una indirizzata evoluzione. Ma può un piano regolatore – soprattutto se (come qualche volta
ahimè accade) è rigido e dirigista – pretendere di operare sui villaggi con gli strumenti consueti dell’urbanistica? Probabilmente no!
Si può, allora, escogitare un sistema di indirizzo specifico per orientare l’evoluzione dei villaggi per la loro specificità e per la conservazione ed addirittura l’incentivazione del ruolo che hanno avuto ed hanno nelle città e nei paesi? Si può, insomma, definire un corretto abaco degli interventi urbanistico-edilizi nei villaggi?
È una sfida che, credo, meriti di essere raccolta.
Ed infine: si reputa significativo riportare qui di seguito alcune “espressioni chia-
113
n.5 / 2002
ve” la cui individuazione è frutto di riunioni seminariali in merito all’opera di
Padre Marcolini. I relativi contenuti, tra di loro complementari, sembrano un’adatta conclusione a questo articolo:
- “famiglia, casa, lavoro”: un trinomio che unisce indissolubilmente, in rapporto di causa ed effetto, valori e cose; è quasi la sacralizzazione di un imperativo
laico o, per converso, la laicizzazione di fondamenti trascendenti;
- “valore sociale dell’alloggio”: sì, perché c’è la “città della pietra” (urbs) che è
cosa diversa dalla “città dell’uomo” (civitas), ma le due sono strettamente interconnesse; anzi, ognuna ha un indissolubile rapporto di causa/effetto con l’altra;
così l’alloggio ha un “valore” che, lungi dal limitarsi all’aspetto venale, trascende
– e trova la sua reale dimensione - nel sociale;
- “il villaggio <dei giovani sposi>”: sono le famiglie giovani la più solida speranza per il futuro della società; ed il “villaggio” è, per loro, il luogo per antonomasia ove realizzare promesse e concretizzare attese;
- “la proprietà come valore di responsabilità”: la liceità, ed anzi il beneficio,
della proprietà è stata ed è una discriminante ideologica; il tempo ha addirittura
dimostrato che la proprietà è stata ed è fattore insostituibile di riscatto e di crescita sociale;
- “comunità come atteggiamento”: l’etimo del vocabolo comunità (cum munus)
toglie ogni necessità di spiegazione e di ulteriori argomentazioni in merito a
questa di per sé già del tutto significativa espressione;
- “ concepire bene le espansioni è strumento essenziale per salvare il centro storico”: la città è cosa complessa, e la buona urbanistica deve, fondamentalmente,
comprendere la complessità ed operare con approccio organico sulla città, nel
suo insieme, e sul territorio; il corretto assetto delle periferie è, pertanto, condizione necessaria per il corretto assetto della città tutta, ed in particolare per la
conservazione del centro storico;
- “dare ideali”: non sempre è fattibile, mai è facile; ma, se vi si riesce, è possibile ottenere grandi cose;
- “ricerca storica di prospettiva”: l’obiettivo nostro era nella natura stessa del
tema: conoscere per riconoscere (i meriti) e per fare meglio; far autocostruzione (di cui l’opera di Padre Marcolini rappresenta, nella specificità, un modello
alto) da un lato ha veramente “radici profonde”, dall’altro manifesta, ad ogni
verifica, l’assoluta “attualità del tema”;
- “riconoscersi ed essere riconosciuti nello spazio urbano”: è questo un obiettivo elevato dell’urbanistica; indicatore per eccellenza della qualità urbana è,
infatti, la riconoscibilità individuale e sociale nell’ambiente urbano; l’autocostruzione – sia quella storica (che percepiamo nella città antica), sia quella attuale (e
i villaggi di Padre Marcolini sono esempi significativi in merito) – è notoriamente un fattore di grande efficacia per il conseguimento di tale obiettivo;
- “autocostruzione dello spazio pubblico”: la locuzione, utopica se presa alla lettera, richiama all’imperativo di aver presente le esigenze della gente anche nella
strutturazione degli spazi pubblici quasi, paradossalmente, imparando dall’autocostruzione privata;
- “urbanistica della piccola e media dimensione”: sono queste le scale nelle
quali si consegue – quando si consegue – la qualità urbana; e l’autocostruzione
(in particolare nell’interpretazione marcoliniana) è tra le forme significative per
114
Roberto Busi
L’opera di costruttore della città di Padre Marcolini
operare bene a tali scale e per tendere a conseguire la qualità;
- “dar forme al rapporto tra pubblico e privato”: è un altro tra i temi topici dell’urbanistica quello del rapporto tra pubblico e privato; se, tradizionalmente, si è
operato privilegiando (peraltro, di principio, non senza ragione) il pubblico e
sulle sue esigenze conformando il privato, la valorizzazione dell’autocostruzione
potrebbe costituire l’occasione per la scommessa sull’inversione – virtuosa – di
tendenza; Padre Marcolini, che operò in un contesto culturale di autocostruzione ma nel rispetto assoluto, sostanziale prima che formale, di leggi e regolamenti
potrebbe rappresentare l’antesignano di tale virtuoso modo di fare la città;
- “Marcolini antesignano del principio di sussidiarietà nell’urbanistica”: credo
che, in effetti, sia proprio così; il termine “sussidiarietà” è entrato di moda in questi ultimi anni nell’urbanistica con accezioni di significato limitative od addirittura sbagliate; se ne riempiono la bocca amministratori, spesso imbelli nell’urbanistica e propensi – per interesse o per natura – a far male, che l’interpretano
riduttivamente come “si faccia ognuno i fatti suoi senza che altri si arrischi a controllarlo”; evidentemente non può essere così: il concetto di sussidiarietà deriva
infatti, come noto, dalla dottrina sociale di Antonio Rosmini e si può sintetizzare
in modo sintetico ma non banale con una espressione del tipo ”non si occupi il
livello organizzativo gerarchicamente superiore di quanto può propriamente
essere risolto nel livello organizzativo inferiore”; e fu con un assunto di tale levatura che il prete Rosmini definì, ad esempio, la tutela della famiglia, per quanto
proprio della famiglia, dalle possibili soperchierie dello Stato; a tale concetto,
anche senza nominarlo, si sono rifatti poi da sempre i buoni urbanisti, nel definire, ad esempio, le competenze reali tra i diversi livelli amministrativi ed i contenuti propri dei piani urbanistici ai vari livelli; ed a tale concetto, senza nominarlo, si è rifatto il prete Marcolini nel suo agire; e sempre all’applicazione del
concetto di sussidiarietà è, comunque, riconducibile l‘autocostruzione dovunque applicata;
- “attenzione alle peculiarità sociali”: è anche questa un’altra buona norma per
far bene l’urbanistica; ogni soluzione, infatti, ha diversi esiti – a pari altre condizioni – a seconda del contesto sociale d’applicazione potendo così oscillare,
addirittura, tra il pieno successo ed il fiasco assoluto; l’autocostruzione, essendo
per sua natura espressione diretta della società che l’ha prodotta, è destinata, a
parte altri possibili problemi, al successo pieno; proprio perché ascrivibile, in
certa (ma ampia) misura, all’autocostruzione, l’opera di Padre Marcolini ha avuto
– ed ha – successo;
- “le periferie sono un patrimonio dell’umanità”: è questo un concetto ancora
ostico alla cultura, e non soltanto a quella urbanistica; a tuttora, infatti, le periferie sono riguardate, in genere, con atteggiamento di distacco quando non addirittura di denigrazione: sono, insomma, un “non valore”; ma qualche prima significativa (e talora addirittura autorevole) attenzione si manifesta per questa primaria tematica che – ne sono convinto! – si imporrà come centrale nel prossimo futuro;
- “la norma non sia repressiva dell’innovazione e della creatività della progettazione, ma sia solo strumento di controllo dalla degenerazione”: credo
che con questa articolata formulazione (ma, probabilmente, non sarebbe stato
possibile trovarne un’altra più sintetica che ne conservasse compiutamente il
115
n.5 / 2002
significato) si sia riusciti ad esprimere in modo chiaro ed inequivocabile potenzialità e limiti della norma ed il suo rapporto col progetto; Marcolini ha saputo,
nel rispetto assoluto della norma, privilegiare il momento progettuale conseguendo risultati originali; e l’autocostruzione è, per eccellenza, il trionfo del progetto (anche se, per lo più, spontaneo): ma la norma – adeguatamente formulata! – è comunque indispensabile per preservare dalla relativa possibile degenerazione.
Ognuna di queste espressioni costituisce, di per sé, un assunto tematico significativo. Qui ho inteso esprimerle in sequenza per evidenziarne da un lato le interconnessioni e dall’altro lato per indicare la possibile edificazione, derivante dall’insieme delle espressioni stesse, di ulteriori complesse accezioni di quanto in
questa sede esposto ed argomentato.
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116
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_
Roberto Busi è professore ordinario di Tecnica e pianificazione urbanistica
nell’Università degli Studi di Brescia (Facoltà di ingegneria) dove dirige il
Dipartimento di Ingegneria civile e dove ha fondato e dirige il Centro Studi Città
Amica (CeSCAm). È stato anche consigliere d’amministrazione della Triennale di
Milano. Ha curato (Busi 2000b) la pubblicazione di un volume sull’opera di Padre
Marcolini
[email protected]
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Stefano Solari
Capitale sociale ed economia
Il sestante
Nel corso degli anni ’90 s’è assistito al diffondersi del concetto di capitale sociale (CS). Questa nozione ha destato maggiore entusiasmo tra gli studiosi che si
collocano a metà strada tra economia e sociologia. Non ha invece trovato, con
qualche eccezione, un consenso molto ampio tra gli economisti. Si è tuttavia
imposta come variabile fondamentale per i programmi di sviluppo economico ed
è stata adottata dalla Banca Mondiale come simbolo delle nuove politiche di riduzione della povertà. Anche l’OCSE ha contribuito a diffondere l’interesse per tale
variabile dedicandole uno studio (Grootaert 1998; Healy e Cote 2001).
La prima diffusione di questo concetto è dovuta a sociologi che hanno adottato
l’approccio dell’individualismo metodologico e della scelta razionale nella spiegazione dei fenomeni sociali (Coleman 1988). Essi hanno reintrodotto con questa variabile un certo numero di elementi capaci di riconciliare l’individualismo
con la natura collettiva ed interattiva della società. Quest’operazione, anche se
epistemologicamente imprecisa, ha tuttavia avuto l’effetto di dare una svolta
pragmatica all’analisi dei fenomeni sociali. Si è quindi di fatto posto in primo
piano “ciò che effettivamente conta” rispetto alla coerenza teorica ed al rigore
formale della teorizzazione. É probabilmente questo fatto che ha generato il successo dell’idea di CS e che ha catturato le simpatie dei sociologi economici. Sono
rimasti invece relativamente freddi gli economisti, alcuni perché non convinti
dall’utilizzo del concetto di capitale, altri perché impegnati in progetti alternativi di inclusione del sociale nell’economico, la maggioranza in quanto poco propensa a lanciarsi in un terreno scivoloso in cui la coerenza teorica è rimasta volutamente in secondo piano.
L’incerta definizione di capitale sociale
Come definizione generale di capitale sociale (CS) adottiamo quella riportata sul
sito della Banca Mondiale. Secondo quest’organismo, il concetto di CS si riferisce "alle istituzioni, relazioni e norme che danno forma alla qualità ed alla quantità delle interazioni di una società". Esso rende possibile l’azione collettiva ed è
sempre più evidente che la coesione sociale sia una variabile critica per la prosperità e per la sostenibilità dello sviluppo. Infine, si precisa che "il CS non è semplicemente la somma delle istituzioni che caratterizzano la società – è il collante
che le tiene insieme". Questa definizione è il frutto di mediazioni e compromessi teorici per sintetizzare un contenuto pragmaticamente valido a prescindere
dalle diverse prospettive teoriche dei diversi studiosi.
L’introduzione del concetto di CS in realtà, come vedremo in seguito, non rap119
n.4 / 2002
1
E’ perlomeno strano
che dei sociologi racchiudano in un “residuo” della scelta
razionale ciò che
invece li distingue dall’economista.
2
Sulle differenze tra i
vari tipi di fiducia e la
confidence si veda
Solari (2002).
Woolcock (1998) e Narayan (1999) che
approfondiscono questi temi inserendoli
nelle relazioni Stato –
economia.
3
I suoi studi riguardano generalmente
l’azione collettiva per
programmi d’investimento in irrigazione.
120
presenta un’invenzione originale. É invece originale la collocazione epistemologica che si vuole assegnare al CS rispetto alle opere dell’istituzionalismo o della
sociologia economica che sino alla fine degli anni ’80 aveva avuto il monopolio
in questo campo (Granovetter 1985). Infatti, Coleman, che ha definito il CS
come "l’abilità della gente di lavorare assieme per scopi comuni in gruppi ed
organizzazioni" (Coleman 1988, 95), sviluppa – non diversamente da Bourdieu
– una teorizzazione che consente di introdurre la struttura sociale nel paradigma della scelta razionale in modo sintetico1. Egli vuole quindi re-inserire l’uomo
che agisce in modo interessato in un contesto che rappresenta tutti gli elementi di socialità che l’economia neoclassica aveva depurato dalla sua teorizzazione.
Tuttavia, la storia del CS negli anni Novanta non segue necessariamente la via
dell’individualismo metodologico. Al contrario, si assiste ad un misto di empirismo basato su radicali approssimazioni teoriche e di operazioni di “riduzione”
teorica su due concetti di base: le reti e la fiducia.
Fanno senz’altro capo a queste due tendenze le altre due opere fondamentali di
questa letteratura: Putnam (et al. 1993) e Fukuyama (1995). Entrambi convergono sull’importanza della variabile “fiducia” nel determinare le sorti dell’interazione sociale. Questa “fiducia” si materializza o viene promossa da reti sociali in
Putnam, mentre Fukuyama (1995) sostiene che l’elemento fondamentale di sviluppo sociale ed economico è l’ampliarsi della fiducia da sfere più limitate e specifiche verso ambiti più ampi e generalizzati (tema ripreso da Pizzorno 1999).
Seguendo questa linea, ma approfondendo le distinzioni, Knack e Keefer (1997)
sostengono che la fiducia interpersonale può essere un sostituto della confidence (fiducia istituzionale) nei mercati formali2.
Questa visione unificante, attraverso il descritto processo di riduzione non ottiene il consenso generale. Infatti, come si evidenzia nella rassegna di Knack (1999)
e come viene riportato anche nel sito relativo ai programmi di riduzione della
povertà della Banca Mondiale, non tutte le forme di associazione hanno effetti
positivi, sia per quanto riguarda l’efficienza economica sia per il più generale funzionamento della società. Trigilia (1999) cita la Mafia come esempio di CS, ed esiste un’ampia serie di studi, tra cui citiamo quelli di Olson (1971; 1988), in cui la
capacità di costituire reti sociali di tipo verticale (in genere di connessione con
la politica) viene vista come un fattore negativo per l’economia e per l’organizzazione democratica. Serageldin e Grootaert (1999) tentano una sintesi tenendo
conto del fatto che chi ha studiato esperienze locali di organizzazione su reti
orizzontali – come la Ostrom (1994)3, Putnam e gli stessi esperti dei programmi
di riduzione della povertà della Banca Mondiale – tende a vedere il CS come un
elemento positivo essenziale nel superare situazioni tipo “dilemma del prigioniero”, mentre chi ha studiato l’azione collettiva verticale vede la capacità di collaborazione come pericolosa. Essi rilevano l’esigenza di distinguere tra la dimensione micro e macro, tra gli elementi formali ed informali e tra le reti orizzontali (buone) e verticali (cattive). Questa triplice distinzione si rivela necessaria in
quanto la sola considerazione dell’auto-organizzazione orizzontale lascia aperto
il problema delle relazioni con l’amministrazione pubblica e le istituzioni politiche che sono importanti per l’attività della Banca (meglio analizzate in Narayan
1999, Krishna 2001, Evans 1996 e Woolcock 1998).
Al fine di dare maggiore spessore a questo concetto e permettergli di analizzare
Stefano Solari
Capitale sociale ed economia
diversi fenomeni sociali è stato proposto di scomporlo in una dimensione di
bonding (di gruppo), di bridging (aprire i legami nello spazio) e di linking
(apertura tra diversi strati sociali e gruppi) (Healy e Cote 2001). Un raffinamento teorico4 ancor più interessante per gli economisti è quello proposto da
Krishna (1999) che propone di scomporre il concetto di CS nei suoi elementi di
capitale istituzionale e cioè gli aspetti strutturali che facilitano le interazioni, dal
capitale relazionale “motivazionale” – valori, attitudini, norme e credenze – che
predispongono alla cooperazione. Tale focalizzazione sui valori viene condivisa
da Cartocci (2000) che ritiene essere quella motivazionale la dimensione più corretta sulla quale impostare l’analisi.
4
Il dibattito sul CS ha
trovato un contenitore
nel Journal of SocioEconomics tra il 2000
ed il 2001.
Il capitale sociale e gli economisti
La maggior parte degli economisti condivide l’importanza di elementi “sociali”
per il funzionamento dell’economia ma, nonostante l’invenzione del CS sia
opera di una prospettiva razionale-individualistica, manifesta delle perplessità
sulla validità teorica della nozione.
La prima obiezione è quella che esso comprende elementi eterogenei e non
aggregabili (Dasgupta 1999; Paldam 2000; Van Dijck 1997). Dasgupta afferma che
il CS incoraggia ad amalgamare credenze, regole di comportamento, assets capitali e reti interpersonali senza dire come sono legati. Paldam (et al. 1999; 2000)
sostiene che si possa effettuare una prima separazione tra gli elementi relativi
alla fiducia e alla cooperazione da quelli relativi alle reti di relazioni sociali.
Entrambe le famiglie di elementi sono state inquadrate in modelli economici, la
prima attraverso gli studi sulle scelte strategiche (teoria dei giochi), la seconda
ha trovato sin dagli anni ’50 una formalizzazione in sociologia e viene oggi spesso trattata in termini quantitativi misurando la densità relativa e la forma delle
reti. Tuttavia, la stessa categoria di “fiducia e cooperazione” è problematica da
analizzare in modo aggregato in quanto non è chiaro se questi fattori debbano
entrare in una funzione di produzione aggregata come variabili indipendenti – e
quindi come tali vanno misurate – oppure se siano dei fattori che riducono i
costi di transazione o che facilitano il monitoraggio e l’impegno e che quindi
possono essere trattati come parametri. Paldam suggerisce una lunga serie di
distinzioni utili a separare meglio gli elementi in oggetto per verificare econometricamente la loro importanza. Più scettico sulla possibilità di misurazione si
rivela Dasgupta (1999) che sostiene che gli elementi inclusi nel CS sono importanti per la performance economica ma problematici da studiare. Anch’egli elenca ed analizza una lunga serie di elementi inclusi nelle varie modellizzazioni economiche che comprendono aspetti di CS (fiducia ed effetto reputazione, problema della cooperazione e dell’enforcement spontaneo, la funzione delle
norme sociali, ecc.). Il problema di questo concetto è quindi che molti dei suoi
aspetti sono già inclusi in modo più dettagliato sotto diverse forme in vari modelli dell’economia e quindi non v’è una gran utilità nel riproporre questo concetto
in modo aggregato con l’etichetta di capitale, se non come generico indicatore
di una classe di elementi (in parte trascurati nei libri di testo di economia ma non
certo dagli studi più avanzati).
Ad ogni modo, chiarire la natura del CS ai diversi livelli teorici in cui viene utiliz-
121
n.5 / 2002
5
Riteniamo che la
proporzione di interazioni sociali non
intenzionali sia infatti
minima e che comunque i risvolti non
siano accidentali.
122
zato ha una particolare rilevanza e da questo punto di vista è fondamentale la sua
definizione di capitale e la sua natura di bene economico. Su di essa gli economisti si sono divisi.
Buchanan (1975), che adotta una prospettiva di utilitarismo delle regole, aveva
da tempo indicato nell’insieme delle regole di una società una forma di capitale.
Tuttavia, Arrow e Solow si esprimono in modo negativo. Arrow (1999) sostiene
che sarebbe meglio abbandonare la metafora del capitale. Per essere tale implicherebbe un’estensione nel tempo, un deliberato sacrificio presente per aumentare i benefici futuri ed un’alienabilità che non sono propri di questi fenomeni.
Infatti si tratta di relazioni per lo più costituite per ragioni diverse dal loro valore.
Solow (1999) insiste sul fatto che non c’è deprezzamento, e nessun tasso di profitto e che quindi quello di capitale non è il concetto giusto per ciò che è meglio
considerare “patterns of behavior”. Il tentativo di individuare un suo impatto economico viene definito un casual empiricism, che potremmo tradurre “empirismo a casaccio”. Non è d’accordo con loro Stiglitz (1999) che afferma che se il CS
ha un costo opportuntità (quando per costituire una relazione sociale devo rinunciare a qualche cosa d’altro) allora è capitale. Esso è inoltre mezzo di produzione
in quanto componente fondamentale dei processi economici.
L’unica concezione di CS aggregato in cui esso sia chiaramente inquadrabile
come capitale è quella di Irina Peaucelle (2002). Infatti, utilizzando un’interpretazione economica di derivazione marxiana, declinata però sulle linee della scuola russa di psicologia socio-storica di inizio ‘900 e dell’antroponomia, sostiene
che la salute della popolazione è un capitale con valore economico. La salute
contribuisce direttamente alla produzione di ricchezza influendo sulle potenzialità di lavoro della popolazione ed è inoltre frutto di investimento – il sistema
sanitario ne è il risultato –, si consuma ed è in relazione di complementarità con
gli altri fattori della produzione aggregata.
Paldam e Svendsen (1999, 10) sostengono che il CS si accumula e si consuma
come ogni capitale e può essere considerato un fattore di produzione. Il punto
debole è come esso si produce. Il capitale fisico è frutto di investimenti piuttosto tangibili anche se può capitare che ci sia una linea di demarcazione incerta
tra consumo ed investimento. Anche il capitale umano è più direttamente verificabile nelle attività di investimento che lo producono (l’istruzione). Il CS invece
è difficilmente prodotto in modo deliberato ma è piuttosto un sottoprodotto di
altre attività, anche se non si può neppure definire in generale una “esternalità”5.
É interessante notare che anche Putnam (et al. 1993) non sostiene l’analogia con
il capitale in quanto afferma che è il risultato di processi sociali secolari e quindi
i flussi di investimento sono negligibili rispetto all’ammontare dello stock.
Questo fatto ha spinto Warner (2001) a domandarsi perché debba considerarsi
capitale questo CS che non si può accumulare dove manca. Questo fa sì che sia
meglio trattare il CS "come una variabile esogena di sfondo, come il linguaggio
ed il clima" (Paldam et al. 1999, 10).
L’accumulabilità rimane tuttavia un punto controverso e la maggior parte dei
sociologi ritiene che almeno alcune componenti del CS si costruiscano rapidamente con l’uso. Tuttavia, non è certo il concetto di capitale (stock) a permettere di cogliere i più evidenti fenomeni di CS descritti nella realtà. Infatti, tutti gli
elementi che hanno a che fare con la cognizione umana si caratterizzano per
Stefano Solari
Capitale sociale ed economia
dinamiche di auto-rinforzo o feed-back positivo (Witt 2002). Inoltre, i fenomeni
legati al CS sono spesso meglio comprensibili dal punto di vista della loro produzione (Gui 2000), studiabili in modo processuale e quindi longitudinale rispetto allo scorrere del tempo. Le caratteristiche fondamentali degli elementi del CS
come il fatto che si rafforzano con l’uso anziché consumarsi, oppure che devono essere condivisi o raggiungere masse critiche, hanno richiesto spesso di essere trascurate o neutralizzate in teorizzazioni sincroniche. Esse sono invece più
limpidamente interpretabili attraverso modelli di fequency-dependency6. Se questa è la natura della maggior parte degli elementi del CS, allora l’uso del termine
capitale (che ha natura sincronica) non è del tutto appropriato e va inteso solo
in senso metaforico.
Un problema del tutto particolare relativamente alla tradizione di studi economici è rappresentato dall’utilizzo del concetto di “fiducia”, che gode di una crescente attenzione da parte degli economisti. Ad esempio, Pelligra (2002) sviluppa un quadro teorico per studiare la “rispondenza fiduciaria” nella scelta in contesti strategici. Si verifica anche sperimentalmente che quando gli individui percepiscono il contesto come “cooperativo” il tasso di cooperazione è elevato e le
persone sono propense ad investire di fiducia il prossimo facendo scattare in
quest’ultimo una sorta d’obbligo morale ad essere affidabili (Pelligra 2002).
