Solidarietà e partecipazione nelle emergenze
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Solidarietà e partecipazione nelle emergenze
Working paper series FVeP 03 ISSN: 2240-3272 Stefano Ventura Solidarietà e partecipazione nelle emergenze Alcuni casi della storia italiana recente 1. Introduzione. Le catastrofi italiane e le scienze sociali La fragilità del territorio italiano, rispetto al rischio sismico e idrogeologico, ha purtroppo creato una consuetudine nell’affrontare i disastri e le emergenze che hanno costellato la nostra storia. La terminologia stessa che sta a indicare eventi di particolare gravità come i terremoti, frane e alluvioni, incidenti tecnologici e simili ha reso purtroppo comuni termini come tragedia, apocalisse, cataclisma e simili; in senso stretto il termine “catastrofe” dovrebbe indicare un capovolgimento pressoché totale della realtà, ma ormai questi termini sono diventati di uso comune soprattutto per i media. Per gli scienziati sociali ogni calamità naturale rappresenta “una interazione del sistema uomo-ambiente particolarmente intensa e non controllabile”1. L’organizzazione sociale di un territorio colpito da un disastro (in particolare i terremoti) è messa alla prova in modo serrato, ponendo le comunità di fronte a una gamma di possibili opzioni, sinteticamente polarizzate tra la riproposizione dell’esistente e la mutazione profonda delle forme e delle caratteristiche dei territori; la bibliografia in ambito storico su questi temi è certamente interessante e varia2. Il tema di questo contributo, quindi, prende spunto da una ricerca ben più ricca e organizzata, avviata e coordinata dal geografo Robert Geipel in Friuli a partire dal 1976, insieme a un gruppo di ricercatori dell’Università di Monaco e all’Istituto di Geografia del’Università di Trieste. Nelle conclusioni della ricerca venivano ipotizzati tre scenari ipotetici, a ciascuno dei quali corrispondevano tre fasi temporali per 1 Robert Geipel, Jurgen Pohl, Rudolf Stagl, Opportunità, problemi e conseguenze della ricostruzione dopo una catastrofe. Uno studio nel lungo periodo sul terremoto in Friuli dal 1976 al 1988, Aviani Editore, Tricesimo (Ud), 1990, pag. 19. 2 Tra i contributi di storici italiani si possono ricordare quelli di Augusto Placanica (Il filosofo e la catastrofe, Einaudi, 1985) e di Piero Bevilacqua (tra questi è da segnalare il saggio su Catastrofi, continuità, rotture nella storia del Mezzogiorno, in “Laboratorio Politico”, 1981, n. 5-6) e di Emanuela Guidoboni, che ha tenuto a battesimo la sismologia storica in Italia. Anche alcuni studiosi anglosassoni hanno dedicato un volume nel 2002 ai disastri italiani, purtroppo ancora non tradotto in italiano (DISASTRO! Disasters in Italy since 1860. Culture, Politics, Society, Palgrave, New York 2002, a cura di John Dickie e John Foot e Frank Snowden). 2 un totale di dieci anni (breve, medio e lungo periodo). Gli scenari erano i seguenti: 1) Non esiste un obiettivo generale definito per la ricostruzione; 2) il ripristino puro e semplice dello status quo ante; 3) sfruttare l’occasione della catastrofe per un mutamento delle strutture spaziali della regione colpita3. Come testimonia anche la domanda che sta alla base della ricerca sul terremoto friulano, viene spontaneo chiedersi qual è il percorso che genera questi scenari e quanto è importante la continua negoziazione tra sfere pubbliche e istituzionali, tra l’alto e il basso, tra decisori e diretti interessati. Cercherò di sviluppare questo tema prendendo a riferimento alcuni terremoti della storia italiana recente, le fasi di emergenza che ne sono scaturite, i soccorsi, il ruolo dei volontari e la fase decisionale che ha contraddistinto la scrittura delle leggi e dei criteri di ricostruzione. 