1 Convegno Internazionale - `LO SPAZIO DELLA DIFFERENZA` 20

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1 Convegno Internazionale - `LO SPAZIO DELLA DIFFERENZA` 20
Convegno Internazionale - ‘LO SPAZIO DELLA DIFFERENZA’
20-21 ottobre 2010 - Università di Milano-Bicocca
Draft paper
LA CITTÀ E LE DIFFERENZE
di Adriano Cancellieri (Università di Padova)
Con questo intervento intendo presentare le mie più recenti riflessioni e ricerche intorno al tema che
Ruth Fincher e Jane Jacobs (1998) hanno chiamato ‘la città della differenza’. Con tale espressione
ci si riferisce a quei contesti urbani in cui i processi quotidiani di costruzione della differenza (di
nazionalità, di genere, di età, di condizione socio-economica, di ‘anzianità residenziale’) sono
particolarmente significativi. Si tratta dunque di un concetto analitico, euristico, che ci dice cosa
guardare.
Farò riferimento particolare a due casi empirici:
o il quartiere Arcella di Padova. Un quartiere che si trova immediatamente dietro la stazione, ha
una densità abitativa molto elevata (5.660 abitanti per km²), paragonabile a quella di grandi aree
metropolitane come Milano, Napoli o Roma ed è il quartiere della città con la più alta incidenza
percentuale di popolazione immigrata (15,7%). Inoltre il quartiere si trova in un contesto urbano
come Padova altamente rappresentativo, da un lato, delle cittadine italiane di media grandezza,
dall’altro di una regione, il Veneto, che è uno dei principali poli di attrazione dell’immigrazione in
Italia e una delle aree del paese dove maggiore è la mobilitazione politica contro di essi.
o il condominio-quartiere Hotel House di Porto Recanati, nel Sud delle Marche, un enorme exresidence per vacanzieri composto da 480 appartamenti, in cui oggi vivono circa 2000 persone, nel
90% dei casi di origine straniera e provenienti da ben quaranta differenti paesi. Il condominio Hotel
House si innalza solitario nella parte meridionale della piccola cittadina di Porto Recanati (11.959
abitanti), circondato solo da campi e da grandi infrastrutture (autostrada adriatica, strada statale,
ferrovia).
Per studiare questi due spazi della differenza ho innanzitutto scelto di andare oltre l’alternativa tra
due rappresentazioni dominanti: quella che ritrae questi spazi come territori di inevitabile
conflittualità, luoghi di disorganizzazione sociale (Zorbaugh, 1929) e fattori di disturbo al
«metabolismo urbano» (Burgess, 1967); per usare la metafora di Sandercock (2004), luoghi
infernali. E quella che celebra la differenza in modo ingenuo e depoliticizzato e considera la vita
negli spazi multiculturali come un’esperienza prevalentemente estetica, individuale e ludica.
Sempre per usare le parole di Sandercock, degli spazi carnascialeschi.
Per fare ciò si è scelto di partire dalla consapevolezza che nei processi di costruzione e espressione
della differenza lo spazio gioca un ruolo attivo fondamentale, sia come campo d’azione che come
oggetto di contesa: infatti lo spazio può rafforzare e fissare materialmente confini sociali o, al
contrario, favorire contaminazioni e forme di cooperazione. Lo spazio è un momento attivo, sia
causa che effetto nella/della vita sociale (Harvey, 1989).
L’analisi dei due casi di studio è stata perciò posta in essere attraverso una sorta di ontologia
spazializzata (Soja 1989) che considera i soggetti, individuali o collettivi, come attori spaziali
(Gotham, 1998); per fare ciò si è posta l’attenzione particolare su quattro diverse dinamiche sociospaziali che, intrecciandosi tra loro, danno luogo alla costruzione quotidiana della differenza negli
spazi urbani:
1. La battaglia endogena per i sensi del luogo messa in atto quotidianamente tra i differenti attori
che vi ‘abitano’. In ogni luogo infatti coesistono e si intrecciano differenti processi di
territorializzazione e di addomesticamento dello spazio, che si scontrano, si incontrano, si
contaminano nel corso della vita quotidiana. Questa coesistenza di territorialità multiple
1
comporta, da un lato, la creazione di spazi di esclusione e di autoesclusione, che portano al
rafforzamento di confini sociali, come si metterà in luce meglio più avanti; qui è importante
soprattutto rilevare che si creano anche spazi conflittuali, cioè di espressione del conflitto e
spazi-ponte, cioè spazi liminali che favoriscono la decostruzione e la fluidità dei confini sociali.
