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RASSEGNA STAMPA
martedì 18 novembre 2014
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
le monde diplomatique del 18/11/14, pag. 23
SEM TERRA. 30 ANNI DI STORIE,
30 ANNI DI VOLTI
Giulio Di Meo
CDM Photo, Bologna, 2014
Sem terra. 30 anni di storia, 30 anni di volti è qualcosa di più di un semplice libro
fotografico: Giulio Di Meo ha elaborato una sorta di album di famiglia dove c'è spazio sia
per il Mst sia per tutti i movimenti sociali brasiliani. La maggior parte delle foto ritrae
militanti senza terra, certo, ma ci sono anche gli Atingidos pela Mineracào, gli Atingidos
por Barragens, il Conseiho Indigeniste Missionario, i simpatizzanti del movimento (tra cui il
comitato italiano di appoggio di Mst) e i lottatori sociali di altri paesi del continente, a
partire dagli argentini del Frente Popular Dario Santillan, il giovane ucciso dalla polizia a
Buenos Aires alcuni anni fa durante una manifestazione di piqueteros. La capacità dì
Giulio Di Meo, che si autodefinisce, a ragione, un fotografo di strada, è stata quella di aver
composto questo album nel segno di un denominatore comune a tutta l'America Latina: la
questione agraria e le battaglie in difesa della terra. Il libro, corredato da brevi testi redatti,
tra gli altri, dal Coletivo Nacional de Mulheres, da esponenti della direzione nazionale del
Mst, dal Coletivo Nacional de Formacao e intervallato dai compromissos assunti dai Sem
terra in occasione del VI congresso svoltosi a Brasilia nel febbraio 2014, è «impegno e
azione politica della fotografia», come evidenziano Zaira Sabry e Jonas Borges, della
Coordenacào Mst dello stato del Maranhao. Joào Pedro Stedile, storico rappresentante
del Mst, sottolinea, nella sua prefazione, che i senza terra raccolgono «l'eredità storica
organizzativa non solo dei movimenti contadini che ci hanno preceduto (quilombolas,
sertanejos, canudos, popoli indigeni), ma anche di tutti i movimenti della classe lavoratrice
brasiliana»: non a caso i Sem terra rivendicano con orgoglio la loro identità
afrodiscendente («siamo i nuovi quilombos, simbolo di resistenza e lotta per costruire un
nuovo modello di produzione e di società»), ma anche la radice dell'immigrazione
europea. I quattro milioni di contadini poveri che tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo
sono stati condotti in Brasile per sostituire il lavoro schiavo, hanno svolto un ruolo di primo
piano in tutte le lotte sociali che hanno segnato la storia del paese, a partire da quella per
la riforma agraria. In questo senso, scrive Geraldo Gasparim, senza terra discendente da
contadini italiani, «il Mst è diventato un movimento colorato, specchio autentico della
nostra gente, con tutte le sue sfumature, origini e culture». La fotografia dei volti compiuta
da Giulio Di Meo traccia la storia del Mst come se fosse una famiglia: ci sono gli sguardi
allegri dei piccoli Sem terrinha e quelli dei giovani che sperano di vivere in un mondo libero
dall'idronegozio e dall'agronegozio, ma anche quello dell'anziana missionaria italiana e
militante Mst Alberta Girardi, di 93 anni. È in questo senso che Joào Pedro Siedile cita
l'antropologo, scrittore ed educatore Darcy Ribeiro ed il suo O povo Brasileiro. A formacào
e o sentido do Brasil per dire che il Mst fa parte di quella famiglia del popolo brasiliano
tratteggiata dallo stesso Ribeiro, ma anche da Di Meo, che ha fotografato le lotte dei
senza terra condividendo e identificandosi nelle loro aspirazioni: riforma agraria,
agricoltura sostenibile, diritto all'istruzione. Il ricavato dalla vendita del libro servirà a
raccogliere i fondi necessari per la ristrutturazione della Scuola Nazionale Florestan
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Fernandes del Mst, al cui progetto hanno aderito l'associazione Ya Basta, Amig@s Mst
Italia e le organizzazioni non governative Arcs - Culture Solidali e Fratelli dell'Uomo. " .
DAVID LIFODI
Da Redattore Sociale del 17/11/14
Campagna del cuore, il Sud del Mondo
raccontato in Toscana
Ottanta iniziative promosse da Arci e Unicoop dove attivisti e bambini
lavoratori racconteranno le difficoltà quotidiane della vita nei luoghi più
sfortunati del pianeta
FIRENZE - Sono in dieci e da domani fino a giovedì 4 dicembre percorreranno in lungo e
in largo la Toscana per spiegare, nel corso di oltre 80 iniziative, i progressi compiuti nelle
loro comunità di provenienza dai progetti di solidarietà internazionale realizzati da Arci
Toscana assieme ai partner locali con il sostegno della Campagna 'Il cuore si Scioglie'
della Fondazione Il Cuore si Scioglie onlus – Unicoop Firenze.
Sono ragazze e ragazzi della Compagnia del Cuore. In tutto 3 delegazioni da Niger,
Filippine e Perù, che daranno vita ad un calendario fitto di incontri di scambio e
conoscenza nelle scuole, nei circoli Arci, nelle sezioni soci Coop, nelle piazze delle città
della regione.
Dal Niger giungono 3 donne e alcuni ragazzi del Coniprat, ong nigerina, che lottano ogni
giorno per sradicare la piaga delle mutilazioni genitali femminili. Dal Perù invece sono 3 i
bambini lavoratori che racconteranno l'esperienza del Manthoc (Movimento Cristiano di
autorganizzazione per i diritti dei bambini lavoratori): in particolare, il più piccolo del
gruppo, tredicenne, ci dirà cosa significa lavorare per poter andare a scuola. Dalle
Filippine, attraverso l'Arcsea (l’associazione partner di Arci che porta avanti attività di
alfabetizzazione e accesso agli studi per le popolazioni indigene nei “Day-care centre”,
spazi di aggregazione dove i ragazzi si ritrovano per frequentare attività educative e dopo
scuola) arrivano coloro che lottano per il diritto all'istruzione dei bambini, per sconfiggere la
povertà delle baraccopoli e scongiurare l'esproprio delle terre degli indigeni da parte delle
multinazionali. Tra i 3 ragazzi filippini ci sarà anche un superstite del tifone Haiyan che ha
distrutto il paese circa un anno fa.
La Compagnia, a bordo del camper, toccherà tutte le province della Toscana. A Firenze,
Empoli, Siena, Prato, Arezzo, Pisa, Lucca e Pistoia si terranno le iniziative più importanti.
La presenza di giovani e bambini provenienti da tre diversi continenti
contemporaneamente darà un'opportunità di scambio e di riflessione unica. In un
momento difficile e complesso per le nostre comunità e i nostri territori diventa infatti
fondamentale confrontarsi con chi nel Sud del mondo sperimenta da tempo un altro tipo di
organizzazione, di gestione delle risorse, di approccio partecipativo.
Gli incontri saranno incentrati sullo scambio di esperienze e si focalizzeranno su alcuni
temi precisi: i diritti dei minori, il diritto alla partecipazione, il lavoro minorile, la gestione dei
beni comuni, l'approccio comunitario volto ad affrontare le condizioni più difficili, i diritti
delle donne e la lotta alla violenza contro le donne.
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Da la Stampa.it del 18/11/14
Il sogno distrutto degli sposi “La frana ha
cancellato il nostro locale”
Crabia di Cellio, il racconto di Alessandro e Valentina
maria cuscela
cellio
I coniugi Valentina Astori, 27 anni, e Alessandro Cifarelli, 34, avevano deciso di investire
tempo e denaro nella ristorazione: lei in cucina e lui in sala avevano preso in gestione il
circolo Arci «Mej che gnente» in località Crabia di Cellio, in provincia di Vercelli, uno dei
centri più colpiti dall’ultima ondata di maltempo.
Avevano lasciato Roma, città di cui Alessandro è originario e dove Valentina, cresciuta nel
paesino valsesiano, si era trasferita tempo fa; l’anno scorso la scelta di tentare l’avventura,
che si era concretizzata con le gestione inaugurata a gennaio 2014. Ma la pioggia di
questi giorni ha trasformato il sogno in incubo: una frana ha distrutto tutto quanto avevano
costruito con sacrificio e passione i due giovani sposi.
«Il locale, dopo il sopralluogo dei vigili del fuoco, è stato dichiarato inagibile e noi siamo
rimasti senza niente a livello lavorativo – dice Valentina Astori che con il marito vive in
un’altra zona di Cellio rispetto al circolo -. Il cemento del pavimento ha letteralmente
ceduto, il bagno non ha più un appoggio, il tetto scricchiola e potrebbe cadere da un
momento all’altro. Siamo disperati».
L’attività stava andando bene: serate a tema, cucina tipica il passaparola tra la gente, il
circolo Arci funzionava. «E stavamo pensando alle feste di Natale e Capodanno – spiega
con tono dolce Valentina Astori, studi all’istituto alberghiero che aveva coinvolto in questa
esperienza il marito, che prima faceva il gommista -. Venerdì i vigili del fuoco ci hanno
accompagnati all’interno del locale per prendere le nostre cose, come per esempio i cibi
che avevamo nel frigorifero. Siamo in attesa di sapere a quanto ammontano i danni ma
sappiamo che sarà difficile ricominciare. Avevamo curato la ristrutturazione nei dettagli,
investendo circa 40 mila euro. Credevamo fermamente in questo progetto e ora non ci è
rimasto niente».
Una piccola speranza ancora c’è: appena si stabilirà con esattezza l’importo dei disastri
causati dalla frana, i coniugi penseranno se aprire un’altra sfida con se stessi. Chi volesse
dare loro una mano, anche in questi giorni di emergenza, può telefonare al numero 3475512706.
http://www.lastampa.it/2014/11/17/edizioni/vercelli/il-sogno-distrutto-degli-sposi-la-franaha-cancellato-il-nostro-locale-KwP25Dm1tilRaErEEOsnFI/pagina.html
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 18/11/14, pag. 24
Un patto globale per il Pianeta
Così gli scienziati portano la pace
L’accesso all’acqua, le diversità culturali, quelle religiose, il controllo delle risorse, gli
interessi economici, i monopoli su materie prime e sul mercato delle armi, i cartelli della
droga e del traffico degli uomini… Il Pianeta sovraffollato vive da anni in uno stato di pace
soltanto virtuale, nella realtà percorso da guerre di ogni tipo e per ogni motivo. Né i politici,
né le religioni, né le strategie economiche sembrano ottenere risultati. Nulla di tutto ciò
sembra poter raffreddare i focolai. La scienza invece avrebbe le carte in regola per
lavorare alla pace e per la pace. È nel Dna degli scienziati, basta che non vivano in una
torre d’avorio ma sappiano osservare il mondo nel suo divenire. Non possono quindi
sorprendere le conclusioni del patto di Milano «Science for Peace» arrivato al sesto
appuntamento, alla vigilia dell’Expo, che si appella agli scienziati di tutto il mondo per un
network planetario a favore della pace. Il patto, nato da un’idea di Umberto Veronesi — un
progetto della Fondazione che porta il suo nome in collaborazione con l’università
Bocconi, la benedizione di Nobel e dell’Onu — rilancerebbe sia l’economia sia la
perequazione delle risorse.
Mario Pappagallo
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ESTERI
del 18/11/14, pag. 8
Colonie israeliane, l’Europa le “deplora”
Michele Giorgio
«L’autopsia non ha riscontrato violenze sul corpo dell’autista Yusef Ramouni, significa che
si è trattato di un suicidio», ha detto il portavoce della polizia israeliana mentre il tramonto
poneva fine ad un’altra giornata di tensione e scontri a Gerusalemme Est. A Tur, sul
Monte degli Ulivi dove Ramouni, 32 anni, viveva con la sua famiglia, ad Abu Dis e nel
resto della zona araba della città nessuno crede alla versione ufficiale. I palestinesi, anche
l’Anp di Abu Mazen e il movimento islamico Hamas, ripetono che l’autista, ritrovato
impiccato in un autobus della compagnia israeliana Egged nella notte tra domenica e
lunedì, è stato assassinato da estremisti israeliani. «Uccidendo Yusef si sono vendicati
degli attacchi compiuti da palestinesi con le automobili (delle scorse settimane, che hanno
fatto alcune vittime, ndr)», ci dice Munir, un manovale. «Conoscevo Yusef – aggiunge —
era un tipo tranquillo, aveva un lavoro pagato bene, moglie e figli, perchè avrebbe dovuto
suicidarsi?».
E’ quanto ripete anche la famiglia ai giornalisti che bussano alla porta di casa. Osama, uno
dei fratelli dell’autista, insiste sulla tesi dell’assassinio: «Yusef non era depresso, nessuno
di noi aveva notato qualcosa di strano nel suo comportamento in questi ultimi giorni. Non
si è suicidato, lo hanno ammazzato». Osama sottolinea che il fratello era stato già
aggredito da estremisti israeliani la scorsa estate, dopo l’assassinio a Gerusalemme
dell’adolescente palestinese Mohammed Abu Khdeir, dopo il ritrovamento dei corpi di tre
giovani ebrei uccisi in Cisgiordania. Ieri gli autisti palestinesi della Egged hanno indetto
uno sciopero di tre giorni in segno di protesta. Nel centro di Gerusalemme Est molti negozi
sono rimasti chiusi.
In serata mentre l’oscurità metteva fine a questa nuova giornata di tensione nella città
santa, il Consiglio dei ministri degli esteri dell’Ue riuniti a Bruxelles comunicava che
l’Europa «deplora profondamente e si oppone con fermezza agli espropri di terre
(palestinesi) vicino a Betlemme» e agli annunci di nuove costruzioni negli insediamenti
colonici israeliani. I 28 ministri, nel comunicato, chiedono a Israele di bloccare i progetti di
espansione delle colonie perchè sono «contro il diritto internazionale e minacciano la
soluzione dei due Stati». I ministri osservano che «le recenti attività di insediamento a
Gerusalemme Est compromettono seriamente la possibilità che Gerusalemme possa
essere la futura capitale di entrambi gli Stati», Israele e Palestina. E’ questo il punto più
importante del comunicato finale, poichè i 28 riaffermano di non considerare
Gerusalemme indivisibile e capitale di Israele. Una linea respinta dal capo della diplomazia
israeliana Lieberman che, incontrando domenica a Gerusalemme il suo omologo tedesco
Frank Walter Steinmeier, aveva respinto la definizione di “colonie” per le attività di
costruzione in quelli che il ministro degli esteri ha descritto come i quartieri ebraici di
Gerusalemme est.
L’Ue peraltro avverte che sta «monitorando strettamente la situazione e le sue implicazioni
più ampie», e aggiunge di essere pronta «a prendere ulteriori azioni per proteggere la
fattibilità della soluzione dei due Stati». L’avvertimento è ancora vago ma conferma parte
delle indiscrezioni pubblicate negli ultimi giorni dal quotidiano Haaretz sulla possibilità che
l’Ue possa adottare sanzioni concrete contro Israele, incluso il richiamo degli ambasciatori
a Tel Aviv. Il monito in particolare è contenuto nella bozza di un documento confidenziale
inviato dall’Ue ai 28 stati membri. Sembra dunque profilarsi un braccio di ferro tra le due
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parti. E’ arduo però credere che una Unione con 28 diverse politiche estere e dominata
dalla Germania, principale alleata di Israele in Europa, scelga di andare, con un fronte
unico, allo scontro con il governo Netanyahu.
Intanto proseguono i riconoscimenti simbolici dello Stato di Palestina da parte dei singoli
paesi europei, in attesa di quello dell’Ue che al momento è improbabile. Oggi il Parlamento
spagnolo discuterà una mozione per il riconoscimento della Palestina, presentata dal Psoe
e il cui testo è stato negoziato da tutti i gruppi politici. Intanto il governo svedese, primo fra
quelli dell’Europa occidentale a riconoscere lo Stato di Palestina, ha comunicato che non
intende aprire una ambasciata in Cisgiordania.
del 18/11/14, pag. 10
Sfida all’Occidente
Il Califfo mostra le sue brigate europee
Tra i boia di Kassig due inglesi, due francesi e forse un tedesco Al
Baghdadi li usa per fare propaganda e colpire la coalizione
Maurizio Molinari
Due inglesi, due francesi e forse anche un tedesco: sono europei i protagonisti del plotone
di boia dello Stato Islamico (Isis) nel video sulla decapitazione dell’ostaggio Peter Kassig e
ciò rivela la decisione del Califfo Ibrahim di dare più visibilità, nelle azioni militari e di
propaganda, alle brigate dello Stato Islamico composte da volontari del Vecchio
Continente.
I due britannici ripresi mentre decapitano soldati siriani sono «Jihadi John» e Nasser
Muthana. Il primo è il killer di cinque ostaggi occidentali e, secondo il «Daily Telegraph», si
tratta di Abdel Majed Abdel Bary, 23 anni, un ex rapper che venne ripreso da una tv
australiana a Londra nel 2011 durante i gravi scontri nel quartiere di Tottenham. A
identificare Nasser Muthana, 20 anni, è stato invece il padre da Cardiff, in Galles, dove la
famiglia vive e ha assistito prima alla sua partenza per la Siria e poi a quella del fratello
minore, Aseel di 17 anni, che lo ha seguito in febbraio. Nasser è apparso in un video
online assieme a un jihadista di Aberdeen mentre chiede ad altri anglomusulmani di unirsi
a Isis. E il fratello Aseel, in un’intervista a «Week In Week Out» ha detto: «Non mi pento di
essere partito, voglio morire, solo Allah conosce la verità dietro le parole». I due fratelli si
dicono a favore della «sharia al 100 per cento» e raccontano di aver incontrato altri
jihadisti britannici. Il padre, Ahmed Muthana, ha riconosciuto il figlio guardando le immagini
del video, commentando al «Daily Mail» «è fuori di mente». Ma poi ha cambiato opinione,
dichiarando alla tv «Bbc» che «non si tratta di mio figlio ma gli somiglia molto».
Il francese identificato dal ministro degli Interni di Parigi è Maxime Hauchard, nato cattolico
nel piccolo comune di Bosc-Roger-en-Roumois in Normandia e convertitosi all’Islam
scegliendo il nome di Abu Abdallah Al Faransi. Il ministro Bernard Cazeneuve ha detto che
Hauchard ha 22 anni ed è arrivato in Siria nel 2013 dopo aver passato l’anno precedente
in Mauritania, dove si disse «scontento» dello «scarso estremismo» trovato fra i jihadisti.
Parigi sta conducendo «ulteriori verifiche» per arrivare a identificare un secondo francese
fra i boia di Isis, che includerebbero anche un tedesco.
Si tratta di individui delle «brigate europee» che, secondo l’esperto di anti-terrorismo
Lorenzo Vidino, sono «divise per lingue con unità francofone, anglofone, tedesche e
olandesi-fiamminghe». Il jihadista francese Abu Shaheed, che appartiene a queste unità
denominate «Katiba», ha parlato di «cinque o sei brigate combattenti composte di francesi
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e belgi valloni, appartenenti alla seconda o terza generazione di immigrati, oppure
convertiti all’Islam». L’inquadramento per «brigate linguistiche» nasce, continua Vidino
citando l’esempio fiammingo, per necessità «perché il reclutamento avviene online o
attraverso persone che si conoscono e quando arrivano in Siria o Iraq combattono
assieme». Per Gilles de Kerchove, capo dell’anti-terrorismo Ue, il numero degli europei
inquadrati nella «Katiba» del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi si aggira sui 3000 ovvero circa
il 10 per cento dei miliziani di Isis. «Finora al-Baghdadi aveva adoperato queste unità in
operazioni militari, anche ad Aleppo, ma il video diffuso per la decapitazione di Kassig
dimostra che adesso vuole sfruttarli a fini di propaganda», osserva Charlie Winter, analista
di Isis alla «Quilliam Foundation» di Londra, secondo cui l’intento è «dimostrare che
musulmani provenienti da ogni Paese si battono a fianco dei fratelli siriani ed iracheni»
sperando così di moltiplicare le reclute e di accrescere la minaccia contro i Paesi della
coalizione guidata dagli Usa. Da qui lo scenario di un Califfo intenzionato a impegnarsi in
una «campagna d’Europa» giovandosi dell’alleanza siglata con Al-Nusra, emanazione
diretta di Al Qaeda, a cui appartiene il misterioso gruppo Khorasan.
del 18/11/14, pag. 9
Poroshenko: pronti a guerra totale
Fabrizio Poggi
Ucraina. Nuove sanzioni alla Russia escluse dal ministro tedesco
Steinmeir. Mosca espelle funzionari polacchi
«Oggi l’Ucraina è il posto più pericoloso della terra», ha dichiarato il presidente ucraino
Pëtr Poroshenko alla tedesca Bild, accusando Mosca di non osservare gli accordi sul
processo di pace. Poroshenko ha detto di aspettarsi lo «scenario peggiore»: «l’esercito
ucraino è pronto a una guerra totale, trovandosi oggi in condizioni molto migliori rispetto a
cinque mesi fa e con l’appoggio del mondo intero». A Mosca fanno notare come appena
venerdì scorso, rispondendo alle domande di un altro giornale tedesco, il Rheinische Post,
il ministro degli esteri di Kiev, Pavel Klimkin si fosse espresso in toni ben diversi: «Stiamo
parlando di una soluzione politica. Un’offensiva militare a est causerebbe vittime tra la
popolazione civile, tra i nostri concittadini. Cerchiamo di evitare il confronto militare».