3 Geipel, Pohl, Stagl, Opportunità, problemi e conseguenze della ricostruzione dopo una catastrofe, cit., pag. 150-158. Alla ricerca guidata da Geipel partecipò come borsista anche Mirella Loda (oggi all’Università di Firenze). In un recente convegno tenutosi a Siena (2 dicembre 2010), la Loda esponeva i modelli di Geipel definendo il primo “liberismo inefficiente”, il secondo “efficienza individualistica” e il terzo era il modello della “razionalità sociale”. Purtroppo la relazione della prof.ssa Loda non fa parte del volume che raccoglie gli atti del convegno (Ambiente, rischio sismico e prevenzione nella Storia d’Italia, Lacaita, Manduria, 2011); è possibile ascoltare l’intervento in formato audio sul sito www.orent.it. 3 2. Dalle “pubbliche calamità” alla Protezione Civile Prima di giungere all’approvazione della legge 225 del 1992, che ha definito in maniera compiuta l’esistenza di un moderno sistema di Protezione Civile in Italia, la serie di disastri, eventi naturali, tecnologici e antropici avvenuti in Italia non solo ha prodotto risultati socio-politici diversi ma anche nella gestione della stretta emergenza si è caratterizzata in modo differente. Sin dal periodo successivo all’Unità d’Italia fu chiaro ai vari governi e ai legislatori che si dovesse creare un’apposita serie di competenze, da collocare in un regime extra ordinem che si occupasse della gestione di casi calamitosi o emergenziali (le “pubbliche incolumità”). Tralasciando i vari passaggi legislativi che hanno seguito nel corso dei decenni i vari disastri italiani 4, bisognerà aspettare il 1970 affinché in Parlamento venga presentata la prima legge organica del periodo repubblicano (legge n. 996), in seguito ad alcuni eventi fortemente simbolici e dalle gravi conseguenze (1963, frana del Vajont; 1966, alluvione di Firenze; 1968, terremoto nel Belice). Il Vajont rappresenta il caso in cui il soccorso in emergenza poteva avere un ruolo di secondo piano rispetto alla potenza distruttrice dell’evento; un’onda di fango gigantesca (270 milioni di metri cubi di acqua) travolse i paesi di Longarone, Castellavazzo, Erto e Casso, provocando 1910 morti (cifra che tuttavia non è mai stata accertata). Appena scattò l’allarme, si misero subito in allerta le caserme degli Alpini di Pieve di Cadore e di Belluno e Vicenza, “con l'intervento di mezzi meccanici quali anfibi, apripista, pale meccaniche escavatrici, materiali da ponte, trattori automezzi speciali, gruppi elettrogeni, fotoelettriche, autocarri, autoambulanze, materiali sanitari, autobotti, cucine da campo, tende, viveri, generi di conforto”5. Furono circa 10mila i militari impiegati, ai quali si affiancarono i Vigili del Fuoco, la Croce Rossa Italiana, le opere di assistenza religiosa e gli ospedali della zona. Tra le colonne di soccorso giunte dall’esterno, una colonna organizzata dai sindaci di Modena e Reggio Emilia giunse a Lavarone in tempi molto rapidi6. Nel caso del Vajont la negoziazione tra soccorritori, istituzioni lo4 Su questi temi cfr. Silvia Olivieri, La normativa in materia di protezione civile: novità tra il 1865 e il 1941, in Dalla pubblica incolumità alla protezione civile, a cura di Stefania Magliani e Romano Ugolini, Pisa - Roma, Fabrizio Serra editore, 2007 e Stefano Ventura, I terremoti italiani del secondo dopoguerra e la Protezione Civile, in Storia e futuro, n.22, marzo 2010. 5 Dal sito Vajont.net, del comune di Longarone (link completo: http://www.vajont.net/page.php?sid=20b3c9769ca1e372f5c3f24f4f8ed0d5&pageid=PGNEW001). Per altre informazioni sul disastro del Vajont cfr. Maurizio Reberschak, I. Mattozzi (a cura di), Il Vajont dopo il Vajont, Marsilio, Venezia, 2009; T.u. Merlin, Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe, Iniziativa editoriale, Roma, 2003 (riedizione). 