Quando ci si riferisce ad universi più ampi, il concetto di fiducia è un’espressione di un fenomeno presente in situazioni d’incertezza, cioè in caso d’inapplicabilità di forme sostanziali di razionalità. L’incertezza, nella sua dimensione radicale (o parametrica) rappresenta il fulcro di tutta l’analisi keynesiana e post-keynesiana. Parlare di fiducia in economia significa ribaltare le ipotesi operative standard adottando un quadro teorico particolare. La variabile fiducia in studi di
aggregati assume quindi significato solo se il contesto teorico è ben specificato e
se la caratterizziamo in modo non strumentale distinguendola da un semplice
fattore di compensazione dell’incertezza. Va comunque sottolineato il fatto che
“rivoltare” il problema contribuisce a mettere in luce delle particolarità prima
inesplorate (come differenza tra la dimensione personale e istituzionale della
fiducia, cfr. Solari 2002).
Stern (1991) ha introdotto il termine “infrastruttura sociale” per indicare i legami sociali ed ha sottolineato il fatto che essi hanno un ruolo nei processi economici definendo "il modo in cui gli affari vengono svolti". Include “nell’infrastruttura sociale” anche l’onestà, la definizione ed i modi di tutela dei diritti di proprietà, il funzionamento della burocrazia. Si tratta di un tentativo di collegare il
CS con la teoria delle istituzioni. Anche da questo lato però esistono delle difficoltà. É vero che nel CS si trovano in larga maggioranza delle istituzioni informali
con prevalente dimensione cognitiva: conoscenze condivise, sistemi di significato e norme di comportamento, regole ed aspettative collettive riguardanti forme
d’interazione che rendono possibile la comunicazione e minimizzano lo scambio
di informazioni riducendo l’incertezza dell’azione. Tuttavia, se interpretiamo il
CS come istituzioni economiche sorgono altri problemi.
Chiamare capitale le istituzioni sociali è meno d’aiuto di quanto si pensi. Le istituzioni si distinguono da altre forme di capitale in quanto guidano l’allocazione
delle risorse (tra cui beni capitali). Quindi sono meglio interpretabili come mec-
6
Tali modelli, resi
famosi dagli studi
sulla luce laser, sono
relativamente semplici e permettono anche
una efficace formalizzazione (Witt 2002).
123
n.5 / 2002
7
Con riferimento a
Granovetter (1985).
124
canismi d’allocazione delle risorse (Dasgupta 2001).
Tale aspetto è più evidente nelle teorizzazioni dello sviluppo locale quali il
distretto industriale (Becattini 2000) ed il milieu innovateur (Camagni 1991)
che hanno alla base proprio il radicamento dell’attività economica nella struttura sociale. Nel primo caso, Becattini parla di “ispessimento localizzato” per sviluppare il concetto di industrial atmosphere marschalliana ed il ruolo delle istituzioni informali nel determinare la capacità di coordinamento locale di una moltitudine di piccole imprese. Nel secondo caso è il concetto di “prossimità”, di
comunione dei codici comunicativi, di reti di relazioni anche informali che permettono la diffusione dell’informazione che determinano l’autocontenimento
territoriale e le dinamiche innovative e cumulative dei processi economici.
Alcuni studiosi parlano proprio di capitale sociale territoriale per sottolineare
la stretta relazione con questa dimensione (Gastaldi 2002). Quindi anche in questi casi si parla di embeddedness7 e non di capitale.
Van Dijk (1997) sostiene che da una prospettiva economica si possono dare tre
interpretazioni del CS (e dell’infrastruttura sociale). In primo luogo, un modo di
rendere compatibile il CS con l’approccio economico è quello – seguito originalmente da Bourdieu – di attribuire alle relazioni un’utilità per i soggetti
(Coleman 1988; Snijders 1999; Van Dijk 1997). A questo punto, una rete di relazioni sociali ha per un soggetto un valore strumentale pari a quello delle risorse
estraibili da essa. Questa visione, che funziona solo per le reti, ha però il difetto
di perdere gran parte dei connotati sociali di questo concetto. Soprattutto, ha il
difetto di essere difficilmente aggregabile (van Dijk comunque non resiste alla
tentazione).
In secondo luogo, l’insieme delle regole e leggi di un popolo può essere concepito come un patrimonio. Questa visione è stata proposta da Buchanan (1975) e
Brunner (1987). Anche Coleman, Ostrom, North hanno una visione comparabile. Questa nozione, diversamente dalla prima, ha carattere collettivo. Essa presenta tuttavia il problema dell’assenza di una ragionevole metrica per rappresentare o misurare tale patrimonio.
Infine, anche la capacità organizzativa ha una dimensione economica in quanto
soluzione al problema dell’azione collettiva. Questa prospettiva è stata esplicitata in Coleman (1990) ed è quella più vicina allo spirito comunemente inteso del
CS. Le organizzazioni hanno un aspetto di capitale ed esso viene anche valorizzato (avviamento). Più difficile si rivela valorizzare la propensione alla cooperazione ed alla lealtà senza far dipendere il risultato dal contesto.
VanDijk (1997) considera più specificatamente i legami sociali da una prospettiva micro economica.
1. I legami sociali hanno un’influenza sugli obiettivi individuali, e quindi generano un’interdipendenza dell’utilità tra i soggetti.
2. Essi possono dare luogo ad una mutua influenza tra soggetti sul piano dell’interdipendenza selettiva delle preferenze.
3. I legami influenzano le aspettative sui comportamenti altrui (invece che sugli
obiettivi, in caso di legami meno stretti).
4. I legami sono delle opportunità, dei canali di comunicazione e quindi determinano le forme dell’informazione.
Essi hanno due tipi di ricadute sul reddito. In primo luogo contribuiscono alla
Stefano Solari
Capitale sociale ed economia
produzione di beni pubblici locali. Se i beni pubblici creati dai legami sociali sono
input di produzione, allora l’output e la crescita economica ne sono condizionati (visione della Banca Mondiale). Sono infatti dei fattori che influenzano la produttività ed i costi di produzione delle imprese e quindi entrano direttamente o
indirettamente nella funzione di produzione. In secondo luogo, se essi riducono
i costi di transazione e contribuiscono alla regolazione delle interazioni sociali,
con particolare riguardo alla definizione e/o tutela dei diritti di proprietà, allora
rappresentano una riduzione di costo delle istituzioni esterne (modello distretto industriale). Non va tuttavia dimenticato che essi producono una certa inerzia
strutturale e quindi una rigidità di adattamento ai cambiamenti delle altre variabili economiche e di conseguenza possono ridurre l’efficienza dinamica8.
Van Dijk non approfondisce l’aspetto della produzione dei legami sociali che
invece viene studiato dall’economia delle relazioni interpersonali (Gui 1996;
2000). Questa costruzione teorica vede nei “beni relazionali” una micro componente del CS9. L’idea fondamentale dell’approccio alle relazioni interpersonali è
che ogni interazione possa essere vista come un processo di produzione in cui
l’incontro di più individui ha come risultato vari tipi di output tra cui alcuni di
tipo intangibile di natura relazionale, che possono essere sia consumati che
oggetto di accumulazione. Un’altra categoria di studi, o meglio il settore più
generale a cui lo studio dei beni relazionali appartiene, che considera come centrali elementi appartenenti al CS, è l’economia dell’altruismo (Sugden 1984;
Zamagni 2000).
8
Questione oggi trascurata ma che era al
centro dell’interesse
dell’economia dello
sviluppo prima degli
anni ‘70.
9
Sul concetto di “bene
relazionale” si veda
Uhlaner (1989).
Gli studi empirici
La conseguenza di aver chiamato “capitale” il CS è che sono fioriti i tentativi –
noncuranti delle difficoltà di definizione – di individuare delle proxies di tale
variabile aggregata per verificare come essa influenzi la crescita economica. La
rassegna di Knack (1999) mette in evidenza l’ampia varietà di tentativi di legare
l’andamento economico a variabili culturali, politiche o indicatori del tipo di
organizzazione sociale. Knack e Keefer (1997) sostengono che fiducia e “cooperazione civica” si associano ad una maggiore crescita economica, ma dalle stime
econometriche potrebbe anche essere la crescita a migliorare le istituzioni. Non
v’è invece, contrariamente a Putnam, una relazione con l’attività di associazioni.
Fiducia e cooperazione sono più forti in Paesi in cui le istituzioni proteggono i
diritti di proprietà e i contratti ed in Paesi meno segmentati da divisioni etniche
o di classe (Keefer e Knack 2002). Anche Alesina e La Ferrara (2000) trovano una
relazione positiva tra partecipazione in associazioni e l’omogeneità razziale, etnica e di censo. Zak e Knack (2001) cercano di misurare l’effetto della fiducia su
investimenti e crescita e sull’omogeneità delle società. Per quanto riguarda i
primi, si può verificare una relazione positiva. Il grado di fiducia non cambia nel
tempo e non ha una diversa distribuzione nei diversi paesi, ma la causalità
potrebbe essere inversa, cioè potrebbero essere gli investimenti e la crescita a
produrre fiducia. Due delle tre religioni gerarchiche (cattolica e musulmana)
sono negativamente associate alla fiducia. Ma, a ben guardare, l’indicatore della
fiducia raccolto è fortemente etnocentrico in quanto non tiene conto delle diver-
125
n.5 / 2002
10
Si tratta in genere
di indici tratti dalla
World Values Survey
organizzata da
Ronald Inglehart.
11
Quella di profetizzare il declino è una
tentazione ricorrente,
da Spengler a K.
Polanyi.
se aspettative sociali indotte da diverse culture10.
Questi studi evidenziano l’esistenza di qualche correlazione, tuttavia il dibattito
sul CS si radica più appropriatamente a livelli di descrizione più limitati e specifici meglio trattati nei casi studio.
Putnam, in collaborazione con l’economista Hellywell (1999), ritorna sulle sue
tesi riguardanti la relazione tra capitale sociale e crescita economica in Italia. La
tesi centrale è che il capitale sociale sia la causa del rendimento istituzionale
delle regioni che, a loro volta, contribuiscono allo sviluppo economico. Per
quanto riguarda il CS, essi notano reti più orizzontali al Nord e verticali al Sud.
Quindi verificano un modello di crescita che stima la convergenza tra le regioni
italiane dal 1970, periodo di creazione di tali istituzioni, ai giorni nostri, verificando la divergenza. L’unica cosa che sottolineiamo è che quest’articolo di
Putnam è la conferma di come l’analisi statistica non sia un sostituto alla conoscenza più approfondita dei fenomeni.
Nell’opera Bowling Alone (2000), Putnam propone una visione declinante del CS
nordamericano argomentandola con statistiche relative alle associazioni e con
numerose indagini basate su questionari11. In realtà egli tiene in poca considerazione il mutato contesto tecnologico, delle preferenze e soprattutto la diversa organizzazione della produzione di beni pubblici. Infatti, la produzione di questi ultimi
è stata progressivamente delegata allo Stato o al mercato, istituzionalizzando questo tipo di prestazioni in organizzazioni formali più funzionali al nuovo assetto sociale e produttivo. Non sorprende quindi che l’adesione ad associazioni declini in
numerosi settori e che tutte le trasformazioni tecnologiche e del mondo del lavoro
comportino un aumento di individualismo nel tempo libero. Già Buchanan (1978)
aveva sostenuto che l’aumento di anonimità dovuta all’incremento di popolazione,
alla maggiore mobilità e all’urbanizzazione avrebbe indebolito le regole morali.
Tuttavia, ciò di cui Putnam non riesce a convincerci è la questione epistemologica
qui trattata: l’esigenza o la possibilità di una variabile composita riferita ad aggregati sociali riducibile ad una misura monodimensionale.
In conclusione, sin dagli anni ’50, il tentativo di trovare delle relazioni tra indicatori assimilabili al CS e la performance economica a livello aggregato produce
qualche risultato significativo. Temple e Johnson (1998) parlano di social capability. Tuttavia, non è a questo livello che meglio si intuiscono gli effetti del CS,
né sembra sostanzialmente necessaria la nozione di CS per ottenere questi risultati. Infine, cercare il CS a livelli aggregati può essere contraddittorio se è vero
come sostiene la Ostrom (1995) che esso viene eroso se i gruppi sociali sono
ampi o variabili nella loro composizione.
Difficoltà d’incontro tra studi economici e CS
Da quanto detto, l’economia ha da tempo adottato come oggetto di studio alcuni
aspetti di ciò che viene ormai comunemente chiamato CS. Questo avviene soprattutto a livelli di modellizzazione microeconomica e di economia applicata (sistemi
locali). Vi sono però numerose difficoltà nell’adottare una visione aggregata e
macroscopica del CS. Gli elementi di quest’ultimo, infatti, non possono essere
amalgamati in una visione unitaria, né si riescono ad esprimere in modo del tutto
126
Stefano Solari
Capitale sociale ed economia
intellegibile e coerente con l’una o l’altra delle teorizzazioni eco-nomiche12.
In primo luogo, le difficoltà sopraesposte possono essere ricondotte a questioni
di incompatibilità epistemologiche tra le domande che ci poniamo, le teorie che
utilizziamo ed il tipo di risposte che vorremmo trovare. In secondo luogo, il concetto di CS si propone come apertamente interdisciplinare. Quindi è necessario
capire quanto sia possibile ottenere un’apertura tra diverse discipline nel caso in
cui – come per economia e sociologia – alla base delle singole definizioni vi
siano incompatibilità di fondo. L’economia, infatti, nel corso degli ultimi ottant’anni è andata progressivamente definendosi in base ad un metodo (scelta razionale con aspetto normativo caratterizzante), mentre la sociologia è definita in
base al campo di fenomeni studiato. Vi sono cioè sovrapposizioni nell’ambito dei
fenomeni studiati ma incompatibilità epistemologiche e di focalizzazione.
Per quanto riguarda il primo punto, esiste una difficoltà d’incontro tra l’approccio della scelta razionale microeconomica che cura molto più il livello sintattico
delle teorie rispetto a quello pragmatico e semantico e la domanda di teorizzazione del CS spinta prevalentemente su un livello pragmatico (e con carenze
semantiche).
É direttamente legata al secondo punto la questione se i fenomeni sociali che
rientrano nel e costituiscono il concetto di CS possano essere inclusi in un’ottica di scelta razionale attribuendo loro un costo opportunità. Rimane non del
tutto chiaro – anche agli economisti – se tale interpretazione riesca a cogliere i
fenomeni nel loro aspetto fondamentale oppure se sia viziata a livello di principio. É difficilmente sostenibile che raggruppare un insieme di fattori “non razionali” per introdurli come fattore residuale nel quadro della scelta razionale possa
funzionare. É più corretto razionalizzare gli elementi del CS oppure definire il
self-interest in modo “meno gretto”. Gli studiosi che applicano il metodo della
scelta razionale sono infatti normalmente inclini ad adottare una visione venale
di tale “interesse” mantenendo separati gli elementi psicologici (un disturbo). Si
tratta dell’influenza di una versione oggettivista dell’utilitarismo prevalente nei
paesi anglosassoni e che è divenuta dominante per ragioni che non è opportuno trattare in questa sede.
Non condividiamo invece l’idea, spesso esposta, che all’origine delle difficoltà di
teorizzazione economica del CS vi sia l’impossibilità – o la non volontà – degli
economisti – individualismo metodologico con scelta razionale – di trattare il
vero nucleo dei fenomeni sociali e cioè i valori e gli aspetti motivazionali.
12
Nel senso dell’impianto neoclassico o
di altre visioni come
quella austriaca, postkeynesiana o quant’altro.
Economia, valori e senso della comunità: modelli di spiegazione
I valori non sono estranei alla teorizzazione economica sin dalle sue origini ed
in questo paragrafo si tenterà di mettere in evidenza, guardando all’evoluzione
della disciplina nell’ultimo secolo, come questa linea di studi sia sempre stata
importante, anche se non centrale in quanto per lo più espressione di interessi
teorici “continentali”.
La dimensione dei valori era di fondamentale importanza in economia prima
dell’avvento del marginalismo. Questo è particolarmente vero per la Scuola storica tedesca in cui i concetti di sistema etico e di ordine morale erano degli elementi fondamentali per comprendere la struttura fondamentale dell’economia
127
n.5 / 2002
13
Il metodo di questa
scuola è stato contestato alla fine del
secolo scorso, questo
tuttavia non riguardò
la teorizzazione del
ruolo dei valori.
14
L’imperativo categorico a priori
Kantiano impone di
“agire sempre secondo
principi che si vorrebbe divenissero regola
universale” diviene
quindi razionale assumere un punto di
vista morale universale. Questa logica
impone qundi di fare
ciò che va fatto da
chiunque sia nella
medesima situazione.
15
L’istituzionalismo
classico non è quello
di Williamson, ma
quel filone di studi che
da Commons prosegue
attraverso Galbraith,
Myrdal, Kapp, sino ai
giorni nostri a personaggi come Warren
Samuels e molti altri.
128
(Koslowski 1995)13. Wilhelm Roscher e Karl Knies, in particolare, hanno contribuito alla teorizzazione del senso della comunità che secondo Pirker et al.
(1998, 417) è la base delle istituzioni. É un principio che corregge l’auto-interesse, rappresenta la sintesi tra quest’ultimo e la coscienza riferendosi ad una dimensione collettiva. Il tipo di razionalità che contraddistingue questo principio è detto
kantiano ed è stato più volte compreso negli studi economici per connettere la
spiegazione individualistica e basata sulla scelta razionale con l’esistenza di comportamenti pro-sociali basati su regole14. É proprio in questo ambito che il concetto di valore si coniuga a quello di norma o regola (Sen 1982). Una forma di
razionalità che mette in relazione il livello individuale alle aspettative di comportamento collettivo fa sì che le norme interiorizzate siano grossomodo speculari
alle regole condivise a livello sociale. In sintesi, si tratta di comprendere la dinamica culturale, fenomeno di fondamentale rilievo per gli storici tedeschi e poi
sopravvissuta in economia attraverso l’opera degli istituzionalisti. In particolare,
K. W. Kapp (1985) concepiva la cultura come una struttura che connette attraverso simboli, le persone, i beni, i valori e le istituzioni in un tutto unitario.
Il problema dello studio dei valori non rimane vivo solo con l’istituzionalismo
classico15 ma continua, analizzato da diverse prospettive, a catturare l’attenzione
di diversi studiosi che si basano sul modello della scelta razionale. Esso è rimasto vivo soprattutto grazie alla cultura liberale federalista di matrice cattolica.
Questo tipo di razionalità, tuttavia, non è neppure estranea all’utilitarismo, si
pensi alla razionalità del coordinamento (la we-rationality) di Sugden (1996).
Di particolare rilievo per il tema qui trattato è il confronto tra il modo di spiegazione economico e quello sociologico che ha visto due contributi fondamentali
in Meckling (1976) ed in Brunner (1987). In questi studi il discrimine tra sociologia ed economia è il modello d’uomo adottato per spiegare le scelte.
Nell’economia classica, sostiene Brunner, i valori appaiono sotto forma di opinioni, attitudini, orientamenti, norme di comportamento. Per i sociologi i valori
appaiono come una forza indipendente e quindi essi conducono le analisi in termini di condizioni sociali e di forze indipendenti dal comportamento individuale. Di particolare interesse è anche il suo utilizzo del termine CS (prima di
Coleman 1988). Brunner (1987, 382) dice che “the inherited social capital of
norms and rules also influences individual behavior”. Questo ha luogo attraverso la più o meno cosciente accettazione di norme e regole come parte dei vincoli o delle preferenze. Esse emergono dall’interazione individuale ed i valori
prevalenti dipendono a loro volta dalla disposizione della configurazione istituzionale esistente. Le regole determinano l’insieme delle opportunità e quindi la
scelta all’interno del campo delle preferenze. Quindi l’ordine sociale influenza le
valutazioni relative (al margine). La transitività delle preferenze assicura poi la
coerenza al sistema di valori.
Sia gli economisti che i sociologi suppongono che cambiamenti nei valori inducano un cambiamento di comportamento. Ma per gli economisti non vale necessariamente l’inverso ed essi cercano anzi di ricorrere il meno possibile ai cambiamenti di valori (non ben teorizzati né dagli uni né dagli altri) nello spiegare il
cambiamento delle scelte degli individui. Da un punto di vista tecnico, un cambiamento di valori può essere interpretato da un economista come una variazione del campo delle preferenze (sistema di valori) che implica una variazione nel-
Stefano Solari
Capitale sociale ed economia
l’individuazione della scelta ottimale anche senza cambiamento di vincoli. In
alternativa, la variazione nella scelta ottimale può essere indotta dal cambiamento dei vincoli che produce una variazione delle valutazioni relative (tassi marginali di sostituzione) delle varie opportunità. Si possono quindi ottenere valutazioni relative con lo stesso sistema di preferenze ampliando l’insieme delle
opportunità e dando maggiori possibilità di esprimere le preferenze.
Sen (1982) raffina in senso matematico-formale questa visione ed interpreta i
valori, sempre a livello individuale, come delle preferenze di secondo ordine o
metapreferenze, cioè un’applicazione ricorsiva del concetto di ordinamento
delle preferenze (utilizzando quindi la teoria dei tipi logici16). Secondo quest’autore, dato X l’insieme di tutti i risultati possibili e π l’insieme di tutti i possibili
ordinamenti degli elementi di X, un ordine morale può essere definito come un
quasi ordine Q degli elementi di π. “Quasi” in quanto è una relazione d’ordine
riflessiva e transitiva, ma non necessariamente completa in quanto una visione
morale non necessariamente lo deve essere. Si ottiene in questo modo un giudizio di merito sugli ordinamenti. Per intenderci, preferire il burro “biologico” a
quello industriale non è una visione morale, è una semplice preferenza.
Possiamo parlare di valore quando si intenda comunque anteporre nelle proprie
preferenze prodotti con marchio “biologico” a quelli industriali artificiali.
L’applicazione ricorsiva del concetto di ordinamento implica quindi anche l’introduzione di categorie, altrimenti estranee alla dotazione teorica del microeconomista. La stabilità di tali metapreferenze diviene anche un punto fisso nell’evoluzione delle scelte ed una guida alla scelta di elementi prima ignoti (apprendimento del consumatore).
Il problema fondamentale riguardo ai valori è quanto essi siano compatibili con
il self-interest economico. Un’apertura in questo senso nel considerare fenomeni riconducibili al CS è stata proposta da Gary Becker (1996, 139) che nella rivisitazione del suo discorso al conferimento del premio Nobel afferma che, differentemente dalle analisi marxiste, l’approccio economico al quale lui si riferisce
non presuppone nessun egoismo o materialismo. Quello economico secondo
Becker è un metodo d’analisi, non un’ipotesi di particolari motivazioni d’azione.
Ciò che Becker ipotizza è che gli individui massimizzino il loro benessere così
come lo concepiscono, "siano essi egoisti, altruisti, leali, dispettosi o masochisti"
(Becker 1996, 139). Niente in contrario perciò al fatto che nella funzione di utilità individuale vi siano elementi che conducono l’azione a comportamenti sociali o producenti CS. In particolare Becker (1996, 225) sostiene che "Norms are
those common values of a group which influence an individual’s behavior
through being internalized as preferences. (…) It is easy to appreciate the social
contribution of many norms since they combat the tendency to free ride by internalizing particular values in preferences".
Tale visione viene ripresa da Fehr e Fischbacher (2002) che sostengono che gli
individui non sono motivati solo da self-interest materiale, ma hanno anche “preferenze sociali”. Questa distinzione ricalca, da una prospettiva leggermente differente, la distinzione di Harsanyi (1955) tra preferenze etiche e preferenze soggettive, in cui le prime includono considerazioni impersonali e cioè “cos’è bene”
da un punto di vista sociale17.
Un modo alternativo per includere le influenze sociali nella teorizzazione indivi-
16
Questa interpretazione verrà ripresa da
Hirschman (1984), il
quale però non sembra comprendere del
tutto l’essenza e le
implicazioni del
ragionamento.
17
In realtà Harsanyi
ammette che è stato
Harrod il primo a
proporre questa
distinzione
129
n.5 / 2002
18
Su questo tema si
veda anche Pelligra
(2002).
130
dualistica-razionale è supporre che l’individuo definisca la sua identità ed in base
a questa sua concezione di sé formuli le sue scelte (Akerlof e Kranton 2000). Da
questo punto di vista, le persone stimerebbero i payoff delle scelte in base alla loro
idea d’identità. Tali “premi” sono anche determinati dalle azioni delle altre persone con cui si interagisce. Di conseguenza, il rafforzamento dell’identità e la consonanza tra azioni e “visione di se stessi” diviene un problema d’interdipendenza tra
attori che si collega con il problema della definizione di categorie sociali.
