continua.... - Società Canottieri Firenze

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La mia Africa
Nairobi. Pericolosa, violenta, ma cosmopolita e vibrante di
vitalità. Mi sono affrettato fuori città per visitare la casa-museo di
Karen Blixen, conosciuta in tutto il mondo soprattutto per il suo libro
La mia Africa. Da ragazzo, apprezzai i suoi racconti fiabeschi e in
seguito quasi tutta la sua produzione letteraria. All'epoca la casa,
imponente ma dalle linee armoniose, confinava con una enorme
piantagione di caffè di cui Karen era proprietaria. All'interno fanno
bella mostra di sé alcuni stupendi ritratti, dipinti da Karen, di
servitori di colore. Li aveva anche descritti nei suoi libri.
L'arredamento, per lo più mobili di mogano resistente ai tarli, rivela
un gusto raffinato. Alcuni oggetti, come gli stivali di Karen, furono
usati nel film La mia Africa con Meryl Streep e Robert Redford.
'Collezionare oggetti è bene, ma muoversi in giro è meglio',
affermava Anatole France. A conti fatti, Karen si era dedicata ad
entrambe le attività con molto successo.
Maria, giovane guida keniota della casa-museo, mi ha indicato
una collina in lontananza sull'altopiano di Ngong.
“Denys Finch-Hatton, compagno di vita di Karen, perse la vita
proprio là.”
“L'aereo che stava pilotando precipitò al suolo, se ben ricordo.”
Il volto di Maria è divenuto un piccolo ovale di tristezza.
“Sì, è andata così. Karen volle seppellire il corpo di Denys
proprio sulla collina.” Tornata sorridente ha aggiunto, quasi per
enfatizzare gli sbalzi d'umore della scrittrice, “Karen metteva davanti
alla porta d'ingresso una lanterna color blu, se era allegra. Oppure
color rosso, se si sentiva depressa.”
All'esterno della casa campeggiavano due grandi cipressi e un
massiccio albero secolare su cui era cresciuto un delicato fiore di
cactus.
Maria ha assunto un'aria sognante.
“L'albero pare simboleggiare la Karen indurita da un matrimonio
infelice e dalla difficile gestione della piantagione di caffè. Il fiore
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invece lei giovane, appena sposata, radiosa e piena di fiducia per il
futuro.”
“Sarebbero le due Karen delle fotografie, appese su una parete del
salotto?”
Ha annuito. “Sì, proprio quelle.”
Ho partecipato, emozionatissimo, a un safari nel parco nazionale
Masai Mara insieme a una coppia di giovani ghanesi in viaggio di
nozze. Partivamo al sorgere del sole in jeep da un accampamento
piuttosto confortevole, ma non privo di pericoli. Un anno prima un
turista, mentre camminava al buio un po' fuori dalla tenda, era stato
ucciso da un elefante. Alcuni giovani della tribù masai, la più
importante tra le settanta del Kenya, facevano la guardia.
Nondimeno, una mattina abbiamo trovato orme di leone vicino alle
nostre tende. Una notte sono stato svegliato dai loro ruggiti e dalle
risate, agghiaccianti, delle iene. I Masai ci hanno proibito di portare
dentro le nostre tende, sebbene sempre sigillate con la chiusura
lampo, della frutta. Avrebbe potuto attrarre pericolosamente, anche
da distanza, un elefante affamato. Oppure, fastidiosamente, qualche
scimmia. Mi sono imposto, a tutti i costi, di non uscire di notte dalla
tenda.
Nella savana punteggiata di acacie ho avvistato leoni, avvoltoi,
sciacalli, zebre, giraffe, elefanti, ippopotami, aquile, bufali e varie
specie di antilopi. I momenti più eccitanti li ho vissuti osservando la
manovra di attacco, non riuscito, di tre leonesse a un branco di
antilopi. Nonché il buffo comportamento di una coppia di ghepardi,
alquanto mattacchioni, a qualche metro di distanza dalla nostra jeep.
Al confine tra il Kenya e la Tanzania, abbiamo raggiunto il fiume
Mara. Viene attraversato ogni estate, per la gioia dei coccodrilli, da
circa un milione di animali in fuga dalla siccità. Al di là del confine,
in Tanzania, avevano acceso dei grandi fuochi. Accorgendosi del
nostro stupore Ngugi, l'autista di solito flemmatico, ha scosso la testa
energicamente.