Al momento, però, la situazione pare prendere una piega più in linea con la frase di
Poroshenko: ai morti e feriti sia tra le truppe ucraine che tra le milizie (domenica scorsa è
rimasto ferito anche «Motorola», popolare comandante delle milizie) si aggiungono
sempre più numerose le vittime civili. Un’intera famiglia (padre e madre trentenni e due
figlioletti di nemmeno 7 anni) e altri inquilini sterminati da un colpo di mortaio caduto sul
loro appartamento a Gorlovka e il bombardamento di una clinica ostetrica a Pervomajsk;
questo l’ultimo bilancio sul «fronte civile», a cui la rappresentante Usa all’Onu Samantha
Power risponde con la richiesta di sigillare il confine tra Russia e Ucraina. «Siamo pronti a
ritirare le sanzioni se cesseranno le azioni di guerra, la frontiera verrà chiusa, truppe e
mezzi stranieri ritirati e gli ostaggi liberati» ha detto la Power, convinta che «invece di
ritirare le proprie forze dall’Ucraina e cessare di appoggiare i separatisti, la Russia invia
sempre più uomini e mezzi attraverso la frontiera».
Le parole della Power seguono d’altronde il corso Usa e Nato. Ieri, Piazza Smolenskaja
(sede del ministero degli esteri russo) rispondeva alle accuse rivolte al Cremlino dal
segretario della Nato Jens Stoltenberg, di inviare armi in Ucraina, evidenziando invece
come la Nato «intenzionalmente preferisca non vedere da un lato gli sforzi di Mosca per la
stabilizzazione in Ucraina e, dall’altro, il peggioramento della situazione sociale nel sud-est
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del paese», aggravata ora dal decreto di Poroshenko sul blocco economico totale del
Donbass. «Purtroppo» continua la nota «vediamo che nell’Alleanza non si tende a una
discussione costruttiva dei problemi aggravatisi, preferendo inasprire gli umori anti-russi
per giustificare i piani di rafforzamento del potenziale militare del blocco e allargare la
presenza militare Nato in prossimità delle frontiere russe».
Se è univoca la linea Usa-Nato, è invece in Europa che è dato intravedere qualche
diversità di accenti tra rappresentanti di uno stesso governo. Sulla scia del duo ucraino
Poroshenko-Klimkin, in Germania, all’approccio rigido di Angela Merkel si contrappone
oggi quello più possibilista del suo ministro degli esteri Frank-Walter Steinmeier. Se la
cancelliera si era espressa per la continuazione delle sanzioni contro la Russia che,
secondo lei, «mette a rischio la pace in Europa», appena poche ore dopo Steinmeier,
durante la riunione dei ministri degli Esteri della Ue a Bruxelles, ricordando che il suo
colloquio con Vladimir Putin a Brisbane è stato «molto produttivo», esprimeva la
convinzione che non ci sia alcuna necessità di nuove sanzioni. «Prima di tutto» ha detto
Steinmeier «bisogna analizzare la situazione. In particolare, la questione è come evitare
l’avvitamento di una nuova spirale di violenza in Ucraina».
In effetti, i ministri degli esteri europei hanno tolto dall’ordine del giorno nuove sanzioni alla
Russia – in ogni caso «le sanzioni non avranno alcun effetto sulla politica estera della
Russia» ha detto il rappresentante russo all’Osce Andrej Kelin e, d’altra parte, Mosca sta
da tempo allacciando nuovi contatti economici e politici in Asia — stilando però l’elenco di
funzionari delle Repubbliche di Donetsk e Lugansk che andranno ad aggiungersi ai
numerosi esponenti politici ed economici russi già «sanzionati» dall’estate scorsa. Al
termine della riunione di Bruxelles, il Ministro degli Esteri della Ue Federica Mogherini ha
comunque dichiarato di volersi recare a Mosca già nelle prossime settimane per attivizzare
il dialogo con la Russia. E un segnale distensivo è giunto ieri dal Presidente ceco Miloš
Zeman, che giudica le sanzioni anti russe una «loss-loss strategy», una strategia per cui
tutti perdono e ritiene «completamente insensato» l’aiuto economico all’Ucraina, mentre
nel paese è in corso una guerra civile.
Ma che la strada da percorrere nasconda curve molto insidiose, lo testimonia il passo
intrapreso ieri dalla Russia che ha espulso — «per attività incompatibili con il loro status»
— alcuni funzionari delle ambasciate polacca e tedesca, in risposta ad azioni simili
adottate in precedenza da Berlino e Varsavia.
del 18/11/14, pag. 15
Merkel: l’Ucraina è l’inizio, poi toccherà
all’Est e ai Balcani
Mogherini al suo primo Consiglio degli esteri Ue: la Russia è parte della
soluzione, sì al dialogo
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES L’Unione europea vuole un «riassetto
della nostra relazione con la Russia», giacché se la stessa Russia «è parte del problema,
è anche parte della possibile soluzione» della crisi in Ucraina. Lo dice Federica Mogherini
al suo esordio come capo della diplomazia europea, nella riunione dei ministri degli esteri
Ue. E indica le tre vie da percorrere: sanzioni (nella sua visione bastano però quelle
attuali, aumentarle come chiede qualcuno non porterebbe a grandi effetti), diplomazia, e
compimento delle riforme ucraine.
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Ma la voce che si leva da Sydney, al termine del G20, ha un diverso tono, più drammatico,
e parla di pericoli vicini nel tempo, quasi immediati: «Conflitti regionali come quello che
divampa nell’Ucraina Orientale – ammonisce in un’intervista la cancelliera tedesca Angela
Merkel — possono degenerare assai presto in roghi più grandi. Non si tratta solo
dell’Ucraina, ma della Moldavia, della Georgia. Se continua così, ci si deve chiedere che
cosa avverrà anche in Serbia, nei Paesi dei Balcani Occidentali…».
La risposta, indiretta ma altrettanto tesa, giunge subito dal Cremlino, da Vladimir Putin che
riafferma il suo sostegno ai separatisti filo-russi: «Volete che le autorità centrali ucraine
annichiliscano chiunque laggiù, tutti i loro avversari e oppositori politici? E’ questo che
volete? Noi certamente no. E non lo permetteremo».
Quasi un preavviso di intervento diretto nello scontro regionale, che certo trova orecchie
attente anche a Bruxelles. Federica Mogherini condivide presumibilmente le
preoccupazioni di Angela Merkel, ma deve conciliare le politiche estere di 28 diversi Paesi,
è una voce mediatrice che non esprime la posizione di un solo governo. Così anche nelle
discussioni sul nodo Israele-Palestina. Ieri, il giornale israeliano Haaretz ha citato un
presunto documento in cui l’Ue si preparerebbe a ritirare i propri ambasciatori da Tel Aviv.
Ma era solo una bozza interna, ha spiegato Mogherini, «che risale al mandato precedente
al mio; in ogni caso, era solo un’ipotesi di lavoro tecnico e non era sul tavolo dei ministri
oggi, non al centro della discussione».
Luigi Offeddu
Del 18/11/2014, pag. 18
Il reportage.
25 anni dopo la caduta di Ceausescu il “Signor Mani Pulite” batte a
sorpresa il premier socialista Ponta Sostegno della Merkel all’esponente
della minoranza germanofona un conservatore e protestante, in un
paese prevalentemente ortodosso
Tra i giovani di Bucarest che hanno scelto
Iohannis il presidente “tedesco” “Guardiamo
a Occidente”
ANDREA TARQUINI
LO SQUILLO da Brisbane sul cellulare l’ha udito a fatica, Klaus Iohannis portato in trionfo
dai giovani romeni a Piata Universitatei, centro di Bucarest dove nel dicembre 1989
caddero le vittime dei cecchini della Securitate. Iohannis udiva a fatica, ma ha risposto
felice: è stata “lei”, la Merkel, tra i primi leader mondiali a chiamarlo e a fargli gli auguri.
«Grazie Angela, la tua lettera da amica di qualche mese fa ci ha dato forza. Ora
guardiamo a Occidente», ha detto al cellulare cercando di sovrastare con la voce forte gli
slogan della folla. Romania, 25 anni dopo: nell’Europa delle mire di Putin nei Balcani, dei
venti populisti e delle tragedie causate dal rigore, viene da qui, simbolicamente un quarto
di secolo dopo la sanguinosa caduta del Conducator, un segnale di speranza.
«Sono commosso, rivivo la gioia di un quarto di secolo fa quando sulle barricate
rovesciammo Ceausescu», mi dice Petre Roman. Lui, allora giovanissimo premier
democratico della Romania post-1989, riformatore poi deposto dalla vecchia guardia
gattopardesca, oggi è il consigliere numero uno di Iohannis, e mi accompagna come un
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Virgilio nella vivace Bucarest gioiosa del giorno dopo. «È un fatto rivoluzionario di maturità
democratica europea, come a quei tempi». Erano a decine di migliaia, l’altra notte qui
sotto la pioggia, la festa giovanile tra Piata Universitatei, Bulevardul Regina Elisabeta e
Bulevardul Bratianu si è sciolta pian piano solo alle prime luci dell’alba. Il vincitore in
persona ha intonato sottovoce al microfono «Svegliati, Romania, dal sonno della morte, in
cui ti ha gettato la barbarie del tiranno», la prima strofa dell’inno nazionale. Non se lo
aspettavano. Non è destra contro sinistra, né popolari contro socialisti come a Bruxelles: è
la società civile schiacciata prima dall’Impero sovietico poi dagli oligarchi, che si riprende il
suo spazio, dice l’amico Petre, guida e voce di memoria: un segnale che la “Vecchia
Europa” farebbe male a non cogliere. «Chi poteva pensare che do- po il vantaggio di
Ponta al primo turno la gente avrebbe reagito così, i romeni stavolta hanno vinto col voto,
e Iohannis s’insedierà come presidente il 22 dicembre, 25 anni esatti dopo la caduta di
Ceausescu - nota Petre Roman - sono felice anche per i miei compatrioti che vivono da
voi, a Parigi, Berlino o Londra». Gioia e speranza li cogli nell’aria, li vedi nei sorrisi. Victor
Ponta, il premier “socialista” (ex comunista) ce l’aveva messa tutta per vincere, dopo il
vantaggio al primo turno 15 giorni fa. Anche dimezzando i seggi elettorali per i 4 milioni di
romeni emigrati, molti anche da noi. E qui si è scavato la fossa. «La gente si è ribellata
contro questi schiaffi ai compatrioti costretti a emigrare da Ponta che usa bilancio sovrano
e aiuti Ue solo per i suoi cleptocrati e lascia inutilizzati aiuti Ue enormi. Hanno detto basta
andando a votare», nota Roman. È una domenica col fiato sospeso, dicono i suoi
collaboratori, quella che Klaus Iohannis, «tedesco e protestante, doppiamente minoritario,
bel personaggio », ha vissuto: a mezzogiorno, negli exit poll segreti, Ponta era in
vantaggio. Avevano votato presto soprattutto anziani, contadini, fedeli ortodossi. I giovani
sono arrivati dopo ai seggi, e hanno capovolto tutto. 54,5 per cento dei voti al “tedesco”, il
sindaco-modello che ha risanato Sibiu facendola capitale culturale d’Europa, il “signor
mani pulite” scienziato e bilingue perfetto, diffamato dagli oligarchi nel modo più infame,
come «straniero pronto a vendere bimbi per organi da trapiantare».
«Adesso svolta profonda e nuovo inizio, vi prometto una Romania che funziona, lotta alla
corruzione, uno Stato che rispetta i cittadini», ha detto Iohannis. Scommessa temeraria:
dovrà coabitare con governo e Parlamento ancora in mano a Ponta, premier che tenta di
amnistiare i suoi corrotti eccellenti, quasi si vanta della laurea copiata e spiega appalti
truccati parlando di “contratti scomparsi”. E che, come il suo compare di destra Viktor
Orbàn a Budapest, mi ricorda una fonte Ue qui, aveva cercato con ogni mezzo di
addomesticare Giustizia e ogni altro contropotere. Ha il volto felice del sollievo, Bucarest
sotto la pioggia il giorno dopo, tra i palazzoni staliniani dell’èra Ceausescu e i nuovi
grattacieli ipervetrati delle multinazionali. E nei volti dei giovani elettori del “tedesco”,
poliglotti e graziosi con sneakers Converse ai piedi, tablet e smartphone per navigare
online e scaricare motivi indie rock. «Abbiamo atout, possiamo farcela - ti dicono gli
ottimisti nei centri studi - senza gli stabilimenti Dacia e Lumia qui da noi, colossi come
Renault e Nokia sarebbero alla fine». Ma è vinta solo una battaglia, ammonisce Petre
Roman, la lotta per essere liberal e moderni, liberi, competitivi ed europei continua. «Dopo
la caduta di Ceausescu io liberal tentai l’alleanza col comunista gorbacioviano Iliescu racconta - poi rompemmo, però rispetto a Ponta e alla sua banda di cleptocrati Iliescu era
un gigante, ed è divenuto un vero democratico. Ponta no, è solo un uomo dell’apparato».
Al momento, «l’ondata del voto giovane bourgeois et citoyen lo ha sconfitto, ma noi romeni
dobbiamo voltare pagina per sempre prima di chiedere qualcosa all’Europa », conclude
mentre passeggiamo nei boulevard del centro, «ma via, adesso godiamoci la vittoria dei
giovani e d’un europeo contro un antieuropeo, 25 anni dopo».
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INTERNI
Del 18/11/2014, pag. 14
Italicum, le trappole del Senato per far saltare
il sì prima di Natale
Tempi strettissimi per il via libera alla legge. Oggi l’esame in
commissione
ANNALISA CUZZOCREA
Il rischio che Roberto Giachetti debba davvero ricominciare il suo sciopero della fame c’è,
ed è concreto. Del resto è per questo, che il vicepresidente della Camera ha annunciato
ieri: «Se il Senato non approverà l’Italicum entro dicembre, riprenderò la protesta». Perché
non sono pochi, a voler mettere trappole sulla via della legge elettorale: un fronte
trasversale che va da Forza Italia a una parte dell’Ncd passando per ex grillini poco
desiderosi di andare al voto e democratici battaglieri sulle preferenze.
La tabella di marcia prevista dopo l’accelerazione impressa dal governo a Palazzo
Madama è stretta: si comincia oggi in commissione Affari Costituzionali. La presidente
Anna Finocchiaro, che è anche relatrice del provvedimento, ha già detto che i tempi per
chiudere entro dicembre ci sono. I primi due o tre giorni saranno dedicati alle audizioni.
Giovedì 20 o martedì 25 dovrebbe cominciare la discussione generale, per poi esaminare
gli emendamenti e avere il testo pronto per l’aula a metà dicembre. Quindi, si finirebbe
entro l’anno a Palazzo Madama e, come chiesto dal premier, entro febbraio a
Montecitorio. Perché sia così, serve che fili tutto liscio. «Berlusconi ha dubbi sul premio
alla lista e sulle soglie, ma la maggioranza in commissione ha due voti di scarto, in aula
almeno 4 o 5. Se sarà necessario, faremo senza di loro», dice chi ha avuto modo di
parlare della strategia. I cambiamenti da fare rispetto alla legge approvata alla Camera
sono tanti: il premio alla lista garantirà 340 deputati a chi vince. Per non andare al
ballottaggio, servirà il 40% dei consensi (non più il 37). Le circoscrizioni passano da 108 a
un numero variabile tra 75 e 100. I capilista saranno bloccati (tra questi il 40% devono
essere donne, per le quali c’è anche l’alternanza in lista), ma dal secondo scattano le
preferenze (secondo la minoranza pd non basta, perché così il 50 per cento degli eletti
verrebbe comunque “nominato”). Infine, per garantire maggiore rappresentatività - a fronte
di una governabilità garantita dal premio - le soglie di ingresso al Parlamento si abbassano
al 3 per cento per tutti.
«Sono norme ritagliate sulle esigenze di Renzi - dice il senatore forzista Augusto Minzolini
così si torna alla prima Repubblica. Il segretario di partito vincente sarebbe così forte da
poter scegliere sia il governo che il capo dello Stato, visto che non c’è un correttivo come
l’elezione diretta per il Quirinale. Non sarebbe neanche la Russia di Putin, ma quella del
Pcus di Brè_nev». In più, spiega, sono in molti a vedere dietro un’approvazione rapida lo
spettro di elezioni a primavera. E sono in molti a non volerle. Dal Pd, si ribalta il
ragionamento: se salta il patto sull’Italicum, le elezioni si avvicinano, piuttosto che
allontanarsi. Con il consultellum, se necessario, una legge praticamente proporzionale.
Magari Renzi bluffa, ma - a oggi - nessuno può saperlo.
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Del 18/11/2014, pag. 33
I NODI DEL SENATO
ALESSANDRO PACE
TERMINERÀ oggi la discussione generale della Camera dei deputati sul disegno di legge
costituzionale Renzi-Boschi e il 24 scadrà il termine per la presentazione degli eventuali
emendamenti. Mi pare perciò doveroso evidenziare le principali contraddizioni e i gravi
pericoli istituzionali sottesi alla modifica del Senato qualora il testo, licenziato dal Senato
nello scorso luglio, venisse approvato dalla Camera.
Premesso che 95 dei 100 senatori saranno eletti non direttamente dal popolo ma dai
consigli regionali e dai consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano, il duplice
problema che il ddl pone è il seguente: il futuro Senato, non essendo eletto dal popolo,
può legittimamente esercitare la funzione legislativa? In considerazione dei poteri
attribuitogli dal ddl, potrà costituire un contro-potere della Camera dei deputati?
1. Se si tiene presente che nei regimi democratici gli organi titolari del potere legislativo
devono essere eletti dal popolo è di tutta evidenza che i poteri di revisione costituzionale e
i poteri legislativi, attribuiti dal ddl Senato ancorché non eletto con suffragio universale e
diretto, sono assai discutibili, e ciò anche perché la funzione legislativa verrebbe esercitata
da parlamentari non responsabili nei confronti del popolo. Ma non basta. Contro la scelta
dell’elezione indiretta dei senatori sollevano perplessità sia la ristrettezza dei collegi
elettorali (solo 7 consigli regionali superano i 59 consiglieri), sia l’inopportunità di
“promuovere” i consigli regionali a collegi elettorali senatoriali dopo tutti gli scandali che li
hanno caratterizzati.
Ciò detto, è inesatta l’analogia, a più riprese tentata, del futuro Senato italiano col
Bundesrat tedesco. E ciò per la semplice ragione che gli ordinamenti federali succedutisi
dal 1871 in poi — con la parentesi del nazismo — non hanno mai cancellato le preesistenti
identità storico-istituzionali come invece fu fatto con l’unificazione del Regno d’Italia. I
Länder non sono quindi i “grandi elettori” dei senatori, ma sono essi, in quanto titolari di
diritti “propri”, i componenti del Bundesrat.
Più vicino al modello previsto nel ddl è invece l’ordinamento costituzionale francese, il
quale prevede che il Senato, dovendo assicurare «la rappresentanza delle collettività
territoriali della Repubblica », viene eletto a suffragio indiretto. Qui però finisce l’analogia,
perché le elezioni senatoriali francesi sono “vere” elezioni che coinvolgono circa 150.000
persone tra deputati, consiglieri regionali, consiglieri generali e delegati dei consiglieri
municipali. Non quindi solo 19 consigli regionali e due consigli provinciali (e poco più di un
migliaio di persone), come nel ddl. Inoltre, ben diversamente dal modello Renzi-Boschi, in
Francia possono essere eletti senatori anche coloro che non siano consiglieri regionali. Ed
è infine significativo, quanto al ruolo riconosciuto al Senato dall’ordinamento francese, che
i suoi poteri sono identici a quelli dell’Assemblea nazionale.
2. Al fine di verificare la funzionalità del sistema — prescindendo dalla legittimità
democratica dei poteri legislativi del Senato — è poi doveroso comparare il Senato alla
Camera sotto il profilo della fonte di legittimazione, del numero dei componenti, del tempo
dedicato alle funzioni parlamentari e dei poteri rispettivamente attribuiti.
Quanto alla fonte di legittimazione, i senatori sono “designati” da consiglieri regionali e non
“eletti dal popolo”; il numero dei deputati è soverchiante (630 contro 100); imbarazzante è
il poco tempo dedicato alle funzioni parlamentari da parte dei senatori, dovendo essi nel
contempo svolgere le funzioni di consigliere o di sindaco, con un evidente spreco di
pubblico denaro perché non si impegneranno sufficientemente né nelle une né nelle altre
funzioni. Quanto infine ai poteri attribuiti alle due assemblee, quelli della Camera sono,
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anche qui, soverchianti: vanno dall’esclusività del rapporto fiduciario col governo alla
spettanza alla Camera in via geneterni”. rale del potere legislativo (collettivamente col
Senato solo in alcuni casi) alla possibilità, in via di principio, di eleggere da sola, ancorché
in seduta comune, il Presidente della Repubblica e un terzo dei componenti del Csm.
Pertanto è di tutta evidenza che la Camera non rinviene nel Senato un effettivo contropotere esterno (tranne nel fatto che gli spetterà, da solo, il compito di eleggere due giudici
costituzionali). Una situazione istituzionalmente ancor più grave se venisse approvato l’
Italicum sia nella prima che nella seconda versione, in quanto ad avvantaggiarsi di questo
concentrato di poteri legislativi e di indirizzo sarebbe in fin dei conti il governo quale
espressione della coalizione o del partito beneficiario del robusto premio di maggioranza.
