Questo angelo era necessario? - Università degli Studi di Bergamo

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Questo angelo era necessario? - Università degli Studi di Bergamo
Questo angelo era necessario?
DORE ASHTON
QUESTO ANGELO ERA NECESSARIO?
Nel 1951 Wallace Stevens tenne una conferenza al Museum of Modern Art
di New York sulle relazioni tra poesia e pittura. Poco dopo, il saggio fu
pubblicato in un libro intitolato The Necessary Angel, L’angelo necessario. Il
titolo era tratto da una delle sue poesie, “Angel Surrounded by Paysans” (Angelo
circondato da contadini), ispirata da un dipinto che egli aveva ordinato, senza
averlo visto, al suo agente di Parigi. Il dipinto in sé non era molto noto – una
natura morta dell’artista bretone Pierre Tal-Coat, che solo in seguito avrebbe
trovato il suo stile distintivo – ma costituiva per Stevens una pietra di paragone.
Egli scrisse parecchie lettere al riguardo, in cui dapprima informava il suo
amico parigino di avergli persino dato un suo titolo personale, “Angel
Surrounded by Paysans”, e infine, diverse settimane più tardi, scriveva: “È
un’esibizione di forza immaginativa: il tentativo di ottenere una certa realtà
puramente per mezzo della vitalità propria dell’artista”.
Non è necessario sottolineare le ovvie affinità della reazione di Stevens con
quella del suo pubblico al Museum of Modern Art. Nel 1951 un modernista in
campo pittorico, almeno a New York, era precisamente qualcuno che cercava
di ottenere una certa realtà per mezzo della propria vitalità. Basta pensare a de
Kooning, o a Pollock. Quella era una fedele descrizione delle convinzioni di
molti pittori dell’epoca. Ma forse, ancor più, l’epigrafe del libro di Stevens
ripresa dalla poesia scritta qualche mese prima potrebbe segnalare il carattere
di quel momento della storia della pittura modernista:
I am the necessary angel of earth,
since in my sight, you see earth again.1
Una delle declinazioni americane nella storia del modernismo è certamente
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identificabile nell’inquietudine espressa nel corso dei primi anni, una sorta di
insolita riluttanza ad allontanarsi dalla peculiare ammirazione statunitense per
il fatto di essere – come recita l’antico detto – “down to earth”, con i piedi per
terra. Vi è una costante preoccupazione che percorre tanto la storia della pittura
come quella della poesia, il timore che accettando lo sperimentalismo europeo
qualcosa di vitalmente americano sarebbe stato sacrificato. Anzitutto, la capacità
di tenere i piedi per terra e poi l’atteggiamento di ribellione contro i modi
d’importazione, così spesso considerati come forme di eleganza eccessiva, oppure
come i prodotti di una civiltà stanca e addomesticata. Per i pittori della metà
del secolo, persino il modernismo all’europea ‘sapeva’ di cuisine francese. Agli
improvvisati pionieri dell’espressionismo astratto interessava poco la haute
cuisine, o mettere del vino nuovo e di qualità in vecchie bottiglie. Essi bevevano
espressamente bevande alcoliche aspre. Anche coloro il cui temperamento
tendeva all’astratto o, come essi talvolta dicevano, al sublime, si sentivano
costretti a ricordare il loro vigoroso materialismo statunitense. Rothko, ad
esempio, si stizziva quando si riferivano alla sua arte definendola trascendentale.
“Quando ho scritto l’introduzione del catalogo Clyfford Still”, mi disse una
volta, “ho parlato dei vermi della terra, altro che spiritualità ultraterrena”.
Quando mi sono avvicinata all’argomento del modernismo ‘americano’ sono
stata tentata di abbandonarlo immediatamente. La stessa definizione di
modernismo, sulla quale così tante menti si sono affaticate e da cui, nel mondo
dell’arte (ammesso che tale mondo esista), si sono sprigionati tanti accesi
dibattiti, sembra contenere un così alto numero di proposizioni subordinate
che difficilmente vale la pena di scomodarsi a districarle. Mi sentivo un po’
come Picasso il quale, perseguitato dalla stampa perché spiegasse la fonte del
cubismo e il suo utilizzo dell’arte africana, rispose a un giornalista che
l’importunava: “L’art nègre? Connais pas” (L’arte africana? Non la conosco).