“Con le fiamme e il fumo vogliono impedire agli animali di
sconfinare in Kenya” ha detto, in preda alla collera. “La bramosia di
fare soldi porta ad eccessi del genere.”
“Intorno ai safari, girano somme ingenti?” ho chiesto.
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“Sì, è una delle attività più lucrose dell'Africa orientale.
Accendere quei fuochi, però, è da pazzi!”
Lanciate quelle parole, dure come sassi, Ngugi si è concentrato
sulla guida della jeep e sul collegamento radio con i ranger e con altri
autisti per conoscere gli spostamenti degli animali. Ho colto uno
sguardo di apprezzamento, per la sua professionalità, negli occhi dei
miei compagni di safari. Fisico massiccio, sguardo penetrante, viso
dominato da un largo naso, sorriso ampio e contagioso, portato alla
riflessione, Ngugi spargeva intorno a sé fiducia e sicurezza.
“Il turismo è una manna per coloro che lavorano nei safari” ha
aggiunto, ormai rasserenato. “Ma anche per gli animali selvatici.”
Sono rimasto sorpreso. “Sarebbe a dire?”
“La popolazione locale ottiene più vantaggi economici a lasciarli
liberi di scorrazzare nella savana che a ucciderli.”
I Masai vivono a stretto contatto con gli animali selvatici,
praticamente senza recinzioni. Il cordone ombelicale con la natura
per loro sembra non sia mai stato reciso. Rispettano così tanto gli
animali da dargli in pasto i propri morti. Solo i capitribù vengono
sepolti. Cercano ostinatamente di conservare le loro tradizioni, ma
sono sempre più osteggiati dalle autorità del paese. Stanno smettendo
di deformarsi le orecchie con grossi fori. Per farsi riconoscere si
praticano delle ferite particolari. Rinunciano, sempre più spesso, alla
poligamia e ai rituali che celebrano l'inizio della virilità. Niente per
loro sembra più prezioso di una vacca col suo vitellino di latte. La
passione per il bestiame ha il sapore dell'età della pietra. Le donne
cantano più ninne nanne ai vitellini che ai loro stessi bimbi.
Ho visitato un tipico villaggio masai. Le capanne di fango erano
molto basse per resistere meglio alla pioggia e al vento. C'erano
recinzioni per gli animali. Ogni capanna conteneva una parte centrale
con il focolare per cucinare, una parte laterale con i letti e un piccoli
recinto.
“Nel recinto mettiamo un vitellino” ha detto il capotribù. Fisico
giovanile, nonostante l'età, aveva un nobile portamento. La
mancanza degli incisivi anteriori mi rendeva difficile comprendere le
sue parole, sebbene pronunciate in buon inglese. “In questo modo lo
mettiamo al riparo da un possibile assalto dei leoni.”
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“Più mogli complicano la vita di voi uomini?” ho chiesto, dopo
aver saputo che ne aveva ben sette di tutte le età, comprese un paio
di snelle ragazze dagli occhi di gazzella e il viso come la luna.
“Oh, no” ha risposto. “Le facciamo abitare in case differenti.”
“Qual è il segreto della vostra longevità?”
“L'alimentazione a base di latte e sangue.”
“Come vi procurate il sangue?”
“Incidendo con un coltello il collo dei bovini.”
Al termine della nostra conversazione mi ha allungato il bastone,
chiedendomi in cambio l'orologio. Di questo avevo bisogno, di
quell'altro no. Ho quindi deciso di rifiutare la sua offerta, forse
generosa dal suo punto di vista. Ho assistito alle danze tradizionali
masai, quasi solo grida e salti in alto. Agitavano le lance, avvolti in
drappi multicolori. I loro braccialetti, collane e oggetti simbolici
tintinnavano in un'allegra cacofonia. Nel villaggio le donne
lavoravano duramente, gli uomini si limitavano a garantire la
sicurezza delle famiglie, in particolare contro gli animali selvatici. I
giovani avevano il compito di far pascolare gli animali, anche molto
lontano dalle loro capanne. I Masai stavano differenziando sempre di
più le loro attività. Al punto di dedicarsi alle acconciature con
treccine, mettendo da parte l'indomabile spirito guerriero.
Mi trovavo in Kenya durante il periodo delle elezioni politiche e
amministrative. I turisti si erano tenuti lontani, spaventati dai
sanguinosi scontri nei precedenti appuntamenti elettorali. La polizia
e l'esercito controllavano gli autobus, in frequenti posti di blocco
stradali. Numerosi hotel e negozi erano chiusi per timore di assalti.