In presenza di questo accumulo di poteri in favore della Camera, ci si sarebbe aspettati
quanto meno la previsione di contro-poteri “inal Invece il ddl si è limitato a demandare le
garanzie delle minoranze ai futuri regolamenti parlamentari (che, com’è noto, sono
approvati a maggioranza assoluta!). Né il governo si è preoccupato di prevedere la
possibilità degli interessati di ricorrere alla Corte costituzionale contro le decisioni delle
Camere in tema di ineleggibilità, incandidabilità e incompatibilità, come da anni e anni si
invoca. Anzi il Senato ha addirittura escluso, salvo limitate eccezioni, l’esame in
commissione dei disegni di legge che è il vero cuore del procedimento legislativo. Infine,
nella fretta dei primi giorni dello scorso luglio, lo stesso Senato ha respinto gli
emendamenti dei senatori M5S e Pd volti ad introdurre, anche in Italia, il diritto delle
minoranze di chiedere l’istituzione di commissioni d’inchiesta. Una garanzia tanto più
necessaria in presenza di un Moloch come la futura Camera dei deputati.
del 18/11/14, pag. 1
Una nuova leadership
Norma Rangeri
Sinistra. In Spagna e in Grecia Podemos e Syriza, hanno saputo
costruire un largo consenso, dando vita a forze politiche credibili come
alternativa di governo, qui invece siamo ancora molto, troppo lontani da
qualcosa di simile. Serve un cambio di passo politico e culturale, tattico
e di lungo respiro
La sofferenza economica e quella indiscriminata verso tutto e tutti ormai si confondono e si
alimentano. Una forte risposta sindacale, extrasindacale, movimentista, del ceto medio,
dei senza niente, ma anche una reazione di paura di chi, povero e ghettizzato, diventa
carne da macello di una politica reazionaria pronta a generare mostri e a prendere di mira
i più deboli, gli immigrati. Tra i quali purtroppo viene pescata la manovalanza della piccola
criminalità quotidiana, che ferisce e indigna più di quella organizzata dalle forze e bande
criminali che controllano larghe fette del nostro territorio.
Però la risposta operaia e quella battezzata come “sciopero sociale”, così come le
esplosioni di xenofobia nelle nostre banlieue, non mostrano soltanto cosa c’è in gioco:
mettono soprattutto in evidenza la necessità e l’urgenza di una risposta di sinistra alla
ricetta simil-liberista del governo Renzi, che non solo non risolve ma aggrava e avvicina il
declino del paese.
Non è inutile ricordare che senza un’inversione di rotta dell’Europa nessuna crisi nazionale
potrà essere risolta. Tuttavia è altrettanto evidente che senza una risposta di sinistra nei
paesi più colpiti dall’austerità nessun cambiamento europeo può prendere corpo. E
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purtroppo mentre in Spagna e in Grecia le forze di sinistra, Podemos e Syriza, hanno
saputo costruire un largo consenso, dando vita a forze politiche popolari e credibili come
alternativa di governo dei rispettivi paesi, qui siamo ancora molto, troppo lontani da
qualcosa di simile.
In Italia serve un cambio di passo politico e culturale, tattico e di lungo respiro. Un cambio
anche di leadership. E potrebbe essere di buon auspicio l’incontro di esperienze, leader
politici e personalità della sinistra riuniti nei seicentesco Auditorium di S.Apollonia a
Firenze sull’alternativa al renzismo. Con il leader di Syriza, Alexis Tsipras, venuto a dare
una spinta alla formazione — anche nel nostro paese — di una sinistra forte e unita contro
«il liberismo che il governo Renzi mette nei rapporti di lavoro». E’ molto probabile che in
Grecia si vada alle elezioni in primavera e «quando Syriza sarà al governo tenterà di
riportare la socialdemocrazia europea al suo originario scopo e sappiate — dice Tspiras —
che noi contiamo anche su di voi».
Parole inusuali nel territorio di sinistra italiano. Soprattutto davanti ai Vendola, ai Ferrero,
agli europarlamentari della lista Altra Europa. Così un forte brusio sale fino ai preziosi
affreschi dell’auditorium e il giovane Alexis se la cava ricorrendo al poeta («la strada si
trova camminando»). Ma proprio il leader greco è l’esempio di un rinnovamento, di cultura
politica e generazionale, di cui tutti hanno bisogno. Se vale per il vecchio Pd, per il
centrodestra di Berlusconi, per la Lega, perché questo cambiamento non avviene anche
nella sinistra radicale italiana?
A Firenze di questa necessità non si è parlato. Però è ormai chiaro che il problema c’è. E
va di pari passo con il dovere di camminare, anzi di pedalare, tutti in una stessa direzione.
E se in questa situazione di forte ripresa della conflittualità non si costruisce una forza
politica, o meglio, non si organizza una rappresentanza politica alternativa, allora
l’appuntamento di S.Apollonia resterà come uno dei tanti convegni, interessanti ma con
poco futuro.
Se invece si vuole rispondere alla speranza prendendosi sulle spalle la responsabilità che
la crisi richiede, allora bisogna trovare forza e coraggio. Forza per unire i diversi, coraggio
per cambiare la leadership. Un soggetto politico nuovo senza una unità di base non esiste.
Ma neppure con le stesse facce di sempre.
del 18/11/14, pag. 5
L’agenda del cambiamento
Riccardo Chiari
FIRENZE
Syriza e Podemos indicano la strada alla sinistra italiana per una forza
di alternativa e di governo contro l’Europa dei Trattati e dell’austerità
«Oggi la crisi delle socialdemocrazie è la crisi dell’Europa. In questo ambito, la
socialdemocrazia dovrà cambiare. Altrimenti finirà per essere una forza residuale». Alexis
Tsipras ancora non sa, nella sua domenica fiorentina, che l’osservazione troverà
l’indomani una conferma nel voto delle elezioni rumene. Un risultato a sorpresa,
segnalano i media sulla scorta dei sondaggi che davano in netto vantaggio i
socialdemocratici. Ma anche, fatte salve le specificità del caso, l’ennesimo, simbolico
segnale di un’analisi confermata dal voto popolare.
Se i sondaggi non riescono più a intercettare la volontà dei cittadini-elettori, buona parte
della responsabilità va alla spessa «nuvola del verosimile»: applaudita metafora con cui,
da esperta analista dell’informazione, Norma Rangeri guarda al caso italiano, denunciando
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le assonanze fra renzismo e berlusconismo nella dimensione — sempre strategica —
della comunicazione da trasmettere al «popolo». Quella denunciata anche dalla Cgil con il
satirico cinegiornale da Istituto Luce.
C’è in aggiunta, e il caso rumeno è ancora cartina di tornasole, con l’annuncio di una
nuova coabitazione fra socialdemocratici e popolari, la dimensione della «grande
coalizione» come condizione naturale per il dispiegarsi delle politiche europee. È proprio
l’impostazione che Transform! ha sottoposto alla discussione, in un appuntamento che ha
offerto all’auditorium di Sant’Apollonia un’autentica — ed energetica — overdose di
competenze intellettuali, di sensibilità politiche e dei «saperi di strada»: quelli del lavoro
nelle sue forme odierne, manifatturiere, cognitive, di servizio. Imprescindibili per ogni
sinistra.
Nell’assenza (reiterata) del servizio pubblico, grazie a Radio Radicale si possono
riascoltare tutti gli interventi, dai quali sono emersi con forza due temi. Il primo evidenziato
dai relatori è quello dell’urgenza di dare una risposta, politica, a quanto sta accadendo
nelle piazze, nelle fabbriche, nei mille luoghi del lavoro e dello studio. «C’è una ripresa di
protagonismo di massa che aspettavamo da tempo — osserva Marco Revelli — c’è il
lavoro che si è rimesso in marcia e che si è ripreso le città. Lo ‘sciopero sociale’ di venerdì,
in contemporanea con lo sciopero della Fiom, segnala un salto di qualità: il diamante
spezzato si ricompone. Ma quanto più cresce il vuoto di alternativa a sinistra, tanto più
crescono le mostruosità, come quella di Tor Sapienza, che vengono sempre prodotte dalle
crisi, specie se prolungate».
«Assistiamo a un nuovo autunno caldo? — si interroga Rangeri — Non lo so. Ma so che
questa protesta sociale, senza rappresentanza, continuerà e si allargherà se non troverà
risposte, sia immediate che di lungo termine». E Alfonso Gianni sistemizza il concetto:
«C’è una sinistra di popolo che chiede una sinistra popolare che non c’è, di fronte a quella
che è stata la profonda trasformazione del tessuto civile e sociale dell’intero continente
europeo. La separazione fra capitalismo finanziario e democrazia è un processo storico, e
da questo processo deriva la crisi dei corpi intermedi e quindi anche la crisi dei partiti. Il
‘renzismo’ e il Pd vanno collocati in questo processo: un partito pigliatutto, un partitogoverno che rappresenta il potere costituito. A cui noi dobbiamo contrapporre un potere
costituente fatto di democrazia deliberativa, movimenti sociali, e da un nuovo soggetto
politico della sinistra la cui costruzione è urgente».
Sul terreno, e fra l’auditorium di Sant’Apollonia il dato politico è presente, si confrontano e
si studiano due ipotesi di lavoro. C’è il progetto dell’Altra Europa, quello che il suo comitato
operativo — formato dalle forze politiche e sociali che hanno dato vita alla lista Tsipras —
si propone per mano di Marco Revelli come «un processo costituente che abbia l’obiettivo
di costruire un soggetto politico europeo della sinistra e dei democratici italiani». Un
passaggio che per Paolo Ferrero del Prc è fondamentale: «Alle europee, l’Altra Europa è
stato il punto più alto di unità a sinistra da anni. Dobbiamo seguire questo cammino, e il
documento di Revelli è un fondamentale punto di partenza».
In parallelo c’è il progetto, ricordato da Nichi Vendola anche oggi, della «coalizione dei
diritti e del lavoro», battezzato in piazza Santi Apostoli da Sel, da una parte del Prc e con il
«dem critico» Pippo Civati. Proprio Civati è l’unico Pd a essere qui, dopo che Sergio
Cofferati si è scusato per il forfait, facendo peraltro sapere che il suo partito commette un
grave errore politico seguendo le politiche dell’Ue. Civati offre di persona il suo contributo:
«Io non voglio fondare niente: io vorrei fondare il centrosinistra, cioè vorrei non fare una
piccola sigla». Mentre Vendola avverte che «le piazze operaie ci dicono che non abbiamo
più tempo» e citando Syriza e Podemos osserva: «Io vorrei una sinistra che sfidi Renzi per
batterlo. Per il governo. Lui spera in una sinistra identitaria, gonfia di slogan, e noi questo
non lo possiamo fare».
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Nell’analisi del leader di Sel il tema dell’Europa resta in sottofondo, così come in quella di
Ferrero resta in sottofondo il governo. Dalle testimonianze, applauditissime, dell’operaio
Stafano Garzuglia dell’Ast di Terni e di Michele De Palma della Fiom, emerge che per loro
il campo di gioco è l’Europa: «Noi siamo stati svenduti da una multinazionale all’altra
dall’Ue — ricorda il primo — da qui nascono i nostri problemi. E quelli della siderurgia
italiana». Mentre De Palma osserva che «le vertenze le vinciamo se stiamo in Europa,
ormai al Mise non si risolve nulla». La conferma, a tutto campo, arriva da Curzio Maltese:
«Noi dobbiamo allargare lo sguardo all’Europa: in Italia ancora non capiamo, all’estero
invece sì. Sia Syriza che Podemos hanno piattaforme programmatiche di critica all’Ue,
assai più che contro i loro governi. Da tempo Tsipras, e ora Pablo Iglesias, dicono che
vogliono vincere per cambiare le politiche continentali. Gli elettori li premiano».
Del 18/11/2014, pag. 15
Forza Italia e l’incubo del sorpasso Lega
Le regionali in Emilia Romagna, con il Pd scontato vincitore, misureranno anche i
rapporti di forza tra Berlusconi e Salvini, che punta a un boom da far pesare sul
piano nazionale. Centrosinistra favorito pure in Calabria. I timori sulla partitariforme: “Finiremo all’angolo”
CARMELO LOPAPA
Correre ai ripari, in Forza Italia in queste ore non pensano ad altro. Elezioni in EmiliaRomagna e Calabria dall’esito non solo pressoché scontato, ma dalle conseguenze
imprevedibili, per Berlusconi e i suoi. Lo spettro temuto, da Bologna, va sotto la voce
sorpasso leghista. E non solo per via del candidato governatore del Carroccio. Il rischio è
che le regionali di domenica si trasformino per Forza Italia nella rappresentazione plastica
dello schiacciamento tra i due “Matteo”, Renzi da una parte e Salvini dall’altra. E allora
addio sogni di rinascita e rilancio della leadership berlusconiana.
Il Matteo leghista è pronto a giocarsi il responso emiliano su scala nazionale, neanche a
dirlo, per dimostrare che è con lui ormai che a destra bisognerà fare i conti. Da lunedì
ancora di più. «Ma noi rischiamo pure di finire quarti dietro Grillo, e allora altro che dettare
le condizioni sull’Italicum», ragionava ieri pomeriggio dalla sede di San Lorenzo in Lucina
uno dei dirigenti più in vista (e più preoccupati). «Come sarà possibile sedere al tavolo di
Renzi per imporre soglie e premi alla coalizione, se Forza Italia andrà a rotoli?» è la
domanda ricorrente tra loro.
La corsa forzista in Emilia Romagna, in rotta con il Nuovo centrodestra di Alfano, spiega
solo in parte i sondaggi recapitati ad Arcore. Col capo fuori gioco causa uveite e ricoveri in
day ospital per l’intera settimana, c’è ora da gestire l’uno-due già preventivato nel fine
settimana. Che non sarebbe grave in sé, se non fosse l’antipasto delle sette sfide
altrettanto in salita di primavera: in Veneto, Liguria, Toscana, Umbria, Marche, Puglia e
Campania. È il motivo per il quale negli ultimi giorni lo stesso Berlusconi ha premuto
sull’acceleratore della riunificazione, con scarsi risultati. L’ultima stoccata all’avversario
leghista Angelino Alfano l’ha lanciata in tv ieri sera. «Faccio un appello a Matteo Salvini ed
a tutti i politici che hanno la scorta pagata dai cittadini: non giochi a nascondino con la
scorta. Quelli devono lavorare e tu falli lavorare » è stato l’affondo riferito alla fuga dal
campo rom di Bologna. Col “Mattinale” di Brunetta che in mattinata ancora predicava
«riconciliazione». In ultimo il consigliere politico Giovanni Toti, in un’intervista al Corriere
della Sera, è arrivato a ipotizzare un «predellino 2» per il partito unico del centrodestra. Ma
unico con chi? «Il vecchio centrodestra non ci interessa — chiude subito Gaetano
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Quagliariello parlando proprio da Cosenza — nulla da dire sui predellini, ma appartengono
al passato». E poi, con il leader del Carroccio, loro che sono «per l’Europa, per l’euro e
dentro il Ppe», non vogliono avere nulla a che fare. Già, Salvini. Da un mese si è piantato
in Emilia per una campagna assai “glocal” al fianco del “suo” Alan Fabbri, sosteproprio
nuto anche da Forza Italia, l’ha battuta in lungo e largo. Collegamenti tv da comuni
terremotati come Finale Emilia, dai campi rom che costeggiano i centri abitati e dai
quartieri operai. La doppia cifra da quelle parti gliela riconoscono di default. Il fatto è che
dalle carte di Verdini e dei dirigenti emiliani si materializzerebbe un successo ancora più
marcato del Carroccio, a spese degli alleati. Non è il successo del democratico Stafano
Bonaccini insomma a dare pensiero. La vicecapogruppo forzista al Senato, l’emiliana
Annamaria Bernini guarda oltre, «i sondaggi ci dicono che nel paese è già in atto un
processo di “derenzizzazione”, il centrodestra deve continuare ad alimentare la
costruzione di un’alternativa con una coalizione compatta il cui perno è Forza Italia».
Ma il perno del centrodestra i forzisti non lo sono più nemmeno nella Calabria, un tempo
terra generosa per Berlusconi e i suoi. Sebbene il candidato dem Mario Oliverio non sia
esattamente renziano (come lo era l’avversario sconfitto alle primarie Callipo), il premier
ha già fiutato l’aria e venerdì si presenterà alla chiusura della campagna. Ieri a Reggio
Calabria è arrivato il sottosegretario-luogotenente Luca Lotti. Qui non c’è la Lega e il
centrodestra è comunque in frantumi. «Forza Italia ha voluto questa divisione e ha
rinunciato a vincere», tira le somme Maurizio Sacconi, Ncd. Loro sostengono da soli Nico
D’Ascola, i berlusconiani con i Fratelli d’Italia Wanda Ferro, che per un’alchimia tutta
calabrese è sponsorizzata sotto traccia anche dall’ex governatore (alfaniano, costretto alle
dimissioni dai guai giudiziari) Giuseppe Scopelliti. Risultato? «La vittoria di Oliverio è
abbastanza scontata e a conti fatti è la soluzione migliore», racconta il senatore calabrese,
un “ex” trasversale (berlusconiano e Ncd), Paolo Naccarato. Nella punta dello Stivale i due
partiti litigano come i capponi di Renzo: sarà un derby, con l’incognita del bacino grillino
spaccato e alla deriva.
del 18/11/14, pag. 6
Pd in guerra con Marino: «Da commissariare»
Eleonora Martini
Roma. Il gruppo dem in Campidoglio chiede di «azzerare la giunta»,
compreso il vicesindaco Luigi Nieri. Sul tavolo della trattativa col
sindaco, un assessore ai Rapporti istituzionali che funga da regista
della macchina amministrativa zoppicante della Capitale
L’esito del braccio di ferro che si gioca in queste ore tra il Pd, romano e nazionale, e il
sindaco di Roma Ignazio Marino non è poi così scontato. Se finora il partito, che non ha
mai tanto amato il «marziano» ribelle e un po’ naïf, poteva usare come una clava la
pioggia di colpi caduta sul chirurgo – dal sondaggio commissionato dallo stesso
capogruppo dem in Campidoglio che lo fotografa al 20% di consensi, al «Panda-gate» sul
quale il sindaco dovrà riferire oggi in aula Giulio Cesare, fino alle periferie in subbuglio con
le rivolte anti-rifugiati –, tanto che qualcuno al Nazareno accarezzava l’idea di far tornare i
romani alle urne già nella prossima primavera, ora la rivelazione Demos che dà in caduta
libera sia il Pd (5 punti percentuali in meno) che il suo giovane leader (meno 10), ha
portato a più miti consigli.
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Appena un po’. Perché i diktat dei democratici sono chiari: «Azzerare la giunta in tempi
rapidissimi», come ha chiesto ieri dopo una riunione il gruppo Pd del Campidoglio. Ma c’è
di più: i falchi del partito vorrebbero soprattutto una sorta di “commissariamento” del primo
cittadino, con un «assessore forte» e più in sintonia con il partito nazionale che diventi il
regista occulto del governo di Roma.
Non solo quindi il mini rimpasto che a Marino sembrerebbe sufficiente per superare la
buriana – insieme a una nuova agenda programmatica che ponga al centro dell’azione
amministrativa il degrado delle periferie – riallocando il capogabinetto Luigi Fucito e
l’assessora alla Scuola Alessandra Cattoi, e mandando a casa la responsabile delle
Politiche sociali Rita Cutini. I più accaniti vogliono la testa di tutti gli assessori, a partire
dall’ingombrante vicesindaco Luigi Nieri che è il frutto dell’anomalia di Roma e del Lazio
dove il Pd governa con Sel.
«È paradossale che il capro espiatorio sia proprio Nieri che sui temi scottanti di questi
giorni si è battuto tanto», dice il capogruppo di Sel Gianluca Peciola che minaccia: «Siamo
pronti a mandare tutti a casa». E aggiunge: «Il Pd è un partito in confusione che deve
risolvere i suoi problemi interni e smettere di fare la guerra al sindaco. A noi non
interessano le poltrone, ma se da questa crisi pensano di uscire con uno sbandamento a
destra dell’asse politico, allora tanto vale tornare al voto». Eppure c’è perfino chi nel Pd, a
conferma della perdita di ogni bussola politica, ipotizza l’ingresso dell’ex sfidante Alfio
Marchini nella maggioranza di governo della città.
Molto probabilmente però già da domani il vicesegretario nazionale dem, Lorenzo Guerini,
che attende solo il rientro di Renzi dall’Australia previsto per questa sera, metterà sul
tavolo della trattativa con Marino una rosa di nomi adatti per una figura che, lasciando
pure Nieri al suo posto, «colmi la mancanza attuale di equilibrio politico tra la giunta, il
governo nazionale, il sindaco e la città», come riferiscono fonti interne al ribollente Pd. Per
esempio «un assessore ai rapporti istituzionali», che nell’attuale giunta non esiste, «una
personalità importante che funga da regista di tutta la macchina amministrativa». Tradotto
un po’ brutalmente, una sorta di “commissariamento” del sindaco.
In pole position per questo ruolo ci sarebbe il deputato Marco Causi, colui che mise a
punto il piano di rientro di Roma insieme a Legnini e Melilli, visto che il favorito, il senatore
Walter Tocci, ha già declinato l’invito. Ma tra i papabili si fa anche il nome dell’onorevole
Roberto Morassut, ex assessore all’Urbanistica di Veltroni, il segretario del Pd romano
Lionello Cosentino o il deputato Michele Meta.