Ma naturalmente, se esiste un fenomeno come il post-modernismo, suppongo
che dobbiamo venire a patti – anche in senso terminologico – con la parola
modernismo.
Penso che Stevens, in quel discorso tenuto al MoMA alla metà del secolo
scorso, abbia tirato le fila piuttosto bene e abbia inaugurato l’ultima delle
congetture moderniste. Perché, in un certo senso, gli ultimi modernisti possono
essere definiti in base alle loro visioni del mondo, come Stevens ha ripetutamente
sostenuto. Inclusi i poeti e i pittori che hanno condiviso i primi due decenni
dopo la seconda guerra mondiale.
“La principale relazione tra la poesia e la pittura al giorno d’oggi”, diceva
Stevens, “tra l’uomo moderno e l’arte moderna, è semplicemente questa: in
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un’epoca nella quale l’incredulità è così profondamente prevalente o, se non
l’incredulità, l’indifferenza per le questioni di fede, la poesia, la pittura e le arti
in genere sono, a modo loro, una compensazione per quello che è stato perduto.
Gli uomini percepiscono che l’immaginazione è il potere più grande dopo la
fede: il principe regnante. Di conseguenza il loro interesse per l’immaginazione
e per le sue opere non deve essere considerato come una fase dell’umanesimo,
ma come una vitale affermazione del sé in un mondo nel quale non resta
nient’altro che il sé, ammesso che esso resti”.2
Stevens era sempre stato molto attento all’importanza delle circostanze –
“l’influenza coercitiva del tempo e del luogo”3 – nel dispiegarsi del modernismo,
e in quel discorso vi alludeva indirettamente; citava gli scritti postumi da poco
pubblicati di una vittima psicologica della seconda guerra mondiale, Simone
Weil: “Ella dice che la de-creazione è il passaggio dal creato al non-creato, ma
che la distruzione è il passaggio dal creato al nulla”. La realtà moderna, afferma
Stevens, è una realtà di de-creazione. In questo percepisco un sottile
americanismo. Quei poeti e pittori che avevano vissuto l’esperienza della seconda
guerra mondiale nella loro patria europea erano stati più vicini a compiere il
passaggio verso il nulla, dato che la loro fede nella cultura occidentale aveva
ricevuto un terribile colpo. Anche per gli statunitensi, suscettibili a un
cambiamento dopo la guerra, vi era un profondo pessimismo, ma esso prese la
forma paradossale di una sorta di fede cieca o disperata. La fede nell’individuo
e la fede nell’arte. Ecco cosa scrivevano i pittori Robert Motherwell e Ad
Reinhardt pressappoco all’epoca del discorso di Stevens: essi suggerivano che
nel compendio di ciò che credevano fermamente essere “l’arte moderna
americana” c’era forse un eccesso di non figurativo. “Nondimeno è questo il
punto a cui la ‘pressione della realtà’’’, nelle parole di Wallace Stevens, “ha
condotto la maggioranza dei nostri artisti più immaginativi e fertili”4.
Pochi anni prima Motherwell e il critico Harold Rosenberg avevano
collaborato alla prefazione di un nuovo periodico, e il contributo di Motherwell
era stato un riferimento agli artisti e agli scrittori “che ‘mettono in pratica’
nella loro opera la loro stessa esperienza”.5 Una tale pratica, diceva, “implica la
convinzione che dalla conversione dell’energia possa derivare qualcosa di valido,
qualunque sia la situazione con cui si è costretti a iniziare”. Il contributo di
Rosenberg includeva probabilmente la frase: “Se uno deve continuare a dipingere
o a scrivere quando la trappola politica sembra chiuderglisi intorno deve forse
nutrire la fede più estrema nella pura possibilità”. La rivista, appropriatamente,
si chiamava Possibilities. A mio avviso, ciò che vi era di ‘americano’ nel tenore
di queste osservazioni era la cocciuta fede nell’individuo e nella sua
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immaginazione, un’estensione dell’idea romantica propugnata da Baudelaire
per cui l’immaginazione era la regina delle facoltà; un’idea di cui Stevens, anche
nei suoi momenti di maggior pessimismo, non ha mai dubitato. Qui la chiave
di tutto è la questione della fede e, come ho detto, gli anni dell’immediato
dopoguerra possono aver conosciuto gli ultimi fedeli, perché non importa quanto
gli americani abbiano screditato i miti europei e attaccato le posizioni consolidate
nel recinto dell’arte moderna, essi ancora avevano fede. Erano forse gli ultimi a
credere nell’Arte con l’A maiuscola.