Questo è emerso con tutta chiarezza, oltrechè dalla principale letteratura di riferimento (Jacobs e
Fincher, 1998; Amin, 2002; Blokland, 2003; Sandercock, 2004; Semi, 2004), anche dai due casi
di studio sopra menzionati. Per quanto riguarda il quartiere-condominio Hotel House, per
esempio, un importante spazio conflittuale è rappresentato dalla ‘piazzetta’ antistante il
condominio stesso. Si tratta del principale luogo di socialità e di incontro che è prima diventato
luogo di contesa tra i ‘vacanzieri’ (i vecchi residenti dell’Hotel House, italiani di ceto medio), e
i nuovi immigrati (che in pochi anni hanno occupato quasi interamente il condominio); mentre,
in un secondo momento è diventato luogo di contesa tra le nuove famiglie di immigrati (sempre
più numerose grazie ai ricongiungimenti familiari) e i giovani spacciatori (una popolazione
tanto minoritaria quanto visibile ed esposta negli spazi pubblici del condominio).
Per quanto riguarda, invece, il quartiere Arcella di Padova la situazione è ancora più complessa.
Sono tanti i sensi del luogo che coabitano; tra questi i quattro più significativi appaiono i
seguenti: l’Arcella come spazio di circolazione da attraversare per raggiungere altre parti della
città; l’Arcella con una forte appartenenza identitaria di quartiere radicata nel tempo, soprattutto
nella prima parte del quartiere, quella immediatamente dietro la stazione; l’Arcella come una
delle aree della città dove poter procurare/vendere droga e sesso, uno dei backstage in cui la
città legale può dare spazio ai propri commerci ‘illegali’ (Dal Lago e Quadrelli, 2003); l’Arcella
come area di significativa proliferazione di piccoli e medio-piccoli esercizi commerciali di
prossimità, sempre più spesso gestiti da immigrati, che si distribuiscono lungo tutto il quartiere,
in special modo nella sua arteria principale (Via Aspetti).
Questi quattro principali sensi del luogo si intrecciano e si scontrano (anche negli stessi
soggetti), in particolare, in alcune parti del quartiere come le prime vie del retro stazione o,
appunto, Via Aspetti, la principale strada che taglia in due l’Arcella; si creano così degli spazi
conflittuali, da un lato campo, dall’altro posta in palio, di quotidiane battaglie per l’affermazione
di un senso del luogo.
Ma, parallelamente, la coabitazione in questi spazi della differenza porta anche alla creazione di
spazi ponte, quelli che Amin (2002) chiama i micro-pubblici’ del contatto sociale e dell’incontro
quotidiano. Nei due casi di studio sopra menzionati, questa dinamica riguarda soprattutto alcuni
‘terzi luoghi’ (Oldenburg, 1989) come bar e spazi associativi, dove persone con differenti
background sono portate a stare insieme e a farlo imparando nuovi modi di essere e di
relazionarsi. Luoghi di vita quotidiana che diventano non solo luoghi di scambio ma anche,
come sottolinea Sandercock (2004), luoghi di destabilizzazione e trasformazione culturale.
2. L’interazione fra le dinamiche endogene e quelle esogene di costruzione dello spazio. L’analisi
del tipo di relazione che si crea fra interno ed esterno permette di sottolineare come tutti gli
spazi siano estroversi (Massey, 1991), sempre posizionati in relazione ad altri spazi e, perciò,
siano costruiti proprio anche dal tipo di relazione che essi creano con l’esterno (e che l’esterno
crea con essi).
Infatti, da un lato, ogni luogo crea dei meccanismi di separazione e di distinzione rispetto agli
altri luoghi; dall’altro esso viene quotidianamente costruito dall’esterno attraverso meccanismi
di separazione e distinzione rispetto altri luoghi.
Nei due casi empirici studiati, è emerso con evidenza che sia l’Hotel House di Porto Recanati
che il quartiere Arcella di Padova sono costruiti come ‘discariche sociali’, sia da un punto di
vista simbolico, come contenitori delle paure e delle insicurezze, che materiale, come zone di
scambio tra la città legale e quella illegale, per soddisfare (e, allo stesso tempo, occultare) la
grande domanda di sostanze stupefacenti e di sesso a pagamento. Nel caso dell’Hotel House, in
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particolare, anche grazie al suo isolamento urbanistico, il grande condominio è quotidianamente
costruito dall’esterno come un luogo da evitare, da stigmatizzare, da abbandonare.