Non tutti però partecipano alla guerra fratricida contro il sindaco outsider: danno segnali
distensivi per esempio i consiglieri “giovani turchi”, che non hanno preso parte alla riunione
del gruppo ieri. Mentre il presidente dei Radicali italiani, Riccardo Magi, eletto in consiglio
con la lista civica, lancia l’hashtag #DovEriPD: «Senza nulla togliere agli errori e alle
responsabilità della giunta — dice — vorremmo sapere: in questo periodo il primo partito
della maggioranza, per assessori e consiglieri, dov’era?».
Del 18/11/2014, pag. 22
Arriva lo spray al peperoncino per gli agenti
in piazza
FABIO TONACCI
Lo spray al peperoncino scende in piazza e negli stadi. Gettata massima di 8 metri,
fuoriuscita “balistica”, cioè direzionale e non nebulizzata. Effetto di stordimento immediato,
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che potrà durare anche fino a un paio d’ore. È la nuova arma che da oggi i poliziotti
porteranno accanto al manganello per ridurre il più possibile il contatto fisico tra agenti e
manifestanti violenti. Una circolare del Viminale ha dato il via alla sperimentazione di sei
mesi nei reparti mobili di Milano e Torino. È la fase finale di una strategia volta a introdurre
“differenti tipologie di strumenti di dissuasione”. Lo spray, usato da molte forze di polizia in
Europa nella gestione dell’ordine pubblico, in Italia era stato dato in dotazione alle volanti e
alla Polfer di Milano, nonché ai nuclei radiomobili dei Carabinieri di Roma e Napoli, per
difesa da aggressioni personali. Il prossimo passo, appunto, è quello di utilizzarlo ai cortei
e nei servizi durante le partite di calcio. Come funzionerà? La circolare per ora fissa criteri
generali, prevedendolo «nel caso vi sia un’azione volta alla resistenza attiva, alla minaccia
o violenza verso le forze dell’ordine». Con una postilla molto importante, la cui eventuale
violazione scatenerà — non è difficile prevederlo — polemiche certe. Nel testo, infatti, si
specifica che il liquido a base di Oleoresin Capiscum , l’estratto naturale di peperoncino
(concentrazione al 10 per cento), potrà essere spruzzato solo quando «ogni tentativo di
negoziazione, mediazione o dissuasione verbale sia fallito». Un aspetto, questo, che nella
concitazione e nelle tensioni di una piazza non sarà sempre facile valutare.
«Il rischio dell’errore e dell’incidente c’è — dice Felice Romano, del sindacato Siulp —
però è uno strumento che consentirà di ricorrere meno al manganello, dunque siamo
favorevoli. Sono preoccupato invece dalle ultime disposizioni verbali che sono state date
agli agenti dopo gli scontri con gli operai della ThyssenKrupp a Roma, non reagire e non
accettare provocazioni. In questo modo lo Stato ci manda a fare i punching ball ,
delegittima l’autorità pubblica». I dispositivi cui sono stati dotati i reparti mobili di Torino e
Milano sono di due modelli diversi: l’Rsg8 della Defence System, sperimentato per la
prima volta in Kosovo, e il Curd’s Police Riot. «La sostanza crea — si legge sul sito della
Defence — una momentanea irritazione della pelle e sulle mucose, nel caso di contatto sul
viso provoca forte tosse, lacrimazione incontrollabile, abbondante produzione di muco
nasale e un bruciore intensissimo. Dopo diversi minuti (ma registriamo anche casi di 240
minuti) gli effetti passano senza lasciare traccia. Il prodotto è indicato sia per le persone
che per gli animali feroci». In ogni squadra del reparto sarà individuato un singolo
operatore “spruzzatore”, avrà al massimo in dotazione 4 bombolette e 3 kit
decontaminanti. Entro Natale saranno formati altri 400 agenti a Torino e 500 a Milano.
Del 18/11/2014, pag. 1-24
L’armadio vuoto dei misteri d’Italia così la
trasparenza diventa una beffa
FILIPPO CECCARELLI
L’APERTURA degli armadi segreti è una gran bella iniziativa e un doveroso tributo alla
democrazia, tanto più se l’operazione trasparenza inaugurata dal governo riguarda la
declassificazione degli atti segreti sulle stragi che insanguinarono l’Italia dal 1969 al 1984.
L’annuncio venne dato personalmente dal premier Renzi il 22 aprile scorso in una
conferenza stampa a Palazzo Chigi, seguirono una nota su Facebook e la foto della
direttiva pubblicata su Twitter. Alla novità fu dato il giusto risalto, venne creata una
specifica commissione e si crearono parecchie, legittime aspettative.
Il 15 maggio il sottosegretario della Presidenza del Consiglio Marco Minniti, Autorità
delegata per la Sicurezza della Repubblica, spiegò che la mole di materiale era notevole
assicurando che la sospirata « disclosure », più e più volte promessa da vari governi,
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avrebbe di certo «consentito al cittadino comune di andare all’Archivio di Stato non per
trovare una verità giudiziaria, ma per ricostruire una storia politica del nostro paese ».
Chiunque abbia lavorato sulle carte desecretate degli archivi americani o inglesi sa
benissimo che è così: lì dentro si apprendono e si imparano molte cose, non di rado
perfino sorprendenti.
Ma in Italia, evidentemente, no. A dispetto di qualsiasi proclama e impegno, una volta
aperti gli armadi, viene quasi voglia di richiuderli. O almeno: come ha scoperto
Repubblica, nel fascicolo finalmente consegnato dal ministero della Difesa sulla strage di
Brescia (maggio 1974) si trova un materiale che può definirsi: preistorico, misero, quindi
non solo inutile, ma anche grottesco nella sua misteriosa entità.
In concreto: cosa diavolo c’entreranno mai con piazza della Loggia le indagini effettuate
dal Sifar tra il 1950 e il 1952 sulle sue iniziative commerciali del Pci con l’Est? Alcuni dei
personaggi menzionati, oltretutto, Eugenio Reale e Spartaco Vannoni, futuro amico di
Craxi e direttore dell’hotel Raphael, di lì a qualche anno uscirono pure dal partito.
Ancora. Quale sarà il nesso tra la bomba e una nota in cui il leggendario capo dell’Ufficio
Quadri di Botteghe Oscure, Edo D’Onofrio, si diffonde sulla perequazione degli statali
comunisti trasferiti per punizione (1952)? E la Commissione Europea di Difesa? Qui siamo
al 1954: sulla Ced uscì dalla Dc Mauro Melloni, il futuro Fortebraccio.
Viene da pensare: ma allora tutto! E infatti ecco un appunto del 1968 sul Pci che invoca la
riforma della Rai. E poi un arcano e monco carteggio svoltosi nel 1975 e 1976 tra Moro e
Forlani a proposito del segreto di Stato da apporre su qualcosa che si comprende ancora
meno del resto. Questa la sbandieratissima declassificazione all’italiana? La s’indovina in
bilico tra caos, inerzia, cialtroneria, gelosia di burocrati, insipienza archivistica e/o
spionistica, come se una mano avesse pescato e inserito a caso. Comunque una beffa o
una truffa per chi abbia ancora nelle orecchie lo scoppio della bomba e le grida terribili dei
feriti. Un rotolone polveroso e vano. Un cestino di cartacce. O forse un rebus, una lotteria.
Si attendono i nuovi arrivi, magari nel dossier sui traffici del Pci si troverà qualcosa di
interessante sul terrorismo a Brescia e dintorni.
Del 18/11/2014, pag. 24
Il giallo dei faldoni di Piazza della Loggia
Desecretati i documenti del ministero della Difesa: ma dentro ci sono
solo vecchie carte sui rapporti internazionali del Pci Nessun riferimento
a neofascisti e servizi segreti deviati. E nei dossier le stragi degli anni
Settanta vengono definite “Eventi”
ALBERTO CUSTODERO
Sorpresa. Tra i carteggi segreti del Ministero della Difesa (resi pubblici dalla direttiva
Renzi) sulla strage di Piazza della Loggia, ci sono per la maggior parte documenti sul
Partito comunista. Ma quella strage, come quella di “Piazza Fontana” e tante altre del
periodo della “strategia della tensione”, non portavano forse la firma di estremisti di destra,
ordinovisti in odor di servizi segreti?
All’Archivio Centrale dello Stato nei mesi scorsi erano stati desecretati i documenti del
ministero degli Affari Esteri su Ustica. E quelli su Ilaria Alpi. Ora la discovery riguarda il
dicastero di Roberta Pinotti. Ma aprendo quei faldoni delle Forze Armate, si scopre che sul
frontespizio delle cartelline, le stragi a cavallo degli anni Sessanta e Settanta (Piazza
Fontana a Milano. Piazza della Loggia a Brescia. Peteano in Friuli), sono state relegate a
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“eventi”. Mentre il disastro del Dc9 Itavia precipitato a Ustica, con ogni probabilità colpito
da un missile, è stato relegato a “incidente”. La cartellina sull’“Incidente aereo Dc9”
contiene un documento della “Commissione per gli esperimenti del materiale di guerra”
che conferma che in mare, mentre il Dc9 volava sui cieli di Ustica, si trovavano navi militari
italiane dotate di missili e razzi. Si tratta, infatti, dell’elenco di tutti gli «esplosivi
potenzialmente presenti a bordo delle unità navali della Marina Militare Italiana coinvolte
nelle operazioni di soccorso nel disastro aereo di Ustica». Si viene a sapere da questo
elenco che le navi dei “soccorritori” della Marina erano dotate di razzi “105mm MRC” e
“LRI”, di missili HT-R ed SM-1 (ER) per sistema Terrier. Di missili Aspide e Sparrow per
sistema Nato Sparrow, e missili Teseo. Il contenuto del faldone “Evento Piazza della
Loggia” lascia sgomenti. Sfogliando le carte sull’attentato terroristico che il 28 maggio
1974 provocò a Brescia la morte di otto persone e il ferimento di altre centodue, si leggono
solo decine di pagine contenenti informazioni sul Partito comunista a partire dal
Dopoguerra. Documenti — viene spiegato — che furono richiesti alla Difesa nel febbraio
del 2002 dall’allora procuratore della Repubblica di Brescia, Giancarlo Tarquini. Fra questi,
un appunto del 27 luglio 1950 del servizio informazioni dell’Esercito, firmato generale
Mario Pezzi (ex eroe dell’aeronautica durante il Fascismo), «notizie su vari enti
commerciali stranieri in Italia in collegamento con i servizi segreti Polacchi e con il Pci».
Poi un analogo appunto sulla «perequazione di quadri Pci». Quindi una nota sull’attività
anti-Ced del Pci. Infine una relazione sulle «attività del Pci in direzione della Rai Tv». Il
dossier contiene anche scambio di lettere del 1975 tra Moro, premier, e Forlani, ministro
della Difesa, sulla opportunità di apporre il segreto politico militare sui «contatti con
personaggi esteri» di un indiziato nel processo Valpreda (le cui generalità non sono note),
in quanto «potrebbero suscitare, se rese pubbliche, notevoli complicazioni con le nazioni
interessate». Nelle cartellina intitolata “Evento Peteano” sono raccolte informazioni
richieste alla Difesa nel 1990 dall’allora giudice istruttore di Venezia Felice Casson (oggi
senatore Pd), sui depositi di armi dei servizi segreti nel Nord-Est. E su reti segrete postbelliche come l’”Organizzazione O” del Colonnello Olivieri. Nel fascicolo “Evento Piazza
Fontana”, invece, c’è il carteggio della Difesa del 1970 che, in punta di diritto, non riteneva
di doversi costituire parte civili nel processo contro gli imputati della Strage alla Banca
dell’Agricoltura.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 18/11/14, pag. 18
La storia oscura non chiarita, si ripete
di Sandra Bonsanti
Ci risiamo. Ci risiamo a quel clima orrendo che ha segnato la storia tragica della nostra
Repubblica. Ci risiamo al 1992 ma non soltanto... speriamo di no, muoviamoci affinché
non sia così. Ma quelle frasi tremende sul tritolo “che è già arrivato” per Nino Di Matteo, gli
avvertimenti al Procuratore generale Roberto Scarpinato, e quel clima speciale che si
stabilisce all’interno delle istituzioni appena si avvicina l’e l ezione del presidente della
Repubblica, non può non destare allarme. E la situazione è tanto più grave in quanto
cominciano quei disordini sociali che sono così facili da infiltrare e indirizzare verso finalità
oscure. Mentre il Paese è governato da chi disprezza la trasparenza e il Parlamento e
predilige accordi riservati.
COME SE NON bastasse sono riapparsi sulla scena personaggi legati al nostro passato
più controverso: vedi la presenza di Michael Ledeen, storico e giornalista americano,
fortemente legato all’intelligence Usa, dichiarato “indesiderabile” negli anni Ottanta e
tornato in auge prima con Berlusconi e ora con Matteo Renzi e Marco Carrai. C’è di che
essere fortemente preoccupati. È come se il nostro Paese non volesse mai lasciarsi alle
spalle quella posizione di ancella fedele e sottomessa che accettò sin dal primo
dopoguerra. La subalternità forse ci piace, ma a me pare rischiosissima soprattutto
quando il potere è nelle mani di pochissimi, e la democrazia costituzionale è derisa e
ignorata. In questo clima la nuova commissione sul sequestro e l’uccisione di Aldo Moro
ha speditamente imboccato la strada dell’influenza avuta dalla Cia (ed eventuali altri
servizi) nella gestione e nel finale dei 55 giorni. Sono cose antiche, si dirà. Ma come ci ha
insegnato l’intramontabile Bobbio, se ciò che è oscuro non si chiarisce è destinato a
perpetrarsi. Noi abbiamo alle spalle un passato di non verità e un esercito di morti
ammazzati in stragi rimaste senza giustizia. Faccio un esempio: io sono assolutamente
convinta (anche perché ricordo le esternazioni di alcuni dei protagonisti di allora, come
Mannino) che la trattativa tra mafia e Stato ci fu. Ma chi rappresentava lo Stato, in questa
trattativa? Davvero lo stratega fu il presidente Scalfaro come affermano oggi
comodamente alcuni testimoni, o c’è ancora da scavare sui protagonisti di quella tragica
vicenda? Certamente in parte lo Stato era rappresentato da chi trattava con Ciancimino
ecc. , ma i veri politici coinvolti chi furono?
MI TORNA SPESSO in mente una risposta che mi dette Scalfaro quando gli feci una
domanda che per molto tempo non avevo avuto la possibilità di fargli. Era il 24 gennaio
2011 ed ero andata nel suo studio di Palazzo Giustiniani per registrare, con Enrica
Scalfari, un video che Libertà e Giustizia avrebbe proiettato alla manifestazione del
Palasharp per chiedere le dimissioni di Berlusconi. Ero rimasta sola col presidente mentre
si preparavano le attrezzature e gli chiesi: “Perché il 3 novembre del ‘93 a reti unificate lei
disse quel celebre ‘Io non ci sto’?”. Una domanda improvvisa, una risposta immediata:
“Volevano farmi fare cose che io, magistrato, non potevo fargli fare”. Tutta l’in - tervista
che seguì fu un inno alla magistratura e al dovere di assicurarne l’autonomia. Non
dimentico le sue parole e mi chiedo se fu davvero lui ad allentare la morsa sul 41-bis
oppure se volevano quello ed altro da lui: chi “voleva”? Io non lo so, ma ricordo che in quei
mesi il Quirinale, il presidente e la figlia Marianna, erano accerchiati dalla morsa dei
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servizi, regolari o deviati. E ricordo le minacce della Falange armata oltreché la lettera dei
familiari della mafia. Insomma, non mi convincono le accuse dei Martelli e Amato. Così
come non mi hanno mai convinto Mancino e Mannino. E mi piacerebbe che si indagasse
oltre, anche perché la verità ci serve a capire cosa sta succedendo oggi. Che gli uomini al
potere sono altri, ma che il ricatto della non giustizia fatta continua a pesare e forse ancora
a indirizzare molto più di quanto ci appaia giorno dopo giorno, tweet dopo tweet . E il
papello del primo Nazareno è tuttora segreto in qualche armadio della vergogna.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 18/11/2014, pag. I-II RM
Inferno Tor Sapienza “Immigrati, via tutti casa
a donne e bimbi”
Non si placa nel quartiere la rivolta contro i rifugiati “Gli uomini fuori dai
locali di viale Morandi” Oggi incontro con il sindaco: “Occuperemo
l’autostrada”
TOR Sapienza, è il giorno del confronto: stamattina alle 8 in Campidoglio il sindaco
incontrerà una delegazione del quartiere. Ieri assemblea a porte chiuse nel quartiere
blindato: tra le richieste che saranno sottoposte a Marino, riservare il centro per immigrati
a donne e bambini allontanando gli uomini, chiudere il campo rom di via Salviati, mandar
via trans e prostitute, recuperare la chiesa abbandonata di viale Morandi attualmente
occupata da immigrati e italiani lasciandovi solo i secondi e interventi di Ater e Acea per
manutenzione dei palazzi e più illuminazione. Pronta anche la minaccia: occupare la A24
se le richieste non saranno soddisfatte.
VOLANTINI in tutti i palazzi e nel bar per annunciarla, ma l’assemblea dei residenti di Tor
Sapienza resta off limits a politici e giornalisti. Un’ora di discussione anche accesa in
alcuni passaggi, circa un centinaio di partecipanti, nel piano seminterrato del centro
culturale Antropos in vista dell’incontro di stamattina alle 8 in Campidoglio con il sindaco
Marino. Fuori due pullman della polizia davanti alla struttura per immigrati e due volanti
dall’altra parte di viale Giorgio Morandi che resta blindata, con l’Ama al lavoro con tre
mezzi e tutti i lampioni finalmente funzionanti ma sempre insufficienti. All’interno il
confronto: «Non abbiamo capito molto, tanti urlavano» racconta una signora al termine. «È
un momento intimo di una comunità che si sta ritrovando» dice un ragazzo. Un altro
minaccia i giornalisti: «Andatevene, avete raccontato solo falsità. Non ci hanno mai filato,
ora è scoppiata la bomba e sono usciti tutti gli avvoltoi ma qui non ci sono cadaveri». Alla
fine viene elaborata una piattaforma con le cinque richieste che saranno avanzate
stamattina dai cinque rappresentanti di Tor Sapienza al sindaco: svuotare il centro
d’accoglienza dagli uomini immigrati e riservarlo a donne e bambini, allontanare prostitute
e trans dalla zona, recuperare la chiesa abbandonata di San Cirillo Alessandrino
attualmente occupata da immigrati e italiani e lasciarvi soltanto i secondi, sgomberare il
campo rom di via Salviati, un intervento massiccio dell’Ater (che oggi sarà presente
all’incontro con Marino) per riqualificare i palazzi portando con l’Acea più illuminazione.
Spunta anche la minaccia se le richieste non dovessero essere accolte: occupare la A24,
portando la questione viale Morandi fuori da Tor Sapienza. Nel quartiere la situazione
resta tesa. Davanti al bar si parla di sicurezza, di degrado, della paura con cui si vive nelle
case e del parco poco illuminato. «Non è razzismo, è sicurezza» giura un uomo con un
accento dell’Est. Provano senza successo a entrare all’incontro nel centro Antropos il
presidente del municipio Gianmarco Palmieri, la senatrice Cinque Stelle Paola Taverna e il
consigliere comunale M5s Marcello De Vito: «Il problema di Tor Sapienza non è il centro
d’accoglienza ma il fatto che lo Stato qui non c’è da 20 anni. Il quartiere è fatiscente - dice
la parlamentare - gli immigrati non sono il problema e non c’è nessun razzista. C’è
l’esasperazione della gente, la guerra tra i poveri. Io tor- nerò qui tra venti giorni, quando i
riflettori si saranno spenti, e verrò a testa alta e senza scorta. Io vivo al Quarticciolo, tutte
le periferie romane sono abbandonate». Poco prima era stata allontanata all’ingresso in
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assemblea: «Non vogliamo esponenti politici, te ne devi annà». La Taverna: «E che sono
un esponente politico?». Un residente: «Il Movimento 5 stelle che è? La Caritas?».
Dentro la discussione prosegue. Una signora dice: «Gli immigrati lo spostiamo ma
vogliamo sapere dove andranno. Noi non siamo razzisti». Qualcun altro ironizza:
«Andiamo da Marino ma temo che tra 10 giorni ci sarà un commissario. Speriamo di
trovare il sindaco domani». Qualcuno è già stato deluso: Marina Brasiello è la presidente
dell’associazione Famiglia che da 24 anni si occupa di donne in difficoltà. «Abbiamo sedi
in varie parti d’Italia, ma non nel mio municipio, e gli incontri di sostegno sono costretta a
farli al bar. Domenica da Lucia Annunziata il sindaco mi ha stretto la stretto la mano, mi ha
detto “ti chiamo domani”. Sto ancora aspettando, ma se non interviene nel quartiere, il
rischio di guerriglia urbana è altissimo».