Il problema fondamentale rimane tuttavia come valori e norme possano essere
incluse nelle preferenze. Bruno Frey propone un concetto più sintetico e più
facilmente collegabile alla nozione di CS rispetto alla formalizzazione di Sen
attraverso il principio di “motivazione intrinseca” (senza abbandonare la prospettiva della scelta razionale). Questo tema è di particolare interesse in quanto
ci può consentire di collegare la motivazione individuale alla struttura delle istituzioni esterne e della configurazione delle relazioni sociali. Infatti, Eichenberger
e Frey sostengono che:
"L’approccio tradizionale della scelta razionale, che è stato applicato con successo a molti problemi sociali (…), non è attrezzato per trattare questioni relative
alla governance in cui le motivazioni intrinseche giocano un ruolo importante.
Sicuramente, il modello tradizionale di homo oeconomicus non nega che il comportamento delle persone possa essere influenzato da motivazioni intrinseche
come la virtù civica. Ma respinge le motivazioni intrinseche in quanto secondarie e incostanti oppure perché importanti ma invarianti. Perciò, la tradizionale
teoria della scelta razionale trascura la relazione sistematica tra motivazioni
intrinseche ed estrinseche già menzionata" (Eichenberger e Frey 2002, 269).
Questo tipo di costruzione teorica sottolinea come il comportamento degli individui risponda ad una serie di motivazioni legate da relazioni abbastanza complesse. Ciò che Frey ed i suoi collaboratori mettono in evidenza è che incentivi
monetari (motivazioni estrinseche) possono spiazzare delle motivazioni all’azione di tipo intrinseco. Il comportamento motivato intrinsecamente, sostengono
inoltre Bohnet e Frey (1997) è favorito o scoraggiato dalle configurazioni istituzionali. Per questa ragione, questi autori studiano dei “meccanismi compatibili
con le motivazioni”, delle configurazioni istituzionali o degli schemi d’interazione che incoraggino gli individui ad esprimere comportamenti in linea con le loro
motivazioni intrinseche. Quadri istituzionali disegnati per prevenire comportamenti opportunistici possono spiazzare le virtù civiche dei cittadini disincentivando atteggiamenti cooperativi18.
Non mancano approfondimenti e tentativi di collegare la teoria delle motivazioni intrinseche con la psicologia cognitiva (Lindenberg 2001). In particolare, si
cerca di collegare le motivazioni con una visione dei processi cognitivi a più livelli dove i modelli mentali formati dalla conoscenza acquisita danno senso alle
informazioni e quindi influenzano le scelte (Denzau e North 1994).
La letteratura sull’importanza delle relazioni sociali è molto vasta ed ha cercato
di inserire queste variabili in vari modi nel quadro dei modelli economici.
Tuttavia, si può sintetizzare con Sen (1982) i quattro modi fondamentali con cui
si può intendere il comportamento sociale attraverso strumenti economici:
1. esso può entrare, accidentalmente, nelle preferenze individuali;
2. un individuo può essere “altruista”, cioè il suo benessere può essere in parte lega-
Stefano Solari
Capitale sociale ed economia
to funzionalmente al benessere di altri individui (chi soffre vedendo soffrire gli altri);
3. può essere l’effetto di norme sociali e dell’effetto di reputazione (l’individuo non
vuole contravvenire ad una norma pro-sociale per non avere danni d’immagine);
4. può essere l’effetto di razionalità di tipo riflessivo riguardo agli effetti delle
azioni (l’individuo agisce in conformità con la sua visione dell’ordine sociale).
Solo quest’ultimo caso rappresenta un esempio di razionalità kantiana e, pur
rimanendo a livello di individualismo metodologico, non è di immediata comprensione con il modello di razionalità tradizionale.
Insomma, nell’approccio microeconomico, il comportamento sociale è spiegato
attraverso diversi modi di declinare le preferenze, con l’adozione di un diverso
tipo di razionalità o, ancora, con l’inclusione di un riferimento al contesto
(norme). Quindi esistono delle microfondazioni al concetto di CS e non è possibile affermare che gli economisti si precludano la possibilità di analizzare i fenomeni alla base del CS. Soprattutto non v’è ragione per intendere il CS in modo
subordinato o funzionale ad altri tipi di risorse come a volte proposto dai sociologi “individualisti”.
Va però notato come l’individualismo metodologico adottato da questi autori ha
una versione “indebolita” rispetto a quello normalmente presentato nelle forme
più pure dell’economia neoclassica. Si tratta soprattutto di intendersi su cosa si
intenda per razionalità e di come si costruisce una funzione di utilità. Su questo
punto esistono delle rigidità epistemologiche in economia superate attraverso
un atteggiamento convenzionalista che, a sua volta, non aiuta a chiarire il
“modello d’uomo” necessario alla spiegazione scientifica. Insomma, è difficile
definire con esattezza cosa si intenda per self-interest in quanto il modello di
spiegazione microeconomico rimane fortemente ancorato al modello psicologico dell’utilitarismo, concezione però ormai superata dagli stessi studi sulla cognizione umana (Mistri 2000)19. Gli economisti che studiano fenomeni del tipo CS
in genere allargano il concetto di “interesse” proponendo un “self-interest rightly
understood” (Uslaner 1999). Il passaggio ad un self-interest correttamente inteso dovrebbe implicare un’evoluzione del “modello d’uomo” verso la concezione
Toquevilliana20. In questo modello, le preferenze individuali non sono fisse ma
dipendono da fattori sociali permettendo un’interazione ed un apprendimento
dell’individuo. Tuttavia, una più stretta relazione con la psicologia cognitiva per
fondare scientificamente la teoria della scelta non può che passare da un indebolimento dell’impostazione “razionalistica” della teoria microeconomica.
Conclusione: forme sociali e processi economici
“CS” appare più un’etichetta attribuita ad una serie di studi – che tendono ad
approfondire gli aspetti relazionali e motivazionali delle scelte – che un una
costruzione teorica coerente e innovativa. I tentativi di individuare una specifica
variabile CS non sembrano produrre risultati significativi. Quindi tale campo di
studi rimane più appropriatamente un’aggregazione di analisi dei vari fenomeni
che lo compongono.
In economia questo ambito di ricerca era già da tempo coperto da filoni non centrali sia per quanto riguarda l’aspetto strutturale che per quello delle motivazioni. L’aspetto strutturale è in particolar modo oggetto di studio dell’economia
19
L’utilitarismo è stato
da tempo abbandonato da tutte le altre
scienze dell’uomo in
quanto visione del
tutto superata ed inadeguata.
20
Gangemi modifica e
sviluppa una classificazione di Boudon dei
paradigmi di spiegazione nelle scienze
sociali (Gangemi
2001, 44).
131
n.5 / 2002
delle istituzioni che, nelle sue varianti, inserisce le forme strutturali della società
come parte fondante dei modi di coordinare le interazioni economiche. Gli
aspetti motivazionali invece sono, nei limiti degli interessi degli economisti,
oggetto di studio microeconomico da parte di due tipi di studiosi. Quelli che
introducono una visione “morale” delle scelte e quelli che cercano di rifondare
la teoria della scelta microeconomica su basi empiriche legate alle scienze cognitive. In questi casi l’individualismo metodologico adottato è una variante “debole” e dinamica che si apre all’interazione con le forme sociali.
Sia nella prospettiva strutturale che in quella motivazionale appare alquanto
privo di senso attribuire una dimensione quantitativa al CS che è più facilmente
riconducibile al concetto di forma. In quanto tale, esso coordina o struttura le
variabili economiche piuttosto che essere una variabile stock esso stesso.
In conclusione, similmente a quanto proposto dalla tradizione continentale dell’economia delle istituzioni, non risulta utile ai fini analitici separare l’economia
dalla società. Tuttavia, questo non significa che gli elementi sociali debbano essere inquadrati in categorie come il capitale per essere comprese dagli economisti.
Soprattutto, facendo riferimento alla concezione liberale della società e dell’economia, non si può sposare la visione puramente strumentale dei legami sociali
avanzata maldestramente da molti fautori della scelta razionale. Le relazioni
sociali, i valori, gli aspetti motivazionali hanno un valore in sé e non solo in quanto utili ad acquisire altri tipi di soddisfazioni. Da questo punto di vista, memori
delle battaglie hayekiane, rimane alquanto sospetto l’aspetto colto da Bagnasco
(2002) della concezione di Coleman di un "rational reconstruction of society"
che vede il suo fine nella progettazione delle istituzioni sociali.
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135
n.5 / 2002
PUBBLICITA
136
Giuseppe Gangemi
Capitale sociale e scienza delle politiche
Il sestante
Sono tanti ad interessarsi del concetto di capitale sociale, da diversi punti di vista
e, spesso, con diverse definizioni. Questo avviene anche perché, pur essendo un
concetto proposto da poco, ha già acquistato un ruolo centrale in quasi tutte le
scienze sociali.
Ogni volta che un termine acquista una posizione centrale nel dibattito scientifico, acquista anche una pluralità di significati, diversi e al limite incompatibili tra
loro, e diventa fortemente simbolico, cioè capace di ricevere carichi di significati connessi ai valori. Sia la pluralità di significati che la forte simbolicità sono la
prova più evidente del fatto che l’espressione in questione viene utilizzata come
una metafora (White 2002), cioè come un concetto dai contorni non ben definiti che attraversa (perché le ignora) le barriere linguistiche connesse alle precedenti divisioni paradigmatiche.
Secondo Leroy White, i primi utilizzi di questa espressione (social capital) in
forma di metafora risalgono agli studi di comunità degli anni Venti ed è stato successivamente ripreso dalla Jacobs, nel 1961, che, con lo scritto su The Death and
Life of Great American Cities (1969), ha utilizzato l’espressione con riferimento
alle reti di vicinato urbano. Probabilmente, è proprio da questi studi di comunità che riprende il concetto James Coleman.
Secondo Ronald Burt, il concetto di capitale sociale è derivato dalle teorie sociologiche elaborate da Simmel (1955) e da Merton (1968). Seguono, poi, gli studi
di Granovetter (1973) sulla forza dei legami deboli, di Freeman (1977) sulla centralità dei rapporti diadici, gli studi di economia sui vantaggi derivanti dall’ avere
partner commerciali esclusivi e, naturalmente, lo stesso Burt (1980) per i suoi
studi sull’autonomia strutturale creata dalla complessità delle reti.
Potrebbe essere aggiunto a questo elenco anche von Hayek se si accetta per
buona l’affermazione di Burt secondo cui l’imprenditore è già un produttore di
capitale sociale e se si paragona la maggiore produttività di una gestione imprenditoriale dell’impresa a una gestione burocratica della medesima.
Non stupisce, quindi, che i primi tre studiosi (Pierre Bourdieu, James Coleman e
Robert Putnam) che hanno tentato di sistematizzare il concetto al Capitale
Sociale, ne abbiano dato tre diverse definizioni e che una quarta possa essere
individuata in una diversa linea di indagine (Harrison White, Mark Granovetter e
Ronald S. Burt):
1) Pierre Bourdieu (1980), per cominciare, lo ha concepito come la dimensione
culturale del concetto di capitale in senso economico-marxiano: il capitale sociale è la somma di risorse, effettive o virtuali, che si aggiungono ad un individuo o
137
n.5 / 2002
a un gruppo per il fatto di disporre di una duratura rete di più o meno istituzionalizzate relazioni. Di conseguenza, egli sostiene che il capitale sociale è insito
nei processi di stratificazione attraverso i quali le classi sociali costruiscono i confini reciproci e riproducono e consolidano la possibilità di mettere in atto determinati tipi di azione. Nella sua concezione, il capitale sociale appartiene a un
gruppo o a un collettivo ed è un concetto olista. Secondo Karl Popper che ne ha
fatto il proprio principale cavallo di battaglia, un concetto olista non è mai empirico e per evitare l’olismo gli oggetti studiati, per esempio, "i gruppi sociali, non
devono mai essere considerati come mere riunioni di persone. Il gruppo sociale
è qualcosa di più della semplice somma complessiva delle relazioni puramente
personali esistenti fra i singoli membri in un qualsiasi momento determinato"
(Popper 1976, 30). Di conseguenza, conclude Popper, "il compito di una teoria
sociale è di costruire ed analizzare i nostri modelli sociologici attentamente in
termini descrittivi o nominalisti, cioè in termini di individui, dei loro atteggiamenti, delle loro speranze, dei loro rapporti, ecc. - postulato che possiamo chiamare 'individualismo metodologico'" (1976, 122). Da ciò ne consegue che tutto
quello che non è classificabile come attributo di un individuo, non appartiene
alle scienze empiriche, in quanto concetto astratto. In questo senso, quindi, "la
maggior parte degli oggetti della scienza sociale, se non tutti, sono astratti; sono
costruzioni teoretiche. (Ad alcuni sembrerà strano, ma persino 'la guerra' o 'l'esercito' sono concetti astratti. Uomini uccisi, uomini in divisa, ecc. - ecco ciò che
è concreto)". (1976, 121). Per un olista coerente, quindi, non solo concetti come
quello di capitale sociale, riferito alla struttura o alla rete e non all’individuo, ma
anche concetti più semplici come guerra ed esercito non sono veri concetti
empirici, in quanto solo l’individualismo metodologico fornisce, attraverso concetti di attributi (Gangemi 2002a), coerenti strumenti di ricerca emprica;
2) James Coleman (1988 e 1990) ha introdotto il concetto di capitale sociale per
gettare un ponte tra sociologia ed economia e ha definito il concetto come la
capacità degli individui di realizzare i loro obiettivi dentro un dato contesto di
organizzazione sociale. “Il capitale sociale è definito dalla sua funzione … con
due elementi in comune: è costituito da alcuni aspetti di strutture sociali e facilita alcune azioni degli attori … dentro la struttura sociale” (1988, S98). Coleman
sostiene che non può essere sostituito dal capitale finanziario e che è utile per
chi è vecchio, per chi è troppo giovane, per chi non è autonomo o per chi è in
difficoltà. Il capitale sociale appartiene ai network, alle reti, e agli individui dentro le reti e corrisponde alla capacità di essere degni di fiducia. Il capitale sociale è costituito dalle obbligazioni reciproche, dalle aspettative, dai canali informativi faccia a faccia, dalle norme e sanzioni sociali, dalla chiusura o apertura delle
reti sociali e dalle relazioni multiple non fissate rigidamente, nelle quali una risorsa prodotta in una relazione può essere trasferita e usata in una diversa relazione. Per Coleman, diversamente che per Bourdieu, il concetto di capitale sociale
non è olista ed è persino compatibile con una versione corretta dell’individualismo metodologico. Coleman sostiene che il concetto di capitale sociale, pur
indicando un fatto collettivo, cioè uno di quei concetti che Popper definisce olisti o collettivi e, quindi, astratti, può essere indagato empiricamente. Inoltre, egli
è convinto che, essendo appropriabile individualmente, cioè da singoli individui,
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Giuseppe Gangemi
Capitale sociale e scienza delle politiche
è un concetto compatibile con l’individualismo metodologico. Anzi, egli sostiene persino che sia stato inventato per ovviare ai limiti del paradigma individualista o dell’individualismo metodologico (Coleman 1990);
3) Robert Putnam (1993), pur rimandando alla definizione di Coleman, considera il capitale sociale come “l’insieme delle caratteristiche dell’organizzazione
sociale, quali reti, norme e fiducia sociale che facilitano il coordinamento e la
cooperazione per reciproci vantaggi”. Egli sostiene che il capitale sociale: è maggiore in alcun aree geografiche dell’Italia; è andato diminuendo in U.S.A., a partire dal 1945, anche per colpa della televisione e dell’automobile personale;
appartiene ai territori o alle culture prevalenti in un territorio; è la “colla invisibile” che tiene insieme la società, cioè quella forma di coesione sociale che
Durkheim ebbe a studiare come causa dei tassi di suicidio. Si può riscontrare, a
questo proposito, una stretta correlazione tra il modo in cui Durkheim utilizza i
dati statistici relativi a territori o a categorie sociali e il modo in cui li utilizza
Putnam. Come si vedrà più avanti, si può dire che Putnam riconosce solo la presenza di capitale sociale che sia, insieme, bonding e bridging (cioè solo di quelle forme di capitale sociale che producono effetti desiderabili nell’intera società:
esempio le associazioni di volontariato). Inoltre, secondo Robert Leonardi (che
ha lavorato alle ricerche sulle Regioni italiane con Robert Putnam), le differenze
di civicness e capitale sociale tra Nord e Sud sono dovute al fatto che il capitale
sociale bonding è predominante al Sud, mentre quello bridging è più consistente al Nord. Il familismo amorale individuato da Banfield è una conseguenza
praticamente inevitabile di un capitale sociale esclusivamente, o quasi, bonding.
Anzi, si può utilizzare la coppia concettuale capitale sociale/familismo amorale
come antitetica e contrapposta. Putnam ritiene di avere individuato meno capitale sociale in Meridione rispetto al Nord d’Italia e meno capitale sociale negli
U.S.A. di oggi che in quegli di cinquanta o passa anni fa. Queste affermazioni
hanno trovato molti critici. In questa breve presentazione della definizione del
concetto secondo Putnam, mi limito a riferirne la sola (Greeley 1997) che può
avere ripercussioni sull’uso operativo del suo concetto: Putnam non avrebbe
dimostrato che nel Meridione d’Italia vi è meno capitale sociale che nel Nord
(questo paragone è impossibile da realizzare date le infinite forme di capitale
sociale presenti in ciascuna società), ma avrebbe dimostrato che alcuni capitali
sociali, in Meridione, inizialmente o potenzialmente sia bonding che bridging si
sarebbero trasformati in solo bonding (mafia, clientelismo, etc.); la sua tesi con
riferimento agli U.S.A., dovrebbe essere riformulata, per essere credibile,
mostrando che parte del capitale sociale bridging e bonding degli U.S.A. di più
generazioni fa si sarebbe trasformato in capitale sociale solo bonding per colpa
di televisione, automobili private, etc.;
4) Granovetter (1973) e Burt (1992) hanno contribuito a costruire una definizione di capitale sociale che non si presenta come alternativa alle tre precedenti, ma
come complementare perché cerca di individuare migliori linee operative di
indagine empirica su un particolare aspetto del capitale sociale: quello che produce vantaggio competitivo sia per chi si presenta su mercato del lavoro
(Granovetter 1973) che per una comunità o un territorio o un’impresa (Burt
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n.5 / 2002
1992). Questa linea di ricerca operativa sul capitale sociale comincia ad Harvard,
negli anni Sessanta, quando all’interno di una sociologia tradizionale che privilegia la forza dei legami forti (i legami che nascono da ruoli domestici – familiari,
consanguinei, etc. –, da ruoli comunitari – amicizie o altre reti identitarie o di
riconoscimento reciproco –, da ruoli lavorativi – colleghi, reti di scambio, reti
professionali, reti sindacali, etc. -) si scopre la maggiore utilità, per l’ottenimento della prima occupazione, dei legami deboli (i legami che nascono da ruoli
legati al tempo libero – per esempio, persone incontrate in vacanza -, da ruoli
parentali, allentati dalla distanza, da ruoli parentali acquisiti, da ruoli legati a reti
di scambio saltuario, etc.). Le scienze sociali sono sempre partite dall’ipotesi che
sono sociologicamente più rilevanti i legami forti, attraverso cui le informazioni
si diffondono più velocemente, anche se per distanze minori, e tutti condividono tutto di tutti. Invece, il processo di globalizzazione in corso sta facendo scoprire, in vari altri settori oltre al primo individuato da Granovetter, uno svantaggio dei legami forti (condivisione dei legami reciproci e, quindi, ridondanza delle
informazioni e conferma dell’esistente e del già noto), oltre ai vantaggi che provengono dai legami deboli: nuove idee e nuove opportunità, ma anche maggiori distanze che possono essere percorse e minore ridondanza delle novità che
arrivano. Nel 1976, Karl Weick riprende il tema del legame debole (nella sua definizione, loose coupling) a proposito delle organizzazioni scolastiche e successivamente a proposito delle organizzazioni in genere (1977). Weick, che può essere “definito uno psicologo sociale appartenente alla scuola del cognitivismo
organizzativo” (Varchetta 1997, X) sostiene che l’indeterminatezza (l’incompletezza, ma anche l’ambiguità e l’informalità delle relazioni) non sono da considerare un limite negativo delle organizzazioni (Weick 1976). Insieme ad altri compagni di strada, tra i quali si possono annoverare anche March e Olsen (Gangemi
2002b), riconosce che “l’ambiguità non è un accessorio dell’organizzazione, da
trattare come spurio ed eventuale, ma è una proprietà dell’organizzazione: l’organizzazione nasce dove l’ambiguità di esprime” (Varchetta 1997, XIV-XV). Loose
coupling implica, secondo l’autore, una relazione “debole”, che non è tuttavia da
leggersi in contrapposizione con la strutturazione “forte” dei legami attribuita
alle organizzazioni a forte grado di istituzionalizzazione. “Debole” non va frainteso come un legame fragile o privo di effetti importanti, ma si riferisce agli
aspetti di interazione che caratterizzano la relazione che è capace di efficacia e di
densità spesso assai più dei sistemi di relazione fortemente istituzionalizzati.
“Debole” va considerato in riferimento alla natura dei rapporti (che rimane non
formalizzata e non istituzionalizzata), non alla sua produttività (la capacità di trasferire informazioni e risorse anche a notevole distanza). I legami “deboli” possono quindi anche essere “forti” nella densità, ma rimangono certamente “deboli” nella loro capacità di istituzionalizzazione. Ronald Burt, qualche tempo dopo
Granovetter e Weick, anche perché quest’ultimo aveva fortemente mutato il
senso del legame debole ma non lo aveva reso più facile da indagare sul piano
empirico, ha considerato indispensabile riprendere il discorso sin dall’inizio per
riformularlo: è così ritornato sull’idea originaria di Harrison White per sostenere
che più interessante (e più facile da investigare empiricamente) del concetto di
legame debole è il concetto di buco strutturale. Questo perché questo secondo
concetto può, a differenza del concetto di legame debole che non opera nessu-
140
Giuseppe Gangemi
Capitale sociale e scienza delle politiche
na rottura paradigmatica con la teoria parsonsiana dei ruoli, mettere in discussione l’assunto paradigmatico delle fungibilità di tutti i ruoli. Secondo una lettura frequente dell’opera di Parsons, infatti, ogni membro della collettività occupa
ruoli e si rapporta al resto della società secondo le aspettative che la società stessa attribuisce al ruolo (cosa che è realmente vera quando si ha a che fare con i
ruoli da cui nascono i legami forti). Per esempio, chiunque occupi il ruolo di
imprenditore sarebbe quasi forzato dalle aspettative altrui a produrre innovazione attraverso la propria azione. Questa lettura di Parsons sottovaluta la funzione
degli ostacoli allo sviluppo frapposti dai legami bonding e, soprattutto, fa dell’imprenditore un soggetto fungibile e, in Meridione, ha legittimato il concetto
di mafia imprenditrice (cioè di mafia capace di trasformarsi, nella generazione
successiva, in classe capace di portare sviluppo, cioè di trasformare i propri legami bonding in legami bridging). Invece, il concetto di buco strutturale di Burt
permette di ottenere una migliore comprensione dell’azione imprenditoriale
che verrebbe studiata a partire dalla sua azione bridging. Burt arriva, infatti, alla
conclusione che i ruoli e le persone che li occupano sono intercambiabili soltanto quando non esistono buchi strutturali accessibili ad una sola persona, cioè
quando il capitale sociale prodotto è interamente bonding e non è anche bridging. Burt distingue due possibili strade nell’analisi della struttura sociale e delle
reti di relazione. La prima affronta il network come un problema di chi è in rete
con chi nel presupposto che le risorse disponibili per una persona siano messe
interamente in rete e rese disponibili agli individui socialmente vicini alla persona (ovviamente in proporzione alla vicinanza). Questa linea di indagine è stata
privilegiata da chi ha seguito l’impostazione di Parsons ed è stata affrontata con
gli strumenti metodologici della Nuova Metodologia di Paul F. Lazarsfeld (in particolare con la survey che è affidabile solo nel rilevare chi è in rete con chi e non
nel rilevare come due persone sono in rete). Questa linea di indagine ha presentato molti limiti soprattutto quando ha analizzato il concetto di fiducia reciproca tra persone. Anche perché, della fiducia individuale non si può essere
completamente sicuri fin quando la persona di cui ci si fida non ci aiuta quando
ne abbiamo bisogno. Infatti, il tema della fiducia individuale si sviluppa in una
condizione di incertezza e tutte le situazioni di incertezza vanno valutate attraverso analisi dei processi interattivi, nel momento in cui questi sono in corso.