Nel caso del quartiere Arcella, va in più sottolineato, come la natura di backstage della città
legale sia stata rafforzata dal recente sgombero delle ‘famose’ palazzine di Via Anelli, che
hanno per anni rappresentato, tra le altre cose, la principale area di scambio di sostanze
stupefacenti. Questa dinamica, che in letteratura è chiamata spill over, mette una di volta di più
in chiara evidenza come uno spazio sia costruito quotidianamente anche da come interagisce
con gli spazi ad esso esterni.
Tutto ciò appare oggi ancora più rilevante in quanto grazie alle tecnologie della comunicazione
(es. antenne paraboliche, telefoni cellulari) e dei trasporti (es. voli low cost) gli spazi sono
sempre più connessi tra di loro indipendentemente dalla prossimità spaziale. In contesti con alte
percentuali di migranti questo è ancora più significativo, dato che sono abitati da popolazioni
che, per loro ‘natura’, sono costitutivamente transnazionali. Si tratta, inoltre, di popolazioni
spesso anche fortemente translocali, abituate cioè a spostarsi tra più località alla ricerca di
merci, servizi, informazioni, reti sociali. Così, per esempio, l’Hotel House è anche il luogo dove
si trova la principale ‘moschea’ della zona capace, nelle ricorrenze religiose principali, di
richiamare consistenti flussi di persone; così come il quartiere dell’Arcella è anche il principale
luogo del commercio ‘etnico’ della città, ed è, in quanto tale, capace di attirare quotidianamente
soggetti di tutte le principali nazionalità presenti a Padova.
3. L’interazione fra i processi micro e i processi macro di produzione dello spazio. L’enfasi in
questo caso va sull’importanza della distribuzione del potere, perché la forma di uno spazio
sociale è determinata dalla forza degli attori sociali che danno forma a quelle pratiche e a quelle
rappresentazioni spaziali. Come è stato più sopra anticipato, sia l’Hotel House che il quartiere
Arcella sono spazi quotidianamente prodotti per rafforzare confini sociali; in particolare sono
spesso rappresentati attraverso la retorica del ghetto come spazi del degrado, dai mass-media e
dagli imprenditori politici della paura per trarre posizioni più vantaggiose nei rispettivi mercati
(editoriale ed elettorale) e dagli attori del mercato immobiliare per creare un mercato duale e
poter così trarre forti profitti economici.
Parlare di spazi di potere non significa però ridurre il potere a qualcosa di esterno, monolitico e
coerente, capace di produrre in modo deterministico uno spazio. In primis perché i processi
strutturali vengono manipolati, masticati e restituiti quotidianamente attraverso i micro processi
di costruzione dello spazio. Non a caso uno spazio di esclusione come l’Hotel House è con il
tempo diventato anche un luogo in cui gli immigrati possono farsi spazio; cioè un luogo ricco di
capitale sociale e di ‘capitale spaziale’ (Cancellieri, 2010) Inoltre i processi di stigmatizzazione
che lo hanno riguardato hanno nel tempo anche innescato una forte reazione identitaria che ha
portato alla costituzione di una sorta di ‘comitato multietnico’ di residenti del condominio di
tutte le nazionalità (italiani compresi), uniti proprio dalla percezione di stigmatizzazione e di
abbandono, che ha rivendicato in certe situazioni, proprio l’affermarsi di una nuova e interetnica identità ‘Hotel House’, di un nuovo senso del luogo.
Inoltre non si può ridurre il potere a qualcosa di separato dagli attori sociali micro perchè, come
ha sottolineato Mouffe (2007), il potere è costitutivo delle relazioni sociali della vita quotidiana;
perciò, quest’ultima non va romanticizzata limitandosi a proporre la facile distinzione tra
strategie spaziali disciplinanti e tattiche spaziali creative e di resistenza (De Certeau, 2001).
L’implicazione dei ‘deboli’ nel potere è, invece, significativa e indispensabile, e perciò il potere
non può essere rimosso, perché ne ha bisogno, dalla vita quotidiana. Vita quotidiana che rivela
così il suo potenziale allo stesso tempo trasformativo e repressivo. Nei due casi empirici
analizzati, per esempio, sono particolarmente significative le dinamiche micro che portano a
riprodurre forti differenze di genere e una sostanziale esclusione di una parte di donne dagli
spazi sociali, come per esempio molti spazi pubblici che, soprattutto, all’Hotel House, sono
luoghi fortemente connotati dal punto di vista di genere. Ma anche le dinamiche di
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marginalizzazione che riguardano gli anziani (specie nel quartiere Arcella, che ha i tassi di
anzianità più alti della città) e i bambini.