Da La Sicilia del 18/11/14
L'INCHIESTA. Viaggio nelle comunità del sistema di protezione per
richiedenti asilo e rifugiati. Al centro della Sicilia una struttura modello
Minori stranieri Mazzarino isola felice
dell'accoglienza
In 7 anni da qui sono passati 600 ragazzi e quasi tutti ora hanno un
lavoro regolare
Mazzarino Città d'arte. Il cartello che dà il benvenuto ai visitatori, a primo impatto, stona
con le costruzioni di cemento disordinate che gli fanno da sfondo. Poi, addentrandosi
lungo il viale principale, si scopre la bellezza delle chiese e dei palazzi custoditi nel centro
storico. Qui, da sette anni, esiste quello che oggi è considerato modello esemplare del
sistema italiano di accoglienza e integrazione dei minori stranieri non accompagnati
richiedenti asilo e rifugiati. Una piccola "isola felice" nel mare della seconda accoglienza,
ovvero lo Sprar gestito dall'associazione I Girasoli, sotto la guida di Calogero Santoro,
responsabile del progetto.
La prova di tanta efficienza la incontriamo passeggiando per le vie di Mazzarino. Si
chiama Shopon, ha 24 anni ed è arrivato in Sicilia dal Bangladesh nel 2008 a 17 anni.
Durante il suo soggiorno ai Girasoli ha imparato l'italiano e preso la licenza media. Oggi,
grazie allo strumento delle borse lavoro, fa il pasticcere e pare che faccia la migliore
cassata siciliana di Mazzarino, la sua specialità.
Degli oltre 600 minori che in sette anni sono passati da qui, solo in sei sono rimasti in città
e hanno tutti un lavoro regolare. Gli altri sono andati altrove in Italia e nel resto
dell'Europa, soprattutto Svezia, Francia, Germania e Norvegia. Ma la loro nuova vita è
iniziata qui e non lo dimenticano. Come non lo hanno dimenticato i due ragazzi bengalesi
tornati a Mazzarino per un paio di giorni a salutare la grande famiglia dei Girasoli che li ha
accolti. Uno di loro, Sujon, prima di andare via si volta verso Cettina Nicosiano, l'operatrice
anima del centro, e battendosi la mano sul cuore le dice: «siete sempre qui».
È questo che fa la differenza. Il contatto umano, con il rapporto di fiducia che ne
consegue. «Al centro dei progetti ci deve essere la persona - sottolinea Cettina Nicosiano
- bisogna costruire percorsi individualizzati e solo una dimensione umana e familiare può
farlo». Per questo gli Sprar per minori, ovvero le comunità del Sistema di protezione per
richiedenti asilo e rifugiati, accolgono al massimo 15 ragazzi, anche se I Girasoli sono in
attesa di una nuova sede che potrà accoglierne fino a 25. «Non di più, però, perché
altrimenti - continua Cettina - si rischia di perdere di vista la vulnerabilità del singolo. E per
evitare un altro rischio inaccettabile, quello di trasformare questi luoghi in ghetti, apriremo
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il nuovo centro ai ragazzi di Mazzarino. L'incontro è fondamentale ed è nostro compito
incoraggiarlo, per infondere la cultura dei diritti negli abitanti del territorio di accoglienza e
negli stessi ragazzi stranieri affinché ne siano consapevoli. A livello di integrazione c'è
ancora tanto da fare, anche a causa delle influenze di certa informazione da cui nessuno è
immune, ma per fortuna qui a Mazzarino molti muri sono già crollati».
Alla luce dei fatti recentissimi verificatisi nel quartiere Tor Sapienza di Roma, dove il centro
di accoglienza preso di mira dagli abitanti è proprio uno Sprar che ospita anche minori
stranieri non accompagnati, le parole di Cettina ci risuonano in testa. A distanza di tempo,
sono la prova tangibile di quanto necessari siano i progetti di integrazione, laddove la
sensibilità non sempre è sufficiente a colmare l'ignoranza e nutrire la tolleranza. I ragazzi
che arrivano sulle nostre coste hanno tutti storie terribili alle spalle, stragi familiari per
ragioni politiche o religiose, violenze subite in prima persona. Non hanno davvero altra
scelta se non partire e si portano dietro un bagaglio di emozioni e sofferenze pesanti come
macigni. Aiutarli significa non solo dare loro vitto e alloggio, ma accompagnarli lungo un
percorso costruttivo in cui l'aspetto umano è imprescindibile e la solidarietà uno strumento
necessario, ma purtroppo mai scontato.
«Le tre colonne portanti degli Sprar - osserva Michele Liuzzo, coordinatore del progetto
sono accoglienza, integrazione e tutela. Noi, qui, aggiungiamo un quarto elemento: le
persone». Sono Cettina, Michele, Calogero, Fulvio, Lucrezia e tutti gli altri operatori
l'ingrediente segreto che ha fatto di Mazzarino la città dell'accoglienza per antonomasia. Si
ricordano i nomi di tutti i ragazzi che sono stati ai Girasoli, di ognuno ricordano la storia
personale e continuano a seguirne le tracce anche dopo che hanno lasciato la struttura.
«Questi ragazzi attraversano le nostre vite - dice Cettina - le tagliano in due, per noi c'è un
prima e un dopo il loro incontro. L'obiettivo dei progetti Sprar è aiutare i ragazzi a
conquistare l'autonomia, facendoli diventare parte attiva dell'assistenza senza cadere
nell'assistenzialismo. Le borse lavoro e i tirocini sono parte fondamentale del loro
percorso, perché il problema vero è il "dopo Girasoli" visto che appena compiono 18 anni
e 6 mesi devono lasciarci».
I progetti Sprar in atto, peraltro, sono ancora numericamente insufficienti a coprire le
necessità del nostro territorio, per quanto il sistema italiano dell'accoglienza integrata si
stia rimodulando sul loro modello in vista anche di un incremento dei progetti. A fronte
degli 11.507 minori stranieri non accompagnati arrivati via mare in Italia (di cui 8.165 in
Sicilia) tra l'1 gennaio 2014 e il 30 settembre 2014, ad oggi, secondo i dati forniti dal
Servizio Centrale SPRAR istituito dal Ministero dell'Interno e affidato in convenzione ad
Anci, i progetti Sprar su territorio nazionale sono appena 52, di cui 16 in Sicilia, per un
totale di 833 posti, di cui 215 nella nostra regione.
Dietro questi numeri ci sono persone, per di più minorenni, soli. Ebrima, Mohammed,
Linus, Yonas, Efrem, Tommy, sono solo alcuni dei ragazzi che abbiamo conosciuto a
Mazzarino. Vengono dal Gambia, dall'Eritrea, dalla Nigeria e da molti altri Paesi e hanno
tutti 16/17 anni. I loro sguardi sono vivi. «Merito della resilienza - commenta Cettina trovano dentro di sé le risorse interiori necessarie per andare avanti e non arrendersi».
Parlando con loro, e con tutti gli altri giovani che abbiamo conosciuto durante questo lungo
viaggio, si coglie davvero la misura della grandezza umana di chi arriva e reagisce e di chi
li accoglie e li aiuta a costruire nuovi progetti di vita.
Intanto a Mazzarino si sono fatte le quattro del pomeriggio. La campanella sta per
suonare, per i ragazzi dei Girasoli è ora di andare a scuola per i corsi serali. Li vediamo
allontanarsi a piedi per le viuzze del centro, con lo zaino in spalla e la loro pelle color del
cioccolato, e non possiamo non pensare che meritino tutto il bene possibile. Glielo
auguriamo, sottovoce, per il loro coraggio e i loro sorrisi abbaglianti e sereni.
ORNELLA SGROI
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SOCIETA’
del 18/11/14, pag. 9
Sorpresa, le nostre cause civili
sono quasi in media europea
Smentito un vecchio luogo comune. Ma ci sono due Italie: al Sud
arretrati record
Francesco Grignetti
Sorpresa: l’arretrato dei tribunali civili è molto inferiore a quanto dichiarato finora. Non
sono 5,2 milioni le cause pendenti, bensì «solo» 835 mila a cui sommare i 98 mila
processi pendenti in Cassazione. Questa è la vera dimensione della «giustizia incivile»,
ossia le cause pendenti da più di 4 anni. E qui sono i picchi della vergogna: ben 86.283
cause risalgono al secolo scorso, essendo state iscritte a ruolo prima del 2000. A voler
essere europei, invece, cioè adottando i parametri del Cepej (European Commission for
the Efficiency of Justice), le cause arretrate sarebbero 3,7 milioni. Comunque meno di
quanto si è detto fino ad oggi.
Il ministero della Giustizia, su impulso del ministro Andrea Orlando, ha riesaminato le sue
statistiche, analizzando il dato di vetustà di ogni singola causa, rapportandole alla materia,
al carico di lavoro del singolo magistrato, alla popolazione del circondario. Si è così
scoperto che esistono due Italie anche nel campo della giustizia civile. Se si analizzano le
corti d’appello, infatti, risulta che in cinque sedi si è accumulata la metà di tutti gli arretrati;
e se è comprensibile che a Roma e a Napoli ci siano numeri altissimi, si accetta meno che
alla corte d’appello di Bari ci siano più fascicoli arretrati che a Milano o Bologna. Se poi si
guarda ai dieci peggiori tribunali civili, là dove si concentra un terzo dell’arretrato del primo
grado, tolte le solite Roma, Napoli e Milano, balzano agli occhi le performance negative di
Foggia, Bari, Salerno, Catania, Santa Maria Capua Vetere, Lecce e Palermo.
Per arrivare a questa analisi, è stato necessario un nuovo software per smontare le
vecchie statistiche e sfornare quelle nuove. E il ministro Orlando ne è particolarmente
soddisfatto: «Questo strumento ci consentirà di capire meglio dove incidere e come
intervenire».
Sono stati messi al lavoro il nuovo presidente del Dipartimento dell’Organizzazione
giudiziaria, Mario Barbuto, ex presidente del tribunale di Torino, e il direttore generale della
Statistica giudiziaria, Fabio Bartolomeo.
Barbuto ha voluto capire meglio come erano strutturate le statistiche finora. Ha scoperto
che il ministero annegava tra le altre cause anche 300 mila procedimenti di sostegno tutela degli orfani o degli incapaci - che per definizione durano a lungo oppure non hanno
fine. Nessun altro Paese europeo inseriva questo tipo di procedimento, che certo non è un
contenzioso, tra gli affari in corso.
Lo studio del ministero riserva parole severe nei confronti delle toghe-lumaca. «In molti
casi, salvo ovviamente le lodevoli best practice in atto in alcune sedi, il giudice italiano,
ingolfato dalle enormi sopravvenienze annuali, sembrerebbe trascurare ciò che negli
armadi giace da tempo e che diventa sempre più vecchio».
Sarebbero i dirigenti degli uffici a dover intervenire. Spetterebbe a loro indicare ai singoli
magistrati quali processi accelerare. Il parametro della vetustà sembrerebbe il più ovvio,
ma evidentemente così non è in troppe sedi. E così si precipita nell’area a rischio di
risarcimento.
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Sono infatti ben 835.190 i procedimenti pendenti da prima del 2011, andati oltre i quattro
anni che è il limite temporale fissato dalla legge Pinto per essere considerati processi
«giusti». Si consideri che lo Stato italiano, per i ritardi, ha finora sborsato 400 milioni di
euro in risarcimenti.
«Questo stock di 835 mila processi pendenti - si legge nel Rapporto - è una mina vagante.
A ciò deve aggiungersi il numero delle cause pendenti in Cassazione, alcune da molti
(troppi) anni. Cause vecchie e stagionate che i giudici italiani non riescono ad eliminare dai
prospetti statistici. Finché vi sarà una sola di tali pratiche vetuste, la giustizia civile non
potrà considerarsi degna di un Paese normale».
Conclusione: la produttività dei giudici civili italiani è mediamente ottima. Ma le statistiche,
anche qui, a volte ingannano. Ci sono i virtuosi e i fannulloni. Si preoccupino, questi ultimi,
perché il Grande Fratello ministeriale s’è svegliato.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 18/11/14, pag. 2
Arriva lo stato di emergenza
Roberto Ciccarelli
Dissesto. Centinaia di sfollati e isolati in Liguria, mille in Emilia
Romagna. I nubifragi hanno colpito l’alessandrino, Lombardia e
Toscana. Il sottosegretario Delrio annuncia l’allentamento del patto di
stabilità per i comuni alluvionati. Le Regioni lo chiedono per tutti gli
investimenti finalizzati alla prevenzione. Ma gli effetti della deroga
potrebbero essere vanificati da una norma nella legge di stabilità
Dopo lunghi giorni di attesa il governo dichiarerà lo stato di emergenza per le alluvioni che
hanno colpito Liguria (dove ci sono centinaia di famiglie sfollate e di persone isolate),
Emilia Romagna (oltre mille sfollati), Toscana, Lombardia e Piemonte (colpito
l’alessandrino). «Lo faremo nel prossimo consiglio dei ministri» ha annunciato ieri il
sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Del Rio in visita a Genova e a
Milano con il capo della Protezione Civile Franco Gabrielli. Per gli enti locali colpiti da
calamità il governo inserirà una «clausola favorente» nel patto di stabilità per permettere
l’uso di un miliardo di euro, I primi cantieri partiranno nel 2015. Proposte che sono state
salutate con favore dall’Anci.
In una lettera inviata al presidente del consiglio Matteo Renzi, il presidente
dell’associazione dei comuni Piero Fassino ha chiesto la messa in sicurezza dei territori
colpiti dal maltempo del 10–14 ottobre scorsi e il rinvio delle rate in scadenza dei mutui
contratti con la Cassa depositi e prestiti.
«Il patto di stabilità non sarà un problema per i comuni colpiti» ha assicurato Delrio al
termine di un incontro con il governatore ligure Burlando e i sindaci delle zone più colpite.
«Uno stato dev’essere a fianco che ripristinano la sicurezza dei cittadini. Le leggi esistono
ma prima viene la sicurezza delle persone». Interventi che vanno incontro alle esigenze
del sindaco di Genova Marco Doria secondo il quale si «potrebbe spendere di più se non
ci fosse il patto di stabilità. Non siamo in bolletta ma facciamo una fatica bestiale».
Il sindaco di Milano Giuliano Pisapia ha ipotizzato di dirottare i fondi per le vie d’acqua per
risolvere l’emergenza idrogeologica «in via definitiva». Verrebbe realizzata solo la parte
indispensabile per mettere in sicurezza il sito di Expo 2015. Confermato lo stanziamento di
80 milioni per il Seveso a cui si aggiungono ai venti stanziati dal Comune di Milano.
Per il Movimento 5 Stelle la dichiarazione dello stato di emergenza è tardivo. Serve invece
un decreto che stabilisca un pacchetto di interventi complessivo contro il dissesto. «Il vero
schifo – ha scritto su facebook il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio (M5S) — è
che il governo utilizza le norme di urgenza per mettere in calendario alla Camera il Jobs
act che non produrrà nuovi posti di lavoro. Mentre se ne frega altamente di portare in Aula
subito un decreto legge sulle zone alluvionate». Aggressivo Matteo Salvini della Lega che,
tra l’altro, chiede un’esenzione fiscale di tre anni per i mille sfollati emiliani. Una stima dei
danni l’ha fatta la Cna: 400 milioni di euro, anche se il conto definitivo potrà essere fatto
solo il prossimo anno. Anche in questo caso viene chiesta l’esenzione fiscale per le Pmi
colpite dal disastro.
L’unità di missione ha sbloccato complessivamente 2,3 miliardi di euro. Per i comuni
alluvionati verranno inoltre accesi mutui per 3 miliardi di euro a tasso zero.
Complessivamente i fondi stanziati saranno 9 miliardi, di cui due in cassa, oltre a
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investimenti per il 2014–2020 che permetteranno di aprire «7 mila cantieri con 150–200
mila posti di lavoro» sostiene il sottosegretario alle Infrastrutture e capo della struttura di
missione «Italiasicura» Erasmo De Angelis.
Dopo lo scontro con le regioni sui condoni approvati dai governi nel corso degli ultimi anni,
l’esecutivo si preso le sue responsabilità ma è attento a distinguersi dai suoi predecessori:
«Ci sono 25 stati di emergenza. Ci troviamo a dovere recuperare 30 anni di ritardo» ha
scritto su twitter Delrio. La soluzione sarebbe lo «Sblocca Italia», anche se la prevista
deregulation sulle grandi opere rischia di aggravare il male, non curarne le cause.
Per il governatore veneto, il leghista Luca Zaia il governo «deve liberare dai vincoli del
patto i fondi per la sicurezza e anti-dissesto». Gli ha fatto eco il governatore lumbard
Roberto Maroni: i tagli nella legge di stabilità impediscono alla Lombardia di risarcire i
danni causati dalle alluvioni di luglio. La regione non ha i soldi a causa dei tagli nella legge
di stabilità. «Più di 5,5 milioni non ci daranno – prevede — e i danni sono stati calcolati in
88 milioni». Il presidente della Conferenza delle Regioni Sergio Chiamparino si è detto
soddisfatto delle decisioni del governo , ma anche lui ha chiesto di tenere fuori dal patto di
stabilità «tutti gli investimenti per fare prevenzione».
Gli enti locali hanno già ottenuto dal governo un allentamento da un miliardo e l’esclusione
di nuovi tagli ai trasferimenti diretti. Ma per ottenere uno sconto sugli obiettivi del patto di
stabilità, cioè il principale strumento di controllo contro lo sforamento del limite del 3% nel
rapporto debito/pil imposto dalla Ue, dovranno impegnarsi a riscuotere i loro crediti.
Uno studio di Real-Sintesi/Sole 24 ore ha dimostrato che l’allentamento del patto di
stabilità potrebbe essere vanificato, soprattutto al centro-Sud. Chi meno incassa da tasse
e tariffe, non potrà investire le risorse «allentate». Lo stesso problema potrebbe
presentarsi per i comuni virtuosi dopo due anni.
del 18/11/14, pag. 5
Tasse sospese per calamità
tra rinvii e proroghe è il caos
L’ultimo pasticcio per l’alluvione di ottobre: niente stop ai pagamenti
Roberto Giovannini
Alluvioni, terremoti e altri disastri ormai sono una consuetudine, ma per adesso la risposta
«fiscale» dello Stato alle difficoltà dei cittadini delle aree colpite da questi eventi è ancora
poco organizzata. Mentre in queste ore si discute di possibili interventi a favore delle
popolazioni e degli operatori economici delle zone alluvionate, solo qualche giorno fa il
ministero dell’Economia ha dovuto sistemare con un comunicato stampa l’ennesimo
pasticcio, stavolta sui contributi previdenziali. E c’è da giurare che problemi sorgeranno
dopo il 20 dicembre, data in cui scadrà il provvedimento varato in occasione della prima
alluvione in Liguria, quella di ottobre.
Nella nostra legislazione è prevista la possibilità di sospendere la riscossione di una serie
di imposte e tributi, oltre che dei contributi previdenziali dovuti dalle aziende. Occorre un
decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, che viene formalmente emanato dal
Ministero dell’Economia, e poi concretamente attuato dall’Agenzia delle Entrate (per le
imposte) e dall’Inps (per i contributi previdenziali). Discorso a parte va fatto per le imposte
locali, come Tasi, Tari e altre: in questi casi tutto viene deciso autonomamente dai
Comuni.
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Il problema che più comunemente si è verificato negli ultimi anni, spiegano alle Entrate
(che appunto hanno un ruolo esclusivamente esecutivo), è quello della gestione delle
eventuali proroghe dei provvedimenti di sospensione. A ragione o a torto aziende e
autorità locali delle aree colpite sollecitano quasi sempre una proroga della sospensione, e
spesso - così avvenne nel 2013 per il caso del terremoto in Emilia-Romagna - questo
porta confusione. Anche perché in questi casi una eventuale proroga dev’essere varata
con un atto del Parlamento, un decreto legge o un disegno di legge «omnibus».
Un caso decisamente sfortunato è stato quello che ha riguardato l’alluvione in Liguria di
ottobre: il decreto varato dall’Economia il 21 ottobre stabiliva la sospensione fino al 20
dicembre prossimo dei versamenti e degli adempimenti tributari, compresi quelli di cartelle
e accertamenti, ma escludendo le ritenute previdenziali. Che in base alla legge però
andrebbero pagate entro il 16 di ogni mese. Risultato, in teoria i cittadini (liguri, ma anche
di altre aree del centronord colpite) avrebbero dovuto pagare di corsa, nel bel mezzo di
una catastrofe, per essere certi di non subire le sanzioni previste per chi ritarda i
pagamenti dei contributi previdenziali. Una «disattenzione» che ovviamente ha provocato
grandi proteste, e che è stata aggiustata con un comunicato stampa del ministero che
chiariva che le Entrate non applicheranno le sanzioni previste, viste le condizioni di forza
maggiore.
Considerando le calamità naturali degli ultimi due anni, ricordiamo che nel caso
dell’alluvione che colpì la Sardegna il 18 novembre 2013 la riscossione fu sospesa fino al
27 dicembre. Successivamente un decreto legge del dicembre 2013 stabilì un’ulteriore
proroga fino al 17 febbraio 2014 per i pagamenti delle imposte, e un piano di rateizzazione
fino alla fine del 2015 senza interessi per il pagamento dei tributi di chi avesse subito
danni.
Per il terremoto del maggio del 2012 in Emilia-Romagna, invece, inizialmente lo stop ai
pagamenti fu fissato fino al 30 settembre, sollevando una massiccia protesta che portò a
una proroga fino al 30 novembre del 2012. Nuove proteste imposero al governo Letta di
estendere la proroga fino al giugno del 2013. Il 25 giugno del 2014 il governo Renzi varò
un decreto legge che stabiliva risorse per la ricostruzione e ulteriori sgravi fiscali e
contributivi per le aziende, compresa una proroga di un anno per il pagamento del debito
fiscale e contributivo eventualmente maturato.
del 18/11/14, pag. 1/2
La guerra del dissesto idrogeologico
Alberto Ziparo
Belpaese?. Dopo decenni di incuria e di attacco alla qualità del
paesaggio, il Governo Renzi ha perpetuato e alimentato le cause del
disastro. Prima con il Ddl Lupi e ora con lo «Sblocca Italia»
Le cifre che stanno venendo fuori a proposito dei disastri territoriali di questi giorni – con
eventi meteo esasperati dai cambiamenti climatici che si abbattono su un territorio
indebolito dalla ipercementificazione – sono da autentica guerra.