Burt sottolinea che la seconda linea di indagine, nel valutare una rete, distingue
tra dimensione rilevata della rete (quanti contatti di ciascuno in rete) e dimensione effettiva (contano solo i contatti non ridondanti, per cui, se sono in rete
con 10 persone, ma 5 di queste sono in rete tra loro e con le stesse persone, cioè
hanno solo legami forti, la dimensione effettiva della mia rete è 6 e non è 10). La
seconda linea di indagine sulle rete considera coesione ed equivalenza strutturale due indicatori di ridondanza. Sotto il criterio della coesione, due miei contatti sono, per me, ridondanti quando le due persone sono in relazione talmente stretta tra loro (per esempio un padre e un figlio) che mi basta rivolgermi al
padre per accedere ai contatti del figlio e viceversa. Sotto il criterio dell’equivalenza strutturale, due miei contatti sono, per me, ridondanti quando le due persone hanno gli stessi contatti che mi interessano (per esempio due persone che
lavorano nello stesso posto) perché mi basta rivolgermi a uno solo dei due per
arrivare a chiunque altro del posto in cui lavorano. Anche se è vero che una per-
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fetta coesione e una perfetta equivalenza strutturale non esistono, perché non
esistono contatti perfettamente ridondanti, dove esistono forte coesione ed
equivalenza strutturale, non esistono buchi strutturali. I buchi strutturali si individuano, infatti, in quei contatti i cui benefici di rete consistono nel fatto che,
mancando la ridondanza o essendo questa molto limitata, i contatti che nascono
dallo scavalcamento del buco strutturale sono additivi piuttosto che sovrapponentesi. I buchi strutturali sono, conclude, Burt, situazioni che producono vantaggi competitivi per chiunque costruisca un ponte che scavalchi un buco. I
buchi strutturali sono, quindi, fattori di potenziale produzione di capitale sociale bridging. Era stato Granovetter, del resto, a parlare per primo dei legami
deboli come bridges (1973, 1065), anche se non aveva considerato che quello
che contava non era il tipo di legame, quanto lo scavalcamento del buco strutturale. Se un buco strutturale viene scavalcato con un legame forte (per esempio
un matrimonio), si può ugualmente produrre nuovo capitale sociale bridging
(anzi se ne produce di più che con un legame debole). L’unica differenza è che,
nel tempo, un ponte (bridge) costruito con un legame forte tende a coprire il
buco e facilmente a trasformare il capitale sociale da bridging in bonding, mentre un legame debole, che rimanga tale, tende a lasciare il buco, e il capitale che
si produce più difficilmente si trasforma in bonding (e qualche volta non si trasforma affatto). Con riferimento al ruolo del concetto di buco strutturale nell’economia, Burt definisce i buchi strutturali come opportunità di intrapresa per
l’accesso all’informazione e sostiene che individui con network ricchi di buchi
strutturali godono di alti tassi di ritorno degli investimenti. Inoltre, il loro vantaggio competitivo è una questione di accesso a buchi strutturali, perché i buchi
creano ineguaglianza tra le persone e tra le organizzazioni nelle quali lavorano le
persone. Burt ricorda che parlare di vantaggio competitivo significa ridefinire il
concetto stesso di competizione economica. Questa assume quattro significative
qualità: a) diventa una questione di relazioni e non un attributo di chi compete;
b) è una relazione che emerge dal contesto, non è osservabile indipendentemente dal contesto; c) è un processo, non soltanto un risultato; d) nella forma
di competizione imperfetta, è una questione di libertà, non di potere (1992, 3).
Aggiunge, quindi, che il capitale sociale è tanto maggiore e rilevante quanto più
la competizione è imperfetta e il capitale di investimento abbondante. In condizioni di competizione perfetta (cioè di concorrenza perfetta) il capitale sociale è
una costante nell’equazione di produzione (tutti si fidano di tutti o, che è lo stesso, nessuno si fida di nessuno e ciascuno compra da chi vuole, mentre differenti acquisti dello stesso bene vengono distribuiti, da ciascuno, casualmente tra
altrettanti venditori). Quando la competizione è imperfetta (al limite esiste una
sola impresa monopolistica), il capitale sociale è meno mobile, sempre più inegualmente distribuito e gioca un ruolo più complesso nell’equazione di produzione (1992, 10). “Ciascuna delle relazioni del giocatore è trattata come un investimento sul quale i buchi strutturali determinano il tasso di ritorno. Le opportunità di un giocatore [dallo spirito] imprenditoriale sono legate da una relazione al punto che: (a) il giocatore ha investito tempo sostanziale ed energia per
assicurare una connessione con il contatto, e (b) molti buchi strutturali intorno
al contatto assicurano un tasso di ritorno dell’investimento. Il tasso di ritorno
incardinato ai buchi strutturali è un prodotto proporzionale al fatto che ci sono:
(a) molti buchi strutturali primari tra il contatto e altri nella rete del giocatore e
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Giuseppe Gangemi
Capitale sociale e scienza delle politiche
(b) molti buchi strutturali secondari tra il contatto ed altri al di fuori della rete che
potrebbero rimpiazzare il contatto” (1992, 48). Per questo, il buco strutturale è una
fonte di autonomia, forse l’unica vera fonte di autonomia. “Giocatori con relazioni
libere da buchi strutturali dalla propria parte e ricchi di buchi strutturali dall’altra
parte sono strutturalmente autonomi” (Burt 1992, 49). In altri termini, se ho contatti con persone che hanno relazioni solo bonding, dalla mia parte, e contatti con
persone che hanno relazioni bridging, tendo ad avere una forte autonomia.
L’analisi del pensiero di Burt si chiude con un riferimento al tema dell’autonomia ed è un’esplicita scelta a favore di uno dei due elementi connessi allo studio
del capitale sociale: l’embeddedness, cioè l’idea che il capitale sociale sia connesso alle reti, ai ruoli e a quanto costituisce la posizione dell’individuo nella
struttura sociale o nell’organizzazione di un’impresa; l’autonomia, cioè l’idea che
il capitale sociale sia connesso sì alle reti, ma in riferimento a quanto contribuisce (dai suoi valori, alle sue competenze e a quanto rientra nella dimensione
cognitiva) a costruire l’autonomia e la capacità di intrapresa degli individui. In
riferimento a quanto già detto, si potrebbe sottolineare che Bourdieu, Coleman
e persino Putnam, influenzato dai metodi di Durkheim, adottino approcci sociologici per studiare il capitale sociale nella dimensione sociocentrica dell’embeddedness, mentre Granovetter, Burt e persino Weick lo studiano nella dimensione cognitiva dell’autonomia.
Nella convinzione che lo studio della politica fornisca il punto di vista privilegiato al tema dell’autonomia, cercherò, adesso, di segnalare quali contributi dello
studio della politica (e soprattutto delle politiche) possano contribuire a meglio
affrontare il problema cognitivo o dell’autonomia connesso al capitale sociale. E
comincerei con le definizioni di potere e autonomia che mi sembrano più adatte ai fini dell’obiettivo che mi pongo in quest’ultima parte: potere è la capacità di
definire, gestire o ridurre la complessità per altri; autonomia (in quanto componente concreta del valore della libertà) è la capacità di definire, gestire o ridurre
la complessità per se stessi.
In un precedente scritto (Gangemi 2001), partendo dal tema del neorepubblicanesimo, cioè dal tema della virtù, avevo cercato di chiarire che la corretta definizione del concetto di capitale sociale richiedeva come premessa una corretta
definizione del concetto di regolazione e delle varie forme di regolazione “pura”.
L’individuazione di quante e quali siano le forme di regolazione “pura” serve a
individuare gli ambiti semantici da indagare alla ricerca di forme di capitale sociale sottovalutate o non sospettate. Regolazione vuol dire, infatti, interazione e reti
di relazione che costituiscono la materia prima da cui si sviluppa capitale sociale. In quello stesso lavoro, avevo anche affrontato il tema delle regolazioni “concrete”, che si presentano sempre in modo misto, e ho sostenuto che, anche perché il paradigma della modernità aveva messo in discussione la funzione euristica del concetto di comunità, si era finito con il ridurre a due le forme di regolazione “pura”: quella politica e quella economica (Gangemi 2001, 113). La rivalutazione del concetto di comunità, seguita alla crisi del paradigma della modernità, ha rimesso in gioco la regolazione comunitaria e riportato al centro dell’attenzione non solo l’opera di Hobbes e Adamo Smith, ma anche quella di Kant:
Hobbes per la regolazione politica in senso stretto o della Ragion di Stato, Smith
per la regolazione economica o dell’interesse privato, Kant per la regolazione
comunitaria, cioè etica, o della legge morale (Gangemi 2001, 110).
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Come molti considerano ovvio, la politica, l’economia e la comunità sono i fattori che più concorrono alla produzione di capitale sociale. Meno ovvio è che vi
sia un quarto fattore che vi contribuisca: la gestione del sapere. L’importanza di
questa gestione divenne evidente fin da subito, già con Hobbes, proprio in quanto egli ha posto in termini molto drastici il tema della regolazione politica e, successivamente, aveva sollevato una controversia scientifica contro lo scienziato
sperimentale Robert Boyle. Una controversia che ha impegnato per circa 20 anni
la società colta inglese ed è stata, di fatto, conclusa con l’opera di Locke
(Gangemi 2001, 109; 2002, 241-51). Quella controversia, che per molti ha fatto
nascere la coscienza dell’autonomia della società civile nei Paesi anglosassoni,
era sostanziale (ci si chiedeva se fosse più o meno valido l’esperimento delle
pompe ad aria con il quale Boyle sosteneva di avere prodotto il vuoto pneumatico), ma era soprattutto formale (ci si chiedeva se esistesse o meno una logica
sperimentale non soggetta all’arbitrio del sovrano e, quindi, non di proprietà del
sovrano che era diventato, secondo Hobbes, padrone della logica con il
Contratto Sociale). Quella controversia, i cui risultati sono stati definitivamente
istituzionalizzati attraverso i grandi libri di Locke (primo fra tutti il Saggio sull’intelletto umano) ha influenzato più la cultura anglosassone che quella europea continentale e ha contribuito, per ammissione di molti filosofi (Dewey,
Russell, Neurath, Popper e, persino, l’italiano Norberto Bobbio) a sottolineare il
grande contributo che una forma mentis sperimentale ed empirica ha dato allo
sviluppo della democrazia, mentre una forma mentis speculativa (al contrario)
avrebbe contribuito allo sviluppo del totalitarismo (cfr. Gangemi 2001, 117-8). E
non sono pochi coloro che condividono l’ipotesi che una democrazia tende a
produrre capitale sociale, mentre una forma di governo totalitaria tenderebbe a
distruggerlo. Già solo per questa ipotesi, dovrebbe essere tenuto in particolare
conto, con riferimento alla produzione di capitale sociale, il problema della regolazione del sapere.
I filosofi pragmatisti, poi, sono andati ancora oltre questa ipotesi. In particolare
Dewey che ha sottolineato che una società è tanto più coesa quanto più condivide forme comuni di produzione e conferma delle credenze. Sostituendo il
concetto di verità con il concetto di asseribilità garantita, e sostenendo che ogni
asseribilità è tanto più garantita quanto più sono allargate le reti che la condividono, Dewey ha messo in primo piano non tanto la validità di ogni credenza,
quanto la proporzionalità che esiste tra garanzia della credenza e capitale sociale prodotto nell’affermare quella credenza. Tutto questo porta a ipotizzare che,
oltre all’esigenza delle regolazioni economica, politica e comunitaria (connesse
alle dimensioni politica, economica e comunitaria del potere), sia necessario
anche ipotizzare l’esistenza di una regolazione del sapere, intesa come quarta
dimensione del potere (il potere di definire la situazione). In questo generico
concetto di sapere andrebbero comprese tutte le strategie definitorie e di rappresentazione del contesto di riferimento (situazionale), cioè le “retoriche politiche”, utilizzate per la costruzione del problema, l’individuazione degli obiettivi,
la qualificazione delle decisioni, la valutazione degli esiti, etc.
Ovviamente, dal momento che per regolazione si intende ogni attività, pubblica
o privata, che eserciti controllo o porti alla formulazione e implementazione di
norme che impongano obblighi agli individui e che eroghino sanzioni immediate per chi non le rispetti, ci si aspetta che siano chiare le norme, gli obblighi, le
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Capitale sociale e scienza delle politiche
forme di controllo e le sanzioni in tutte e quattro le dimensioni del potere. In
una regolazione politica “pura”, la norma è la legge, il controllo è esercitato da
varie strutture appositamente costituite (a cominciare dalla polizia) e la sanzione è distribuita da istituzioni di vario genere a cominciare dai tribunali. In una
regolazione economica “pura”, le norme possono essere giuridiche, le varie
norme del diritto commerciale, privato, etc., ma, spesso, sono anche norme
informali, il controllo è esercitato da organi appositi (gli ordini professionali, le
istituzioni che concedono le licenze, gli organi di controllo dell’attività della
borsa, etc.) e le sanzioni possono essere di tipo amministrativo, di risarcimento
del danno, ma anche di carattere informale (un rifiuto di altri a interagire che
produce aumento dei costi di transazione). In una regolazione comunitaria
“pura”, le norme sono sempre informali o consuetudinarie, il controllo è esercitato informalmente da coloro che hanno maggiore reputazione nella comunità
(coloro che sono più ”in”) e la sanzione è l’aumento dei costi sociali (dal biasimo, all’emarginazione e, infine, all’esclusione). In una regolazione “pura” del
sapere, attraverso la definizione della situazione, le norme sono quelle della logica (non sempre quella scientifica, ma quella prevalente in quel dato ambiente) o
della retorica o di altra forma di costruzione di una credenza, il controllo viene
esercitato attraverso la valutazione della rilevanza e della coerenza (non necessariamente in modo scientifico, ma secondo le regole di valutazione che si sono
affermate) e la sanzione è la condanna all’irrilevanza (quello che uno pensa o
dice non conta più per gli altri) e, al limite, al silenzio.
In tutte e quattro le dimensioni, chiunque venga considerato portatore di comportamenti esemplari o anche soltanto non meritevoli di sanzione, contribuisce,
con chi lo considera tale, a produrre capitale sociale. La sanzione corrisponde
alla devianza e, tanto più aumentano i comportamenti devianti, tanto meno
aumenta il capitale sociale (o tanto più viene distrutto capitale sociale) prodotto
da quella data società. Questo è quello che ci dice la teoria dei giochi, quando
ipotizza che il gioco sia non deviante e la devianza sia individuale. Ma la stessa
teoria dei giochi ci ipotizza casi in cui è il gioco stesso ad essere deviante e quello che la norma impone, il controllo verifica e la sanzione colpisce non è più il
comportamento deviante, bensì il comportamento che normalmente verrebbe
definito corretto. Giochi devianti di questo tipo ve ne sono moltissimi (dalla corruzione alla mafia, ma anche ai sistemi politici che impongono norme in forte
contrasto con le norme implicite in quella società o con le credenze ivi diffuse).
Essi pure producono capitale sociale che, per distinguersi dal capitale sociale prodotto nei giochi non devianti, viene etichettato come “cattivo” capitale sociale.
Alla conclusione che quattro siano le dimensioni del potere si arriva anche a partire dalla filosofia di Vico, cioè dal tema dell’errore (come faceva la filosofia politica ottocentesca, da Romagnosi alla scuola lombardo-veneta, passando per
Cattaneo). Si riscontra, infatti, che questa ipotizzava esplicitamente tre diverse
dimensioni del potere: la politica, l’economica e l’ideologica (Gangemi 1994, 1 e
38, nota 1). Una quarta dimensione del potere era solo accennata, nel concetto di
dottrina politica di Vico, nell’invito ai togati a parlare il linguaggio dei gregari, cioè
dei non appartenenti alla o alle élite (Gangemi 1994), ma successivamente sviluppata nel concetto di incivilimento di Romagnosi, nella richiesta di partecipazione politica in base alla capacità di leggere e scrivere della generazione dei
Zanardelli e dei Messedaglia (Gangemi 1999) e, infine, nella strategia del self-help
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di Luigi Luzzatti, per concludere con il federalismo antropologico di Silvio Trentin
(Gangemi 2000). Non è difficile riscontrare in questo percorso la progressiva scoperta e implementazione della dimensione del potere comunitario (ma anche del
potere di contribuire alla definizione della situazione). Quindi, sebbene non visibile all’inizio, certamente alla fine, anche la via vichiana individua quattro dimensioni del potere. La dimensione ideologica, a sua volta, in modo ottocentesco e
datato (ma è un modo datato che viene considerato attuale almeno fino a
Norberto Bobbio, che recupera da Cattaneo queste tre dimensioni del potere), va
considerata come una species del genus dimensione del sapere.
Volendosi concentrare sul tema della regolazione politica, come premessa alla
comprensione e allo studio del capitale sociale prodotto dalla politica, un punto
di partenza possono essere gli scritti di Lowi. Innanzitutto per la sua convinzione che la scienza politica sia ancora troppo influenzata dalla sociologia e dai suoi
metodi, mentre debba ancora sviluppare propri specifici metodi (questo permetterebbe di privilegiare la problematica dell’autonomia, nel capitale sociale,
rispetto a quella dell’embeddedness); quindi perché ritiene che la scienza politica si debba indagare a partire dalle politiche concrete (e di scienza delle politiche si tratta, non di scienza politica in senso tradizionale).
Lowi rimane, tuttavia, ancora legato alla tradizionale concezione della scienza
politica quando assimila il concetto di norma formulata da qualche autorità
governativa al concetto di politica pubblica. “Una politica pubblica è, dunque,
una norma formulata da qualche autorità governativa che esprime una intenzione di influenzare il comportamento dei cittadini, individualmente o collettivamente, attraverso l’uso di sanzioni positive o negative” (Lowi 1998, 230).
Va notato che l’affermazione che la politica pubblica è formulata solo da un’autorità governativa entra quasi immediatamente in contraddizione con l’analisi
successiva dello stesso Lowi che, senza successo, cerca di evitare la contraddizione distinguendo diversi tipi di politiche pubbliche, tutte sinonimo di norma,
ma differenziate per i modi in cui viene esercitata la coercizione. La politica, dice
Lowi, disporrebbe di quattro diverse forme di coercizione, una per ogni casella
di una tabella 2x2 ottenuta dall’incrocio di due dicotomie: applicabilità della
coercizione (all’azione individuale o all’ambiente dell’azione) e tempi della coercizione (immediata o remota). Solo una di queste forme di coercizione è da Lowi
attribuita alla regolazione vera e propria: quella diretta all’azione individuale e
immediata nell’applicabilità (Lowi 1998, 39). Sono direttamente regolatorie,
quindi, tutte le attività dirette al controllo immediato delle azioni individuali.
Delle altre politiche, alcune non saranno mai regolatorie, altre lo possono essere solo in modo indiretto, altre ancora lo possono diventare, in determinate circostanze o per il concorso di altre forme di regolazione.
Solo che questa distinzione di diverse politiche pubbliche non rimedia alla identificazione di norma con norma emanata da autorità governativa e, quindi, di
regolazione politica affidata esclusivamente ad autorità governative. Lo dimostra
l’analisi che Lowi fa delle politiche redistributive del welfare state che egli ammette essere state influenzate e portate a limiti non previsti (indesiderati o inattesi)
per non essere state accompagnate da politiche regolatorie collaterali, ma soprattutto per modifiche prodotte dall’intervento di attività regolatorie comunitarie o
del sapere, cioè dall’intervento di norme non emanate da autorità governative. Lo
stesso Lowi cita, tra le più rilevanti, una modifica nella concezione corrente del-
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Capitale sociale e scienza delle politiche
l’etica della responsabilità, cioè nelle norme etiche implicite, o un intervento di
vari studiosi (di filosofia politica, filosofia del diritto, etc.) nella definizione della
situazione, quindi nel rendere operative nuove norme etiche implicite.
La politica di Ronald Reagan rappresenterebbe una ulteriore conferma della contraddizione di Lowi perché, come ci segnala sempre Lowi, il Presidente U.S.A.,
nel tentare di ridurre il costo del welfare, non è intervenuto sulle norme del welfare emanate da autorità governative, per ridimensionare la valenza sociale di
quella politica redistributiva, bensì su una forma di regolazione del welfare, in
base all’ipotesi che, per non rendere il welfare eccessivamente costoso, basti soltanto esercitare un forte controllo immediato sugli individui che ne usufruiscono. Detto nei termini di Lowi, “L’amministrazione Reagan ha esteso in misura
significativa l’autorità regolatoria sui casi e sui clienti del welfare. La revisione delle
liste degli aventi diritto, la stigmatizzazione pubblica del welfare per ridurre la
domanda, e l’uso del welfare per impartire lezioni morali su lavoro e oculatezza
sono buoni esempi dell’approccio conservatore alla regolazione” (Lowi 1998,
174). Questo tipo di politica, pur senza toccare le norme sul welfare emanate da
autorità governative, realizza comunque l’obiettivo di ridurre la spesa, ma anche
di ridurre clientelismo e patronage perché il patronage aumenta con la discrezionalità e viene ridotto da requisiti formali sottoposti a sistematico controllo.
In altri termini, una politica redistributiva può essere descritta come l’insieme di
più politiche regolatorie: le norme del welfare che sono di per sé regolatorie (e
alcune anche autoregolatorie, nel senso che si dirà più avanti); norme di controllo che sono sempre regolatorie; norme etiche implicite che sono espressione della regolazione comunitaria; l’intervento della dottrina giuridica e di altre
dottrine che è espressione della regolazione del sapere; etc.
Sia detto per inciso, questo significa trattare il concetto di organizzazione, anche
quella governativa, in modo molto più ampio di come lo faccia la scienza politica
tradizionale, cioè nel modo in cui la intendono March e Olsen; un modo che può
risultare particolarmente utile quando si affronta il tema del capitale sociale.
Molto interessanti sono anche alcune considerazioni che Lowi fa a proposito
della regolazione economica quando affronta il tema delle corporazioni che si
allargano attraverso fusioni e acquisizioni. Non solo sostiene che lo Stato è, dal
punto di vista della regolazione, una forma di corporazione, ma anche che la corporazione è una forma di Stato. Anche perché, dopo una fusione o acquisizione,
alcune transazioni che venivano affidate al mercato (la transazione tra imprese
che appartenevano a società diverse prima della fusione o acquisizione) cominciano a diventare interne. E siccome la regolazione politica è, appunto, una
forma di regolazione interna a ciascuna organizzazione e la regolazione economica è una forma di regolazione esterna all’organizzazione o a più organizzazioni, è evidente che la fusione o acquisizione trasforma in regolazione politica alcune che prima erano forme di regolazione economica. Quindi, sempre per tornare sul tema della regolazione politica, in particolare sulla regolazione delle corporazioni, quando queste agiscono come uno Stato, questa regolazione non si
realizzerebbe attraverso norme emanate da autorità governative.
Per non parlare, poi, dell’influenza che già Weber aveva sottolineato tra norme
regolatorie comunitarie e la produzione di capitale sociale che si tramutava, nel
tempo, in capitale vero e proprio. Per esempio, Weber attribuisce a impliciti divieti etici a sfruttare il lavoro degli appartenenti alla propria comunità il perché del
147
n.5 / 2002
relativo scarso sviluppo, tra gli ebrei, di forme di imprenditorialità e il relativo elevato sviluppo di forme di capitalismo finanziario. Inoltre, attribuisce alla identificazione del successo negli affari con il benvolere divino l’affievolimento di quegli
scrupoli etici verso i membri più poveri della propria comunità il perché della
relativa elevata presenza di imprenditori nelle comunità calviniste o protestanti.
Il concetto di autoregolazione, che alcuni intendono, erroneamente, come regolarsi da sé o come sinonimo di regolazione comunitaria, viene da Lowi definito
come regolazione indicizzata. Egli porta, a questo proposito, l’esempio di una
legge U.S.A. del 1972 per l’indicizzazione dei contributi all’assistenza sociale
(Lowi 1998, 285). Notare che si tratta di una autoregolazione compresa dentro
una politica di welfare con funzioni sicuramente redistributive, soprattutto in
momenti di alta inflazione.
Ovviamente, ogni diverso tipo di regolazione “concreta” produce un diverso tipo
di capitale sociale non essendo paragonabile il capitale sociale che può essere
prodotto dall’uso prevalente di norme e sanzioni regolatorie dirette (cioè connesse a politiche regolatorie) rispetto a quello prodotto con l’uso prevalente di
norme e sanzioni indirette o differite dove la regolazione politica opera congiuntamente alla regolazione comunitaria o/e del sapere o, infine, rispetto alle
forme di capitale sociale che possono essere influenzate dall’autoregolazione.