Torniamo ora al tenere i piedi per terra. Nessuno avrebbe potuto essere più
consapevolmente terreno e statunitense di William Carlos Williams, la cui
sfida nei confronti degli europeizzatori è stata più volte espressa, e il cui assioma
spesso citato – nessuna idea se non nelle cose – aveva un corollario: dovevano
essere cose americane. Naturalmente Williams, come Stevens, teneva d’occhio
l’avanguardia europea ed era in qualche modo europeo per ereditarietà, dato
che la madre parlava spagnolo ed era stata a scuola a Parigi. Ma fin dalle sue
prime poesie avvertiamo la sua ostinata volontà di rifiutare il tipo di
cosmopolitismo che caratterizzava gran parte degli scritti e dei dipinti dei
moderni movimenti europei. Si può sentire questo riflesso caparbio nelle sue
lettere a Ezra Pound, scritte con quell’orribile gergo campagnolo che lo stesso
Pound ostentò per tutta la vita nella sua corrispondenza, nonostante che fosse,
nelle sue opere, forse il più cosmopolita di tutti i poeti. Rispondendo a Pound
nel 1933, Williams adotta la lingua di un remoto abitante della frontiera per
rispondere al suo attacco:
Dear Ezra, Fer the luv of God snap out of it! I’m no more sentimental
about ‘murika’ than Li Po was about China or Shakespeare about
Yingland or any damned Frog about Paris. I know as well as you do
that there’s nothing sacred about any land. But I also know (as you
do also) that there’s no taboo effective against any land, and where I
live is no more a ‘province’ than I make it. To hell with youse. I ain’t
trying to be an international figure.6
Williams, a differenza di Stevens, era amico di molti dei pittori della prima
avanguardia statunitense, e conversava regolarmente con loro nei loro atelier e
alle feste newyorkesi. Anch’essi, come è stato spesso osservato, stavano cercando
consapevolmente di iniettare una nota americana nel modernismo continentale
e anch’essi cercavano di rendere il locus statunitense uno spazio di resistenza o,
come dicevano, di realismo, all’interno della sofisticata atmosfera del
modernismo.
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Quella compulsione a differenziarsi era uno sforzo costante per la prima
avanguardia. Gli artisti erano spinti ad articolarla. Marsden Hartley, uno dei
componenti del circolo di Stieglitz e certamente uno dei pittori più eloquenti
in circolazione, come Williams scoprì presto, aveva viaggiato in Europa ma si
era ben presto dichiarato un artista ‘americano’. In seguito, nel 1937, avrebbe
ripetuto la sua dichiarazione:
Nativeness is built of such primitive things, and whatever is one’s
nativeness, one holds and never loses no matter how far afield the
traveling may be.7
Negli stessi anni, Wallace Stevens avrebbe dichiarato nel ventottesimo verso
del suo poema meditativo, “The Man With The Blue Guitar” (L’uomo con la
chitarra blu):
I am a native in this world
And think in it as a native thinks.
Native, a native in the world
And like a native think of it.8
La nativeness, l’appartenenza alla terra d’origine, era nei loro pensieri, sia che
si trattasse della concezione terrena descritta da Stevens o dell’ambito specifico
a cui alludeva Hartley, il quale stava celebrando il Maine. Inoltre vengono
costantemente affermate le fonti pittoriche che avevano importanza sia per
Williams, il principale sostenitore dell’arte indigena9, che per Stevens, poeta
particolarmente attento al fraseggio.