Un Rapporto Cresme/Ance ricorda che nel periodo 1985–2011 si sono registrati quasi
mille morti da dissesto idrogeologico, per oltre 15 mila eventi calamitosi e un danno
economico da circa 3,5 miliardi di euro all’anno. Se si computa dagli anni sessanta, a
partire dal disastro del Vajont e dalle alluvioni di Venezia e Firenze i morti diventano più di
4 mila.
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L’Italia paga le conseguenze di decenni di incuria e di sostanziale attacco alle sue stesse
caratteristiche eco-paesaggistiche. Esse, fino a qualche decennio addietro, avevano
correlato virtuosamente ambiente e insediamenti; di più, avevano sempre connotato questi
ultimi secondo le caratteristiche ecologiche e culturali dei contesti. Da cui il soprannome di
Belpaese.
Negli ultimi decenni, la grande trasformazione ha significato grande cementificazione: il
Belpaese si è trasformato in «città diffusa»; con salti di senso comune, e anche semantici
e lessicali. Le grandi componenti eco-paesaggistiche del territorio italiano sono state via
via rinominate nelle logica dell’urbanizzazione: la Val Padana è diventata «megalopoli
padana»; la «grande conurbazione costiera» ha occupato l’intera cimosa litoranea
adriatica; e analogamente sono nel tempo emerse «la città estesa dell’Emilia», «la media
città toscana», «la campagna urbanizzata romana» e «Gomorra», l’infernale marmellata
insediativa del napoletano, inquinata, congestionata, ad alto tasso di illegalità.
E ancora la città costiera continua calabra, a fronte dello svuotamento dell’interno; gli orridi
abusivi siciliani – che offendono un paesaggio altrimenti notevole; le «grandi macchie
urbane» delle città sarde.
Gli entusiasmi per la modernizzazione antropizzata del Paese si sono da tempo
trasformati in preoccupazioni per le conseguenze di un insediamento abnorme e quanto
dannoso e paradossale: oggi in Italia abbiamo, oltre a qualche miliardo di volumi industriali
e commerciali e tante incompiute infrastrutturali spesso inutili, un edificio ogni 4 persone,
ma un alloggio su 4 e oltre 20 milioni stanze risultano vuote; tuttavia fanno notizia i
disagiati, tuttora senza casa, e tra di essi, il migliaio di occupanti, probabilmente legittimati
da tale situazione). Con costi ambientali e sociali che infatti sono cresciuti sempre più.
Oggi, la criticità di questa condizione irrompe in tutta la sua drammatica evidenza. Da
Genova a Milano, dal Piemonte al Veneto, da Roma alla Sicilia, i temporali causano
disastri: rilievi e versanti abbandonati franano sugli insediamenti sottostanti; la pioggia
rigonfia fiumi, torrenti e ruscelli, che diventano condotte forzate, trovano le aree di propria
pertinenza trasformate in brani di città e rompono alla fine gli argini, anche perché le
costruzioni hanno bloccato le vie di fuga dell’acqua. Si registrano così i fenomeni dei
«vasconi urbani», dentro cui annegano oggi quartieri di Genova e Milano, come di Roma
e, qualche mese fa, di città e paesi emiliani, veneti o sardi.
Il Governo tenta adesso di scaricare ogni colpa sui predecessori o sulle Regioni; ma – fino
alla drammatica emergenza di questi giorni – ha perpetuato e addirittura alimentato le
cause del disastro. Lo dimostrano il Ddl Lupi –che pretenderebbe di accentuare
ulteriormente la deregulation e svuotare la pianificazione di potere normativo e descrittivo
– e lo «Sblocca Italia». Quest’ultimo provvedimento è teso a promuovere altre attività ad
alto impatto ambientale: dalle trivellazioni, a nuovi impianti a rischio, alle autostrade, a
nuova Alta Velocità. Al suo interno, prima degli eventi tragici degli ultimi giorni, la lotta al
dissesto idrogeologico era appena una citazione di opportunità: 3 miliardi dichiarati per
200 milioni realmente disponibili.
E a fronte dei quasi 5 miliardi stanziati per le operazioni ad alto impatto; tra cui si
resuscitano progetti di autostrade da tempo superati, come la bizzarra Mestre-Orte o la PiRu-Bi cara alla massoneria filodemocristiana. Nelle ultime ore – sull’onda emotiva degli
eventi — l’esecutivo annuncia lo sblocco di 2,2 miliardi antidissesto, e quindi un piano di 9
miliardi in 7 anni.
Serve che gli impegni si traducano in risorse reali e per un programma molto più ampio: è
necessario un piano di risanamento del territorio da 50 miliardi di euro nei prossimi dieci
anni; di cui almeno il 10% da impiegare subito. Se si pensa di ricorrere per questo ai «300
miliardi di euro di investimenti europei promessi da Junker» si rischia di restare agli
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annunci o di dilazionare troppo le operazioni. Lo «Sblocca Italia» – come hanno già
proposto gli ambientalisti – deve diventare «Salva Italia», finalizzando le risorse
PER INTERO E SOLTANTO al risanamento del territorio, e cancellando tutte le altre
opere inutili e dannose contenute nel provvedimento.
Deve essere ripristinata una strategia invisa al nostro attuale premier: le politiche devono
basarsi sulla pianificazione di territorio e paesaggio.
del 18/11/14, pag. 2
Condoni per tutti: in 30 anni
2 milioni di richieste accolte
DAL 1985 LA POLITICA PERDONA GLI ABUSI EDILIZI CHE
VIOLENTANO IL TERRITORIO
Di Daniele Martini
L’Italia non sarebbe così sfasciata e fragile se negli ultimi trent’anni non si fosse coalizzata
una santa alleanza dell'abuso edilizio che coinvolge tutti. Dai cittadini che alla meno
peggio si sono tirati su la casetta, alle imprese del mattone che hanno fatto spuntare come
funghi villaggi in riva al mare e interi quartieri fuori legge, fino ai sindaci e assessori, certi
che con il pugno duro si sarebbero scavati la fossa, elettoralmente parlando. Ma siccome
come dicono a Napoli “o pesce fete da' capa”, il pesce puzza dalla testa, la scriteriata
propensione nazionale al cemento selvaggio non si sarebbe trasformata in una catastrofe
epocale, se non fosse stata tollerata, anzi, incentivata dai governi in cambio di consensi a
buon mercato.
IL LASCIAPASSARE dello scempio si chiama condono, uno stratagemma sconosciuto
fuori dai confini nazionali. Dalla metà degli anni Ottanta del secolo passato fino al 2003 in
Italia ne sono stati approvati tre di condoni edilizi, con una cadenza di un decennio l'uno
dall'altro. E non è finita perché similcondoni o condoni mascherati sono in cottura e ai
fornelli spignattano politici di destra, centro e sinistra. Laura Biffi di Legambiente ha
contato 22 tentativi legislativi dal 2010 al 2014 per salvare le case abusive. L’ultimo, il
decreto Falanga, da Ciro Falanga, senatore Forza Italia di Torre Annunziata, è passato 9
mesi fa a Palazzo Madama con 189 voti e appena 61 no grazie alle larghe intese. Nel
2009, Berlusconi imperante, con i Piani casa fu concesso dal governo alle Regioni
addirittura una specie di condono preventivo, con un regalo del 20 per cento di cubatura a
chi avesse voluto allargare l'abitazione. Un cavallo di Troia usato da alcune regioni per
permettere interventi para abusivi su larga scala. Il primo condono, quello che aprì un'era,
risale al 1985, ed è a doppia firma: Bettino Craxi, socialista e capo del governo, e Franco
Nicolazzi, socialdemocratico, ministro. Entrambi poi spazzati via da Mani pulite. Fu un
successo clamoroso e velenoso: le richieste di sanatoria furono più di 1 milione e 500
mila. L’adesione fu così massiccia che per reggere l’ondata gli uffici tecnici comunali
assunsero personale apposito, gente che ancora oggi sta dietro quelle pratiche perché
dopo 29 anni e dopo altre due sanatorie restano in attesa di valutazione 844 mila
domande, quelle alle quali i sindaci non hanno saputo o voluto dire sì o no. A quei tempi
c’era ancora il Partito comunista che un po' d'opposizione parlamentare la fece, anche se
pure a sinistra ci andavano con i piedi di piombo, tutti presi dalla teoria giustificazionista (e
in larga misura infondata) dell’abusivismo di necessità dei poveri cristi che non sembrava
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giusto punire con severità. Dopo ogni condono i politici hanno sempre giurato che sarebbe
stato l'ultimo. Di motivi per vergognarsi ne avevano a iosa perché le sanatorie sono una
bomba contro la bella Italia e un'ingiustizia che premia i furbi.
DOPO 10 ANNI a impugnare di nuovo la bandiera corsara dell'abusivismo fu Silvio
Berlusconi, l'inventore della popolare teoria “ognuno è padrone a casa propria”. Il primo
condono di Berlusconi è del 1994, raccolse solo, si fa per dire, 312 mila richieste di
sanatoria (leggi anche: voti) e fu proseguito in parte dal governo Prodi. Berlusconi 10 anni
dopo fece il bis e ottenne altre 214 mila richieste. Dal 1985 a oggi le domande di sanatoria
sono oltre due milioni; quelle respinte appena 27 mila, con una bocciatura in media ogni
74 casi. Così, tanto per dare un po' di fumo negli occhi. In attesa del prossimo colpo di
spugna, chi può continua a costruire illegalmente. Uno studio del Cresme, il centro di
ricerche sull'edilizia, ha accertato che l'anno passato i nuovi immobili illegali sono stati 26
mila. Che si sono aggiunti allo stock edilizio di quelle costruzioni così fuori da ogni grazia
di dio che i proprietari manco hanno provato a condonarle. Nel 2010 l'Agenzia del territorio
le censì scoprendo una metropoli fantasma e diffusa di 1 milione e 200 mila immobili.
Del 18/11/2014, pag. 1-34
È una sorta di assedio progressivo che non si ferma Contro il verde e la
vita, costruzioni ovunque che deturpano l’ambiente. Ma c’è chi ha detto
basta: Cassinetta di Lugagnano è un borgo di 1900 abitanti a trenta km
da Milano dove è vietato cambiare la destinazione d’uso da terreno
agricolo a edificabile Ora il sindaco e i cittadini lottano per sopravvivere
anche senza i bonus concessi all’edilizia. E ce la fanno
Il paese a cemento zero
ETTORE LIVINI
CASSINETTA di lugagnano (milano). Superficie: 3,32 chilometri quadrati. Posizione:
45°25’27’’ Nord, 8°54’31’’ Est. Sulla mappa dell’Italia martoriata da alluvioni e frane dove
ogni secondo (dati Ispra) spariscono 8 metri quadri di verde, c’è un fazzoletto di terra che
— come il villaggio di Asterix in Gallia — resiste all’assedio della speculazione e alla
sirena del Bancomat degli oneri di urbanizzazione: Cassinetta di Lugagnano, il primo
Comune del Belpaese a consumo di suolo zero. Un borgo con 1.900 abitanti sulle acque
limpide del Naviglio Grande, a una trentina di km. da Milano, dove dal 2007 il cemento è
off-limits (o quasi) e dove è vietato cambiare la destinazione d’uso dei terreni da agricoli a
edificabili. «Con il risultato che da allora — garantisce al bancone del bar della cooperativa
locale Angelo Trezzi, simpaticissimo pensionato e volontario della Croce Azzurra — la
qualità della vita è migliorata per tutti».
L’arma con cui Cassinetta ha costruito la sua «resistenza virtuosa » (copyright di Paolo
Pileri, professore al Politecnico di Milano e membro del Centro ricerca del consumo di
suolo nazionale) è semplice: non la bevanda magica di Panoramix, ma un Piano di
gestione del Territorio (Pgt) varato sette anni fa dall’allora sindaco Domenico Finiguerra
con un approccio rivoluzionario: stop alle nuove costruzioni. E via a un piano di sviluppo
sostenibile in cui i campi continuavano a essere utilizzati per l’agricoltura e le case — se
mai ne fossero servite di nuove — «sarebbero state ricavate sfruttando il patrimonio
inutilizzato», come racconta l’attuale primo cittadino Daniela Accinasio, allora membro
della giunta. Il “se” non è una congiunzione a caso. «Per decenni i Comuni italiani hanno
dato via libera a milioni di metri cubi di volumetrie solo per compensare a colpi di oneri di
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urbanizzazione i tagli dei trasferimenti dello stato», dice Pileri. E l’eredità di questa scelta
— oltre a migliaia di villette a schiera, uffici e appartamenti sfitti o abbandonati da
costruttori falliti — è il dissesto idrogeologico (un ettaro di suolo non urbanizzato trattiene
3,8 milioni di litri d’acqua) cui ci stiamo drammaticamente abituando in queste settimane.
Cassinetta, prima di cementificare a pioggia, ha fatto i compiti a casa: «Abbiamo
analizzato il trend della nostra popolazione — ricorda Accinasio — e da subito abbiamo
capito che il fabbisogno di nuove case era limitatissimo ». Il Comune ha rinunciato così a
faraonici progetti di mini-cattedrali nel deserto destinati a rubare spazio al verde. E per i
nuovi arrivati in città ha ricavato 25 appartamenti restaurando la splendida villa
settecentesca Clari Monzini e qualche altra unità abitativa sistemando un paio di antichi
granai. «Siamo un paese agricolo, abbiamo un’identità culturale e architettonica
importante. Che senso ha costruire se non ne hai la necessità, mettendo a rischio
geologicamente il territorio?», spiega il sindaco. Domanda retorica, qui lungo il Naviglio,
visto che delle trenta villette a “stecca” costruite in paese negli anni ‘90 «solo dieci, per
dire, sono oggi abitate ». Il piano Finiguerra ha fatto bene pure alla campagna: «Le
aziende agricole della nostra zona non sono state costrette a cedere i terreni alla
speculazione — continua Accinasio — si sono riconvertite al biologico. Così oggi hanno
dimensioni che consentono loro di mantenere competitività. «Cassinetta in questo è una
mosca bianca», ammette Pileri. «Viviamo in una nazione che si mangia settanta ettari di
verde al giorno (qualcosa come 100 campi da calcio) solo perché pensa che l’edilizia sia
l’unico volano di sviluppo». «E la stragrande maggioranza dei Comuni utilizza da decenni il
mattone per far cassa, senza pensare alla salvaguardia del territorio» conferma Damiano
di Simine di Legambiente Lombardia. La storia di Cassinetta dimostra però che a volte
essere virtuosi paghi. «Negli anni d’oro gli oneri di urbanizzazione valevano fino a 700mila
euro su 2 milioni di entrate del nostro bilancio», dice Accinasio. Oggi sono solo qualche
migliaio di euro. «Per questo abbiamo dovuto imparare a far di necessità virtù, facendo
quadrare i conti senza il bonus-villetta ben prima della crisi edilizia che ha colto alla
sprovvista molti altri enti locali». Come? Riducendo al minimo le spese (il sindaco ha 460
euro di stipendio, non ci sono consulenze e solo l’ufficio tecnico ha un telefonino a
disposizione) e diversificando le entrate: «A esempio organizzando matrimoni e cerimonie
nelle ville che abbiamo restaurato recuperando un altro pezzo della nostra identità»,
spiega il primo cittadino. Piccoli esempi di pragmatica economia domestica, magari
possibili solo in un Comune piccolo come questo. Il risultato è che alla fine — malgrado il
“no” al cemento — il bilancio municipale (e non solo quello ambientale) è in attivo.
Finiguerra ha lasciato ad Accinasio un conto in banca con diverse decine di migliaia di
euro e oggi il saldo è positivo per 600mila. Soldi che «non possia- mo toccare», dice
amaro il sindaco, per i tortuosi meccanismi del patto di stabilità.
L’oasi di Cassinetta però — come il villaggio di Asterix — è assediata e non dorme sonni
tranquilli. La lobby delle costruzioni nel Belpaese, proprio perché ferita dalla crisi, è più
viva che mai. E proprio in queste ore e in una Lombardia che piange le vittime da
cementificazione, divampa la polemica sulla nuova legge del consumo del suolo regionale
in discussione oggi al Pirellone. «L’obiettivo è il consumo zero come a Cassinetta — dice
Di Simine — . Peccato ci sia un interregno di tre anni in cui i costruttori potranno
accaparrarsi i progetti già pianificati». «Questa norma è un attacco al paesaggio e
spalanca la strada al consumo di altri 55mila ettari di campagna in Lombardia, più dei
47mila bruciati tra il 1999 e il 2012», aggiunge Pileri. «Mentre noi combattiamo per salvare
ogni singolo metro quadro di verde, un pezzo del nostro Dna, la Regione sta studiando
un’inutile bretella da Vigevano a Malpensa da 200 milioni che distruggerebbe tutto il nostro
lavoro passando in mezzo al territorio comunale», commenta preoccupata Accinasio. Soldi
che, magari, potrebbero essere utilizzati con più profitto per contenere le piene del
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Seveso. Il problema, forse, è che la felicità non fa ancora parte del calcolo del Pil. «Qui in
paese il senso di appartenenza e di socialità è molto aumentato con il no al cemento »,
dice Trezzi nel bar di Cassinetta. «C’è gente che si è trasferita da Milano a qui proprio per
questo — assicura Accinasio — . Persone più partecipi e attente ai bisogni di Cassinetta».
La “rivoluzione virtuosa” continua. Sperando di non finire soffocata di nuovo nel cemento.
Del 18/11/2014, pag. 13
“Sembra il mare ma è il nostro incubo” La
grande fuga dalla piena del Po
Più di mille sfollati sulla riva destra. “Chiudiamo ponti e scuole” Portata
(e pressione) record dell’acqua da Cremona al delta
JENNER MELETTI
BRESCELLO (REGGIO EMILIA) Prima le bestie, poi gli uomini. Cento cavalli, 14 vacche,
qualche maiale, un gregge di pecore. Via dalla golena di Ghiarole, che è appena fuori il
paese: in questa sera di pioggia il Po fa davvero paura. «Il nuovo colmo — dice il sindaco,
Marcello Coffrini — arriverà stanotte o domattina. Ho fatto chiudere le scuole per i prossimi
due giorni. La strada sull’argine maestro è vietata anche ai ciclisti e ai pedoni. Fino a ieri il
fiume era anche uno spettacolo, con la sua forza, i suoi colori. Ma la nuova piena sembra
davvero pericolosa ». Ghiarole è dentro l’argine maestro ed è protetta da argini più bassi
che dovrebbero salvare le case, i campi, gli animali. «I cavalli e le vacche sono state
portate via con i camion. Le pecore le abbiamo spinte in un podere asciutto. Entro
mezzanotte tutte le 235 persone che abitano in golena debbono andare via».
Nessuno protesta, per questo trasloco. «Nel 1994 — raccontano le donne e gli uomini
impegnati a smontare i mobili di casa per portarli al primo piano — c’era chi diceva che
l’acqua non sarebbe arrivata alle nostre case. E invece la piena è arrivata di notte e ha
ucciso gli animali nelle stalle. Noi ci salvammo con le barche ». C’è la Madonnina vista nei
film di don Camillo e Peppone, alle Ghiarole. All’inizio del secolo scorso qui c’erano più di
mille persone, che avevano i mulini o pescavano lucci, storioni e tinche. «Per fortuna —
racconta il sindaco — quasi tutti hanno una casa anche in paese, difeso dall’argine
grande. In albergo ho messo solo 65 persone, ma chissà per quanto tempo dovranno
restarci. Cercheremo case in affitto, da assegnare con la garanzia del Comune, come
abbiamo fatto per il terremoto». Nessuno dormirà, stanotte. Le porte e le finestre della
case abbandonate sono state chiuse, «per paura degli sciacalli», dice il sindaco Coffrini.
«Ma se l’acqua arriva forte, bisogna andare ad aprire tutto. Se il fiume trova ostacoli, li
abbatte». Sono più di mille e cento gli sfollati, solo sulla riva destra, fra Parma, Reggio,
Ferrara. Altri 150 sono stati evacuati nella riva sinistra, fra Mantova e Rovigo. «La piena in
corso — dice l’ingegnere Ivano Galvani, dell’Aipo, Azienda interregionale per il Po —
arriva quasi a “tamponare” quella della settimana scorsa e il fiume è più alto di un metro.
Abbiamo così una criticità pesante praticamente da Cremona al Delta. C’è una portata di
9.700 metri cubi al secondo, molto simile a quella della piena del 1994 e non distante da
quelle del 2000 e del 1951. Ma per fortuna da allora sono stati fatti lavori importanti. Gli
argini adesso sono più sicuri». Luci accese, stanotte, anche a Luzzara. «Abbiamo messo
delle brandine in Comune già da qualche giorno — racconta il sindaco Andrea Costa —
ma non c’è nemmeno il tempo di usarle. Qui piove che Dio la manda. Dalla mia golena di
Fogarino sono state evacuate 41 persone: ci sono aziende agricole, una cava di ghiaia e
anche extracomunitari che lì hanno trovato un riparo a poco prezzo. Abbiamo messo tutto
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in sicurezza, staccando il Gpl e l’energia elettrica. La golena è già allagata perché
abbiamo tagliato l’argine di protezione, alto 8,70 metri contro gli 11,5 dell’argine maestro.