Nello studiare una politica, Lowi avvisa di farlo ponendo attenzione alle arene
politiche. Infatti, egli sostiene che ciascuna regolazione “concreta” viene realizzata in particolari arene di potere, ognuna delle quali “tende a sviluppare la propria caratteristica struttura politica, il suo processo politico, le sue élite e i suoi
tipi di rapporti tra i gruppi” (Lowi 1998, 20). I diversi tipi di rapporti tra i gruppi
possono essere descritti e analizzati in termini di capitale sociale, buono o cattivo, bridging o bonding, etc.
Mauro Calise, che ha raccolto e pubblicato in italiano i principali saggi di Lowi,
costruendo un volume che non esiste in altra lingua e che sintetizza molto bene
il pensiero di Lowi, ha intitolato La scienza delle politiche questo volume, proprio per sottolineare che si tratta di una scienza paradigmaticamente diversa
dalla tradizionale scienza politica. Una fondamentale differenza consiste nel fatto
che Lowi si serve delle più importanti teorie della scienza politica (la élitista e la
pluralista) per affermare l’esistenza di due diversi tipi di arene: quella descritta dalla
teoria élitista, per la quale opera una sola élite ben strutturata e ben individuabile
empiricamente in ciascun sistema politico (costruita da attori politici, attori economici, attori intellettuali come produttori di sapere codificato e leader informali),
mentre la teoria pluralista descrive quelle arene nelle quali operano dei gruppi
(costituiti sempre da attori politici, attori economici, attori intellettuali che controllano la definizione della situazione e leader informali interessati a mobilitarsi su
quella particolare politica) che partecipano a un dato processo decisionale.
Mi permetto di aggiungere a questi due livelli, un terzo livello di arene che può
essere connesso a quelle politiche dette ad alto valore simbolico. In queste
arene, competono o cooperano attori politici, economici e intellettuali per la
definizione della situazione e leader informali capaci (questi ultimi) di mobilitare intere comunità locali proprio contestando la definizione della situazione fornita dagli altri attori. Come tutto il problema si risolva a livello della definizione
della situazione lo mostra un esempio di politica ad alto valore simbolico, su cui
ho indagato qualche tempo fa. Questa politica, il progetto di costruzione di una
148
Giuseppe Gangemi
Capitale sociale e scienza delle politiche
tramvia a Padova, ha scombinato completamente l’arena della politica comunale
di Padova tra il 1996 e il 1999 portando alla sconfitta del vecchio sindaco, considerato da tutti, come amministratore, molto capace, e alla vittoria di una donna
sindaco ancora in carica. Il sindaco sconfitto, in una intervista realizzata per la
ricerca, incalzato dalle domande sul perché non si sia accorto in tempo di quello che stava succedendo e lo abbia capito solo a elezioni ormai perse, ha dichiarato che ascoltava i rappresentanti dei partiti (all’inizio anche di quelli dell’opposizione), i rappresentanti dei sindacati e i rappresentanti delle categorie professionali e questi si dichiaravano dalla sua parte. Egli ascoltava, quindi, soprattutto i componenti della o delle varie élite e questi, nella quasi totalità, hanno
mostrato fino alla fine la sicurezza di avere la situazione sotto controllo. Una sicurezza che, normalmente, commentava l’intervistato, poteva essere assunta come
una garanzia certa. Quella volta, invece, i nuovi leader informali erano stati sottovalutati dagli appartenenti alle reti di relazione tradizionali della politica. Non
si percepì, fino all’ultimo, che quei nuovi leader, pur essendo destinati a svolgere un ruolo temporaneo, erano stati capaci di ridefinire la situazione e, quindi, di
spostare il consenso dei concittadini da una coalizione all’altra, senza che nemmeno i vincitori ne fossero consapevoli fino a pochi giorni prima delle elezioni.
Lowi è chiaramente un autore di transizione, un autore che partendo dalle tradizionali categorie della scienza politica ha sentito la necessità di tentare alternative forme di analisi. Quanti sono arrivati dopo di lui hanno fatto ancora altra
strada verso la scienza delle politiche. Tuttavia, proprio sul concetto di regolazione, Lowi presenta una serie di consapevolezze teoriche che possono essere di
grande aiuto all’analisi empirica del capitale sociale. È evidente, infatti, che le
varie forme di capitale sociale dipendono, non tanto da quante sono le forme di
politiche pubbliche (dal momento che la distinzione tra le politiche regolatorie
e le altre proposte di Lowi sembra poco efficace), ma certamente da come sono
le regolazioni “concrete” e ancora più dal tipo o livello di arena considerato.
Queste considerazioni di Lowi sono importanti, come si è già detto, per impostare una analisi specificatamente politica e non solo un’analisi sociologica o economica del capitale sociale. Affrontare l’analisi politica del capitale sociale significa premettere la constatazione che il capitale sociale prodotto da una arena in
cui opera una sola élite é diverso da quello prodotto in una arena dove operano
più élite e ancora di più in una arena in cui le politiche pubbliche assumono un
alto valore simbolico.
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150
Marco Almagisti
Capitale sociale e qualità della
democrazia
Il Sestante
Origini e prime applicazioni: il capitale sociale fra sociologia e
scienza economica
Negli ultimi anni, il concetto di capitale sociale viene utilizzato in contesti disciplinari molto diversi, per evocare fenomeni eterogenei, ed è sovente indicato
come chiave per il rinnovamento delle rispettive discipline, con conseguente
rilettura dei classici di riferimento e dei contributi teorici e metodologici che
orientano la ricerca empirica.
I motivi che spingono a rivisitare i contributi dei classici generalmente sono molteplici, innanzitutto, come ricorda Norberto Bobbio, “per non lasciarsi ingannare dalle apparenze e non essere indotti a credere che ogni dieci anni la storia
ricominci da capo” (Bobbio 1984, 10); in particolare, l’attuale dibattito interdisciplinare sul capitale sociale (CS) consente di rivisitare i patrimoni di conoscenze sedimentati nelle diverse discipline in cui si articolano le scienze umane, nel
tentativo di rendere meno impermeabili le linee di demarcazione fra un ambito
semantico e quelli contigui.
A tal proposito, è bene ribadire che non v’è accordo sulle diverse modalità d’intendere il concetto di CS e, ciò nonostante, esso è “diventato un tema di grande
attualità nelle scienze sociali” (Trigilia 2000, 7). Come documentato da Putnam
(2000, 19), il primo utilizzo del concetto CS non avviene nella teoria: nel 1916,
L.J. Hannifer, supervisore delle scuole rurali in Virginia, “inventa” tale espressione al fine di evidenziare l’importanza dell’impegno comunitario per il successo
delle politiche scolastiche. Si deve attendere Jane Jacobs (1969) e il suo studio
delle trasformazioni delle grandi realtà urbane, per il primo utilizzo in ambito
scientifico del concetto, che già si connota in riferimento agli aspetti informali e
latenti della struttura sociale. La riscoperta del CS, ed il suo utilizzo sistematico,
risalgono agli anni Settanta, quando incominciano a venire meno le rigide distinzioni fra la scienza economica e la sociologia e si afferma l’uso del concetto di
capitale umano per indicare l’accumulo di conoscenze e di abilità mediante le
quali un individuo contribuisce al processo produttivo: Loury (1977) incomincia
ad utilizzare il termine CS per spiegare grazie a quali relazioni sociali, entro cui il
singolo individuo è inserito, si viene formando il “capitale umano”. Pochi anni
dopo il concetto viene reintrodotto da Pierre Bourdieu, secondo il quale “il capitale sociale è l’insieme delle risorse attuali o potenziali che sono legate al possesso di una rete durevole di relazioni più o meno istituzionalizzate d’interconoscenza e d’inter-riconoscimento o, in altri termini, all’appartenenza a un
151
n.5 / 2002
gruppo […]. Il volume di capitale sociale posseduto da un particolare agente
dipende dunque dall’ampiezza della rete di legami che egli può efficacemente
mobilitare e dal volume di capitale (economico, culturale e simbolico) detenuto
da ciascuno di coloro cui egli è legato” (Bourdieu 1980, 2).
Nell’accezione di Bourdieu, il CS deve essere inteso a) come costrutto che serve
ad ordinare una pluralità di fenomeni sociali eterogenei, ma che possono essere
considerati come risorse per perseguire determinate finalità; b) come costituito
dalle relazioni sociali in possesso di un individuo (esso non costituisce altro che
un insieme di risorse che costui può utilizzare, assieme ad altre risorse, per
meglio perseguire i propri fini, che restano sempre fini individuali); c) come possesso individuale: il CS scaturisce dalle relazioni interpersonali che derivano ad
un individuo dall’appartenenza ad un gruppo, ma non è una proprietà della relazione inter-individuale d) come possesso distinto dalle altre forme di capitale (le
forme di capitale culturale, economico e simbolico, intese come risorse individuali): un individuo sarà tanto più ricco di CS quanto più gli altri individui con
cui interagisce sono ricchi di altre forme di capitale.
Espresso in questi termini, il CS evidenzia i vantaggi che derivano ad un individuo dalla sua particolare collocazione entro una rete di relazioni con altri individui, a loro volta dotati di risorse culturali, economiche o simboliche (prestigio,
reputazione, ecc.). Questa rete di relazioni “è il prodotto di strategie d’investimento sociale orientate, coscientemente o meno, verso l’istituzione o la riproduzione di relazioni sociali direttamente utilizzabili, a breve o a lungo termine”
(Bourdieu 1980, 2). È soprattutto Granovetter (1998) a sottolineare la rilevanza
delle reti sociali nel funzionamento del mercato del lavoro e nell’organizzazione
dell’attività produttiva. In particolare, Granovetter, che non si riferisce mai esplicitamente al concetto di CS, dimostra come siano i legami deboli (informali, latenti) a costituire le reti che influenzano la possibilità di trovare un’occupazione.
Da queste considerazioni emerge che “le origini e gli sviluppi del concetto di
capitale sociale si collocano nell’ambito dello studio delle attività economiche.
Più precisamente si legano al tentativo di mostrare come i fenomeni sociali condizionino l’economia” (Trigilia 2000, 9). Il riferimento classico, in questo caso, è
Max Weber, della cui analisi ripetutamente sia Trigilia che Bagnasco fanno menzione esplicita. In particolare, i sociologi dell’economia si riferiscono allo studio
di Weber Le sette e lo spirito del capitalismo (1977, 61ss), in cui il grande sociologo tedesco indaga le implicazioni dal punto di vista economico e commerciale
dell’appartenenza ad una setta religiosa, i cui rigidi criteri d’ammissione e di
condotta di vita garantiscono la correttezza morale di chi vi appartiene; un attestato di qualificazione etico-commerciale di grande importanza in un’epoca in
cui l’economia capitalista si struttura in una dimensione incomparabilmente più
estesa rispetto ai luoghi dello scambio economico antecedente alla modernità.
In altri termini, Weber effettua riferimenti diretti, anche se non ne introduce
esplicitamente il concetto, a quanto la sociologia economica dei decenni successivi indicherà come CS. In particolare, il CS implicito nell’analisi weberiana è
“inteso come risorsa strategica appropriabile dal singolo individuo perché la può
attingere dal capitale di fiducia accumulato nel tempo dai battezzati in quella
stessa setta” (Gangemi 2002, 162).
Se gli elementi riconducibili al concetto di CS rappresentano una componente
152
Marco Almagisti
Capitale sociale e qualità della democrazia
costitutiva della sociologia economica, è molto più difficile riscontrare il ricorso
al concetto in questione nell’ambito dell’economia politica; a tal proposito, risulta rilevante l’analisi compiuta da Solari (in questo volume) al fine di valutare la
diffusione del concetto di CS fra gli economisti, non soffermandosi unicamente
sul tentativo di tradurre la complessità dell’agire umano all’interno della gerarchia delle preferenze individuali, come prescritto dall’approccio neoclassico, ma
spingendosi sino alla ridiscussione del modello di spiegazione microeconomico
ancorato ai capisaldi dell’utilitarismo.
Una strada che, se sviluppata, potrebbe comportare un mutamento di paradigma
molto importante, in quanto la scienza economica può vantare una sorta di “primato storico” dovuto alla sua formalizzazione anticipata rispetto alle (altre) scienze sociali. Nel considerare la grande influenza esercitata dall’economia nei confronti delle altre discipline che studiano la società, March e Olsen (1992) hanno,
infatti, sottolineato il ruolo giocato dal prestigio dell’economia come scienza maggiormente formalizzata, derivante dal fatto che le categorie fondamentali del pensiero economico hanno avuto un tempo maggiore per sedimentarsi1.
Se la nozione di CS pare non aver trovato (almeno finora) un consenso ampio
fra gli economisti, fra quanti si collocano “a metà strada fra economia e sociologia” deve essere considerata l’ambiziosa opera teorica di Coleman (1990), in cui
una parte rilevante è dedicata al CS inteso come rete di relazioni che fanno riferimento ai singoli individui. Coleman riconosce esplicitamente che l’obiettivo cui
tende la propria analisi consiste nel correggere la distorsione individualistica dell’economia neoclassica (Coleman 1990, 301) e, conseguentemente, intende
rimettere al centro dell’attenzione le dinamiche relazionali, il contesto situazionale. Partendo dalla prospettiva dell’individualismo metodologico, Coleman elabora una complessa teoria che si prefigge di spiegare il funzionamento della
società sulla base delle scelte razionali individuali. Egli pone, altresì, attenzione
alle istituzioni e alle forme organizzative, in quanto esse rappresentano i contesti che condizionano le scelte e producono effetti sistemici (Coleman 1990, 315).
La sua definizione, introdotta da un sorprendente assunto funzionalista, è resa
ulteriormente interessante dal fatto che essa viene ripresa ed utilizzata praticamente da tutti i principali autori che fanno riferimento al CS:
“Il capitale sociale è definito dalla sua funzione. Esso non è una singola entità, ma
una varietà di entità differenti con due caratteristiche comuni: consistono tutte
di vari aspetti di una struttura sociale e facilitano certe azioni degli individui dentro la struttura. Come le altre forme di capitale, il capitale sociale è produttivo
rendendo possibile la realizzazione di certi fini che non si potrebbero ottenere
in sua assenza. (…) Una data forma di capitale sociale utile nel facilitare certe
azioni può essere inutile e persino dannosa per altre. A differenza delle altre
forme di capitale (fisico, umano), il capitale sociale si riferisce alla struttura di
relazioni fra due o più persone. Esso non risiede negli individui né nelle componenti fisiche della produzione” (Coleman 1990, 302).
È stato rilevato che alcune delle proprietà attribuite da Coleman al concetto in
questione risultano inconciliabili rispetto alla fiction individualista proposta inizialmente2: il CS viene indicato come una serie di entità differenti, accomunate
dal fatto di costituire un aspetto della struttura sociale. In questa direzione si
orientano gli esempi forniti da Coleman: la presenza di circoli studenteschi in
1
La Ricchezza delle
Nazioni di Adam
Smith, cui convenzionalmente si fa risalire
la nascita della
moderna economia
politica è del 1776; la
sociologia si affermerà compiutamente
come scienza, con
Comte e Saint-Simon,
solo alla metà del
secolo successivo,
almeno fino a che si
intende considerare
l’insieme delle scienze
sociali come scienze di
leggi, ossia come
scienze che concepiscono la propria ricerca all’interno di un
approccio rigidamente nomotetico che,
gnoseologicamente, si
regge sull’assunto di
fungibilità piena di
oggetti dello stesso tipo
(Marradi 1980) e che i
più recenti sviluppi
metodologici, orientati al recupero della
storiografia e delle
dimensioni locali, rendono sempre più problematico.
2
“La fiction è che la
società consista di un
insieme di individui
indipendenti, ciascuno dei quali agisce
per raggiungere scopi
che vengono raggiunti
in modo indipendente, e che il funzionamento del sistema
sociale consista in
una combinazione di
queste azioni di individui indipendenti”
(Coleman 1990, 300).
Per maggiori approfondimenti relativi
alla definizione di
Coleman, si rimanda
all’analisi sistematica
di Cartocci (2002, 4150).
153
n.5 / 2002
Corea del Sud ha costituito una forma di CS, in quanto ha fornito le risorse organizzative per dimostrazioni o altre forme di protesta; a differenza che a Detroit,
a Gerusalemme le mamme si fidano a mandare i bambini a scuola o ai giardini
pubblici da soli, poiché “la struttura normativa assicura che i bambini vengano
controllati dagli adulti del vicinato” (Coleman 1990, 303). Pertanto “l’organizzazione sociale costituisce capitale sociale, agevolando la realizzazione di scopi che
in sua assenza non sarebbero raggiunti o lo sarebbero solo a un costo più elevato” (Coleman 1990, 304).
Inoltre, la convinzione che il CS sia irriducibile a una proprietà dei singoli individui è rafforzata da una caratteristica fondamentale del CS, che lo differenzia radicalmente dal capitale privato, secondo Coleman, ossia la sua natura di bene pubblico: “Come attributo della struttura sociale in cui la persona è inserita (embedded), il capitale sociale non è proprietà privata di qualcuna delle persone che ne
traggono vantaggi” (Coleman 1990, 315).
Secondo Coleman, il CS è un concetto dinamico, situazionale: spesso è un sottoprodotto (by-product) di attività iniziate per altri scopi (Coleman 1990, 317).
Esso non è definibile una volta per tutte: si crea, si mantiene e si distrugge; ed
anche in questo caso, nell’analisi degli accadimenti che possono agevolarne la
riproduzione, Coleman considera il medesimo come attributo di una collettività,
elencando fattori quali la chiusura e stabilità del gruppo, la diffusione di ideologie orientate verso la cooperazione, la dipendenza materiale (1990, 321).
Il capitale sociale nella scienza politica: l’approccio di Putnam
e i retaggi tocquevilliani
Se l’origine del concetto di CS deve essere ricercata nell’ambito di studio delle
attività economiche, la sua popolarità è legata soprattutto al tentativo di Putnam
(1993) di applicarlo allo studio dei fenomeni politici, in particolare al rendimento delle istituzioni regionali italiane.
L’idea di fondo dell’analisi di Putnam è che, nonostante nel 1970 in tutte le
Regioni italiane sia stato introdotto il medesimo modello istituzionale, differenze di contesto abbiano prodotto (e continuino a produrre) differenti livelli di
rendimento delle istituzioni regionali. Utilizzando un’ampia raccolta di dati
empirici, frutto di una ricerca pluridecennale (Putnam, Leonardi e Nanetti 1985),
Putnam evidenzia un’elevata correlazione fra il rendimento istituzionale e la presenza di una specifica cultura politica identificata come variabile esplicativa delle
diverse performance istituzionali.
Secondo Putnam un buon rendimento istituzionale è legato alla persistenza di
una determinata cultura politica, della civicness, ossia alla riproduzione di un
orientamento diffuso dei cittadini verso la politica, che non sia alimentato da
aspettative particolaristiche e comportamenti opportunistici e che sia, invece,
sostenuto da una estesa fiducia interpersonale e dalla consuetudine alla cooperazione. Sul piano empirico la civicness viene misurata prevalentemente attraverso l’indicatore costituito dalla partecipazione ad associazioni che, secondo
una tradizione di pensiero annoverante Tocqueville fra i suoi più illustri esponenti, dovrebbe rappresentare l’antidoto più efficace contro i rischi di diffusione
di comportamenti opportunistici ed il conseguente ripiego in un gretto privati-
154
Marco Almagisti
Capitale sociale e qualità della democrazia
smo. In tale contesto, sottolinea Putnam, “per capitale sociale intendiamo […]
la fiducia, le norme che regolano la convivenza, le reti di associazionismo civico, elementi che migliorano l’efficienza dell’organizzazione sociale promovendo
iniziative prese di comune accordo” (Putnam 1993, 196, corsivi miei).
Come si può notare, il concetto di CS è utilizzato da Putnam in un’accezione
molto diversa rispetto all’approccio proprio dei sociologi dell’economia; esso
viene identificato, in questo caso, con la civicness e con quegli elementi, come
la partecipazione associativa, che tendono a riprodurla: “anche le pratiche di
mutua assistenza, come le società cooperative di credito, sono forme di investimento in un capitale sociale […]. La maggior parte dei capitali sociali, come la
fiducia, sono, secondo la definizione di Albert Hirschman, “risorse morali”, ovvero risorse la cui fornitura aumenta invece di diminuire con l’uso e che si esauriscono se non sono usate” (Putnam 1993, 199).
In ultima istanza, i differenti rendimenti istituzionali delle Regioni italiane dipenderebbero, secondo Putnam, da differenti dotazioni di CS, e l’origine di tale discrepanza andrebbe ricercata nelle vicende che hanno caratterizzato la nostra
penisola quasi un millennio or sono. Attorno al 1100 l’Italia era divisa in due
opposti regimi politici consolidati: nel sud, sulle fondamenta bizantine ed arabe
era sorto il Regno dei Normanni, nel (centro-)nord ogni tentativo di superare la
dispersione territoriale dei poteri era fallito e ciò aveva consentito che prosperassero i liberi comuni. Questi due diversi sistemi (gerarchico il primo, repubblicano ed egualitario il secondo) hanno attraversato la storia evolvendo secondo
logiche proprie e sedimentando l’esperienza di istituzioni e culture contrapposte (“verticali” al sud, “orizzontali” al centro-nord).
Il testo di Putnam, pubblicato nel 1993 pressoché contemporaneamente nell’edizione americana (titolata suggestivamente Making Democracy Work) e in
quella italiana, ha goduto di una vasta risonanza sui mass-media, sin dalla recensione molto positiva dell’Economist, suscitando, particolarmente in Italia, un
notevole dibattito “in quanto nell’anno di uscita del volume era in atto l’espansione elettorale leghista, i cui temi propagandistici potevano trovare qualche
assonanza con l’argomentazione di Putnam” (Cartocci 2002, 32)3.
Prima di addentrarci nelle dispute originate dall’analisi di Putnam, risulta utile
evidenziare le caratteristiche principali della sua nozione di CS4. Per Putnam il
CS è: a) un costrutto mediante il quale il ricercatore si propone di comprendere
aspetti eterogenei di una società (dalle norme morali agli assetti organizzativi),
b) un concetto riferito a collettività e non a singoli individui, c) una risorsa collettiva che può agevolare il conseguimento di certi obiettivi, genericamente intesi, d) una nozione moralmente neutra (tuttavia, Putnam mostra interesse per
quei contenuti di CS che alimentano un ethos democratico, inteso, come suggerisce Tocqueville, sotto forme di disponibilità alla partecipazione politica, agevolata dalla presenza di strutture associative “orizzontali”), e) una espressione
metaforica: il riferimento a Hirschman (1988) vuole significare una presa di
distanza dalla prospettiva economicista. Proprio in merito a tale questione,
Cartocci (2002, 53) evidenzia l’alterità di questo approccio rispetto alle concezioni “strumentali” del CS. Secondo Cartocci, si può tentare una mediazione fra
le concezioni di CS di Putnam e quella di Bourdieu soltanto ignorando la distinzione weberiana fra razionalità rispetto allo scopo e razionalità rispetto al valore
3
Su questo punto si
confronti Gangemi
(1997a, 3-4).
4
Le sintesi critiche
effettuati da Cartocci
(2000; 2002) rappresentano, anche in
questo caso, un termine di confronto imprescindibile.
155
n.5 / 2002
5
È utile rilevare come
questa dualità nelle
definizioni del CS
trovi un importante
precedente nel dibattito relativo alla fiducia:
si veda la distinzione
di Luhmann (1989,
127ss) fra “fiducia”
(trust) e “confidare”
(confidence), in cui la
prima dimensione
(trust) presuppone
scelte individuali
rischiose, rivolte a
referenti individuali o,
comunque, circoscritti, come nel caso dei
mercanti che valutano i rischi, apprendono dall’esperienza,
ponderano le informazioni per decidere
se accordare o meno
fiducia alla controparte commerciale;
mentre la seconda
(confidence) concerne
la partecipazione a
sistemi complessi, in
cui il referente è il
sistema e nella quale
la dimensione della
scelta razionale non
costituisce l’elemento
fondamentale.
6
Come evidenzieremo
successivamente, l’analisi di Putnam resta
molto aderente all’interpretazione della
società civile effettuata da Tocqueville in
riferimento al contesto
americano
dell’Ottocento. Il fenomeno dell’aggregazione degli interessi in
Europa, ad esempio, è
stato caratterizzato
dalla sintesi operata
da altre strutture
rispetto a quelle predilette dall’analisi di
Putnam, come i partiti politici. Si veda a tal
156
(Weber 1980, 22ss).