Mi sentivo, a volte, una specie di corrispondente di guerra.
“Comportati come se nel paese fosse in vigore il coprifuoco” mi
ha consigliato Brian, un inglese residente da anni in Africa. Fisico
massiccio, pelle del viso cotta dal sole nonostante il cappello di tela a
larghe tese perennemente calcato sulla testa, aveva i capelli biondi
argentati sulle tempie. La fronte alta, imponente e pensosa mi
ricordava Beethoven. Di rado si separava da una bottiglia di birra,
rigorosamente di marca Tusker. Era il senso dell'umorismo di Brian
la chiave per arrivare alla struttura della sua personalità, la chiave
d'accesso. “Dopo il tramonto, cioè, rimani chiuso in albergo. Inoltre,
controlla dov'è una caserma per eventualmente farti proteggere dalla
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polizia o dall'esercito.” Quasi a sdrammatizzare, ha aggiunto,“Il
problema della sicurezza, in ogni caso, non potrà mai essere peggiore
di un matrimonio con una donna africana.”
“Ah sì? E perché?”
Ha allargato le braccia, sconsolato.
“Avevo venduto la mia casa a Manchester, convinto di trascorrere
tutta la vita in Africa senza preoccupazioni finanziarie. Ma, due
divorzi da donne africane dopo, mi ritrovo costretto a tornare in
patria per lavorare. Ho imparato a mie spese che, sposata a un
bianco, l'africana diviene insaziabile... ma non d'amore! Di
consumismo, invece. Pretende, oltretutto, che il marito aiuti di
continuo tutto il suo clan familiare.”
“A questo punto, ti basta la compagnia di una Tusker?”
“Sicuro. E da lei non intendo affatto divorziare!”
Ho ridacchiato. “Birra e vagabondaggi, dunque.”
“Mah, vado in giro per vedere nuove cose e anche per
lasciarmene alle spalle tante altre. Senza una meta. Mi piace andare e
basta.”
Ho annuito. “Anche per me è così, pur allontanandomi da casa
solo per qualche mese. Spesso provo orgoglio e gratitudine di fronte
alle scoperte interessanti, piacevoli. Mi sento quasi un conquistatore,
un privilegiato. La parte più difficile per me è la decisione di partire,
vincendo le titubanze e una tenace inquietudine.”
“Ti capisco. Ciò che dà valore al viaggio è proprio il timore di
privarci delle abitudini dietro alle quali ci nascondiamo. Mentre mi
sposto tra le varie città, cerco di tenere a bada il desiderio di
collegarmi con il mondo esterno. E tu?”
“Anch'io. Uso poco la posta elettronica e praticamente mai il
telefonino.”
Brian era curioso, ascoltava, raccontava un aneddoto, accoglieva i
miei. Eravamo a nostro agio nell'andirivieni della conversazione. Gli
incontri con viaggiatori come lui, colpiti dalla febbre di andare, mi
confermavano ogni volta la bontà dell'antico proverbio arabo: Chi
vive vede, ma chi viaggia vede molto di più.
Dal parco Masai Mara ho viaggiato attraverso la Rift Valley,
considerata ideale per allenarsi alla maratona. Viene soprannominata
Culla dell'umanità per il ritrovamento, sui suoi altopiani, di scheletri
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umani antichissimi. La posizione geografica e l'altitudine, sui
millecinquecento metri, contribuiscono a creare paesaggi unici al
mondo. Nulla di lussureggiante, bensì territori distillati lungo i vari
livelli dell'altitudine. Colori asciutti, arsi, simili alla terracotta. Il
respiro dei panorami appare immenso. Tutto ispira un senso di
grandezza, libertà, nobiltà estrema. Si ha la sensazione, sconcertante,
di galleggiare nell'aria. Viva come una fiamma scintilla, ondeggia,
specchia e raddoppia tutti gli oggetti, creando fantastici miraggi.
Dalla riva del lago Nakaru, ho goduto la vista di migliaia e
migliaia di fenicotteri. Tinteggiavano di rosa la superficie d'acqua.