6 Erasmo De Angelis, Italiani con gli stivali. La protezione Civile nella penisola dei grandi rischi, La bi4 cali e sopravvissuti non è di fatto esistita; l’allarme per il pericolo che avrebbe costituito la costruzione della diga, le denunce di giornalisti e cittadini del luogo, i successivi processi ai danni dei progettisti della SADE (la società di costruzioni che volle fermamente la costruzione della diga) e anche le operazioni più recenti di narrazione e tutela della memoria di quell’evento (film, libri, spettacoli teatrali) raccontano di un evento purtroppo lampante nella sua gravità, un disastro annunciato, procurato dall’improvvida e temeraria azione dell’uomo sul territorio. L’alluvione di Firenze del 1966 è invece ricordata per il grande numero di volontari che giunse spontaneamente nella città d’arte per portare aiuto ai fiorentini e cercare di porre in salvo l’immenso patrimonio storico-artistico e librario che le acque esondate dall’Arno mettevano in pericolo. La grande piena che invase Firenze fu la conseguenza di una straordinaria ondata di maltempo, ma colse di sorpresa le autorità cittadine, il sindaco, gli ingegneri del Genio Civile e il prefetto. Del resto, non esisteva all’epoca nessun sistema in grado di lanciare l’allarme per avverse situazioni metereologi, come avviene oggi grazie alla Protezione Civile. Nella notte tra il 3 e il 4 novembre 685 milioni di metri cubi d’acqua invasero Firenze, prima facendo saltare i tombini e poi rompendo gli argini. Verso le prime ore del mattino del 4 novembre saltò del tutto la corrente elettrica; chi poteva si rifugiava ai piani alti e sui tetti dei palazzi; intanto pochi volontari si dirigevano agli Uffizi per mettere al sicuro i capolavori del Rinascimento. I soccorsi, nel frattempo, tardavano ad arrivare, anche perché i Ministeri e le istituzioni nazionali sottovalutarono l’entità del disastro. I fiorentini, quindi, si auto-organizzarono, con i radioamatori che cercavano di stabilire contatti con le immediate vicinanze e le autorità comunali, gli abitanti dei vari quartieri e in particolare i più giovani, le parrocchie e i circoli ricreativi si coordinavano per raccogliere i beni di prima necessità per assistere gli sfollati. Nei giorni successivi la diffusione della notizia a livello nazionale e internazionale ebbe come effetto l’arrivo nel capoluogo toscano di ragazze e ragazzi giovanissimi, attrezzati con i propri mezzi, che suscitavano in un primo momento diffidenza e scetticismo a causa del loro aspetto (erano i cosiddetti “capelloni”). Però questi giovani scoprivano attraverso il rendersi utili la consapevolezza e l’impegno. Quell’esperienza anticipò di qualche mese quello che poi sarà il movimento del Sessantotto. Guido Crainz descrive così lo stupore degli organi di stampa nazionali di fronte a questa novità: “Paese sera negli stessi giorni osservava: il 1966 è stato l’anno dei giovani, dei capelloni, dei provos, delle minigonne. Perfino a Firenze, a mezze gambe nel fango, sono stati in prima linea questi minorenni guastafeste”. Poco prima sullo stesso Corriere della Sera era apparsa la smentita più convincente della “campagna d’ordine” contro i giovani che il quotidiano aliblioteca del cigno, Legambiente, pag. 170. 