L’analisi di Cartocci coglie un elemento problematico concernente le diverse
modalità mediante le quali gli esseri umani conferiscono senso al mondo, che
attraversa la storia delle scienze sociali sino alle più recenti riflessioni di March e
Olsen (1992) sulla differenza fra l’approccio aggregativo e quello integrativo nel
funzionamento delle istituzioni e che Cartocci riconduce all’antinomia concettosimbolo. Riprendendo la lezione di Tullio-Altan (1992) sull’importanza antropologica di riconoscere il ruolo dell’esperienza simbolica, oltre a quella concettuale-razionale, Cartocci (2002, 55-57) sostiene che il CS riguarda soprattutto il registro simbolico (indicato come fondante la convivenza umana), la condivisione di
valori e di esperienze significative5. In questo senso, il CS risulta essenziale nell’analizzare una serie di questioni emergenti, infatti “in questi anni nella scienza
politica tale nozione ha assunto un rilievo centrale. Assieme a società civile,
comunità e repubblicanesimo, fa parte di una costellazione di termini con cui si
designano, con ampie aree di sovrapposizione reciproca dei rispettivi significati,
aspetti della vita associata che non sono riconducibili direttamente alla sfera politico-istituzionale, ma che hanno precisi riflessi sugli assetti politici e sulla legittimità delle istituzioni in ambito locale o nazionale” (Cartocci 2002, 37).
Il testo di Putnam (1993), “apripista” del filone politologico del CS, è centrato
interamente sul “caso italiano”, ma l’autore non nega di volerne trarre indicazioni più generali, teoriche e pratiche, in merito al rapporto fra modernità, sviluppo economico, corpi intermedi e democrazia e, a tal fine, reinterroga il contributo di Tocqueville all’analisi del funzionamento delle istituzioni repubblicane,
contenuto nella Democrazia in America (1969). È il caso di evidenziare i punti
di contatto di Putnam con la riflessione tocquevilliana, in modo da poterne evidenziare pregi e limiti e trarne ulteriori indicazioni operative.
Tali punti di contatto sono espliciti e, come si è accennato, orientati ad illustrare la salienza dell’indicatore “vivacità” del tessuto associativo. Un dato rilevante
è costituito dal fatto che Putnam, sulla falsariga di Tocqueville, mostra un interesse esplicito anche per quelle realtà associative che solo indirettamente sortiscono degli effetti politici.
Si tratta, a detta di Tocqueville, di associazioni che producono effetti che ricadono sull’intera società: in particolare, secondo l’interpretazione fornita da
Putnam, una fitta rete di associazioni secondarie agevola i fenomeni che la scienza politica contemporanea definisce come “articolazione degli interessi” e
“aggregazione degli interessi”6.
Per Tocqueville, pertanto, il problema centrale delle scienze sociali, ossia la
coesione della società, questione fondamentale che, nel corso dei secoli, ha
richiamato l’attenzione di pensatori fra loro diversissimi come Aristotele,
Hobbes, Durkheim, Simmel o Polanyi, trova la propria soluzione, almeno potenziale, nella presenza di numerose associazioni secondarie, in grado di favorire il
consolidamento di un’effettiva collaborazione fra i membri della società.
L’aspetto di maggior interesse della riflessione di Tocqueville, che viene posto in
evidenza anche dagli studiosi successivi, come Putnam, è il rapporto che si
instaura fra un rigoglioso tessuto di realtà associative, da un lato, e qualità della
democrazia dall’altro.
La modernità, in estrema sintesi, implica la delegittimazione delle pregresse stra-
Marco Almagisti
Capitale sociale e qualità della democrazia
tificazioni sociali in “corpi chiusi”, separati da distanze invalicabili, ma anche l’allentamento dei legami che tali corpi innervavano. Nelle società tradizionali,
caratterizzate da appartenenze gerarchiche, i legami interpersonali erano “strutturanti” e sortivano l’effetto di “frenare” il potere politico; nella società moderna, caratterizzata dalla rilevanza attribuita a manifestazioni di volontà revocabili
come il contratto, i legami interpersonali tendono ad essere destrutturati e a non
rappresentare un efficace contrappeso al potere politico che resta, in tal modo,
s-frenato: se ogni cittadino rifluisce nel “privato”, isolandosi dai suoi simili, contribuisce a realizzare lo “svuotamento” di quella dimensione che, più di un secolo dopo Tocqueville, verrà definita sfera pubblica (Habermas 1962), la quale
diviene in tal modo disponibile alle incursioni di figure dispotiche.
L’antidoto proposto da Tocqueville è costituito da una diffusa partecipazione
associativa. Si tratta sempre di corpi intermedi, ma, mentre nel Medioevo tali
organismi erano “chiusi” (o difficilmente permeabili, come le corporazioni), successivamente essi mutano le proprie caratteristiche, rinascendo come tendenzialmente “aperti”, regolati cioè dalla libertà di conversione7, come i primi club,
le coffee house o la Royal Society in Inghilterra, associazioni che riescono a normalizzare la critica al potere anche fuori del Parlamento già nel Seicento
(Almagisti 2002a), o le associazioni studiate da Tocqueville in America. Questa
importante distinzione non compare in Putnam, pertanto il concetto “corpi
intermedi”, nella sua ambiziosa analisi longitudinale, finisce inevitabilmente per
richiamare referenti troppo dissimili (Marradi 1994).
Vi è un’approssimazione anche a livello di teoria politica, rivelatrice di qualche
eccessivo schematismo nell’interpretazione delle dinamiche dei processi di sviluppo politico: il riferimento a Machiavelli, che Putnam accomuna a Guicciardini
nell’opera di elaborazione di una teoria della libertà repubblicana (Putnam 1993,
154), sembra rivelare un’interpretazione che non coglie le profonde differenze
intercorrenti sia nelle forme istituzionali, che nella cultura politica caratterizzante il modello repubblicano, da cui, secondo Putnam, derivano le fortune delle
regioni italiane settentrionali. A tal proposito, è stato evidenziato (Almagisti
2002b) il profondo dissidio che intercorre fra il Machiavelli dei Discorsi e pensatori come Guicciardini e Donato Giannotti, riguardo ai modi di concepire il vivere civile e la partecipazione politica. Riletto alla luce di tali contrapposizioni,
Machiavelli risulta il primo pensatore a postulare l’esistenza di un nesso virtuoso
fra il conflitto, purché riconosciuto ed adeguatamente regolato, e la creazione di
quanto oggi cerchiamo di evidenziare tramite la metafora del CS e, sotto questo
aspetto, costituisce l’iniziatore di un distinto filone repubblicano (che troverà in
Vico uno dei principali continuatori). Appare, pertanto, un’eccessiva semplificazione l’analogia, presente in Putnam, fra Machiavelli cinquecentesco difensore
delle (ormai perdute) libertà repubblicane delle città italiane e Tocqueville ottocentesco cantore dell’associazionismo secondario americano8. Più in generale,
la forte adesione ai presupposti analitici della Democrazia in America di
Tocqueville (il quale, memore delle tragiche conseguenze della Rivoluzione francese tende a rimuovere il conflitto) induce Putnam a sottostimare il possibile
ruolo del conflitto nella generazione del CS e le modalità attraverso le quali le
stesse fratture sociali si ripercuotono anche all’interno dei sistemi di associazione (Reuter e Ruetters 2001, 7).
proposito il monumentale lavoro di
ricerca di Reutter e
Ruetters (2001) sui
sistemi di associazione dell’Europa occidentale.
7
Derivo quest’importante nozione da una
conversazione con
Alessandro Pizzorno.
8
Esemplificazione
presente anche nella
proposta di Viroli
(1999), orientata a
presentare il repubblicanesimo come “terza
via” che consenta di
evitare la contrapposizione frontale fra
individualismo liberale e comunitarismo.
157
n.5 / 2002
9
Putnam si riferisce
ad una concezione
della cultura politica
che difficilmente può
essere utile per un’alnalisi sul CS, quella di
Almond e Verba
(1963), i quali concepiscono la cultura
politica in termini di
aggregati di tendenze
psicologiche individuali entro una
dimensione astorica
tipicamente comportamentista, ampiamente criticata
(Moore 1969; Rokkan
1983; Allum1988
Caciagli 1988; De
Mucci 1990). In alternativa a tale riduzione individualistica e
al fine di recuperare
la dimensione dei
significati intersoggettivi, molti autori propongono di studiare
la politica entro il
“modello culturale”
(Eco 1962) complessivo di una società,
secondo la metodologia antropologica
della “thick description” (Geertz 1973). In
questo senso agiscono
coloro che, recuperando la dicotomia gramsciana prassi/coscienza (Gramsci 1975),
studiano la cultura
politica come un sistema complesso “prassi
sociali/sistema di
significati” (Allum
1988 e Riccamboni
1992; Cartocci 1993;
Gangemi 1994).
10
Sono fenomeni complessi analizzati dalla
“Path dependency
theory” (David 1985).
Si deve a Pierson
(2000) la traduzione
di questa teoria dall’economia entro le categorie della scienza
politica.
158
Come molti critici hanno sottolineato, Putnam elabora una concezione statica e
predeterminata della cultura politica9, considerata come un’eredità storica che
in vario modo giunge a determinare presente e futuro della vita di una collettività, con la conseguente sottovalutazione del ruolo attivo degli attori e del contributo autonomo delle variabili politiche che induce a sottovalutare gli aspetti
dinamici del CS (Piselli 2000). In altri termini, l’esplorazione della cultura politica di una società, attraverso l’analisi dei retaggi del passato, delle vischiosità,
delle persistenze10, deve essere combinata con l’individuazione di giunture critiche che rimettono in discussione la continuità e strutturano identità antagoniste,
secondo una concezione multilineare e antideterministica dei processi di sviluppo politico. A tale riguardo, è stata evidenziata, nell’opera di Putnam, la mancanza di un’indagine sui condizionamenti culturali e strutturali sulle scelte e le
strategie degli attori, considerando le variabili di contesto locale ed extralocale,
in primo luogo riguardo al processo di State-building ed a come le vicende relative all’edificazione dello Stato nazionale influiscono sui tratti culturali (Tarrow
1996) e sullo sviluppo di ideologie antagoniste rispetto ai valori e alle prassi dello
Stato liberale, che caratterizzano i contesti d’insediamento dei reticoli associativi e mutualistici locali in Italia (Morlino 1995).
Inoltre, privilegiando nettamente, come dimensione generatrice e conservatrice
di CS, quella dell’associazionismo, Putnam come Banfield (1976) qualche decennio prima, finisce per valutare le vicende italiane in base alle caratteristiche tipiche della società civile americana, connotando in tal modo la propria analisi di
un implicito etnocentrismo (Morlino 1995; Bagnasco 2000) e non riconoscendo
che la produzione – e riproduzione – di CS è il risultato complesso di una molteplicità di fattori di cui le associazioni non detengono il monopolio (possono
agire in tal senso altri attori, dal basso, come la famiglia o il gruppo dei pari, ma
anche dall’alto, come le chiese, le scuole o i partiti e, come evidenzia la letteratura più recente, le istituzioni pubbliche). Questi elementi critici sono già presenti nelle prime analisi politologiche che si sono confrontate con il lavoro di
Putnam sul caso italiano, concernenti ciò che, probabilmente, costituisce l’elemento più evidente delle sue considerazioni circa il rapporto fra storia e politica
in una determinata società, ossia la sottovalutazione del ruolo dell’azione politica (Pasquino 1994; Tarrow 1996), caratteristica che scompare nel programma di
ricerca successivo, relativo agli Stati Uniti, in cui Putnam propone l’indagine di
una serie eterogenea di meccanismi politici in grado di rigenerare la dotazione
di CS (Putnam 2000, 367ss).
Nonostante il peso di tali elementi problematici, l’aspetto più significativo dei
retaggi tocquevilliani rimane, comunque, l’evidenza conferita alla relazione fra il
venir meno di risorse collettive condivise ed il possibile declino della democrazia; una questione che lo stesso Putnam di Making Democracy Work non sviluppa appieno (essendo protesa, la propria ricerca, ad evidenziare i legami virtuosi fra vitalità dell’associazionismo, rendimento delle istituzioni politiche locali e sviluppo locale), mentre acquisisce centralità nelle sue opere successive
(Putnam 2000; 2002), basate sull’analisi della crisi di alcune delle fondamentali
precondizioni sociali e culturali del funzionamento della democrazia, per effetto
della frammentazione individualistica della società e dell’aumento vertiginoso
delle disuguaglianze.
Marco Almagisti
Capitale sociale e qualità della democrazia
Nella motivazione che induce a rivisitare i classici del pensiero e a reinterrogarli
circa le questioni che interessano i contemporanei sembra esserci, pertanto, una
domanda inevasa anche nella scienza politica (e nella teoria politica): secondo
una letteratura molto vasta ed eterogenea, la modernità non pare riuscire a riprodurre risorse d’integrazione di cui pure avverte il bisogno. Per esempio, autori
come Polanyi (1974) e Habermas (1976) sostengono che il capitalismo si nutre
di risorse culturali che trova in forme pregresse di società e che consuma senza
riuscire a riprodurre. La nozione di CS à la Putnam (con l’enfasi posta sulla fiducia, sulle norme, sulle reti associative) risulta particolarmente feconda in una fase
in cui si pone con crescente rilevanza la questione della governabilità di società
sempre più complesse e frammentate, mentre i pregressi meccanismi politici
integrativi (legati allo Stato nazionale democratico) sono messi costantemente in
discussione. Il richiamo a Tocqueville e il nesso, sottinteso a tale richiamo, fra
coesione sociale e qualità della democrazia, conferisce la necessaria chiarezza
concettuale alla distinzione introdotta da Putnam in Bowling Alone (2000), fra
esiti intolleranti ed escludenti (bonding) del CS e quelli includenti (bridging)
che allargano i confini della solidarietà e dell’identità collettiva (Putnam 2000, 2024) e consente di esplicitare una precisazione di merito: una democrazia di qualità presuppone l’esistenza di CS, le cui componenti (grado e raggio della fiducia
interpersonale, reti di associazionismo, norme informali) assicurino il prevalere
di effetti bridging rispetto agli effetti bonding. Si avverte, in sostanza, l’esigenza
di distinguere CS (che una democrazia di qualità presuppone agisca prevalentemente in funzione integrativa) e “nostalgia”, ossia il “dover essere” molto esigenti nel recupero di qualsivoglia valore comunitario “a buon mercato”; distinzione particolarmente preziosa, in periodi di mutamento repentino, in cui all’ansia da insicurezza presente nel corpo sociale corrisponde la demagogia orientata a finalità elettorali (Bauman 1999), non solo da parte di leader politici “antisistema”, ma sempre più spesso, anche di attori pienamente integrati nel sistema
politico formale.
Inoltre, l’ancoraggio alla questione della qualità della democrazia, consente di
decostruire alcune asserzioni insidiose che potrebbero celarsi dietro la metafora
del CS: l’utilizzo della medesima potrebbe alludere al fatto che le risorse per l’integrazione debbano sempre originare dalla società civile, senza fare riferimento
alle istituzioni (che, in taluni approcci, vengono fatte coincidere con lo Stato, dal
quale, in quanto erede dello Stato assoluto, si ritiene pregiudizialmente che non
possano derivare effetti socialmente positivi), una convinzione che, come abbiamo evidenziato, potrebbe trovare qualche appiglio nella stessa impostazione originaria di Putnam.
Si consideri, come rappresentante di tale filone di pensiero, il contributo di
Fukuyama (1996; 1999), secondo il quale il CS scaturisce da processi lunghi e
complessi, essenzialmente spontanei e si riproduce attraverso una buona socializzazione (primaria) ad una cultura caratterizzata dalla forte presenza di valori
cooperativi11; la politica può distruggerlo inintenzionalmente e, comunque, evidenzia enormi difficoltà a rigenerarlo, in virtù della produzione di effetti perversi12. Da queste considerazioni discende, per tale autore, la necessità di adottare
politiche non-interventiste e la definizione dello spazio del politico esclusivamente in termini negativi13. Ad esempio, secondo Fukuyama, l’espansione del
11
“Il capitale sociale
può essere definito
semplicemente come
un insieme di valori o
norme non ufficiali,
condiviso dai membri
di un gruppo, che consente loro di aiutarsi
a vicenda”
(Fukuyama 1999, 34).
Esso “…si fonda sulla
prevalenza delle virtù
sociali rispetto a quelle individuali”
(Fukuyama 1996, 41).
12
Per la critica alla
retorica degli “effetti
perversi” si rimanda a
Hirschmann (1991, 1948) e Almagisti e
Riccamboni (2001, 5758, nota 22).
13
Per Fukuyama è la
politica tout-court a
distruggere CS e non,
come sostiene
Sztompka (1996) la
politica negli Stati
totalitari, i cui sistemi
di controllo capillari e
onnipervasivi finiscono per minare ogni
possibilità di fiducia
interpersonale ed inibire le capacità autoorganizzative della
società civile.
159
n.5 / 2002
14
Si tratta di un processo di svalutazione
della politica (e di
conseguente de-politicizzazione e mercatizzazione della società)
che Ruffolo (1994) ha
efficacemente sintetizzato tramite il concetto di “rivoluzione privatistica”.
Welfare consuma CS perché distrugge i tessuti di self-help comunitario: con i
sussidi alle ragazze madri ha incoraggiato la disgregazione della famiglia e così
via. Come ricorda Bagnasco (2000), si tratta di analisi molto attente a mostrare
come la politica consumerebbe CS, ma poco esplicative circa il possibile ruolo
della politica nel riprodurlo o ricrearlo. A tal riguardo, si potrebbe dubitare fortemente del fatto che il Welfare europeo non abbia contribuito a creare o riprodurre CS, proprio mentre ne avveniva un deterioramento negli Stati Uniti
(Putnam 2000), oppure che, proprio negli Usa, la politica abbia corroso il CS più
del mercato. Enfatizzato in questo modo il presunto ruolo negativo dell’intervento politico, il CS rischia di essere deformato nella “ideologia americana,
un’ideologia della spoliticizzazione della vita sociale all’epoca della globalizzazione dei mercati” (Bagnasco 2000, 100)14.
In tali approcci “antipolitici” emerge, con grande evidenza, la sottovalutazione
del fatto che anche le istituzioni possono svolgere funzioni di socializzazione e
rafforzare sentimenti d’appartenenza e opinioni, a partire dalle più piccole ed
apparentemente trascurabili realtà della vita quotidiana (Douglas 1990; March e
Olsen 1992; Cartocci 1994) e non soltanto il tessuto associativo.
Se, però, l’analisi del CS si connette a quella della qualità democratica, risulterà
problematico, anche per i sostenitori degli approcci più marcatamente societari
ed antistatalisti, negare il fatto che “le istituzioni contano” e che, quindi, risulti
necessario studiarne attentamente il funzionamento e il tipo di relazioni che
intrattengono con il corpo sociale di riferimento.
In tal senso, si può ipotizzare una feconda convergenza fra gli studi sul CS e le
ricerche di quegli autori (O’Donnell 1998, 1999; Morlino 2002) che, sviluppando
le proprie analisi sulla transizione e sul consolidamento democratico nei paesi
dell’America Latina e dell’Europa orientale, si sono orientati verso lo studio empirico della qualità della democrazia, in un’epoca di grandi trasformazioni concernenti non soltanto le istituzioni politiche, bensì anche i sistemi di relazione che
gli attori politici e istituzionali strutturano con gli attori economici e finanziari.
Il capitale sociale come garanzia della qualità democratica
15
In queste democrazie viene data la
“delega” al momento
del voto, ma poi non
vi sono altre e più efficaci modalità di controllare e fare valere
la responsabilità degli
eletti che riescono a
rimanere impuniti in
ogni caso” (Morlino
2002, 203).
160
Nell’introdurre la questione dell’analisi qualitativa della democrazia, Morlino
(2002) premette un riferimento a due tipologie di democrazie senza qualità
che rappresentano possibili degenerazioni dei regimi democratici contemporanei: le democrazie delegate e le democrazie populiste.
Le democrazie delegate sono regimi solitamente maggioritari, in cui avvengono
elezioni regolari, parlamento e stampa sono liberi di esprimere le proprie critiche all’operato del governo, i tribunali contrastano le politiche incostituzionali,
ma viene meno il controllo successivo degli eletti sia da parte degli elettori che
da parte degli altri organi preposti, poiché vi è un rispetto solo parziale della rule
of law (O’Donnell 1999, 60-62)15.
Chi si riferisce alle democrazie populiste, richiama un problema simile, poiché
evoca un modello di democrazia in cui “salta” il meccanismo della rappresentanza (che si basa su delega e controllo) e si realizza un rapporto im-mediato tra
una società civile scarsamente articolata (in cui, cioè, l’aspetto tocquevilliano dell’associazionismo secondario risulta marginale) e un leader politico al potere,
Marco Almagisti
Capitale sociale e qualità della democrazia
spesso un presidente o un primo ministro forte.
L’analisi della qualità della democrazia riguarda, secondo l’approccio proposto
da Morlino (2002, 205), cinque dimensioni di variazione da collocare al centro
dell’analisi empirica. Le prime due sono inerenti alla procedura: a) rule of law,
cioè il rispetto della legge (con riguardo all’output decisionale e alla sua implementazione), b) accountability, ossia la responsabilità politica di tipo “verticale”
(dei rappresentanti nei confronti dei rappresentati, che ha carattere periodico,
scandito dalle occasioni elettorali) e di tipo “orizzontale” (fatta valere, cioè, nei
confronti dei governanti da altre istituzioni o da attori collettivi, che hanno conoscenze e potere di valutazione e che mostra un carattere tendenzialmente continuativo). Una terza dimensione riguarda il risultato: c) responsiveness, cioè la
capacità, da parte delle istituzioni, di fornire delle risposte (soddisfacenti) alle
richieste dei cittadini e della società civile. Infine vi sono due dimensioni concernenti il contenuto: d) pieno rispetto dei diritti, e) progressiva realizzazione
dell’uguaglianza, nelle dimensioni politica, sociale ed economica.
Il caposaldo dello studio della qualità della democrazia proposto da Morlino è
costituito dall’analisi del meccanismo della rappresentanza democratica, a partire
dalle sue attuali difficoltà e possibilità di sviluppo: in tal senso, l’accountability
rappresenta una dimensione davvero centrale, in quanto, da un lato, può consentire un controllo effettivo delle istituzioni politiche da parte degli attori della
società civile, dall’altro, rimanda all’esigenza che sussistano determinate condizioni democratiche nella strutturazione della medesima, cioè “l’esistenza di una
dimensione pubblica con caratteri di pluralismo e indipendenza e con la concreta partecipazione di diversi attori individuali e collettivi” (Morlino 2002, 212).
Com’è evidente, soprattutto se ci soffermiamo sul ruolo dell’accountability orizzontale, i soggetti protagonisti non sono soltanto i cittadini-elettori, ma anche le
comunità territoriali e le associazioni su base diversa (comunanza di valori, tradizioni, obiettivi), “il punto essenziale è che i soggetti sopraddetti sono al centro
di una buona democrazia in cui i processi che vanno dal basso in alto sono quelli maggiormente rilevanti, e non viceversa” (Morlino 2002, 208).
Un altro aspetto importante è costituito dall’elevato grado di interdipendenza
che contraddistingue le cinque dimensioni di variazione. È il caso di soffermarsi
in particolare sulle prime tre: se, nell’analisi della qualità della democrazia, la rule
of law mantiene sempre una posizione centrale, in quanto elemento consustanziale a tutte le dimensioni, poiché possa avere luogo l’accountability orizzontale, la presenza di un sistema legale dotato di organi di valutazione e di controllo
indipendenti costituisce una condizione necessaria, ma non sufficiente, “in
aggiunta, piuttosto che in alternativa [ci devono essere] strutture intermedie
forti e radicate, un’opposizione politica vigile che svolge il proprio ruolo, dei
media indipendenti ed attenti al loro ruolo civile, una ricca rete di associazioni
ed organizzazioni attive, informate, che condividono i valori democratici”
(Morlino 2002, 213).