Dunque il potere non è un qualcosa di contaminante che va demonizzato ed eliminato, ma è un
aspetto vivo e contestuale delle relazioni sociali che, da un punto di vista analitico, va
individuato e, da un punto di vista politico, va incanalato attraverso processi di empowerment.
Nei due contesti studiati non si tratta, perciò, tanto di favorire una distribuzione più equa di
potere tra maggioranza e minoranze etniche ma anche e, in certi casi soprattutto, quello di
affermare l’empowerment di alcuni soggetti deboli, come appunto le donne, gli anziani e i
bambini.
4. Da ultimo, last but not least, l’interazione tra gli spazi materiali e gli spazi sociali, intendendo
con questi ultimi sia le pratiche spaziali che le rappresentazioni spaziali.
Si tratta dell’interazione che sta alla base dell’intera dialettica socio-spaziale ma che, in questo
caso, viene intesa soprattutto allo scopo di porre enfasi sulla materialità della vita quotidiana e
su quanto, come ci ha insegnato la geografia umana (Tuan, 1977; Relph 1976), i quotidiani
processi di costruzione e addomesticamento dello spazio materiale siano dei processi
emozionali e sensuali.
Infatti gli attori sociali, sempre immersi nello spazio, inscrivono nei propri soggetti-corpi1 delle
mappe di desiderio e disgusto, piacere e dolore, cioè quelle che Pile (1996) ha chiamato mappe
emozionali. Si tratta di mappe che si focalizzano su alcuni aspetti, su alcuni hot spots,
oscurandone altri, lasciandoli indistinti come aree grigie o spazi vuoti e che rassicurano su ciò
che è vicino o lontano, nostro o loro, sicuro o pericoloso, familiare o sconosciuto.
Queste mappe, disegnate dai sensi, cioè dai suoni, dagli odori, dai paesaggi, dai sapori, giocano
un ruolo fondamentale nei processi di costruzione quotidiana della differenza.
Sia perché sono spesso propri i rumori e le lingue sconosciute, gli odori e i sapori sgradevoli, la
visibilità della differenza che muta i propri paesaggi abituali, a costruire spazi del rifiuto e del
disgusto (Hubbard, 2000). Sia perché, al contrario, sono a volte proprio i suoni, i sapori e i corpi
a ispirare spazi dell’incontro e, anche, spazi del desiderio.
Conclusioni
Lo scopo di questo lavoro è stato quello di porre al centro i processi di espressione e di costruzione
della differenza e di usare lo spazio come prisma per l’analisi. In particolare sono state individuate
quattro dialettiche socio-spaziali che, intrecciandosi tra loro, permettono, da un lato, di evitare
rappresentazioni o troppo deterministiche o troppo ingenue degli spazi della differenza; dall’altro di
cogliere e rappresentare la complessità, la processualità e la materialità di questi spazi sociali,
sempre più plurali, estroversi e processuali ma, allo stesso tempo, costantemente implicati in forme
di disciplinamento e controllo e in battaglie per il senso del luogo.
Tale analisi permette di andare oltre il refrain che la differenza non è un’essenza e di porre in
evidenza come gli attori sociali occupino più di un sistema di differenza e in ogni momento possano
essere identificati e/o possano mobilitare in maniera strategica aspetti differenti della matrice delle
differenze in cui sono inseriti; essi sono, cioè, impegnati in una continua costruzione-decostruzione
di confini sociali, sia per scopi cognitivi, cioè per costruire soggettività, senso e riconoscimento, sia
per demarcare privilegi e diritti. E’ quello che Lamont (1992), estendendo il concetto di Gieryin
(1983), ha chiamato il boundary work.
E, in questo processo, decisivi sono perciò più che le differenze, i vettori di differenziazione
(Fincher e Jacobs, 1998) che contribuiscono alla marginalizzazione o all’empowerment dei soggetti
e dei gruppi sociali. Vettori che emergono attraverso spazi socio-materiali e framework sociopolitici che sono contestuali.
1
Come ha fatto notare Turner (1984) noi ‘abbiamo corpi’ (oggettivi) e allo stesso tempo ‘siamo corpi’ (soggettivi).
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