Muovendomi in canoa sul vicino lago Naivasha, uno dei pochi nel
paese di acqua non alcalina, ho assistito al volo in picchiata verso lo
specchio d'acqua delle aquile pescatrici. A Nyahururu mi ha
affascinato un laghetto, da anni occupato da un branco di
ippopotami. Erano liberi di aggirarsi nei dintorni della città. Di
giorno restavano immersi nell'acqua, la sera ne uscivano per
pascolare. C'erano chiazze d'erba schiacciata nei punti dove erano
pesantemente approdati.
“Quando splende il sole non escono dall'acqua” mi ha detto un
insegnante della locale scuola, in visita al laghetto insieme a una
classe di studenti liceali. “Anche se di solito non lo fanno, la
prudenza è d'obbligo.”
Ho annuito. “Me n'ero accorto. Quando si mettono in movimento,
creano pericoli alla popolazione?”
“Attaccano raramente un essere umano, a meno che si trovi sul
loro cammino verso l'acqua.”
“Ci sono altre situazioni pericolose, con gli ippopotami?”
“Certo” ha risposto. “Se hanno i piccoli, oppure se i maschi
stanno lottando per la conquista delle femmine.”
Nonostante la stagione delle piogge, mi sono impegnato nel
trekking sulle pendici del monte Kenya. Svetta nel cielo, a oltre
cinquemila metri. Nel 1943, Felice Benuzzi evase insieme ad altri
italiani da un campo di concentramento inglese a Nanyuki. Erano
troppo affascinati dalla vista del monte, svettante verso il cielo fuori
dalla recinzione, per rinunciare a scalarlo. Arrivarono sulla vetta,
nonostante l'equipaggiamento improvvisato. Ritornarono, accolti
quasi con ammirazione dagli ufficiali inglesi, nel campo di
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concentramento. In seguito, insieme a centinaia di prigionieri italiani,
furono obbligati a lavorare alla strada da Nairobi verso la Rift
Valley. La stessa che avevo percorso in jeep per visitare il parco
Masai Mara.
Sono arrivato a Kisumu, sulla riva del lago Victoria, il più esteso
del continente. Non profondo, bagna il Kenya, l'Uganda e la
Tanzania. La città fu visitata, nel 2006, dall'allora senatore Obama in
viaggio alla riscoperta delle proprie radici insieme alla moglie.
Entrambi si sottoposero al test dell'AIDS per invitare la popolazione
della città, il numero dei malati sfiorava il venti per cento, a fare
altrettanto. Sulla riva del lago Victoria le zanzare sono, più che
altrove nell'Africa orientale, numerose e pericolose come veicolo di
contagio di serie malattie. Mi sono protetto, durante la notte, con una
rete stesa sopra il letto. Ho evitato di muovermi di sera. Oppure mi
sono coperto braccia e gambe e mi sono spruzzato, sulle parti del
corpo non protette, l'apposito liquido repellente. Se avessi avvertito i
sintomi classici della malaria, avrei fatto uso della medicina locale,
comprata a Nairobi. La tenevo, con la massima cura, sempre a
portata di mano.
Sulla costa oceanica ho visitato Mombasa e Lamu, attraversando
velocemente Malindi, una specie di colonia italiana. Mombasa è una
città genuinamente africana, ma non solo. Templi indù, decorazioni
strappate al Marocco, mercati di spezie indiane in fuga dal Kerala e
un'antica fortezza portoghese, Fort Jesus, in passato al centro delle
guerre tra portoghesi e arabi. La parte vecchia della città, tutto un
dedalo di vicoli, è accattivante. Le porte e i balconi delle case antiche
sono di legno intarsiato.
Elementi architettonici simili, ma più raffinati, si trovano a Lamu,
città medievale ricca di storia. La gente si aggira nelle stradine,
baciata dal vento salmastro. Non ci sono automobili. Il tempo viene
scandito dal passo, lento e rassegnato, dei somari in movimento tra le
case di pietra e corallo. Finita l'epoca, disumana ma lucrosa, del
commercio degli schiavi, Lamu fu riscoperta dai viaggiatori più
intraprendenti solo una cinquantina d'anni fa.
Churchill definì l'Uganda 'Perla d'Africa'. Una delle sue attrazioni
naturali è la cascata Murchison, sul Nilo. Nei suoi pressi fu
ambientato il film La regina d'Africa, un classico di qualche decina
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di anni fa. Penetrando nel paese dal Kenya, mi sono fermato a Jinja,
sul lago Victoria, vicino all'Equatore. La città è interessante per gli
edifici di architettura indù, ma soprattutto per la sorgente del Nilo. Il
fiume, carico di storia, inizia il suo interminabile percorso fino al
mar Mediterraneo. Mi ha dispensato forti emozioni, ridiscendendolo
in canotto.