Si può cercare, a questo punto, di delineare con maggior precisione l’ipotesi precedentemente accennata circa la possibile proficua ibridazione fra gli studi sul CS
e quelli sulla qualità democratica: pare emergere con chiarezza il nesso che s’instaura fra il CS (inteso come stock di risorse collettive come la fiducia interpersonale, la disponibilità all’azione in solidarietà con altri, la presenza di norme
161
n.5 / 2002
16
A differenza che in
Francia, dove la rivoluzione del 1789 ha
comportato l’abolizione dei corpi intermedi
d’Ancien Regime e la
conseguente riconfigurazione del sistema
associativo sotto il
controllo dello Stato
centrale, in Italia i
sistemi di associazione legano le proprie
fortune alle vicende di
due aree politico-culturali e territoriali
reciprocamente rivali
(anche se accomunate
dalla conflittualità
con lo Stato centrale),
quella cattolica e
quella socialcomunista. Secondo Reutter e
Ruetters (2001) tale
persistenza subculturale ha impedito il formarsi di strutture neocorporative stabili a
livello centrale.
162
informali, latenti, favorevoli alla cooperazione, l’esistenza di una rigogliosa rete
associativa) e l’accountability orizzontale. Nell’interpretazione proposta in questa sede, un’accountability orizzontale efficace prevede come proprio presupposto empirico l’esistenza di un CS con le caratteristiche precedentemente
richiamate. Il legame fra CS e qualità democratica (cioè il primo come condizione della seconda) diviene particolarmente importante in un contesto di deboli
partiti e, spesso, di forti interessi: in tali condizioni, il riferimento all’accountability orizzontale e alle attività ad essa connesse esercitabili anche fuori dal parlamento, così come il richiamo ai retaggi tocquevilliani e la conseguente attenzione alla vitalità dei reticoli associativi, acquisiscono un significato particolare.
Secondo alcune analisi, le fortune dei partiti politici di massa sarebbero declinanti in quanto troppo strettamente legate alle vicende dello Stato nazionale,
attualmente sottoposto a forti pressioni provenienti dai processi di globalizzazione (Revelli 1996; Almagisti 2002a); ne potrebbe conseguire un maggiore protagonismo da parte di attori collettivi potenzialmente più vicini ai contesti locali
o transnazionali o, comunque, meno strettamente legati alle istituzioni centrali.
Anche in questo caso, comunque, pare auspicabile analizzare i diversi fenomeni
secondo un’ottica anti-deterministica e facendo riferimento al “modello culturale” complessivo di una società (alle persistenze e ai mutamenti nelle prassi sociali e nel sistema dei significati intersoggettivi): ad esempio, deve essere verificato
empiricamente l’assunto di Putnam, secondo cui un incremento quantitativo
nella partecipazione associativa dovrebbe comportare il superamento del particolarismo e il rafforzamento del CS, inteso come stock di risorse collettive disponibili per l’intera società. Il caso italiano pare mostrare qualche esempio a contrario16: le trasformazioni degli ultimi due decenni nell’ex-subcultura cattolica,
con l’emergere, nel Nordest, di un nuovo e dinamico ceto produttivo di piccola
impresa e la crisi del tradizionale meccanismo di rappresentanza politica e di
integrazione nella subcultura territoriale (Almagisti e Riccamboni 2001), sembrano addirittura avere invertito il nesso causale fra proliferazione dell’associazionismo e crescita del CS bridging. Secondo Diamanti, il progressivo distacco delle
crescenti esperienze associative dai tradizionali riferimenti culturali e normativi
(soprattutto la Chiesa) tende a erodere le solidarietà più ampie: nell’attuale contesto di serrata ridiscussione di prassi sociali e riferimenti simbolici sedimentati
nel corso dei secoli, “paradossalmente, l’estendersi dell’associazionismo volontario contribuisce a incoraggiare, piuttosto che a inibire, il particolarismo dei
sistemi locali” (Diamanti 1996, 37).
È importante ricordare che la presenza di CS in grado di rendere efficace l’accountability orizzontale può avere conseguenze anche riguardo ai comportamenti degli attori nel parlamento: si consideri che, a livello parlamentare, la disciplina di partito è ritenuta tradizionalmente più importante dell’accountability
verso i propri elettori e, pertanto, la maggioranza parlamentare finisce per sostenere il governo senza controllarlo. Tale questione non riguarda soltanto i partiti
di governo: numerose ricerche hanno evidenziato le chiusure oligarchiche e verticistiche dei partiti sia di governo che di opposizione, fino al caso estremo, evidenziato da Katz e Mair (1995), costituito dal “partito cartellizzato” il quale, sostenuto dai finanziamenti pubblici, predilige una strategia di collusione con gli altri
partiti, anziché di competizione con essi. In questi casi, la pressione palese e non
Marco Almagisti
Capitale sociale e qualità della democrazia
sporadica da parte di porzioni ingenti di potenziali interlocutori/elettori può sortire l’effetto di ridurre la discrepanza fra la retorica dei messaggi elettorali e la
prassi concreta imposta dai vertici del partito. In altri termini, la mobilitazione
non occasionale di risorse collettive da parte di settori intermedi organizzati rappresenta un fattore significativo anche per quanto attiene le possibili conseguenze nei confronti degli attori politici maggiormente istituzionalizzati. Anche
a tal proposito il caso italiano sembra fornire elementi di riflessione: si pensi al
processo, innescato dal basso, da ampi settori intermedi dell’opinione pubblica
di centrosinistra sin dai primi mesi del 2002 (c.d. “primavera dei movimenti”)
che ha fornito l’input per incalzare il governo in merito a determinate questioni
come la difesa dell’indipendenza della Magistratura e la tutela dello Stato sociale, contribuendo a ridefinire il modo stesso di fare (o, quanto meno, di intendere) l’opposizione17.
In termini più generali, è stato sostenuto che, se le varie forme di accountability orizzontale vengono meno (e la responsabilità si riduce alla sola dimensione
verticale), si inaridiscono le componenti liberali e repubblicane delle moderne
poliarchie (O’Donnell 1998, 113)18 e ci si avvicina a quel tipo di democrazia
senza qualità che è stata definita come democrazia delegata, in cui il cittadino
viene ignorato per tutto il periodo che intercorre fra un’elezione e l’altra.
Il meccanismo della delega, intrinseco alla rappresentanza, è strutturalmente
molto delicato, come emerge già nel famoso Capitolo XVI del Leviatano di
Hobbes: la delega presuppone un’autorizzazione ad agire politicamente in nome
e per conto dell’autorizzante. Applicare la rappresentanza alle istituzioni della
democrazia (ossia a quella configurazione politica che significa, etimologicamente, governo del popolo), risulta storicamente processo complicato (Dahl
1997, 46ss; Held 1997, 54ss.) che può riuscire purchè: a) risulti efficace l’accountability e, conseguentemente, b) il conferimento della delega (periodica)
non esaurisca la soggettività politica del rappresentato.
Sul piano analitico, all’accountability si lega la responsiveness, ossia la capacità dei
governanti di rispondere agli input provenienti dalla società civile, una dimensione che molti autori hanno cercato di misurare empiricamente tramite l’analisi della
distanza intercorrente fra governanti e governati riguardo a determinate policy e
attraverso il grado di legittimità e sostegno (specifico e diffuso) nei confronti delle
istituzioni democratiche (cui dovrebbe corrispondere, nei casi di democrazie qualitativamente più elevate, un alto grado di interesse verso le problematiche politiche e una diffusa partecipazione politica nelle forme più diverse).
Perché sussista la dimensione della responsiveness è necessario il buon funzionamento dei processi attinenti alla responsabilità politica, ossia l’accountability
(verticale e orizzontale) e, pertanto, diviene questione centrale l’esistenza di una
dotazione di CS (con caratteristiche bridging) che renda effettivamente praticabili queste due dimensioni: “Le condizioni centrali della responsiveness sono
date da una società civile strutturata, indipendente, informata e partecipante e
da strutture intermedie forti e attive. Sono, cioè, le stesse indicate per l’accountability” (Morlino 2002, 219).
Contrariamente a quanto sostenuto, negli anni ’70 del Novecento, dalla
Trilateral Commission (Crozier, Huntington e Watanuki 1977), secondo la
quale, la crescita della partecipazione avrebbe condotto ad una crisi della demo-
17
È particolarmente
significativo che tale
vivacità della società
civile abbia incontrato, fra i politici di professione, forme di ostilità davvero bipartisan, che hanno accomunato esponenti
della maggioranza,
come il Presidente del
Senato, Marcello Pera,
e dell’opposizione,
come Massimo
D’Alema, indicato
come il più rilevante
leader della sinistra
(soprattutto dai media
della destra).
18
Secondo O’Donnell,
le moderne poliarchie
sono costituite da tre
diverse componenti,
risultanti da tre diversi processi di sviluppo
politico: il principio
democratico (Atene),
il liberalismo (la tradizione lockiana) e il
repubblicanesimo
(teoria neo-romana o
modello machiavelliano). Una poliarchia
funzionante (e una
democrazia di qualità) sono possibili soltanto in compresenza
di tutti e tre questi elementi. È opinione di
chi scrive che, se risulta essenziale ai fini di
una democrazia di
qualità il nesso CSaccountability, utili
contributi possano
derivare anche da
quelle impostazioni
teoriche federaliste
che privilegiano non
solo la fase del progetto istituzionale, ma
anche l’istituzionalizzazione di particolari
relazioni dei membri
all’interno della società (Elazar 1987;
Gangemi 1994 e
1997b; Grasse 1999).
163
n.5 / 2002
19
Si veda anche l’analisi di Della Porta
in questo volume.
crazia, risolvibile soltanto mediante una maggior misura di apatia e disimpegno
da parte della popolazione, le sfide alla legittimità delle istituzioni democratiche
emerse nell’ultimo decennio scaturiscono proprio da un profondo “scollamento” fra rappresentanti eletti e corpo sociale. Pharr e Putnam (2000) parlano di
democrazie insoddisfatte, indicando come principale fattore determinante tale
insoddisfazione, l’incapacità, da parte degli attori politici, di fornire risposte soddisfacenti alle richieste dei cittadini, ossia, una crisi di responsiveness, da cui origina la sfiducia nelle istituzioni pubbliche19. Non riuscendo a rispondere adeguatamente alle istanze sociali, le istituzioni vengono meno alla funzione, precedentemente richiamata, di socializzazione ai valori della democrazia, finendo per
incidere negativamente sullo stock di CS e, pertanto, per produrre le condizioni
di un ulteriore allontanamento dalla società civile.
Gli studi relativi alla qualità democratica che utilizzano, fra le proprie dimensioni di variazione, l’accountability e la responsiveness, convergono nel riconoscere l’importanza di un forte tessuto associativo e di uno stock di risorse collettive
che rendano possibile una partecipazione non episodica da parte dei cittadini.
Numerose restano, quindi, le perplessità riguardo all’attuale congiuntura storicopolitica, caratterizzata da insoddisfazione, insicurezza, paura della povertà
(Bauman, 1999) da cui origina un forte malaise democratico. In altri termini, la
molteplicità dei cambiamenti che, convenzionalmente, riassumiamo nel concetto omnibus di globalizzazione, impone di ridefinire i criteri di convivenza e contemporaneamente rende particolarmente appetibili, per ingenti strati della
popolazione, le proposte semplicistiche di soluzione dei problemi, come quelle
offerte dalla destra populista (Tarchi 1998; Meny e Surel 2000).
Flussi continui di informazioni, risorse e persone ridisegnano il tessuto che
compone la società civile. “Questa stessa società civile (…) può sentirsi minacciata dal fenomeno dell’immigrazione e dalla conseguente presenza di culture
molto diverse. E questo può portare, a sua volta, all’emergere di spinte e domande di auto-protezione che limitano i diritti per i non cittadini, investendo così
anche le dimensioni sostantive della qualità democratica” (Morlino 2002, 220).
L’insicurezza comporta rischi di spinte autoritarie, sotto la forma protettiva del
“paternalismo”, che già Tocqueville intuiva essere la forma più insidiosa di degenerazione della democrazia moderna. Come contrapporre a questa possibile
deriva un’adeguata produzione di CS bridging rappresenta, con ogni probabilità, la questione politica principale dei prossimi anni.
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Marco Almagisti è dottorando borsista in Scienza Politica, presso il Dipartimento
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167
n.5 / 2002
FRANCESCO RENDA, Storia della Mafia, Palermo, Sigma Edizioni, 1997
Mayday- Mayday
Questo libro mi è sembrato sin dalla sua uscita, un libro da salvare per la grande fatica che ho fatto per procurarmelo. La casa editrice non ha una diffusione nazionale e per comprare il libro ho dovuto, alla sua uscita, richiederlo a una libreria palermitana che me lo ha spedito presso una libreria di Padova. Adesso, il libro
è più facilmente procurabile perché si è affermato per la sua qualità. Anche l’autore è importante perché
Francesco Renda, professore ordinario di storia moderna all’Università di Palermo, è stato, nell’immediato
secondo dopoguerra, membro della segreteria della Federterra regionale, al tempo dell’operazione
Milazzo, 1958-62, deputato regionale e segretario responsabile della CGIL siciliana.
Il volume viene presentato in questo numero dedicato al tema del capitale sociale perché tratta l’argomento mafia con riferimento anche al problema del capitale sociale che la mafia produce e sfrutta. È ormai
noto che, da quando si è cominciato a parlare di capitale sociale, si è recuperato il fatto che Max Weber ha
collegato il tema, che sarà poi detto del capitale sociale, alla religione e al sentimento religioso. Se questo
è vero, il forte capitale sociale, per quanto “cattivo”, prodotto dalla mafia potrebbe essere collegato a un
diffuso, tra i mafiosi, e distorto sentimento religioso. E, in effetti, per quanto ciò possa sembrare paradossale ai più, varie testimonianze, riportate da Renda, rivelano che esiste molto forte, in tanti mafiosi, il senso
di una religiosità distorta.
Una religiosità che è stata presa sul serio anche da alcuni magistrati. Per esempio, il magistrato Roberto
Scarpinato ha ammesso di avere riscontrato che quello della religiosità è un aspetto fondamentale dell’etica mafiosa e che persino la cattura del mafioso Pietro Aglieri ha permesso di appurare che, due volte la settimana, un prelato andava nel suo rifugio a dire messa. Sempre Scarpinato ha rivelato sia che Bagarella
prima di far uccidere qualcuno invocava Dio a testimone del fatto che era obbligato dagli avversari e che
non ne aveva colpa, sia che Giovanni Drago, killer responsabile di decine di omicidi, usava pregare ogni
sera, anche dopo avere ucciso qualcuno. Infine, Leonardo Messina, divenuto collaboratore di giustizia,
ammise al magistrato di sentirsi traditore davanti a Dio per la scelta di collaborare con gli inquirenti (p. 34).
Il carattere di organizzazione nata dallo sviluppo di un “cattivo” capitale sociale è stato sottolineato nella
denuncia del Procuratore Generale della Gran Corte Criminale di Trapani, già nel 1838: “La mancanza della
forza pubblica ha fatto moltiplicare il numero dei reati. Il popolo è venuto a tacita convenzione coi rei. Così,
come accadono i furti, escono i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il
numero di tali accordi è infinito” (p. 47). In altri termini, la mafia è l’istituzione che, in assenza dello Stato,
in assenza di uno Stato capace di imporre il monopolio dell’uso legittimo della forza e della violenza, si sviluppa strutturando il capitale sociale (capitale di fiducia) che viene prodotto da un’infinità di interazioni e
una ragnatela di reti che realizzano quella che oggi si chiama regolazione. La mafia è, da questo punto di
vista, una forma di regolazione comunitaria, basata su valori distorti, che si sostituisce alla regolazione politica inesistente e che ha la forza di strutturarsi “in una corrispondente serie di piccole associazioni, distribuite ognuna in un determinato territorio, senza legami gerarchici fra loro meno quelli di una generica solidarietà. Va da sé che una tale proliferazione non si sarebbe potuta effettivamente realizzare se non ci fosse
stato un tendenziale consenso attivo o passivo della popolazione legato alla iniziale funzionalità del servizio di protezione prestato” (p. 58).
Consapevole di questa natura sociale della mafia, sin dall’inizio, Renda sottolinea come molti abbiano negato a lungo la natura criminosa del fenomeno mafia sostenendo che è una specie di associazione di mutuo
168
soccorso tra uomini d’onore; un’associazione che pone come centrali alcuni valori: il rispetto della parola
data, la famiglia, la religione, il debole indifeso, l’ordine e la tranquillità sociale (p. 18). E siccome questa
presentazione contrasta con l’evidenza dei fatti sotto gli occhi di tutti, la principale strategia comunicativa
della cultura mafiosa è sempre consistita nel distinguere tra una vecchia mafia rispettosa di quei valori e
una nuova mafia degenerata.
Il primo a proporre in modo esplicito questa distinzione è stato Giuseppe Pitré, agli inizi del Novecento.
Ma già il Marchese di Rudinì, varie volte presidente del Consiglio dei ministri, distingueva, nel 1875, la “cattiva” mafia di quegli anni da quella “buona” di venti anni prima. La stessa distinzione, tra mafia buona, con
riferimento al primo dopoguerra, e cattiva, durante il fascismo, è stata poi riproposta da Vittorio Emanuele
Orlando. Questi ebbe anche a sostenere che se per mafia si intende il senso dell’onore portato fino al
parossismo, la generosità e la fedeltà alle amicizie, egli si dichiarava con orgoglio mafioso. Infine, malgrado le uccisioni di operai, contadini e sindacalisti, nel secondo dopoguerra, ancora negli anni Ottanta,
Giuseppe Alessi tornerà a riproporre la distinzione tra la mafia “buona” del secondo dopoguerra e quella
cattiva dei suoi anni (p. 26).
Il problema vero, sostiene Renda, sta proprio in questa distinzione che si ripete ciclicamente, rendendo
agli occhi della generazione successiva “buona” la mafia sicuramente cattiva agli occhi della generazione di
contemporanei che ne possono verificare i comportamenti. Questa distinzione ha impedito a lungo che si
prendesse coscienza del fatto che la mafia era un’associazione criminale segreta (p. 27). Solo la
Commissione Parlamentare Antimafia istituita nel 1963 ha fornito gli strumenti giuridici, dopo la conclusione dei propri lavori nel 1976, per condannare i mafiosi per associazione a delinquere. Da quel momento cominciarono, insieme, sia le grandi inchieste sulla mafia, sia le uccisioni di magistrati, politici e funzionari statali.
Per questo, Renda sostiene che il suo lavoro non vuole essere solo una storia della mafia, ma anche una
storia dei rapporti che la società siciliana ha stabilito con alcuni fenomeni criminali.
Per realizzare questo obiettivo, Renda comincia con il considerare che la mafia non è definibile in modo
rigido, essendo un processo, cioè un fenomeno sociale con una lunga storia. Egli afferma che è definibile
solo ciò che non ha storia. Perciò, più che definire la mafia è importante descrivere il modo in cui la definizione della mafia è cambiata nel tempo attraverso gli artisti, i ricercatori ma anche i funzionari di polizia o
i giudici e varie figure della burocrazia statale che hanno proposto definizioni che hanno avuto successo. Per
questo, egli si concentra a lungo su una relazione, del 1876, di Leopoldo Franchetti che considerò, giustamente, la mafia una malattia siciliana, ma erroneamente, anzi partigianamente, la considerò collegata sì alla
politica, ma solo attraverso l’opposizione nazionale al governo (la Sinistra Storica siciliana). Per chiunque
fosse stato, già al tempo, meno partigiano di Fianchetti, era evidente che della mafia si era avvalsa soprattutto la Destra Storica. Anzi, ne aveva fatto ampia denuncia alla Camera, già l’8 giugno 1874, l’ex procuratore generale di Palermo, dimessosi per protesta ed eletto deputato della Sinistra. Dopo aver raccontato i
motivi dei propri scontri col prefetto Medici e illustrato le cause delle proprie dimissioni, concludeva sostenendo che la mafia è diventata, a Palermo, strumento di governo locale (p. 89).
La mafia post-unitaria fu anche il prodotto della politica di forza attuata in Sicilia per contrastare la credibilità che, sulla scia dell’impresa dei Mille, aveva mantenuto la sinistra (p. 115). Questa, poi, divenuta trasformista, non fece altro che servirsi ancora della mafia (come evidenzierà nell’ultimo decennio del secolo, il delitto Notarbartolo e le vicende dei numerosi processi contro il Palizzolo, importante deputato siciliano della Destra).
Renda sembra vedere nell’azione come ministro dell’interno di Giovanni Nicotera una opportunità di lotta
alla mafia per avere egli ammonito alcuni baroni (e assegnato castighi irrisori) già nel 1876. Ma egli stesso
ammette che è stata una ben breve opportunità. Infatti, quando, nel 1878, emerge che il Marchese Spinola,
amministratore dei beni della Casa Reale, è implicato con alcuni mafiosi, il prefetto di Palermo ne dà
immediata notizia al ministro dell’interno. Tuttavia, sottolinea Renda, era appena diventato ministro del-
169
n.5 / 2002
l’interno Giuseppe Zanardelli e, allora, l’occasione viene sprecata. È questo un accenno velocissimo e, a
mio avviso, poco convincente: Nicotera, che Renda considera il più convinto e consapevole avversario della
mafia, era stato sostituito come ministro dell’interno da Francesco Crispi, prima, e poi dallo stesso Depretis
che tenne il ministero ad interim. Solo successivamente, Zanardelli sostituì Deptretis nel primo ministero
Cairoli. Nel ruolo di ministro dell’interno, Zanardelli si affermò come il primo ministro dal 1860 che, in quel
ruolo, si sia dimostrato rispettoso della legalità e, per questo, nel secondo ministero Depretis, non gli fu
rinnovato quell’incarico. Ipotizzare che la storia sarebbe andata diversamente con Nicotera ministro dell’interno, dato il carattere di quel ministero Zanardelli, mi sembra eccessivo. Il problema vero è che la
vicenda Spinola, come raccontata dallo stesso Renda, si presenta intricata e lo stesso prefetto di Palermo
che denuncia si fa prevenire sul tempo dal marchese, proprio per il modo ambiguo in cui si muove, evidentemente timoroso di ardire troppo.
Renda, comunque, ci racconta la storia della mafia anche attraverso la storia di alcuni dei suoi miti. L’autore
è consapevole che la mafia appare invincibile anche perché si costruisce, a volte, immagini mitiche della
potenza o della forza delle proprie reti. Una di queste immagini è stata quella, già raccontata, della vecchia
mafia “buona” e della nuova mafia “cattiva”. Un mito che Renda dimostra falso semplicemente andando a
ritroso: chi negli anni Ottanta, vede buona la mafia della generazione precedente viene smentito da quanti la vedevano cattiva nel secondo dopoguerra e arretravano quella buona al primo dopoguerra o al fascismo. E così via, con i protagonisti del primo dopoguerra che definivano cattiva la loro mafia e buona quella dell’inizio secolo. E così via ancora più a ritroso.
Un secondo mito fasullo è quello della mafia che avrebbe aiutato gli americani nello sbarco in Sicilia. Dopo
averne raccontato il mito e avere riscontrato l’inesistenza di riscontri storici, Renda ne cancella la credibilità con un semplice argomento: l’operazione segretissima di sbarco non sarebbe mai stata messa a repentaglio semplicemente comunicandola in anticipo a mafiosi siciliani che, per quanto appartenenti a una
società segreta, non potevano essere depositari di un segreto che, se tradito, anche da una sola persona,
avrebbe messo a rischio l’intera operazione e provocato un disastro capace di allungare a tempo indeterminato la fine della guerra.
Il problema vero è che ogni associazione, segreta o meno, che vive di capitale sociale e, quindi, di fiducia,
inevitabilmente si alimenta del mito che rafforza la fiducia nella possibilità di realizzare qualsiasi obiettivo.
Anche questa esigenza è legata al capitale sociale e, in particolare, a quel tipo di capitale sociale, di tipo
bonding, che è caratteristico delle società segrete. Ogni società che si alimenti di capitale sociale bonding
deve sempre sviluppare il mito dell’esistenza di un ancora più forte e solido capitale sociale bridging, in
particolare il mito di poter stabilire alleanze con poteri ancora più forti del proprio.
Il vero elemento che rafforzò la mafia in Sicilia non fu, comunque, la collaborazione prima dello sbarco, ma
la collaborazione dopo, dovuta al fatto che gli americani non si fidavano dei partiti della Resistenza i cui
rappresentanti spuntarono anche in Sicilia dopo la cacciata dei tedeschi. Gli americani si rivolsero anche ai
mafiosi locali in quanto ne apprezzavano le doti di mediatori. A questo proposito Renda mostra che questi amministratori furono relativamente pochi (anche se già è sorprendente che ce ne siano stati quanti ne
stima lo stesso Renda). Resta il fatto che la collaborazione, dopo lo sbarco, ci fu e che destò tanto stupore
che, sulla base di essa, fu possibile alimentare ulteriormente il mito della loro organizzazione: i mafiosi
inventarono e accreditarono la storia della loro fondamentale (per la riuscita dell’impresa) collaborazione
con gli alleati prima dello sbarco. La mafia ancora oggi vive alimentando miti come questo e millantando,
spesso, il proprio credito.