Bisogna fare così, per evitare disastri. Noi abbiano tagliato 20 metri così l’acqua fa meno
pressione e soprattutto sostiene l’argine da ambedue le parti. Se non si taglia, la furia del
fiume magari ti tira giù trecento metri». Sono chiusi ponti importanti, come quelli di Boretto
verso Viadana e di San Benedetto verso Bagnolo San Vito. Stalle vuotate anche a
Quistello e a Motteggiana, il paese di Giovanna Daffini e delle sue canzoni di risaia. Fino
all’ultima luce, nei tratti di argine verso il ferrarese (dove la piena per ora fa meno paura) il
Po continua ad attirare migliaia di persone. «Hai visto, sembra il mare». C’è chi porta i
bambini «così guardano la loro prima piena». È un «turismo», questo, che unisce le
famiglie. Ci sono i ragazzi che fanno filmati e selfie davanti alla piena con i pioppi che
sembrano annegati, ci sono i nonni che invece possono raccontare le piene del ‘51 e del
2000, quando «sono sceso dalla camera da letto e in cucina c’erano due metri d’acqua».
In questa Italia che intuba a torrenti e che si sfalda il Po è anche una lezione. Prima di San
Benedetto, dall’argine maestro, non vedi nemmeno il letto del fiume, tanto è lontano. Gli
uomini hanno capito che un grande fiume va rispettato e che se non gli lasci spazio, se lo
riprende. Grano appena nato, risaie, cachi e kiwi nelle golene, ma gli uomini che lavorano
qui sanno di essere in prestito. «Anch’io — dice Primo Tomaini, 80 anni, di Frassinelle
Polesine — stamattina sono andato a guardare il Po. È alto proprio nel mezzo, mi fa
paura». Chiede un passaggio in auto, per andare e rivedere il «posto della grande
disgrazia». Un arco di pietre, una lapide, fiori freschi del Comune di Frassinelle. Proprio
sabato scorso, il 15 novembre, era il 63esimo anniversario della strage del ‘51. «La sera
prima il Po aveva rotto a Malcantone di Occhiobello, aveva portato via anche la mia casa.
All’alba del 15 un camion di sfollati è stato travolto da un’ondata, ci sono stati 84 morti. Ne
conoscevo tanti». Primo Tomaini dice che il camion doveva prendere un’altra strada, più
alta, ma questa era piena di sfollati sui carri trainati dai buoi, non si passava. «La pietà dei
viventi questo marmo eresse / ricordo dolorante dell’immane sciagura».
Gli argini, adesso, sono più alti. L’allarme, in caso di pericolo, arriva in un attimo. «Ma il Po
qui è troppo vicino. Si sente il rumore della piena. Mi riporta a casa?».
del 18/11/14, pag. 3
Tav Torino-Lione, Lupi balla sui costi. Renzi
lo «declassa»
Torino-Lione. Il finanziamento europeo, che Italia e Francia devono
chiedere entro fine febbraio, rimane, in realtà, una chimera
Mauro Ravarino
La guerra di cifre sulla Torino-Lione crea malumori in seno al governo. Rimangono sotto
traccia, ma sono espliciti. Il premier Matteo Renzi, multitasking instancabile, anche
dall’Australia ha monitorato la situazione, prendendo le redini della delicata questione.
Prima della partenza, aveva chiamato il senatore Pd, il Sì Tav per eccellenza. Stefano
Esposito (lo ha dichiarato quest’ultimo su facebook). Dandogli il compito di stilare una nota
puntuale sul tema dei costi Tav. Scavalcando, così, l’interlocutore naturale, il ministro dei
Trasporti Maurizio Lupi, che ieri in Val di Susa per l’inaugurazione della seconda galleria
del traforo autostradale del Frejus, stizzito, ha tagliato corto: «Il senatore Esposito è molto
amico di Renzi».
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Poi, ha ribadito: «I costi saranno quelli che sono definiti e ci sarà un certificatore scelto dai
governi di Italia e Francia. Dobbiamo presentare la richiesta di finanziamento all’Unione
europea. L’Ue non vuole costi ballerini ma certi». Lupi tiene, quindi, fermi i 2,9 miliardi di
euro stabiliti nel 2012 e rigetta i 6,9 miliardi (al netto del finanziamento europeo), che
emergono, invece, dal Contratto di programma Rfi 2012–2016. A cui si aggiungerebbero
800 mila euro per studi e progettazioni, per un totale di 7,7 miliardi a carico del governo
italiano.
Il finanziamento europeo, che Italia e Francia devono chiedere entro fine febbraio, rimane,
in realtà, una chimera. Sono 26 i miliardi che l’Ue stanzierà per i trasporti nel corso del
periodo 2014–2020. Ma, come hanno spiegato la scorsa settimana i tecnici No Tav, il
bando a cui può partecipare Roma offre al massimo 5,5 miliardi da dividere per diverse
opere europee, tunnel del Brennero compreso. Nel frattempo, Esposito, vicepresidente
della Commissione Trasporti al Senato, ha preparato la relazione sul Tav, che presenterà
nei prossimi giorni a Renzi. Esposito denuncia gli errori di calcolo nel documento di Rfi
(firmato, tra l’altro, da Lupi), la diffusione di costi infondati e «gonfiati» in assenza di un
pronunciamento del Cipe e chiede che vengano individuati i responsabili.
Ieri, il senatore Esposito – quasi ministro dei Trasporti in pectore – era all’inaugurazione
della seconda canna del Frejus. Vicino a un imbarazzato e demansionato Lupi, che alla
domanda su un’eventuale richiesta di Ferrovie di una revisione dell’analisi costi-benefici,
ha risposto: «Non credo che Fs l’abbia avanzata. Eviterei strumentalizzazioni, dico con
molta forza a Fs: facciano le Ferrovie. E a Rfi: realizzi le opere nei tempi giusti, non solo le
grandi opere, ma anche quelle che riguardano la manutenzione straordinaria, come
richiede il dissesto idrogeologico». «Come la Tav, l’Autofrejus con la doppia galleria è una
grande realtà, non un sogno» ha detto Lupi. Il raddoppio del tunnel è costato 407 milioni di
euro, equamente ripartiti tra Italia e Francia. Lungo quasi 13 chilometri, sarà aperto al
traffico solo all’inizio del 2019. I No Tav, invece, torneranno in piazza sabato prossimo, a
Torino.
del 18/11/14, pag. 3
I RE DELL’ORO NERO LUCANO
E LA RIVOLTA DEI RAGAZZI
CON SBLOCCA ITALIA VIA LIBERA A SUPER-TRIVELLAZIONI, IN
CAMBIO UNA PIOGGIA DI MILIONI: ENI, SHELL, TOTAL E POLITICI
ESULTANO. GLI STUDENTI VANNO IN PIAZZA
di Antonello Caporale
inviato a Viggiano (Potenza)
Anche i lucani nel loro piccolo s’incaz - zano. L’Opa delle compagnie petrolifere sulla
regione, l’offerta di comprarsela in blocco e trivellarla nel modo giusto, facendo zampillare
una selezione tra i migliori dei 479 pozzi censiti e “assaggiati” (271 in provincia di Matera e
208 in provincia di Potenza) in cambio di una distesa di bigliettoni di euro alle comunità
coinvolte deve ora vincere l’ultimo e più increscioso degli accidenti: la paura.
UN PASSO indietro. Matteo Renzi a maggio decide di trasformare la Basilicata nel nuovo
Texas italiano e avoca al potere centrale, nel decreto Sblocca Italia, le competenze per
l’ampliamento della produzione petrolifera. Lo chiedono le tre grandi sorelle interessate
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all’affare: Eni, Shell e Total. Dei 38 pozzi attualmente in produzione con 85mila barili al
giorno, che diverranno 135 mila appena i 50 mila marchiati Total saranno sul mercato e
154 mila quando l’Eni attiverà l’estrazione dell’ultimo ceppo concordato nella vecchia
intesa, si può succhiare da altri buchi altro meraviglioso oro nero. La cosa straordinaria è
che la scelta di Renzi di evirare ogni autonomia alla Lucania ottiene fra gli evirati un
indiscutibile successo. Vivissimo plauso da parte del pacchetto di deputati e senatori che
detengono la Regione. Per Marcello Pittella, il governatore, si aprirebbero così “grandi
opportunità” per il territorio. Marcello è fratello di Gianni, azionista di riferimento del Pd e
capogruppo dei socialisti europei a Bruxelles che nel silenzio annuisce.
L’EX GOVERNATORE Vito De Filippo è sottosegretario alla Sanità e figurarsi. L’altro ex
conducator Filippo Bubbico, predecessore di De Filippo e Pittella, è viceministro all’Interno
e strafigurarsi. C’è da aggiungere che un altro potentino, Roberto Speranza, è capogruppo
alla Camera e quindi sonnecchia con circospezione. Il sestetto di mischia si completa con
un vero fan del petrolio, il deputato Salvatore Margiotta. I potenti e influenti politici locali
dunque non solo applaudono ma rifiutano di accogliere la richiesta popolare di ricorrere
alla Corte costituzionale contro l’articolo 38 che centralizza l’affare, spostandolo a Roma,
lontano dal cuore. Resta, quasi solitario, il voto di Vincenzo Folino, anch’egli Pd:
“Combatto contro questa posizione anche se so di perdere”. Il contesto sembra far girare il
vento per il verso giusto. Matera è intanto eletta capitale europea della cultura, e dunque
festeggia i suoi Sassi infischiandosene della puzza e delle trivelle. Anche le parrocchie
salutano compatte all’incipiente sequela di perforazioni. Del resto le tre sorelle del petrolio,
sempre animate da spirito collaborativo, sostengono col loro marchio un decisivo volume
della Cei dal titolo “Itinerari religiosi in Basilicata”. Federica Guidi, il ministro dello Sviluppo
economico in una sua visita quasi lacrima per la gioia: non ha mai visto un popolo più
tenero, disponibile e responsabile di quello lucano: “È veramente brava gente”. Poi però
qualcosa s’inceppa. Iniziano gli studenti medi, quelli dei licei. Programmano le cinque
giornate, ma non è nulla di letterario. Ci saranno cinque giorni di proteste in piazza. Banale
ma efficace la questione posta. Emanuele, uno dei leader, domanda a Renzi: “Vieni nella
mia casa e non bussi alla mia porta?”. Manifestano il primo giorno, e sono migliaia. Pure il
secondo giorno sono migliaia. E così il terzo. “Un modo per non andare a scuola”,
snobbano i pretoriani. Allora le manifestazioni vengono spostate al pomeriggio: e sono
migliaia comunque.
TURBOLENZE giovanili? Sì e no. Perché la rabbia dei giovanissimi si unisce a quella di
chi non vive di petrolio ma di turismo e agricoltura. I materani, pur in festa, iniziano a
interrogarsi sul fatto che il loro cielo si sporchi di nero per colpa dei potentini, dei quali non
hanno grande simpatia (ricambiati, del resto). Dunque dopo Potenza anche Matera il 23
novembre scenderà in piazza. È un contagio lento ma che avanza. E dove non può la
rabbia, ce la fa l’altra paura. La paura di vedersi ricco ma ammalato. Qui a Viggiano,
capitale del petrolio, i soldi sono tanti ma anche la fifa è blu. Tanto che il sindaco Amedeo
Cicala confessa: “Potessi direi no al petrolio. Ma come si fa? Mi preoccupa però
l’economia drogata, ho terrore che la mia comunità sia espropriata dal diritto di governare
la scelta industriale”. Viggiano, 3200 abitanti, incassa 11 milioni di euro di royalties
all’anno. Sono ricchi ma storditi. Ricchi ma impauriti. Infatti il consiglio comunale voterà il
ricorso alla Corte costituzionale contro l’articolo dello Sblocca Italia che gli lega mani e
piedi. La paura è che il petrolio produca danni alla salute. Gli ultimi dati disponibili
riferiscono di un evidente, straordinario innalzamento delle patologie oncologiche. Sono
366 casi di cui 183 con decesso. Mesotelioma e carcinoma polmonare i principali killer
riconosciuti. “Quando si alzano quelle fiammate lunghe decine di metri verso il cielo io
tremo. E tremano anche quelli che fanno affari con il petrolio”, dice il sindaco di Viggiano.
Le fiamme, i fumi. Anche Matera davanti a sè ha i gas dell’Ilva che quando sono poderosi
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si scorgono nitidi all’orizzonte, e dietro di sè il fuoco, o i veleni sotterrati nella piana del
Basento.
MA GLI AFFARI, incrociando le dita, vanno a gonfie vele. E qui però la terza e ultima
novità: sta per approdare a riva una inchiesta della procura di Potenza, oramai avviata da
mesi, sul business connesso al petrolio. Gli affari viaggiano sui tir che trasportano i reflui
tossici, le scorie radioattive e i fanghi. Dove e come questi veleni vengono sotterrati? Quali
le cautele e quali le imprudenze? È davvero tutto a norma di legge? Ed esiste o è
un’invenzione di alcuni “cronisti straccioni” l’esistenza di un circuito politico che si
abbevera ai pozzi? Sui cieli lucani turbolenza in arrivo, allacciare le cinture!
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ECONOMIA E LAVORO
Del 18/11/2014, pag. 7
L’accordo commerciale tra gli Stati Uniti e la
Ue rischia il naufragio
FRANCESCO BEI
BRISBANE . Oggetto misterioso, opaco, avvolto in trattative che si svolgono nella
massima segretezza. Finora il Ttip — in italiano tradotto in un burocratico “Accordo di
partenariato transatlantico su commercio e investimenti” — è stato sinonimo di tutto il male
possibile, quasi fosse il parto ultimo del famigerato Sim, lo Stato Imperialista delle
Multinazionali di cui vaneggiavano le Br negli anni Settanta. Insomma, il trattato che
dovrebbe abbattere tutte le barriere doganali ancora esistenti tra le due sponde
dell’Atlantico, e garantire un’impennata nel commercio e nell’occupazione in Europa e
Usa, gode tutt’altro che di buona fama. Per restare in Italia (ma l’ostilità è diffusa in tutta
Europa) esiste ad esempio un network di un centinaio tra associazioni di consumatori,
sindacati e reti agricole che ha fatto della guerra al Ttip una ragione di mobilitazione di
massa. Con un sito molto informato (www. stop-ttip-italia. net). Persino la conferenza dei
vescovi europei si è scagliata contro l’accordo. I primi a esserne consapevoli sono i leader
impegnati nella trattativa. La novità è che hanno iniziato a ragionare su una controffensiva
«culturale». Durante il vertice Usa-Ue a margine del G20 di Brisbane, come apprende
Repubblica da una fonte che ha assistito alla riunione, sono state proprio le difficoltà del
Ttip al centro delle discussioni dei capi di Stato e di governo. Il più preoccupato è parso il
francese Hollande. D’accordo con lui gli altri leader, compreso Matteo Renzi. «Se non
vinciamo prima la battaglia delle idee — ha convenuto il premier italiano — il Trattato non
andrà in porto». Un pessimismo confermato dal presidente della Commissione Ue JeanClaude Juncker: «In questo momento il Trattato non avrebbe chance di essere approvato
dal Parlamento europeo. Non c’è una maggioranza, bisogna prima costruire il consenso».
Ancora Renzi: «Si è radicato il pregiudizio di un’opacità dell’accordo, tutta questa
segretezza va spazzata via con una offensiva di trasparenza ». Tutti hanno convenuto di
iniziare a enfatizzare le potenzialità del Trattato per far uscire il Continente europeo dalla
stagnazione, elencando le ricadute positive sull’occupazione, l’apertura del gigantesco
mercato Usa alle merci Ue, l’esclusione degli Ogm. Una nota di ottimismo è venuta da
Obama, gran sostenitore del Ttip. Che ha fatto sorridere gli altri leader con un paradosso.
«Ora che la Camera e il Senato sono in mano ai Repubblicani, sarà tutto più facile.
Almeno una cosa buona dalla sconfitta alle elezioni è venuta! ». Un riferimento alla
tradizionale diffidenza dei Democratici verso l’apertura totale delle barriere doganali con
l’estero. E sempre da Obama è arrivata la previsione di una firma finale sugli accordi entro
il 2015.
Del 18/11/2014, pag. 6
Crisi, Draghi alza il tiro “Acquisti di bond
sovrani se l’economia peggiorerà”
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Il presidente della Bce: “Faremo di tutto per difendere l’euro ma non
possiamo obbligare i Paesi a restarvi”. Borse su
ELENA POLIDORI
La Bce è pronta ad acquistare titoli di stato, se necessario. Il presidente Mario Draghi
inserisce questo atteso e controverso provvedimento tra le cosiddette «misure non
convenzionali» indispensabili per fronteggiare il peggioramento economico di Eurolandia.
E subito le Borse festeggiano: Milano chiude con un rialzo dell’1,3%; lo spread scende a
quota 150. Davanti al Parlamento europeo Draghi sostiene che la ripresa è «messa a
rischio» dall’austerity, dalla disoccupazione alta e dalle scarse riforme. Ma soprattutto
tocca un punto sensibile, sollevato da un europarlamentare del Movimento 5 stelle:
l’Eurotower può rendere possibile un’uscita dall’euro, oggi non prevista dai Trattati? «La
Bce non ha alcun potere legislativo per obbligare i Paesi membri a stare nell’euro o a
lasciarlo», è la risposta. E comunque: «L’euro è irreversibile e la Bce farà tutto quel che
serve, nell’ambito del suo mandato, per preservarlo». Nell’analisi di Francoforte la crisi
della zona euro resta seria. «La crescita si è indebolita durante l’estate, le recenti stime
sono state riviste al ribasso», ricorda. La ripresa è ancora «a rischio» per via dei troppi
disoccupati, della capacità produttiva inutilizzata e «dei necessari aggiustamenti di
bilancio». Tra i fattori negativi Draghi include anche i «rischi geopolitici che minano la
fiducia» e «i progressi insufficienti nelle riforme strutturali». Di nuovo ribadisce che la
politica monetaria da sola non basta a risollevare Eurolandia: occorre che i governi si
diano da fare sulle riforme che sono «difficili perché cambiano l’organizzazione della
società abituata a funzionare in modo differente» ma assolutamente necessarie. Draghi
rinnova il suo appello ai diversi leader: devono accordarsi «con urgenza su impegni a
breve termine sulle riforme, su una strategia per gli investimenti e su una visione a lungo
termine per condividere sovranità». Il 2015 deve essere l’anno in cui governi e istituzioni
adottano una strategia comune per tornare a crescere.
Non tutto è buio, comunque. Tanto per cominciare la Bce continua a prevedere «una
moderata ripresa nel 2015 e 2016». Come pure un «graduale miglioramento» del mercato
del credito. In più si cominciano a vedere «effetti tangibili» delle misure fin qui approntate.
«Dall’inizio di giugno i tassi sul mercato monetario hanno mostrato un forte declino. Ci
serve però più tempo per vederli materializzare pienamente». «Siamo ancora in una
situazione dove la nostra politica monetaria accomodante non raggiunge in modo
sufficiente» l’economia reale, ammette. Dice no ad una nuova ristrutturazione del debito
greco. Sul rischio deflazione assicura che l’istituto continua a tenere sotto controllo
l’andamento dell’inflazione e «se le aspettative a medio termine dovessero peggiorare», o
se gli effetti delle misure tardassero, è pronta ad agire. Il modello è quello della Fed.
Ricorda: il board «è unanime nel suo impegno ad usare strumenti non convenzionali
aggiuntivi tra cui l’acquisto di titoli di Stato».
del 18/11/14, pag. 4
Thyssen non fa concessioni
Massimo Franchi
Ast di Terni. Incontro a Monaco tra proprietà e sindacati. Oggi il tavolo
decisivo al ministero. Il board tedesco conferma la fiducia nell’ad
Morselli, ma vuole intesa: «Troppi 27 giorni di blocco»
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Due ore e mezzo di dialogo italo-tedesco in un albergo di Monaco. Due ore e mezzo per
confermare la fiducia di Thyssen in Lucia Morselli e nel suo operato che continua a
mandare in bestia gli operai di Terni. Il tutto alla vigilia dell’incontro decisivo per l’intera
vertenza.
La doccia gelata per Fim, Fiom, Uilm e Ugl arriva subito dalle parole di Markus Bistram, il
capo della divisione Materials di Thyssenkrupp che conferma come la posizione della
proprietà sia quella riassunta nel piano industriale presentato a luglio: 550 esuberi e
spegnimento del secondo forno. Chi si aspettava una delegittimazione dell’operato della
tagliatrice di teste italiana, o almeno qualche sensibile cambio di strategia, è rimasto
deluso.
Poi la parola passa ai sindacati che presentano un loro documento che tratta ogni punto
del piano, lanciando proposte alternative per venire incontro alle richieste aziendali. Poi
arriva la pausa che permette di rassenerare gli animi. Al ritorno, la replica di Bistram ha
toni concilianti che lasciano la possibilità al sindacato di intravedere qualche spiraglio.