Ho attraversato in autobus paesaggi fertili, gonfi di verde, di tipo
alpino, punteggiati di mucche satolle per giungere a Kampala.
Capitale del paese, è costruita come Roma su numerosi colli. Nelle
sue vicinanze, a Entebbe, ho adocchiato alcuni scimpanzé nella
foresta dove avevano girato i film di Tarzan. All'improvviso, tra gli
arbusti sono esplose urla terrificanti. Ho udito il fracasso di qualcosa
che si schiantava in mezzo al fogliame. Era una lotta tra scimpanzé.
Uno di loro mi ha fatto tornare in mente Cita, la scimmia di Tarzan.
Con un ramo ha 'pescato' un frutto, galleggiante su un corso d'acqua.
In una radura tre giraffe si muovevano nella loro elegante andatura.
Da ferme parevano fiori esotici dal lungo stelo. Alcuni rinoceronti
bianchi, lenti e massicci, annusavano l'aria. Di tanto in tanto,
sbuffavano. Anche in quella foresta era in atto la dura lotta degli
alberi per arrivare alla luce del sole e per la sopravvivenza. Alcuni di
loro ne uccidevano altri vicini, strangolandoli a poco a poco.
Viaggiando in autobus, ho adocchiato qualche edificio diroccato
sul bordo delle strade. Non erano vittime dell'usura del tempo, ma
della pazzia distruttiva del dittatore Idi Amin in guerra contro la
Tanzania. Malgrado i non molto lontani anni di terrore la gente
appariva rilassata, sorridente. Ho attraversato tutto il paese verso
ovest, fino al confine col Congo. Nella zona ho scorrazzato sulle
pendici dei monti Rwenzori, la più importante catena montagnosa
africana. Ho costeggiato laghi vulcanici e attraversato piantagioni di
tè. Volute dai colonizzatori inglesi, avevano messo in moto il
disboscamento. A Kabale, città sui duemila metri di altitudine, ho
girato intorno al lago Bunyonyi, il più scenografico del paese.
Viaggiando verso sud, sempre in autobus, sono arrivato al confine
con il Ruanda in una regione soprannominata Svizzera africana. I
prati di un verde intenso e le mucche, intente a pascolare sui fianchi
delle montagne, giustificavano il soprannome. Non i vulcani, i
contadini armati di machete, panga, e le coltivazioni a terrazze. Nel
parco nazionale Mgahingay avrei voluto incontrare i gorilla di
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montagna, ormai molto rari. La scienziata americana Dian Fossey,
interpretata sullo schermo cinematografico da Sigourney Weaver, mi
fece penetrare nel loro mondo. Divenuta famosa, grazie al National
Geographic, Dian si impegnò con successo a rimuovere dai gorilla
l'immagine inquietante di King Kong per sostituirla con una
amichevole, rassicurante. Assassinata, probabilmente per mano dei
cacciatori di frodo, fu seppellita accanto al suo gorilla preferito,
ucciso in precedenza misteriosamente.
Le pessime condizioni climatiche e la concreta possibilità che i
gorilla fossero sconfinati in Ruanda mi hanno fatto desistere dal
proposito di incontrarli. Ho invece praticato il trekking su tre vulcani
perfettamente conici, al confine dello stesso parco nazionale.
Soffrivo per i violenti temporali. Il vento faceva ondeggiare le piante
di banana come piume. Ho girato intorno al lago Mutanda,
potenzialmente pericoloso per i numerosi serpenti sulle sue sponde e
i coccodrilli e gli ippopotami nelle sue acque.
Attraversato il confine con la Tanzania, mi sono fermato a
Bukoba, sul lago Victoria. Ho apprezzato i filetti di tilapia, pesce
persico del Nilo. Introdotto come fonte di cibo per le sue grandi
dimensioni, stava producendo danni irreparabili alla fauna ittica
autoctona. Ho proseguito per Mwanza, seconda città del paese.
Sembra un enorme villaggio, cresciuto senza alcun piano regolatore.
Da un'altura alla periferia della città, Punta Capri, ho gettato lo
sguardo sul vicino lago Victoria.
Sono arrivato in autobus a Arusha, base di partenza per il
Kilimangiaro, il parco nazionale Serengeti e il vulcano Ngorongoro.