Un mito che ha molto contribuito allo sviluppo della forza della mafia è il mito della mafia e dello Stato
come poteri separati che non si sono mai realmente combattuti. “Secondo la mitologia mafiosa, la mafia
per sistema si era sempre astenuta dall’aggredire frontalmente lo Stato e i rappresentanti delle pubbliche
istituzioni. Ma anche lo Stato e i rappresentanti delle pubbliche istituzioni si erano sempre astenuti dall’interferire decisamente nelle cose di mafia” (p. 397). Non era mai stato vero, ma aveva sempre funziona-
170
to per mantenere la specificità mafiosa che consisteva in questo: la mafia “senza il collegamento con la politica non sarebbe mafia, ma semplice crimine organizzato” (p. 392).
La conclusione ottimistica di Renda è legata a questa considerazione che è l’ipotesi di lavoro di tutto il libro:
dopo la costituzione della Commissione Parlamentare Antimafia e soprattutto dopo le sue conclusioni, lo
Stato ha apertamente combattuto la mafia e miti come quello di cui sopra non sono più sostenibili e non
convincono più nessuno in Sicilia. La lunga lista di uomini dello Stato uccisi dalla mafia sta a dimostrarlo.
Questo dà una speranza ai siciliani e una speranza allo Stato di riuscire a vincere questa partita.
Inutile dire che il libro è molto bello e che è una lettura da consigliare a chiunque voglia conoscere, nella sua
vera realtà, quella, ai più indecifrabile, associazione a delinquere che viene detta mafia o cosa nostra o altro.
Tuttavia, chiunque volesse sapere cosa realmente è successo il primo maggio del 1947 a Portella della
Ginestra (in quella strage attribuita a uomini del bandito Giuliano e di cui ancora si parla), troverebbe
pochissimo in questo libro. Ovviamente, dell’evento se ne parla, ma a fatica si riesce a individuare un riferimento esplicito alla data della strage o particolari chiari su quell’evento.
Il lettore che se ne dovesse accorgere (un lettore molto attento, ovviamente), può attribuire questa lacuna alla rimozione di un ricordo che, forse, fa ancora male all’A.: il giovane Francesco Renda, membro della
segreteria della Federterra regionale, il giorno della strage, stava andando in macchina a quella celebrazione che si preannunciava gioiosa e si rivelò, invece, tragica; ma non vi arrivò in tempo per varie forature
delle ruote della macchina sulle pessime strade del tempo. La scarsità di riferimenti a eventi che, per essere stati tragici, sono rimasti scolpiti nella memoria dei siciliani, mostra quanto la storia, a volte, possa pesare sia all’uomo che allo storico.
(Giuseppe Gangemi)
[email protected]
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Recensioni
Asterischi
MARSON ANNA, Barba Zuchòn Town. Una urbanista alle prese col Nordest,
Milano, Franco Angeli, 2001, pp. 203, lire 28.000, 14,46 euro
Il libro narra, con molto acume, i problemi incontrati da una donna urbanista prestata alla politica, nel preparare il Piano Territoriale Provinciale (in quanto Assessore all'Urbanistica) della provincia di Venezia. Il
punto di partenza del volume è particolarmente realistico: la specificità di Venezia. Si comincia, infatti, con
il fornire un rapido sguardo a come appare Venezia dal punto di vista del Nordest e con il dare una maggiore enfasi a come appare il Nordest dal punto di vista di Venezia.
E il Nordest, visto da Venezia, sembra coincidere con ciò che c'è oltre Mestre (anzi, più esattamente, l'A. dice
"oltre la tangenziale"), in quell'indistinta terraferma che i veneziani hanno sempre considerata secondaria
ed estranea. Tra Venezia e Mestre-Nordest, sta Porto Marghera che rappresenta una realtà diversa dalle altre
due e che, di fatto, è una città fabbrica in senso fordista mai veramente assimilata. Nei momenti di massimo
sviluppo, questa città fabbrica sembrava essere capace di assimilare e costruire l'identità di Mestre. Adesso,
appare cosa diversissima da Mestre, che è già diventata Nordest e che coincide, troppo spesso, con tutto il
Nordest che vedono i veneziani, mentre il Nordest è di più (c'è un Nordest inferiore, il Nordest è anche lombardo, friulano, trentino, etc.). Comunque, tornando a questo Nordest-oltre-Mestre, la crisi di Porto
Marghera ha messo in discussione anche la possibilità di un'egemonia di Venezia su questo Nordest e se non
ha messo in crisi Venezia è solo perché Venezia è una città centrale, in quanto globale.
Venezia è, infatti, in rete con una serie di capitali più o meno lontane ed è meno in relazione con il territorio ad essa prossimo. La minore relazione è talmente evidente che Venezia appare ai veneti come il luogo
del non fare, mentre i veneziani pensano la propria città come il luogo della grande cultura. Due diversi
luoghi comuni entrambi non realistici: infatti, il libro è un tentativo di dimostrare che è possibile trovare,
nella terraferma, grandi giacimenti di sensibilità e conoscenza del territorio, oltre a un patrimonio di sapere locale che è correntemente sottostimato a Venezia e nella sede della Provincia; ed è anche un tentativo
di dimostrare agli abitanti del Nordest che a Venezia si può fare molto anche per loro.
Guardando da Venezia il Nordest-oltre-Mestre, infatti, sembra che le comunità siano unanimi nel perseguire obiettivi di sviluppo non sostenibile (ad alto consumo di territorio e inquinamento dell'ambiente).
Invece, mostrandosi attenti alle sfumature si notano (vedremo che, forse, solo le donne notano) cose che
a prima vista non appaiono: la dimensione del silenzio di quanti dissenzienti non credono di poter essere
ascoltati; la dimensione delle sensibilità interagenti perché non motivate dalla difesa di interessi forti; la
dimensione dell'interazione vera e propria di chi si muove per difendere interessi espliciti. Il territorio
Nordest è l'insieme di queste reti e non la sola componente forte (l'ultima dimensione) di queste reti. È in
questa dimensione, e solo in questa, che si persegue, con determinata incoscienza, lo sviluppo insostenibile della provincia di Venezia.
Inoltre, la rete delle infrastrutture appare non armonizzata con la rete degli insediamenti produttivi. Nel
senso che la prima non è, come dovrebbe essere, subordinata alla seconda (che a sua volta si sviluppa in
modo disordinato). Questa è una grave responsabilità dei ceti dirigenti e dei rappresentanti eletti. Appunto
il Piano Territoriale Provinciale dovrebbe, gradatamente, rimediare a questa contraddizione; ma dovrebbe
anche contribuire a democratizzare la rendita, diventare uno strumento di interpretazione delle potenzia172
Marco Almagisti
Il modello neo-repubblicano
lità territoriali; ecc.
Secondo l'A., il piano è tutte queste cose, ma è anche molto di più, non solo in termini di finalità, ma anche
in termini di attori coinvolti. Il piano non è solo l'interazione degli attori che lo disegnano o lo decidono
nelle segrete stanze, ma l'interazione tra chi ha interessi espliciti e diretti di tipo individuale, tra chi difende interessi collettivi presenti o delle generazioni future, tra chi, apparentemente, non interagisce ma si
esprime, magari attraverso i mass media, e infine tra chi non interagisce e nemmeno si esprime (rimanendo in silenzio). Solo in questo modo il piano diventa uno strumento non solo adatto al fare, ma anche al
partecipare e, soprattutto, al costruire una nuova identità collettiva.
Sempre secondo l'A., il piano è percepito da coloro che ne diffidano e non sanno che farsene come uno
strumento che porta a conflitti, invece che come uno strumento che produce consenso. Nei primi, la cultura del piano è del tutto assente, almeno nel senso di quella cultura della riflessione e discussione collettiva. Negli altri, a volte, mancano gli strumenti intellettuali che sono necessari per guardare alle politiche
territoriali con i criteri propri della scienza politica.
Ultimo, ma non meno importante, viene trattato l'argomento dei tecnici che preparano il piano e hanno il
compito di farlo approvare e condividere. Spesso, il ruolo di questi tecnici è quello di colmare il vuoto di
progettazione dei politici. I piani, infatti, sono costituiti da due sezioni: la prima è la sezione dell'apparato
analitico che viene approvato senza alcuna opposizione da parte dei politici rappresentanti eletti negli enti
locali; la seconda, è quella propositiva vera e propria che riceve le attenzioni e le proposte di modifica dei
politici malgrado, in questo modo, si crei, spesso, una contraddizione tra l'apparato analitico del piano e
l'apparato propositivo.
Come dire che quello strumento così importante dell'analisi sociale del territorio si distacca e non viene
utilizzato, di fatto, dai politici, pur essendone la premessa che lo giustifica.
Pur individuando, in questa constatazione, un'eccessiva enfasi sulla ricerca come rappresentazione della
realtà e sul piano come strumento che parte da questa rappresentazione assunta come vera, condivido la
tesi del libro secondo cui il piano è la vera forma di ricerca in quanto coinvolge e stimola alla partecipazione coloro che vivono nei territori toccati dal piano. In questo senso, il piano è una forma di democrazia deliberativa e solo questa esprime una visione adeguata del territorio (e delle reti di interazione in esso
presenti, parlanti o silenziose, motivate o meno). In questo senso, quindi, la vera analisi sociologica non è
più la rappresentazione, bensì la descrizione delle forme di interazione che si realizzano intorno al piano.
Dopo essermi trovato d'accordo con l'A. quasi su tutto, mi ha colpito un'affermazione riscontrabile in quarta di copertina: il volume viene presentato come "uno sguardo di genere sulla pratica politica". A mio avviso, questa presentazione pone vari problemi. Il primo è che si tratta della riflessione di una professionista
che vive dall'interno le contraddizioni della politica (dei partiti, degli amministratori e degli enti locali).
Ritengo che il fatto che questa professionista sia maschio o femmina sia secondario (nel senso che non
vedo perché un maschio altrettanto preparato non avrebbe potuto percepire la realtà allo stesso modo in
cui la percepisce, e la presenta, l'A.). Il secondo problema è connesso ad un dilemma metodologico che
così esemplificherei: se la novità e i pregi (che sono tanti) del libro sono connessi a un punto di vista femminile, le interpretazioni riduttive o inadeguate (che pure sono presenti anche in saggi scritti dalle donne,
anche su temi come questo) a quale punto di vista vanno attribuite?
A chi va attribuita, per esempio, la condivisione dell’idea di modello veneto "oltre la tangenziale", la cui
prima formulazione viene attribuita a Massimo Cacciari per uno scritto, del 1975, in cui il filosofo veneziano parla della "Struttura e crisi del 'modello' economico-sociale veneto" utilizzando il termine modello solo
per descrivere il tentativo di insediare una struttura capitalistica avanzata (secondo criteri fordisti) in una
realtà precapitalista. Come è noto, oggi, il termine modello viene usato per descrivere come avanzata, sul
piano industriale (e capitalista avrebbe detto il Cacciari di quegli anni), proprio la realtà che allora veniva
detta precapitalista da tutti i marxisti, Cacciari compreso.
Forse il mio apparirà un punto di vista “non di genere”, ma mi sembrava che il ruolo della piccola e media
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impresa, come fattore di modernizzazione e sviluppo, sia stato messo in risalto da studiosi, come Bagnasco
per i sociologi e come Giorgio Fuà per gli economisti, che per primi si sono guardati intorno senza lasciarsi condizionare dal linguaggio (precapitalista, capitalista o altro) delle teorie che li avevano guidati fino a
quel momento oppure, come Becattini, che hanno rinnovato il loro dizionario utilizzando una nuova lettura di Marshall per interpretare i nascenti distretti industriali. Inoltre, mi sembra che il riferimento al solo
Veneto fatto da Cacciari sia riduttivo di un più ampio modello di sviluppo che tocca quella che, appena nel
1977, Bagnasco e Missori hanno cominciato a chiamare Terza Italia. Infine, la descrizione di che cosa sia
questo modello viene delegata alle opere di Bagnasco e Trigilia, per uno scritto del 1984, e a uno scritto di
Anastasia e Corò del 1996. Degli studi di tanti altri studiosi che hanno trattato questo modello, non vi è
alcun accenno.
Persino nel trattare il tema della città, l'A. fa riferimento al concetto di città secondo Cattaneo. Questi, tuttavia, non solo quando parla di città intende città-Stato, ma fa anche discendere l'istanza all'autogoverno che viene rilanciata e raccolta anche durante il periodo austro-ungarico - dallo spirito municipale del tardo
Medioevo, oltre che dalla civicness delle città ducali longobarde e dei municipi romani. Una lettura della
storia della penisola che Cattaneo ha rappresentato nello scritto, famosissimo, de La Città, pubblicato dalle
pagine del Il Crepuscolo nel 1858.
Non mi sembra che questa ricostruzione sia più vicina al punto di vista di genere femminile di quanto lo
sia una ricostruzione alternativa. Per esempio, quella mia che sono convinto che il modello Nordest si sia
sviluppato, nel bresciano, per merito di Giuseppe Tovini e Giuseppe Zanardelli, nel veneto, per merito dei
veneti Angelo Messedaglia, Fedele Lampertico, Emilio Morpurgo e Luigi Luzzatti, nell'Emilia-Romagna
attraverso una re-interpretazione originale, mediata dalla conoscenza del pensiero di Romagnosi e operata da Bissolati, Turati e Ghisleri, del concetto di città di Cattaneo (la ricerca è ancora in corso per altre
Regioni). Inoltre, se si esclude l'Emilia-Romagna, lo sviluppo del modello del Nordest basato sulla piccola
e media impresa si è sviluppato sul concetto di città come insediamento costruito intorno alla pieve e alla
parrocchia e non intorno all'idea di città-Stato che era stata presentata da Cattaneo (un'idea, quella di
Cattaneo, che, successivamente, ha costituito la chiave di lettura crociana della storia d'Italia).
Se, invece, il punto di vista di genere viene legato alla capacità femminile di ascoltare i toni non urlati e persino il silenzio, qualità che l'A. dimostra di avere in sommo grado, vorrei ricordare che anche per questo
aspetto esiste una lunga tradizione di studi maschili tra i quali citerei, senza soffermarmi più di tanto:
Bachrach e Baratz che analizzano il non decision making cioè il potere delle élite talmente forti da essere
capaci, non solo, di contrastare le issue alternative che vengono avanzate, ma addirittura di costringerle al
silenzio, non facendole nemmeno avanzare; l'approccio alla comunicazione come azione comunicativa pratica di cui uno degli esponenti più noto è John Forester; gli studi sulla deliberazione politica e sulla democrazia deliberativa; etc.
Concludendo, mi sembra che tutti gli aspetti originali di questo volume, e anche qualche aspetto che io
non condivido, siano neutrali o indipendenti da qualsiasi punto di vista di genere, essendo un punto di
vista di genere rilevante in riferimento a quella che Merton chiama struttura sociale della scienza e mai rilevante rispetto a quella che egli stesso chiama struttura cognitiva della scienza.
(Giuseppe Gangemi)
[email protected]
DE RITA GIUSEPPE E GALDO ANTONIO, Capolinea a Nordest, Venezia, Marsilio, 2001,
pp. 92, 20.000 lire, 10,33 Euro.
Si tratta di un'intervista rilasciata da De Rita a Galdo. Un'intervista nella quale, a parte i riferimenti concreti, le domande sembrano più intelligenti delle risposte. Al libro viene premessa una "Prefazione" di Renzo
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Piano che parla del proprio progetto di "magnete" per Venezia, un progetto presentato in occasione della
candidatura di Venezia all'Expo (la candidatura venne, poi, ritirata, date le troppe polemiche, da Andreotti,
capo del governo di allora). Chiude il libro una raccolta di dati (con la collaborazione di Francesco Sbetti)
tendenti a dimostrare il distacco, in termini di sviluppo, di Venezia dalla locomotiva Nordest.
Come dimostrano i dati finali, il tema centrale del libro è proprio la decadenza di Venezia che appare tanto
più evidenziata dal successo ininterrotto dell'entroterra del Nordest. Due secoli fa, comincia, De Rita, intorno a Rialto vi erano 14 banche che avevano un ruolo importante e facevano di Rialto una specie di Wall
Street. Adesso, la locomotiva dell'economia è il Nordest e Venezia si è staccata dalla terraferma. I protagonisti dello sviluppo della terraferma (agricoltori, artigiani e piccoli imprenditori) hanno abbandonato
Venezia lasciandola al suo destino. Molti di questi protagonisti, come è emerso da una ricerca voluta dallo
stesso De Rita e realizzata dal Censis, considerano Venezia una città parassitaria avvolta nelle nebbie degli
intrighi e delle sovvenzioni romane.
Venezia sta vivendo lo stesso destino di tutti i capoluoghi di ogni triangolo industriale: Milano, Torino e
Genova, le città al centro del modello industriale fordista (ma questa parola non viene mai usata nel libro)
che ne hanno guidato lo sviluppo, adesso, hanno perso la loro funzione di leadership sul territorio e questo ruolo guida è passato alle periferie. Tuttavia, mentre queste grandi città, per avere esse una campagna
intorno (con l'eccezione di Genova che ha problemi particolari, forse non dissimili da quelli di Venezia,
anche se più limitati), hanno contenuto in parte il loro ridimensionamento, a Venezia questa possibilità
non è stata concessa.
Nemmeno Porto Marghera, che doveva costituire l'anello di congiunzione tra Venezia e Mestre (e ciò che
si trova oltre Mestre), è riuscita ad evitare la decadenza. Porto Marghera è costituito da circa 1600 ettari di
territorio che costituiscono il 30% dell'offerta provinciale di opportunità insediative industriali. Adesso, è
scarsamente utilizzato e non si vedono, nell'immediato, progetti capaci di rilanciarne il ruolo produttivo.
Così come occorre mettere Porto Marghera in rete con altri porti dell'Alto Adriatico e specializzarlo, allo
stesso modo occorre un più ambizioso progetto per mettere in rete Venezia. Secondo De Rita, il destino
di Venezia sta nel diventare il centro di attività immateriali. Per economia immateriale si intende: la finanza (recuperare il ruolo di due secoli fa come centro bancario), l'informazione, le telecomunicazioni, la new
economy e la cultura. Questo vuol dire dare un ruolo a Venezia come città del Nordest. Venezia può aiutare il Nordest facendo diventare le reti corte del Nordest a economia materiale in reti lunghe dell'economia alimentata dall'immateriale.
A questo proposito, De Rita dichiara di avere inventato prima di Bossi l'idea di Padania, anche se non ha
mai usato questo concetto in senso secessionista o indipendentista. Padania è, per De Rita, Venezia alla
guida del Nordest. Con questa affermazione, De Rita si qualifica come il quarto che abbia pretese di copyright sul termine (prima di lui, oltre a Bossi e Miglio, il primo di tutti in assoluto: Guido Fanti, Presidente
della regione Emilia Romagna e appartenente al PCI; egli utilizzò il termine nel 1975 e, anche per questo,
fu giubilato con una candidatura al Parlamento e successivamente emarginato). Comunque, indipendentemente dal fatto che sia stato o meno il primo, l'idea di Padania di De Rita non può prescindere dall'idea
di Venezia punto di riferimento (ma non capitale) di quest'area. Solo che, nel passare alle proposte concrete in cui articolare quest'idea di Padania, De Rita parla solo di progetti veneti: l'Expo, che si sarebbe
dovuto fare e che fu bocciato per non consegnare (prima di Tangentopoli) circa 60.000 miliardi alla gestione di Gianni De Michelis e che comunque interessava solo il Veneto; il Mose che riguarda solo la Laguna
veneta; ecc. Si capisce, così, per quale motivo, alla fine, quest'idea di Padania venga assimilata all'idea di
città-arcipelago elaborata da Massimo Cacciari, alla poliarchia veneta dello stesso De Rita, all'idea di cittàregione, all'idea di città metropolitana costituita da Venezia, Padova e Treviso e, infine, al concetto di rete
della new economy.
Sul tema, poi, di Venezia come punto di riferimento della Padania (intendendo quest'ultimo come territorio più vasto del Veneto), una funzione in questo senso la svolge la Venezia attuale in quanto costituisce
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uno dei quattro angoli del quadrilatero di un enorme "distretto del piacere": Gardaland, Bologna, Rimini
e Venezia. Questo ruolo di Venezia, ovviamente, non piace a De Rita che denuncia il fatto che gli abitanti
veri di Venezia diminuiscano mentre aumentano studenti e turisti. Venezia si trasforma in una città fantasma o città simulacro e, dopo le otto di sera, si svuota come qualsiasi centro storico ormai pieno di uffici
e povero di abitazioni familiari. La città, sul volano del turismo, è diventata la più cara d'Italia e anche questo spinge molti veneziani a trasferirsi in terraferma, tornando a Venezia ogni giorno solo per lavorare.
Il Turismo, continua De Rita, non è vissuto a Venezia come un progetto, ma come una rendita, capitata per
caso, mai realmente progettata. Bisogna ribaltare questo progetto di utilizzo di Venezia come di una rendita, per non far morire Venezia come città vera. La rendita, infatti, non seleziona classe dirigente, non crea
innovazione. L'Expo era un'opportunità, bisogna inventare altre opportunità, a cominciare dal magnete
che era contenuto nell'Expo e che potrebbe realmente diventare un progetto autonomo, insieme al Mose.
Ho assistito, a Venezia, a una delle tante presentazioni di questo volume. De Rita aveva partecipato alla presentazione della proposta di Statuto del centrosinistra coordinata e voluta da Massimo Cacciari e quest'ultimo aveva ricambiato presenziando alla presentazione, nella stessa giornata, del volume di De Rita. Nella
presentazione del volume, l'A. ha esordito citando Heidegger e mi era sembrato che ne facesse strazio. Ha
citato un famoso saggio di Heidegger ("Costruire, Abitare, Pensare") per sostenere che, laddove non si è
costruito, non vi è possibilità di pensare. Il perché di quest'affermazione mi è risultato chiaro dalla lettura
del libro finalizzata a questa recensione (e sarà chiarita in conclusione di questo scritto).
Al momento, mi aveva colpito la convinzione che Heidegger avesse detto qualcosa di completamente diverso. Tuttavia, la presenza, accanto a De Rita di un illustre filosofo come Cacciari, impassibile di fronte alle citazioni da Heidegger, mi avevano fatto dubitare della mia sensazione: forse, mi ero detto, l'interpretazione che
De Rita dà di Heidegger è talmente sofisticata da essere al di sopra delle mie possibilità di comprensione.
Leggendo questo volume, ho trovato un solo riferimento che sfiora marginalmente la filosofia, e vale la pena
riferirlo. Alla domanda dell'intervistatore che, a proposito di città-arcipelago, città-regione e poliarchia, si
pone il problema se si tratti della stessa suggestiva metafora, la risposta è illuminante: Sì. "In fondo parliamo dello stesso concetto" (p. 72). Solo che metafora e concetto non sono la stessa cosa. Il che conferma la
mia sensazione del giorno della presentazione: De Rita è un po' troppo disinvolto con la filosofia.
Purtroppo, mi verrebbe da dire, ha ragione l'intervistatore: quando De Rita parla di Expo, di Mose e di progetti per Venezia, usa questi riferimenti come metafore, del quarto tipo: la metafora con funzione euristica. Aristotele e San Tommaso hanno descritto quattro diversi tipi di metafore: le prime tre sono figure del
discorso, l'ultima ha funzione euristica in quanto si articola come una guida per l'azione, come strumento
intorno a cui articolare visioni, sinergie e progetti. La sensazione che si ricava leggendo il libro è che quelle di De Rita siano tutte metafore del quarto tipo, in quanto sono realmente cornici per l'azione. Solo che
vi è azione e azione. Alcune sono desiderabili e nobili, altre un po' meno. L'azione a cui pensa De Rita è
quella che può conseguire da un eventuale "partito delle infrastrutture" di cui De Rita potrebbe essere il
più significativo rappresentante, se non vi fosse già di diritto a pretendere questo titolo Lunardi, ministro
dei lavori pubblici nel Governo Berlusconi. Un partito che, se lasciato libero di operare a Venezia, realizzerebbe la rovina di questa città.
Si capisce allora il senso di quel fraintendimento di Heidegger: De Rita si appoggia a un grande filosofo per
sostenere che cementificando la laguna di Venezia, di fatto si riempie il "vuoto" che impedisce di pensare
e si costruisce, finalmente, un ruolo per Venezia come grande pensatoio mondiale.
(Giuseppe Gangemi)
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