Rosario Rappa, segretario nazionale della Fiom Cigl, è «moderatamente ottimista». «Dalla
proprietà tedesca non mi aspettavo una delegittimazione della Morselli, però faccio notare
che lei è rimasta in silenzio per tutta la riunione». Un altro dato che sottolinea Rappa
riguarda «le tante volte in cui la proprietà ha parlato del blocco della produzione di 26
giorni e della necessità di superarlo tramite un accordo». Un «accordo» che Bistram aveva
premesso non fosse «l’oggetto della riunione».
Il vero fossato fra azienda e sindacati riguarda la verifica del piano industriale. Morselli —
ora spalleggiata anche dai tedeschi — continua a proporre una verifica a due anni. Una
verifica che dovrà stabilire se continuare a far lavorare il secondo forno o spegnerlo e
quindi ridurre fortemente la capacità produttiva delle Acciaierie speciali Terni . I sindacati
— da venerdì spalleggiati finalmente dal ministro Guidi — chiedono invece un piano
quadriennale che possa dare una prospettiva reale alla fabbrica che dal 1884 dà il pane
alla città. Contemporaneamente i sindacati chiedono che la verifica del piano sia
semestrale per evitare colpi di mano o un’inerzia verso la dismissione per mancati
investimenti. «Diventa importante cercare di superare le differenze ancora esistenti sul
piano industriale, in particolare sulla verifica a 24 mesi siamo convinti che il governo debba
mettere in atto tutto il suo peso e la sua autorevolezza», conferma Mario Ghini, segretario
nazionale Uilm.
Un ruolo che invece ieri la proprietà ha cercato di ridurre, derubricando a poco importanti i
possibili interventi dello stesso governo in fatto di taglio del costo dell’energia e incentivi
regionali all’innovazione perché «traguardano a breve distanza» e non sono certo
strutturali.
La divisione è quindi rimasta tutta. E sarà il vero nodo del nuovo tavolo ministeriale
convocato oggi alle 10. Le parole proferite in mattinata dal ministro Federica Guidi danno
però speranza a sindacati. «L’incontro con le parti ha l’intento di andare ad oltranza verso
una soluzione positiva che dia uno sbocco a questa vicenda. L’azienda è bloccata da 24–
25 giorni — ha ricordato — e questo naturalmente è un ulteriore danno che stiamo
cercando di risolvere». Il ministro ha poi ricordato l’esito dell’ultimo incontro al Mise
venerdì scorso:la «rifocalizzare alcuni punti qualificanti del piano industriale. Il governo, io
personalmente, abbiamo chiesto all’azienda di fare una valutazione rispetto a un piano
che noi vorremmo fosse quadriennale di investimenti e quindi anche di mantenimento
dell’integrità del sito».
Oggi dunque il ruolo del governo sarà decisivo. Se manterrà la posizione, i sindacati
contano di riaprire finalmente una trattativa sempre bloccata dai veti e dalle parole
rimangiate da parte di Lucia Morselli. In questo caso si potrà pensare
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Difficilmente però si chiuderà oggi. Ma il tavolo sarà certamente dirimente per il futuro
della trattativa. Anche perché mercoledì è prevista una nuova assemblea con i lavoratori a
Terni. Lo sciopero e il presidio che blocca l’entrata e la produzione vanno avanti da 27
giorni. Una protesta che ha pochi precedenti in una fabbrica così grande, specie negli
ultimi anni.
Del 18/11/2014, pag. 4
Così Renzi e Bersani ora siglano la pace sul
nuovo Jobs act
Le assicurazioni dell’ex segretario sulla fiducia hanno riaperto i contatti
tra i due “avversari”. Sullo sfondo la partita del Quirinale
GOFFREDO DE MARCHIS
La battuta su Mediaset come vero obbiettivo da salvare attraverso il patto del Nazareno
era davvero solo una battuta. Certo, l’accusa di intelligenza col nemico non è mai indolore.
Ma in realtà un dialogo tra Matteo Renzi e l’area che gravita intorno a Bersani esiste e
produce qualche risultato a cominciare dalle modifiche al Jobs Act. L’ex segretario ha
detto chiaramente a Milano, all’assemblea di Area Riformista, che non sono ammesse
derive di tipo sfascista dentro al Pd: «Noi voteremo la fiducia, questo governo è il nostro
governo, il Pd è anche il nostro partito». Parole che non solo escludono la scissione ma
segnano la distanza da un’ala sinistra molto più radicale nella sua lotta al segretario
rappresentata da Pippo Civati, Stefano Fassina e Gianni Cuperlo, quest’ultimo
plasticamente non invitato alla riunione milanese.
Il punto più basso dei rapporti tra Renzi e Bersani, nella loro lunga storia conflittuale, è
stato toccato alla Leopolda. Quando il premier aveva praticamente invitato i dissidenti ad
andarsene dal Partito democratico. «Non vogliamo un partito di reduci, non restituiremo il
Pd del 41 per cento a quelli che hanno preso il 25». Boato della sala e tutti hanno pensato
a Bersani. Da quel giorno, tre settimane fa, i due fronti hanno fatto dei passi di
riavvicinamento. Il premier, in particolare. Voleva a tutti i costi confermare il testo della
riforma del lavoro uscito dal Senato col voto di fiducia e invece ha fatto retromarcia
accettando la mediazione dei bersaniani Guglielmo Epifani, Cesare Damiano e del
capogruppo del Pd Roberto Speranza. Una “concessione” meditata e che punta a vari
bersagli. Per iniziare, l’approvazione del Jobs Act senza una spaccatura dirompente del
Pd. Un tentativo di dividere la minoranza tra dialoganti e oltranzisti. Dividere amici e
avversari è uno dei suoi “sport” preferiti. In prospettiva, last but not least, stringere
un’alleanza con un pezzo del partito per le elezione del nuovo capo dello Stato, la grande
partita del prossimo anno. «E noi, tutti insieme, siamo molto più di 101», fa notare
maliziosamente un bersaniano evocando la bocciatura di Romano Prodi che fu anche la
fine della segreteria Bersani. E molti di più dei parlamentari rimasti a Silvio Berlusconi,
questo è il messaggio. La minoranza prova a rimanere unita per avere più forza.
Francesco Boccia, che in questa fase viene visto a Palazzo Chigi come un pericolo serio
per il suo ruolo chiave di presidente della commissione Bilancio di Montecitorio e per le
sue capacità sui conti pubblici, da settimane dice che serve un «coordinamento politico»
degli oppositori interni di Renzi. Altrimenti ci si condanna all’irrilevanza. Ma il fronte fatica a
trovare una via comune e di conseguenza un leader riconosciuto. Oggi c’è un nuovo
tentativo di unità con la presentazione di otto emendamenti alla legge di stabilità firmati da
Alfredo D’Attorre, bersaniano, Fassina, Cuperlo, Civati e bindiani. «Emendamenti
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condivisibili, alcuni dei quali perfettamente in linea con le nostre tesi», dice Speranza. Ma il
capogruppo non crede ai messaggi del “no a tutti i costi”. «Ho detto in faccia a Renzi che
io punto a creare un’alternativa al renzismo. Ma dentro al Pd. E non facendo cadere il
governo », sottolinea Speranza. Il capogruppo e i bersaniani non possono del resto non
rivendicare il successo del cambio di strategia di Renzi sul Jobs Act. «È Renzi che sta
cambiando verso nei rapporti con noi - fa notare D’Attorre -. Ma questo non indebolisce la
nostra battaglia. Sul lavoro confermiamo che non saremmo intervenuti sull’articolo 18 e
sull’Italicum non accettiamo un Parlamento che sarebbe composto in larghissima parte da
nominati. Oltre che la fretta di approvarlo che genera il sospetto di un voto anticipato ». Ma
un’altra fetta della minoranza continua a immaginare il no alla fiducia sul Jobs Act. Cuperlo
sostiene che le modifiche non bastano, non esclude categoricamente la scissione e alcuni
vedono dietro di lui la mano di Massimo D’Alema, certamente il più feroce dei critici del
premier. Così è difficile comporre il quadro di una minoranza unita, davvero compatta su
una sola linea politica da seguire nei confronti di Renzi. E in grado di farlo scivolare.
Del 18/11/2014, pag. 2
E spunta un’ipotesi: può tornare in azienda
solo chi è accusato ingiustamente di reati
ROBERTO MANIA
Nulla di questo ci sarà però oggi pomeriggio sull’emendamento che presenterà il governo
alla legge delega, in particolare alla norma che introduce nel nostro ordinamento la nuova
tipologia del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. L’emendamento all’articolo
7 della riforma del lavoro, e non un maxi emendamento, recepirà di fatto l’intesa all’interno
del Pd e che cambia l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori riproponendo sostanzialmente
l’impianto della legge Fornero del 2012: solo indennizzo monetario, crescente in base
all’anzianità di servizio del lavoratore interessato e anche esentasse se le parti dovessero
scegliere la strada della conciliazione escludendo quella giudiziaria, per i licenziamenti
individuali per motivi economici e di riorganizzazione aziendale; reintegro nel posto di
lavoro per i licenziamenti discriminatori (basati sul sesso, la religione, l’opinione politica,
ecc.), infine l’opzione tra il reintegro e l’indennizzo per i licenziamenti disciplinari.
Quest’ultima fattispecie è diventata il “cuore” dell’accordo tra maggioranza e minoranza
del Pd e per questo viene attaccata da Sacconi e difesa dal presidente della Commissione
Lavoro della Camera, Cesare Damiano, ala laburista e filo Cgil del partito.
Tutti d’accordo invece sull’idea del governo di fissare nell’emendamento, che sarà
presentato dal sottosegretario al Lavoro, Teresa Bellanova, tempi certi, e più brevi rispetto
agli attuali, per l’impugnazione dei licenziamenti.
Il nodo irrisolto continuano ad essere i licenziamenti individuali regolati dall’articolo 18.
Una delle ipotesi sul tavolo dei tecnici è dunque quella di stabilire la possibilità di ricorre al
reintegro solo per i reati più gravi perseguibili d’ufficio. Si va dal furto aggravato alla
lesione personale fino all’omicidio. Una cerchia ristrettissima di fattispecie. È l’ipotesi che
restringe di più il campo di applicazione del reintegro, annacquando fortemente il senso
dell’intesa tra le due anime democrat, riducendo, infine, l’area di intervento discrezionale
del giudice. I tecnici del governo l’hanno presa in considerazione, la reputano perseguibile
sul piano strettamente giuridico, ma, per ora, di difficile realizzazione sul piano politico
perché la minoranza del Pd la considererebbe una sostanziale violazione dell’accordo.
Così l’Ncd, insieme a Scelta civica, sono entrati in pressing cercando di condizionare la
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soluzione tecnica per l’articolo 18. Si devono sparare ora tutte le cartucce, perché dopo
sarà, come visto, impossibile.
Più «ragionevole » appare l’altra via, che comunque limita decisamente i casi nei quali è
possibile il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento disciplinare ingiustificato.
In sostanza il lavoratore sarà riammesso nel posto di lavoro se il giudice dimostrerà che il
datore di lavoro lo ha licenziato sulla base di un fatto assolutamente insussistente, un falso
alla prova dei fatti. L’accusa, per esempio, di aver commesso un furto che invece, al
termine del procedimento giudiziario, risulterà inesistente. Lo sforzo dei tecnici sarà, in
questa ipotesi, quello di definire i casi con il maggiore dettaglio possibile, così da ridurre ai
minimi termini la discrezionalità del magistrato nell’applicazione della norma. La tesi a
sostegno è che una delle ragioni della scarsa attrattività del nostro Paese per gli
investimenti esteri sta proprio nell’incertezza, non solo relativamente ai tempi, del giudizio.
del 18/11/14, pag. 11
Piano B per l’articolo 18: l’opzione spagnola
L’ipotesi per i licenziamenti disciplinari: l’azienda può pagare un
indennizzo più alto al posto del reintegro La partita decisiva non si
giocherà in Aula ma in seguito, quando l’esecutivo dovrà varare i
decreti attuativi
ROMA Il giallo dell’emendamento del governo sull’articolo 18 non è solo il classico caso di
tira e molla che accompagna ogni trattativa. Ma una forma di pressing preventivo, una
marcatura a uomo reciproca in vista della partita decisiva che si giocherà dopo
l’approvazione del Jobs act, quando sarà la volta dei decreti attuativi. Sui licenziamenti
disciplinari ingiustificati, cioé quelli motivati con il comportamento del lavoratore ma poi
bocciati dal giudice, la proposta del governo dovrebbe dire che il reintegro nel posto di
lavoro resta possibile in alcune «specifiche fattispecie». Una sorta di via di mezzo tra le
due posizioni che si sono scontrate per tutta la giornata di ieri. E qui, per forza di cose,
bisogna stare attenti alle singole parole.
La minoranza pd chiedeva che il governo si limitasse a riformulare l’emendamento già
presentato in commissione dal gruppo. Un testo secondo il quale il reintegro è possibile
«previa qualificazione specifica delle fattispecie». Nessun paletto stretto, cioé, ma tutto
rimandato ai decreti attuativi. Ncd, invece, voleva restringere fin da ora il margine di
discrezionalità della magistratura. E per questo chiedeva al governo un emendamento ex
novo che, parlasse di «limitate e specifiche fattispecie». Una formulazione molto più
stretta.
Perché il governo sembra intenzionato a preferire la strada indicata dalla minoranza pd?
Intanto perché in questo momento il Jobs act si trova nella commissione Lavoro della
Camera dove la sinistra pd è fortissima mentre Ncd è ininfluente. Per passare è con la
sinistra dem che bisogna scendere a patti. Ma anche perché le inversioni di rotta sono
sempre possibili. Il Jobs act è un disegno di legge delega: si limita a stabilire i principi della
riforma che saranno poi dettagliati nelle norme attuative. Il testo che sarà approvato oggi,
quindi, sarà ancora abbastanza vago da poter essere sbandierato da tutte e due le parti in
causa e da lasciare aperte molte ipotesi.
Per pareggiare i conti con Ncd, il governo è pronto a giocarsi la carta del primo decreto
attuativo, che Renzi vuole portare in Consiglio dei ministri entro la fine dell’anno. In quel
testo si dovrà dire che quali sono le «specifiche fattispecie» che danno diritto al reintegro.
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Ed è in quell’occasione che potrebbe arrivare la stretta tanto cara ad Ncd: il reintegro
sarebbe possibile solo se il licenziamento viene annullato dal giudice perché l’azienda ha
accusato il dipendente di un reato che poi in giudizio si è dimostrato falso. Attenzione, ci
deve essere di mezzo un reato non un semplice fatto, come invece ha detto ieri il
sottosegretario al Welfare Teresa Bellanova, facendo infuriare Ncd, per poi correggere poi
il tiro. L’azienda accusa il lavoratore di aver rubato, ad esempio, ma lui non ha rubato. Il
reintegro scatterebbe davvero in pochissimi casi.
Non è detto che questa linea passi: la sinistra del Pd è a conoscenza di questa strategia in
due tempi ed è pronta ad ostacolarla. Ma se le maglie del reintegro dovessero allargarsi di
nuovo il governo ha già pronto il «piano B», che va sotto il nome di opzione aziendale: sul
modello della Spagna, l’azienda potrebbe scegliere di pagare un indennizzo al lavoratore
anche quando il giudice ne ha deciso il reintegro. Dovrebbe pagare di più ma di fatto il
reintegro sarebbe cancellato per tutti i licenziamenti disciplinari. Anche per questo, però,
bisogna aspettare i decreti attuativi. Per il momento ci si marca a uomo sui principi.
Sempre che non arrivi il voto di fiducia a fischiare la fine della partita.
Lorenzo Salvia
Del 18/11/2014, pag. 15
QUEI LAVORATORI POVERI
LUCIANO GALLINO
UNO dei principali esiti del Jobs Act, a danno dei lavoratori, sarà la liquidazione di fatto del
contratto nazionale di lavoro (cnl), in attesa di una legge — di cui il governo parlerà,
sembra, a gennaio — che ne sancisca anche sul piano formale la definitiva insignificanza
rispetto alla contrattazione aziendale e territoriale. D’altra parte la strada verso tale esito
nefasto era già stata tracciata dagli accordi interconfederali del giugno 2011 e del
novembre 2012 (non firmato dalla Cgil). In essi venivano assegnate al cnl dei compiti del
tutto marginali rispetto alla sua funzione storica: che sta nel difendere la quota salari sul
Pil, cioè la parte di reddito che va ai lavoratori rispetto a quella che va ai profitti e alle
rendite finanziarie e immobiliari. Grazie al progressivo indebolimento del cnl, dal 1990 al
2013 tale quota è diminuita in Italia di circa 7 punti, dal 62 per cento al 55. Si tratta di oltre
100 miliardi che invece di andare ai lavoratori vanno ora ogni anno ai possessori di
patrimoni, dando un contributo di peso all’aumento delle disuguaglianze di reddito e di
ricchezza. Questo spostamento di reddito dal ai profitti e alle rendite ha pure contribuito
alla contrazione della domanda interna. Un top manager può pure guadagnare duecento
volte quel che guadagna un suo dipendente, ma quanto a consumi quotidiani, dagli
alimentari ai trasporti, non potrà mai rappresentare una domanda pari a quella di duecento
dipendenti. Oltre che tra i lavoratori e le classi possidenti, le disuguaglianze aumenteranno
tra gli stessi lavoratori. La facoltà conferita alle imprese, comprese decine di migliaia
medio-piccole, di regolare mediante accordi sindacali anche locali sia il salario, sia altre
condizioni cruciali del rapporto di lavoro, avrà come generale conseguenza una ulteriore
riduzione dei salari reali e con essi della quota salari sul Pil. In fondo, è uno degli scopi del
Jobs Act, anche se non si legge in chiaro nel testo. Ma ciò avverrà, quasi certamente, con
differenze rilevanti attorno alla media tra le imprese che vanno bene e le tante altre che
arrancano. Queste si gioveranno della suddetta facoltà per pagare salari che in molti casi
collocheranno i percipienti al disotto della soglia della povertà relativa, che nel 2013 era
fissata in circa 1.300 euro per una famiglia di tre persone. Si può quindi stimare che il
numero di “lavoratori poveri” aumenterà in Italia in notevole misura. Alle disuguaglianze di
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reddito tra un’azienda e l’altra, a parità di lavoro, si aggiungeranno quelle territoriali, quelle
che un tempo il cnl doveva servire a superare, stabilendo quanto meno una base salariale
per tutti. Va però notato che il regime di bassi salari, introdotto di fatto dal decreto sul
lavoro, ostacola fortemente anche la modernizzazione delle imprese e danneggia l’intera
economia. Le imprese italiane — con rade eccezioni — si collocano da anni tra le ultime
della Ue quanto a spesa in ricerca e sviluppo; tasso di investimenti fissi; età degli impianti;
innovazione di prodotto e di processo. Nonché, guarda caso, per la produttività del lavoro.
Dagli anni 90 in poi le spese in ricerca, sviluppo e investimenti fanno registrare entrambe
un patetico zero virgola qualcosa. L’età media degli impianti è il doppio di quella europea,
più o meno 25-28 anni contro 12-15. Inoltre le imprese italiane sono, in media, troppo
piccole. Risultato: l’aumento della produttività del lavoro segna anch’esso uno zero virgola
sin dagli anni 90. Varando delle leggi sul lavoro che consentono un uso sfrenato del
precariato, evitando di impegnarsi in qualsiasi azione che assomigli a una politica
industriale, i governi italiani hanno efficacemente contribuito a mantenere le imprese
italiane nella condizione di ultime della classe. Il Jobs Act offre ad esse un aiuto per
mantenersi in tale posizione. Si può infatti essere certi che ove la legge permetta loro di
pagare salari da poveri quattro imprese su cinque utilizzeranno tale facilitazione e non
spenderanno un euro in più in ricerca, sviluppo e investimenti, rinnovo degli impianti,
innovazioni. E l’aumento annuo della produttività del lavoro, che è strettamente collegato a
tali voci, resterà nei pressi dello zero. C’è in ultimo da chiedersi se gli estensori del Jobs
Act abbiano un’idea di quanto siano oggi numerosi e complessi i fattori della produttività
del lavoro: essa è seriamente misurabile solo a livello nazionale, mentre a livello di
impresa, in specie se medio-piccola, misurare stabilmente e per lunghi periodi la
produttività del lavoro, è come cercare di catturare un ologramma con una canna da
pesca. Qualsiasi bene o servizio un’impresa produca, è ormai raro che se lo produca per
intero da sola. La maggior parte dei componenti arriva da altre imprese. Innumeri prodotti,
dai gamberetti alle camicie, percorrono migliaia di chilometri in aereo o per nave prima di
arrivare nei nostri negozi. Un piccolo elettrodomestico da cinquanta euro, assemblato da
ultimo da una casa italiana per essere venduto nei supermercati, capita sia costituito di un
centinaio di pezzi provenienti da dieci paesi diversi. In tali complicatissime “catene di
produzione del valore” come sono chiamate, interamente fondate sull’informatica, può
avvenire di tutto. Che un componente ritardi; che non sia quello giusto; sia guasto; abbia
cambiato di prezzo rispetto al contratto; richieda macchinari non previsti per essere rifinito
o assemblato; ecc. Tutti questi inconvenienti incidono ovviamente sulla produttività
dell’impresa finale. E non sono l’ultimo motivo per cui la produttività del lavoro aumenta
annualmente dello zero virgola nelle imprese italiane. Le quali, temo, cercheranno invano
nel Jobs Act, come si fa a misurarla davvero, e magari come si fa ad aumentarla. Senza di
che i nuovi “lavoratori poveri”, in tema di frutti della produttività, avranno ben poco da
spartirsi.
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