Pur essendo la città più visitata della Tanzania, mi è parsa altrettanto
degradata e mal costruita delle altre città del paese. Vi ho trascorso
giornate piacevoli, in fuga dal caldo torrido, grazie all'altitudine sui
milleduecento metri. Nei dintorni della città, ho camminato sulle
pendici del monte Meru. Sono arrivato in cima al vulcano
Ngorongoro, soprannominato Arca di Noè. Il cratere, uno dei più
grandi del mondo, racchiude foreste, paludi e un lago. I leoni, gli
elefanti, i bufali, le zebre, le gazzelle ed altri animali riescono a
scendere nel cratere e poi a risalirlo, nonostante le pareti piuttosto
ripide.
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Appena arrivato a Moshi, ho cercato il posto migliore da cui
ammirare la cima piatta e innevata del Kilimangiaro. Al mercato
cittadino, un turista straniero è stato derubato. Si è subito scatenata la
caccia al ladro. Raggiunto, è stato quasi massacrato di botte perché
aveva offeso l'onore del paese. A La Paz, in Bolivia, mi trovai in una
situazione simile. La gente locale si limitò a guardare, mostrando
comprensione per il ladro. Come se fosse giusto rubare a un turista,
ritenuto a torto o ragione ricco. A una quarantina di chilometri da
Moshi, ho camminato nei dintorni del Kilimangiaro attraverso
piantagioni di caffè e di banane.
L'ammirazione dal finestrino dei paesaggi, punteggiati di zebre e
altri animali selvatici, mi ha aiutato a sopportare i disagi dei lunghi
trasferimenti in autobus. Una sera, un branco di bufali è sbucato fuori
dalla penombra. Si è fermato sul bordo della strada. Gli animali
parevano scolpiti sul posto.
Dar es Salaam è la città più importante della Tanzania, ma non ha
molto da offrire al visitatore. Mi sono comunque aggirato a lungo tra
i quartieri mussulmani e indiani e al mercato del pesce, apprezzando
la disponibilità e la cordialità della gente. Doti più tipiche del
villaggio che della metropoli. La timida frescura e il cielo color
pastello dell'alba, sull'oceano Indiano, si ritiravano rapidamente di
fronte all'avanzata inesorabile del bruciante sole equatoriale. I colori
del mondo diventavano duri, immutabili. Camminavo allora in un
bagno di sudore.
Mi sono fermato sulla costa a Bagamoyo, in cerca di storia e di
spiagge. Stanley e Livingstone avevano iniziato proprio da là le loro
esplorazioni. Il bisogno di frescura mi ha spinto verso l'interno, fino
a Lushoto, tra le montagne Usambara. Camminando in mezzo a
boschi di pini, eucalipti e alberi tropicali, ho attraversato qualche
villaggio. Gli abitanti mi hanno sempre accolto con molta cordialità.
Da Dar es Salaam ho preso il ferry per Stone Town sull'arcipelago
di Zanzibar, da secoli crocevia di commerci. Nonché di diverse
culture: africana, indiana e araba. Nel dedalo di vicoli, profumati di
spezie - ricchezza del passato, insieme al commercio dell'avorio e
degli schiavi, sostituita sempre più dal turismo -, ho goduto
l'immersione nella storia. I sultani avevano costruito i palazzi e il
Forte Omani, sul lungomare, come vetrina della città. La città antica,
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subito dietro, è pulsante di vita e ricolma di gioielli architettonici.
Inevitabilmente mi sono perso di continuo nei suoi vicoli, cercando
invano di trovare punti di riferimento nelle moschee e negli edifici
meglio riconoscibili. Sull'Isola della Prigione, di fronte a Stone
Town, ho potuto immaginare il dramma degli schiavi in attesa di
conoscere il loro amaro destino. Prima della scoperta dell'America
venivano per lo più sbarcati in numerosi paesi mediterranei, arabi e
orientali. Sull'isola ho praticato lo snorkeling e osservato con
interesse enormi tartarughe di terra.
Sull'arcipelago i protagonisti assoluti sono il mare color turchese
e le spiagge di sabbia bianca, orlate di corallo. Gli abitanti, quasi tutti
di fede islamica, non sono fondamentalisti. Anche il turismo, molto
diffuso, contribuisce a renderli più flessibili e aperti. Al punto che
spesso ricorrono alla frase Hakuna matata, 'non c'è alcun problema'.