Com’è noto, “The Man With The Blue Guitar” ha molto a che vedere con
l’interesse che Stevens ha sempre mostrato per l’opera di Picasso e con la sua
insolita capacità di scrutare nell’intimo del pittore spagnolo. Si consideri un
brano che egli in seguito eliminò dal testo di una conferenza del 1943, un
passo che a mio parere lo stesso Picasso avrebbe approvato:
We take a man like Picasso, for instance, and assume that here is
Picasso and there is his work. This is nonsense. Where the one is,
the other is. This son of an intellectual and antiquarian, with his
early imaginative periods, as inevitable in such a case as puberty,
may sit in his studio, half-a-dozen men at once conversing together.
They reach a conclusion and all of them go back into one of them
who sits himself and begins to paint. Is it one of them within him
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that dominates and makes the design, or rather could it be? Can
Picasso choose? Free will does not go so far.10
Stuart Davis era forse il più consapevole nello sforzo per promuovere l’arte
indigena, ed era assai più resistente all’influenza di Picasso. Si può notare in
quasi tutti i pittori della cerchia di Stieglitz – quella da cui Williams attinse i
suoi rapporti con la pittura moderna, mentre Stevens aveva maggiore familiarità
con la cerchia degli Arensberg – una ribellione non dissimile da quella di
Williams. In una lettera a Marianne Moore del 1935, Williams riconosceva:
“C’è ancora una buona dose di ribellione in ciò che scrivo [...]. Nella forma di
una ricercatezza eccessiva si nasconde una sterilità che vuole troppo spesso
passare per purezza [...]. La grossolanità fine a se stessa è imperdonabile, ma il
buon senso rabelaisiano richiede che si mostri come ciò che è bello e straordinario
proviene, come ogni altra cosa, dalla sozzura”.
Moore, da parte sua, parlava della mente: “La mente, poiché procede a tastoni
come se fosse cieca, continua a camminare con gli occhi rivolti al suolo”.11
Per cittadini statunitensi come Williams e i suoi amici pittori, quindi,
l’angelo necessario, l’angelo della terra, era di fatto necessario. Ma le ragioni
sono complesse ed esistevano non solo negli Stati Uniti, in città come New
Haven, Hartford e Paterson, ma in tutto l’emisfero occidentale. Gli artisti
vissuti nel XX secolo nel continente americano erano in una situazione in cui
dovevano distinguersi dalle loro fonti artistiche, che ovviamente si trovavano,
almeno per i modernisti, in Europa. La questione è stata ridotta in modo
abbastanza infelice a un’unica parola, identità, ma è sempre stata molto più
complicata. Vorrei inserire un altro termine nella discussione: ambivalenza. La
maggior parte degli americani di entrambi gli emisferi avevano familiarità
con questa parola e, si potrebbe dire, si sono dati da fare per rimuovere le sue
connotazioni peggiorative. Hanno cercato di rendere l’ambivalenza una virtù
e, a mio modo di vedere, ci sono riusciti. Octavio Paz ha scritto: “L’oscillazione
tra il cosmopolitismo e l’americanismo mostra la nostra duplice tentazione, il
nostro comune miraggio: la terra che ci siamo lasciati alle spalle, l’Europa, e la
terra che cerchiamo, l’America”. Egli pensava che Pound mostrasse il suo
americanismo nella ricerca di una tradizione centrale che, secondo Paz, “è solo
un’altra forma, la più estrema, della tradizione di ricerca e di
esplorazione”.12 Avrebbe potuto dire lo stesso di Williams che, nel suo
importante volume espressamente intitolato In the American Grain (Nelle vene
dell’America7),13 mostrava di essere affascinato dai ricercatori e dagli esploratori
e, lodando Poe, lo definiva un De Soto statunitense.14 Oppure avrebbe potuto
dire lo stesso di Marianne Moore la quale, quando scrisse di “Henry James as a
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Characteristic American” (Henry James quale americano tipico), definì gli
americani come “intrinsecamente e attivamente ampi [...] estesi verso ovest,
verso sud, dovunque, in ogni luogo”, con una mente “incapace di chiudere la
porta in alcuna direzione”.