5 mentava. La firmava Giovanni Grazzini, descrivendo proprio i moltissimi giovani affluiti nella Firenze devastata dall’alluvione: “anche il più cinico, anche il più torbido capisce subito che d’ora innanzi non sarà permesso a nessuno fare dei sarcasmi sui giovani beats”. E concludeva “ questa saggia gioventù che fino a ieri ha attirato la vostra ironia oggi ha dato a Firenze un esempio meraviglioso, spinta dalla gioia di mostrarsi utile, di prestare la propria forza e il proprio entusiasmo per la salvezza di un bene comune”7. Nei primi mesi del 1968, poi, si verificò un altro disastro, di minor impatto nella memoria pubblica anche se provocò circa 360 morti e 57mila senzatetto; si trattava del terremoto del Belice, nella Sicilia Occidentale (14 gennaio 1968). La prima fase dell’emergenza fu contraddistinta dal caos e dalla disorganizzazione dei soccorsi, tanto che per alleggerire le aree colpite dai senzatetto venne favorito l’esodo attraverso la distribuzione di biglietti ferroviari di sola andata per l’estero e aerei per Australia e America del nord e del sud. Nei primi giorni furono circa 40mila i biglietti ferroviari distribuiti agli sfollati; il governo australiano offrì un lavoro e un buono per il viaggio a chi voleva recarsi in quello stato. I soccorsi arrivarono in ritardo e in modo caotico; il primo ad arrivare sui luoghi del disastro fu il presidente del Consiglio Moro, al quale la gente chiedeva medicine, latte e coperte. Il giorno dopo fu il presidente Saragat a recarsi sui luoghi del disastro, ma i soccorsi e i generi di conforto ancora non erano arrivati, causando di conseguenza la contestazione dei terremotati al capo dello Stato. Il 25 gennaio ci fu un’altra scossa e questa volta la solidarietà delle associazioni di volontariato si fece trovare pronta; Caritas, Croce Rossa, Lions Rotary, associazioni cattoliche e organi di stampa avviarono sottoscrizioni e raccolte di denaro per i terremotati8. Nella fase dell’emergenza in Belice si ebbe una forte presa di posizione dei terremotati, che dai primi mesi del doposisma e per molti mesi continuarono a chiedere aiuti, leggi per la ricostruzione e progetti di sviluppo, anche attraverso manifestazioni di dissenso eclatanti che andarono dal presidiare Montecitorio per circa un mese, alla renitenza alla leva, allo sciopero fiscale, al “giudizio popolare” contro uno Stato dichiarato “fuorilegge” 9. Dall’al7 Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Roma, 2003, pag. 196-197. 8 Lorenzo Barbera, I ministri dal cielo. I contadini del Belice raccontano, Feltrinelli, Milano, 1980, pag. 18-27. 9 Per approfondire le vicende dei movimenti popolari dei terremotati in Belice e le vicende del dopo terre moto cfr.: Fiorella Cagnoni, Valle del Belice, terremoto di stato, Contemporanea, Milano, 1976; Lorenzo Barbera, I ministri da cielo, cit.; Michele Rostan, La terribile occasione. Imprenditorialità e sviluppo in una comunità del Belice, Il Mulino, Bologna, 1998; A. Musacchio, A. Mannocchi, L. Mariani, F. Orioli, L. Saba, Stato e società nel Belice. La gestione del terremoto: 1968-1976, Franco Angeli/Isvet, Milano, 6 tro lato si può delineare una sicura impreparazione degli organi governativi nell’affrontare la prima emergenza, ma anche una forte inerzia nel legiferare e nel rendere efficaci i provvedimenti e la suddivisione dei compiti a livello centrale e locale delle istituzioni. Questa miscela di elementi ha a lungo andare dilatato i tempi della ricostruzione nella zona terremotata del Belice, con una ricostruzione durata più di trent’anni con risultati solo parzialmente positivi (ad esempio nello sviluppo di piccole e medie aziende vitivinicole). Il verificarsi di tutti questi casi in rapida successione portò nel 1970, come si è detto, a discutere in parlamento la legge 996 (Norme per il soccorso e l’assistenza alle popolazioni colpite da calamità). La legge istituiva il Comitato interministeriale per la Protezione Civile, presso il Ministero dell’Interno e con il coinvolgimento del Ministero del Tesoro, della Difesa, dei Lavori Pubblici, dei Trasporti. Mancava ancora, però, un regolamento attuativo che potesse garantirne l’efficacia immediata. La prima prova effettiva per testare sul campo quanto si fosse evoluto il