Per ragioni storiche a Zanzibar serpeggia una palpabile presa di
distanza dal governo, senza però sfociare in movimenti separatisti.
Entrando nell'arcipelago di Zanzibar viene timbrato il passaporto ai
visitatori stranieri, però, anche se hanno già ottenuto il visto per la
Tanzania.
Sull'arcipelago ho letto scritte, anche molto buffe, nella nostra
lingua. Molti parlano italiano e tengono lo stesso sogno nel cassetto:
trasferirsi in Italia. La deforestazione appare devastante, su quasi
tutto il territorio. I villaggi turistici sono sorti troppo in fretta, senza
rispetto per l'ambiente. Chissà, se il disastro ecologico di Zanzibar
spingerà le autorità africane a impegnarsi molto di più nella
protezione ambientale? Da parte mia, in difesa della natura ho
rinunciato all'osservazione dei delfini perché venivano, con ogni
mezzo, spinti a saltare per far felici i turisti.
Nei paesi visitati, ricchi di materie prime, molto fertili e non
troppo sovrappopolati, ho trovato servizi funzionanti in modo
accettabile, al punto da ritenere la vita locale normale. Talvolta, però,
mi sono imbattuto in zone così degradate da non potere scattare
fotografie per rispetto umano. Zone, come l'enorme baraccopoli di
Kibera a Nairobi, che mi hanno spinto a considerare il consumismo
dei paesi sviluppati futile, assurdo. A Kibera vivono circa un milione
di persone. Tra di loro la percentuale dei sieropositivi e dei bambini
orfani è altissima. Miseri relitti umani giacciono a terra,
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ammucchiati. Cercano, nella vicinanza reciproca, conforto al vuoto
del loro stomaco. Anche nei luoghi non degradati, la gente di solito
non vuole essere fotografata.
“A causa della superstizione?” ho chiesto in proposito a Patrick,
simpatico ragazzo africano. Piuttosto sveglio e intelligente svolgeva
la professione di tassista di motocicletta, boda-boda.
Ha scosso la testa. “No, le persone semplicemente temono di
essere considerate animali dello zoo.”
“E allora, cosa dovrei fare, se volessi fotografare qualcuno?”
“Chiedigli prima di tutto il permesso e offrigli un po' di soldi.”
La popolazione locale non sembra in possesso del senso dello
Stato, per lo più considerato assente e corrotto. Piuttosto si affida alla
famiglia e alla tribù. Non a caso, il modulo da riempire in qualche
albergo richiede la tribù d'appartenenza. Mi sono mosso con i
trasporti locali e ho scelto i ristoranti e gli alberghi frequentati dagli
africani. Ho apprezzato il diffuso uso della lingua inglese, dunque.
Specialmente in Kenya che, rispetto agli altri due paesi, investe di
più nell'educazione scolastica. Nell'Africa orientale viene molto
usata anche la lingua swahili. Nata nell'incontro della cultura
africana con quella araba, si è nei secoli sviluppata con
l'intensificarsi dei matrimoni misti. Le festività swahili, sono
agganciate al calendario islamico. Tutte le varie religioni convivono
fianco a fianco, senza contrasti. Su qualche modulo burocratico viene
richiesta la religione d'appartenenza, a riprova dell'importanza
sociale della fede. Le chiese Gospel, molto affollate, mi hanno
affascinato per i canti tradizionali, davvero suggestivi.
Come in quasi tutti i paesi poveri, il mercato assume una notevole
importanza sociale. Molte persone ci trascorrono giornate intere,
magari per vendere solo un po' di frutta o verdura. Sembrano
soddisfatte comunque di esserci. Non lesinano sorrisi. Accanto al
mercato, in genere c'è la zona di arrivo e partenza dei mezzi di
trasporto pubblici. La gente s'incontra e discute a lungo intorno ai
veicoli, osservando i viaggiatori in partenza e in arrivo. L'ozio non
sembra ozio, alla fin fine, ma normale filosofia di vita. Un 'dolce far
niente', spinto al limite massimo. Il telefonino è straordinariamente
diffuso. Una fetta consistente della popolazione è dedita alla vendita
delle ricariche e all'assistenza tecnica. I bimbi sono dappertutto.