La verità è che tutti gli artisti e poeti americani di valore hanno sempre
tenuto d’occhio ciò che stava accadendo altrove. Non c’era nulla di vile nella
loro innata ambivalenza. Cercavano sempre di mettere in dubbio la loro stessa
posizione e di porre in questione quell’angelo necessario, quando necessario. La
loro consapevolezza dell’altrove e, più significativamente, dell’Europa risalta
come una serie di bandierine dai colori vivaci collocate su una carta geografica
affinché tutti le vedano. Ma tali appaiono anche gli indicatori di località del
loro suolo natio, talvolta in modo piuttosto vistoso. Questi americani erano
persone colte. I pittori possedevano una conoscenza accurata della pittura
europea, non solo del periodo moderno. Ogni generazione, fino all’ultima,
alludeva di tanto in tanto a questa cultura pittorica mondiale. Philip Guston
scrisse ripetutamente della sua ammirazione per Dürer e Piero della Francesca,
e Mark Rothko parlò di Beato Angelico. Persino Williams prestò il suo talento
alla traduzione di antichi poeti cinesi e, per aiutare la madre era sul letto di
morte, incominciò a tradurre con lei, che parlava spagnolo, uno dei poeti più
difficili del Siglo de oro, Quevedo.
Eppure in tutti, in tutte quelle immaginative menti statunitensi era sempre
presente uno sforzo fastidioso e un senso comune – un sentire condiviso da
tutti – per cui era necessario assumersi l’onere di articolare ciò che vi era di
americano nell’arte americana. Non potevano dare nulla per scontato. Ed erano
sempre un po’ sulla difensiva, per una buona ragione. Quando era possibile
difendevano la loro visione trovando prove a suo sostegno tra i filosofi americani,
o almeno tra quelli che operavano negli Stati Uniti, quei pensatori che erano
stati generati in America nel XX secolo e che venivano riconosciuti anche altrove.
Propongo solo due esempi, ma ce ne sono molti disponibili. Williams, sempre
ruvido con Eliot, scrisse nel 1944:
There has to be a recognition by the intellectual heads (Eliot among
them) of the work-a-day local culture of the United States. In fact,
there can be no general culture unless it is bedded in a locality –
something I have been saying for a generation: that there is no
universal except in the local. I myself took it from Dewey, so it is
not new.15
Qui Williams finge di aver mutuato un’idea da Dewey, un’idea che
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probabilmente egli aveva concepito in forma subliminale molto prima di essersi
mai imbattuto in Dewey.
L’altro mio esempio di artista statunitense insicuro, che si rimette a quelli
che egli ritiene essere i veri pensatori contrapponendoli al suo pensiero intuitivo,
riguarda il pittore Robert Motherwell. Come Williams, egli trova il suo mentore
intellettuale in un pensatore americano, piuttosto che in un parigino, e mette
in evidenza la sua fonte. Questa, deve essere chiaro, è la spiegazione ragionata
di ciò che era già successo nella sua opera. Egli aveva studiato con grande
acume la pittura europea del primo modernismo e aveva precocemente assimilato
i suoi principi. Ora, sentendosi obbligato a spiegare se stesso, si rivolge spesso
al filosofo naturalizzato inglese Alfred North Whitehead il quale, come egli
affermava, gli aveva insegnato “l’idea filosofica di astrazione”16. Astrarre,
sosteneva Motherwell, era astrarre da qualcosa. Asseriva di aver imparato questo
da Whitehead, il quale pensava che l’astrazione avesse una funzione enfatica e
che “tanto più alto è il grado di astrazione, tanto più basso è il grado di
complessità”. Il titolo di una conferenza tenuta da Motherwell verso la fine
della sua vita e nella quale egli ribadiva l’influenza di Whitehead era, in modo
alquanto confacente a un ribelle americano, “On Not Becoming an Academic”
(Sul non diventare un accademico). Tra gli artisti statunitensi la paura per ciò
che è accademico e l’ostilità verso l’accademia era una costante, a partire da
Williams, che disprezzava “l’artificio accademico”, fino all’intero corpo dei
pittori newyorkesi postbellici, che considerava con grande sospetto le analisi
sempre più accademiche delle loro opere.