sistema istituzionale di soccorso in emergenza fu il terremoto del 6 maggio 1976 in Friuli. Il presidente del Consiglio Moro e il ministro dell’Interno, Cossiga, decisero di affidare urgentemente al sottosegretario alla Protezione Civile, Giuseppe Zamberletti, il ruolo di commissario straordinario per l’emergenza. Anche se la presenza dei militari garantiva un discreto numero di uomini (si calcola che la macchina dei soccorsi raggiunse presto i 60mila uomini tra militari e civili) 10 la confusione era grande; tutte le richieste passavano per il commissariato ospitato nella prefettura di Udine; Zamberletti decise allora di creare dei centri di coordinamento comunali e di zona, affiancando ai sindaci gli ufficiali dell’esercito 11. Dopo la scossa i senzatetto avevano trovato rifugio nei vagoni ferroviari, nelle tendopoli, nelle roulottes. I friulani lanciarono lo slogan “dalle tende alle case”, sperando di poter presto ricostruire o riparare le proprie abitazioni; nel frattempo si erano scelte le case prefabbricate e non le baracche per la fase transitoria. La scossa del 15 settembre, tuttavia, causò nuovi danni e rallentò il ripristino della normalità; il commissario optò allora per l’arretramento dei senzatetto nelle località balneari della costa. La poca distanza permetteva anche a chi voleva riavviare la propria attività, ma anche agli agricoltori e agli operai, il pendolarismo. 1981. 10 Stefano Ventura, I terremoti italiani del secondo dopoguerra e la Protezione Civile, cit. 11 Pizzi Alma, Se la terra trema. Giuseppe Zamberletti a trenta anni dal Friuli racconta la nascita e lo sviluppo della Protezione Civile Italiana, Il sole 24 ore, Milano, 2006, pag. 32-36. 7 Quella del terremoto friulano è stata considerata nell’opinione pubblica una ricostruzione virtuosa, dati anche i tempi rapidi in cui si concluse dal punto di vista urbanistico. In questo caso, quindi, sia nella fase decisionale dell’emergenza, sia poi nella scelta dei criteri di ricostruzione, si mise in essere un rapporto equilibrato e valido tra Stato, Regione, istituzioni locali, volontari e soccorritori e cittadini terremotati. Ad esempio, l’affidamento della responsabilità della ricostruzione ai comuni favorì scelte idonee caso per caso e controllabili dalla popolazione, che indicò chiaramente nel “fare da soli” il principio ispiratore della ricostruzione. L’esistenza di un tessuto produttivo preesistente al terremoto e di una buona propensione all’investimento da parte delle popolazioni locali, che non aspettarono gli aiuti statali ma impiegarono fin da subito i propri risparmi, sono altri due indicatori positivi. 3. Solidarietà e partecipazione nelle emergenze: il caso Campania e Basilicata (1980) Il terremoto in Campania e Basilicata del 1980 è un evento particolarmente ricco di suggestioni utili per comprendere le reali manifestazioni della solidarietà e della partecipazione nelle emergenze, vista l’estensione del territorio colpito, la gravità dell’evento sismico (2914 morti e 80 mila senzatetto) e la quantità numerica di volontari, associazioni e soggetti che parteciparono attivamente alla soluzione dei problemi dell’emergenza. La sera del 23 novembre 1980 l’assenza di un moderno sistema d’intervento in caso di calamità si rese evidente. Le prime notizie che i telegiornali e le radio diffusero parlavano infatti di un terremoto di lieve entità e ponevano l’epicentro a circa 50 chilometri di distanza dall’epicentro reale (nella zona del Vulture). Tra i fattori che causarono il ritardo dei soccorsi e l’isolamento anche per 24 ore di intere comunità terremotate ci furono la difficile dislocazione dei mezzi dell’esercito, che al Sud era sprovvisto di sprovvisto di reparti specializzati per intervenire nei casi di calamità, le