Nelle strade, sulla schiena delle madri che nel contempo bilanciano
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un peso sulla testa, in braccio a un fratellino o una sorellina. Non di
rado scoppiavano a piangere spaventati alla vista di un uomo bianco,
mzungu. Il loro pianto nel vedermi, talvolta mi ha fornito un pretesto
per attaccare bottone con la gente per strada. Talvolta, ho scherzato
con i bambini del luogo. Non scoraggiati dalla barriera linguistica,
apparivano disponibili a comunicare.
Molti giovani africani, magari con una buona istruzione alle
spalle, portavano in giro i clienti su un motorino. Dovevano
affrontare i pericoli del traffico caotico e trascorrere lunghe giornate
sulla strada. Ma con i lavori per lo più precari, pagati pochissimo,
senza vacanze né riposo settimanale, la loro scelta di vita sembrava
quasi invidiabile. In genere le persone erano gentili, disponibili.
Ridevano di gusto per un nonnulla. Incontrandomi, mi salutavano
con parole rispettose. L'ultima era invariabilmente jambo, ciao.
Qualcuno si appiccicava ai turisti, in modo asfissiante, per carpire
qualche vantaggio economico.
La musica della regione è basata sulla marimba, specie di
xilofono, e sul ngoma, tamburo. Parola, questa, che significa anche
danza a sottolineare la stretta connessione tra i due. Anzi, numerose
danze richiedono un tipo speciale di tamburo. La ngoma diurna
rassomiglia a una fiera. Sciami di spettatori seguono attentamente i
movimenti dei ballerini, per lo più salti energici portati avanti per ore
e ore su una radura. L'intera scena somiglia a un campo di battaglia.
Da un lato la cavalleria, dall'altro l'artiglieria e nel mezzo la fanteria.
Anche il frastuono è simile. La ngoma serale, invece, è intrisa di
serietà. Il palcoscenico inizia dai fuochi e finisce laddove giunge la
loro luce.
Mi piaceva il cibo. In particolare il fish kebab, sulla costa
oceanica del Kenya e della Tanzania. Anche nei piccoli villaggi era
accettabile. Riso bollito. Patatine fritte. Carne grigliata di pollo,
manzo e capra. Matoke, verdure cotte insieme alle banane verdi.
Chips mayai, frittata con pezzetti di patata. Mango, avocado e
banane.
“Il cibo da noi è abbondante e costa pochissimo” mi ha detto Ali
Hassan. Vestito alla maniera mussulmana, era seduto al mio tavolo
nel ristorante Happy dinner di Dar es Salaam. La 'H' era scomparsa
da un pezzo, come l'ottimismo al momento della scelta del nome.
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Tuttavia l'ambiente, rilassante, favoriva la conversazione. “Questa è
la nostra ricchezza, insieme alla solidarietà verso i meno fortunati.
Può sempre arrivare a ognuno di noi il momento del bisogno. I nostri
ritmi giornalieri sono dettati dal sole e dalle stagioni. Giungere a
destinazione è la cosa più importante, non quando o come. Nitifika,
arriverò. Safiri salama, viaggia in pace. Umefika, sei arrivato.
Karibu, benvenuto. La parola io non è così importante quanto le
parole nostro e noi. L'enfasi, in ogni aspetto della nostra vita, è sul
necessario. A un funerale non portiamo fiori, ma cibo o soldi. Questo
è il modo migliore di mostrare solidarietà.”
“Potete affidarvi, in caso di necessità, anche alla tribù. Non è
così?”
“Sì, ma in alcune aeree ha perso la sua tradizionale importanza”
ha risposto, mentre disponeva gli avanzi sul piatto come una natura
morta.
“Come mai?”
“Nyerere, fautore della nostra indipendenza, cercò di abolire il
sistema tribale.”
Ho sorriso. “Il solito, eterno conflitto tra antiche tradizioni e
voglia di rinnovamento, eh?”
“Già, proprio così.”
Il viaggio mi ha molto arricchito interiormente, ho pensato
arrivando all'aeroporto di Dar es Salaam. Mi ha fatto comprendere
meglio La mia Africa. Il tema dominante del libro è, chiaramente,
l'attrazione incondizionata di Karen per l'Africa. Il suo non era il
generico 'mal d'Africa', tra fascino esotico e nostalgia. Per lei il
paesaggio africano era uno stato d'animo, non solo uno scenario. Si
sentiva al posto giusto, in armonia con l'ambiente. E io? Almeno
qualche volta, mi sono sentito così? Sì, direi proprio di sì.
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