asperità morfologiche delle aree colpite e le condizioni atmosferiche difficili. Tra i primi a intervenire ci furono i Vigili del Fuoco, che avevano a disposizione squadre composte da pochi uomini ciascuna e mezzi più agili e più adatti ad accedere alle zone colpite. La reale proporzione delle conseguenze del sisma fu chiara ai generali dell’esercito solo quando la mattina del 24 novembre fu sorvolata in elicottero l’area colpita e si mostrò ai loro occhi uno scenario di interi paesi completamente rasi al suolo. In moltissimi casi, prima dei mezzi di soccorso dello Stato, arrivarono gli emigranti e i volontari. Nei giorni successivi le polemiche sui soccorsi riguardarono in particolare il ministro dell’Interno, Rognoni, che la sera del 23 novembre non aveva convocato d’urgenza le strutture del ministero, e i prefetti; il 26 novembre in tv il presiden8 te della Repubblica, Pertini, faceva una dura requisitoria sul colpevole ritardo dei soccorsi chiamando le istituzioni a un’assunzione di responsabilità. La situazione migliorò con la nomina e l’effettivo arrivo sul campo del commissario straordinario, Zamberletti, reduce dalla positiva esperienza del Friuli. In particolare fu efficace la definizione di un piano di smistamento e organizzazione dei volontari; a Regioni, province e città capoluogo, era assegnata, attraverso i gemellaggi, un’area definita in cui concentrare gli interventi. L’idea aveva le radici nell’intervento che circa settanta diocesi avevano operato in Friuli, su suggerimento della Caritas, decidendo di “adottare” ognuno uno dei centri terremotati friulani12. La fase temporale dell’emergenza dopo il terremoto in Campania e Basilicata si può collocare cronologicamente tra il 23 novembre 1980 e l’approvazione della legge per la ricostruzione e lo sviluppo delle zone terremotate (14 maggio 1981); il periodo della prima emergenza fu caratterizzato dai primissimi soccorsi ai sopravvissuti, dalla ricerca e composizione dei cadaveri (operazione che richiese molti mesi di lavoro ai vigili del fuoco, ai militari e ai volontari), dalla installazione delle tendopoli e delle roulottes, delle cucine da campo e di tutte le prime forme di assistenza ai senzatetto rimasti nei paesi colpiti (molti seguirono i parenti emigrati nel resto d’Italia e all’estero). La seconda emergenza fu contraddistinta, invece, dalle decisioni sulle tipologie abitative da scegliere per ospitare le famiglie terremotate nel medio - lungo periodo; gran parte dei comuni scelse prefabbricati in legno, mentre nelle zone metropolitane furono scelti prefabbricati in cemento. Alcune strutture furono installate e donate direttamente dalle città, province e regioni gemellate a partire da poche settimane dopo il sisma, altre furono acquistate dal commissariato e poi suddivise secondo le necessità dei singoli comuni. Nel periodo che anticipò l’approvazione della legge, inoltre, si svolse un vivace dibattito che coinvolse diversi protagonisti, a partire dal governo e dai vari ministri e parlamentari che avevano voce in capitolo rispetto ai temi della legge, passando per il commissario straordinario e le istituzioni regionali e locali, fino ad arrivare ai comitati creati dai terremotati, con il supporto dei volontari. Il commissario Zamberletti, sulla scia dell’esperienza acquisita in Friuli, dispose già dal 26 novembre di “arretrare” molti senzatetto sulla costa, in particolare negli alberghi del litorale campano e lucano; quest’operazione avrebbe dovuto mobilitare tra le 170 mila e le 250 mila persone. Sin dalle prime ore di validità del piano, erano state firmate dal commissario cinquemila ordinanze di requisizione di alberghi, pensioni e villaggi turistici sulla costa campana ed erano state messe in funzione 20 stazioni radio per raccogliere le richieste dei terremotati intenzionati a trasferirsi.13 Nel complesso, però, il piano di arretramento di Zam12 Antonio Lovati, Azioni volontarie di Protezione Civile. Dalla frana del Vajont all’alluvione in Piemonte 1963-1994, Fondazione Emanuela Zancan, Padova, 1995, pag. 137. 13 A. Baglivo, 23 novembre 1980, cit., pag. 65-67; Commissariato straordinario per la Campania e la Basi9 berletti coinvolse 20.900 senzatetto e la grandissima parte degli sfollati proveniva dalle province costiere della Campania (Napoli, Salerno e Caserta), mentre dalle province di Avellino e Potenza erano stati ospitati sulla costa circa 500 terremotati.14 Il motivo del fallimento di questo piano risiedeva in gran parte nella distanza che separava i paesi dell’entroterra campano e lucano dal mare e le enormi difficoltà logistiche e di trasporto. Il commissario - preso atto della volontà dei cittadini e ascoltati i sindaci - decise di far partire i piani di fabbricazione provvisoria, delegando agli stessi sindaci la scelta delle strutture più adatte. Inoltre, si stabilì un dialogo continuo tra le strutture del commissariato e i sindaci dei paesi più colpiti, con incontri frequenti, visite e sopralluoghi del commissario e dei suoi collaboratori. Questo caso rappresentò il primo esempio della concreta partecipazione dei terremotati, dei volontari e di alcuni tra i rappresentanti delle istituzioni locali al meccanismo decisionale che doveva risolvere i problemi dell’emergenza post sismica. S’iniziava, quindi, a enucleare una forma di coordinamento e intesa sul campo tra il commissario e le forze presenti, con un ruolo attivo e da protagonisti anche per le associazioni e i singoli volontari. Quando il problema della prima sistemazione dei senzatetto si poté considerare concluso, un’altra trattativa riguardò le aree dove collocare gli insediamenti provvisori dei prefabbricati, che avrebbero inevitabilmente condizionato anche la ricostruzione urbanistica dei centri terremotati. Era infatti necessario conoscere le reali possibilità di ricostruire i paesi dov’erano, sia per scelta politica e dei cittadini, sia per le caratteristiche geologiche dei suoli. In questa fase furono in prevalenza i sindaci, le giunte e i consigli comunali a prendere le decisioni. Nei giorni successivi al sisma, nel pieno dell’emergenza, i terremotati si trovarono di fronte ad una grande quantità di questioni pratiche da risolvere e la presenza dei volontari e dei militari si era dimostrata fondamentale; tuttavia le strutture amministrative esistenti, che in alcuni casi erano state interessate da decessi di sindaci o di amministratori comunali, di parroci e di carabinieri, non potevano rispondere in modo completo e soddisfacente alla situazione. Ad esempio, per la sistemazione dei senzatetto bisognava organizzare le assegnazioni delle tende e delle roulottes, così come la distribuzione dei viveri e dei generi di conforto principalmente necessari. Fu in questo contesto, quindi, che i terremotati e i volontari crearono dei comitati che vennero definiti “di base”, di controllo o di iniziativa popolare, con l’obiettivo di intervenire sulle decisioni dei sindaci e del commissario straordinario. In principio furono i problemi di ordine pratico e i modi di operare delle licata, Relazione sull’attività nelle zone terremotate, presentata alla Camera dei Deputati il 31 marzo 1981, pag. 44; Stefano Ventura, Non sembrava novembre quella sera. Il terremoto del 1980 tra storia e memoria, Mephite, Atripalda, 2010. 14 Commissariato straordinario per la Campania e la Basilicata, Relazione sulle attività, cit., pag. 44. 10 amministrazioni a stimolare l’aggregazione dei terremotati in forme organizzate di pressione; i volontari si riunivano di sera nelle tende o nelle roulottes loro destinate e poi nelle mense, per fare il punto della situazione. Pian piano, anche i terremotati si abituarono a discutere frequentemente i problemi per poi intraprendere trattative e avanzare richieste alle amministrazioni. Inoltre, secondo alcuni volontari, era importante che fossero in primo luogo i terremotati a essere attivi su questo fronte. Fu senza dubbio questo il breve periodo in cui i comitati popolari, agendo in sinergia con i sindacati e alcune delle amministrazioni comunali e organizzando iniziative assembleari e di discussione molto partecipate, riuscirono ad attirare sui problemi dei paesi più colpiti l’attenzione che stava lentamente scemando. Tuttavia qualche settimana dopo questi momenti di protagonismo dei comitati fu approvata la legge 219 che cambiava le responsabilità dei singoli attori e incentrava sui comuni una buona parte delle scelte riguardanti la ricostruzione e la ripresa delle attività produttive; la fine dell’emergenza e l’avvio della ricostruzione tolse ai movimenti dei terremotati sembrò convincere le popolazioni che le cose stessero evolvendo in modo positivo e anche il movimento popolare sembrò concentrarsi su altri tipi di progetti, come ad esempio quello che voleva creare lavoro e occupazione attraverso la cooperazione giovanile e femminile in settori come l’artigianato, la manifattura, la cultura. Nel percorso che portò alla legge 219, il dibattito parlamentare sulle prerogative e i ruoli che le singole istituzioni dovessero assumere nel campo della Protezione Civile non si esaurì, arricchendosi anche di un ulteriore motivo di discussione offerto dall’attualità; il 10 giugno 1981, infatti, il caso di Alfredino Rampi tenne col fiato sospeso gli italiani, che seguirono in diretta l’evento per 18 ore attraverso la televisione. Il senso di impotenza e approssimazione nell’intervento ribadì la necessità di intervenire con urgenza per dotare le istituzioni italiane degli strumenti necessari ad intervenire in emergenza, contribuendo alla decisione del presidente del Consiglio, Spadolini, di promuovere il commissario Zamberletti a ministro senza portafoglio per il coordinamento delle attività della Protezione Civile; si trattava, comunque, di una novità importante nel panorama istituzionale italiano. Uno dei problemi che aveva caratterizzato la gestione dell’emergenza era rappresentato dalla struttura che il commissario Zamberletti si trovava a presiedere, che era di dimensioni mastodontiche e disseminata in un territorio molto vasto e su due regioni, cosa che non sempre favoriva l’efficacia e l’operatività delle decisioni. Oltre allo stimolo dato all’adeguamento legislativo nel settore della Protezione Civile, il terremoto del 1980 segnò una netta discontinuità anche nell’organizzazione e nell’inquadramento del volontariato tra le forze protagoniste degli interventi in emergenza, con un ruolo nuovo basato col coordinamento e la sussidia11 rietà alle istituzioni. Anche dal punto di vista della ricerca si ebbero importanti novità; il Progetto Finalizzato Geodinamica del C.N.R. (Centro Nazionale delle Ricerche), nato nel 1976, ebbe modo dopo il terremoto in Campania e Basilicata, di fornire un contributo immediatamente utile ai comuni disastrati avviando studi di microzonazione sismica come fase preliminare alle progettazioni e alla costruzione delle nuove abitazioni o alla ristrutturazione di quelle danneggiate. 12 Stefano Ventura è Dottore di ricerca in Storia Contemporanea all'Università di Siena. Fa parte dell'Osservatorio sui rischi e gli eventi naturali e tecnologici (www.orent.it) ed è Coordinatore scientifico dell'Osservatorio Permanente sul Doposisma Fondazione MIdA (Auletta - Pertosa, Salerno). www.osservatoriosuldoposisma.com