Essi avevano concepito autonomamente alcune idee. E oltre alle idee, quei
pittori possedevano un senso di scoperta che comunicavano attraverso il colore
proprio come i poeti usavano le parole; una scoperta che istintivamente
percepivano essere differente da quelle dei loro corrispettivi europei. Stevens
può parlare a loro nome quando dice, in “Notes Toward a Supreme Fiction”
(Note verso la finzione suprema):
That’s it: the more than rational distortion,
the fiction that results from feeling. Yes, that.
They will get it straight one day at the Sorbonne
We shall return at twilight from the lecture
Pleased that the irrational is rational.17
Nel confronto con l’Europa, da cui tutti i pittori americani sapevano di
discendere, anch’essi percepivano, con una consapevole ostentazione, che la
Sorbona l’avrebbe capito, come loro avevano già fatto. E ciò che essi avevano
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capito, tra le altre cose, era che la pittura è un atto di incarnazione; lo sapevano
molto prima delle eccellenti conferenze di Merleau-Ponty, il quale aveva derivato
da Paul Valéry la nozione per cui “il pittore porta con sé il suo corpo” e poi
costruisce uno splendido castello su di esso. Valéry, la cui opera era ammirata
da un certo numero di pittori newyorkesi intorno alla metà del secolo (William
Baziotes, ad esempio, aveva scelto il suo testo preferito di Valéry come contributo
per la rivista Possibilities), era anche stato utilizzato da Harold Rosenberg per
esprimere la propria estetica.
Questa nozione di incarnazione circola in termini sempre più arcani nella
contemporanea critica dell’arte, negli anni Cinquanta e Sessanta. Ma è
importante ricordare che i pittori e anche i poeti interessati a quella nozione
intendevano dire semplicemente ciò che dicevano. Il pittore porta davvero il
suo corpo con sé, una cosa che tanto Williams quanto Stevens capivano.
Williams, nel saggio sulla pittura francese raccolto nel libro tratto dai suoi
archivi e intitolato The Embodiment of Knowledge (L’incarnazione della conoscenza),
è molto chiaro:
The tree as a tree does not exist literally, figuratively or any way you
please [...]. What does exist, and in heightened intensity for the
artist is the impression created by the shape and color of an object
before him in his sensual being – his whole body (not his eyes) his
body, his mind, his memory, his place: himself – that is what he sees
– And in America – escape if he cannot it – it is an American tree.18
In una lettera a Kenneth Burke, Williams aveva parlato dei “possessori della
conoscenza incarnata contrapposta a un corpo di conoscenza chiamato scienza o
filosofia”.19 Stevens in “Esthétique du Mal” (Estetica del male) si confronta
con enigmi più complessi e ne viene a capo in modo molto simile a Williams:
the genius of
The mind, which is our being, wrong and wrong,
The genius of the body, which is our world,
Spent in the false engagements of the mind.20
Era facile che i pittori condividessero questi sentimenti. Una delle frasi di
Paul Valéry spesso citate dal pittore Philip Guston recitava:
A bad poem is one that vanishes into meaning21
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Persino quando Guston riproduceva quelli che apparivano come gli oggetti
dei suoi dipinti, egli non permetteva mai che svanissero nel significato, anche
se ora gli iconografi si avvicinano a questi tardi dipinti meditativi con piacere,
spiegando e rispiegando i significati collaterali e spesso senza riuscire a cogliere,
come accade anche per la poesia di Stevens, la resistenza puritana e ostinata ai
“falsi impegni della mente”.
Una delle caratteristiche del modernismo – la sua fede nel potere
dell’improvvisazione – interessa gli americani in modo forse ancor più
memorabile dei loro corrispettivi europei. L’improvvisazione, o forse dovrei
dire lo spirito d’improvvisazione, non è solamente un altro nome con cui definire
un ingrediente del processo estetico nella prospettiva modernista. L’elemento
dell’improvvisazione è sempre stato riconosciuto dagli artisti. Quando un
giovane pittore vide Tiziano all’opera, si sforzò di riferire gli impeti
dell’improvvisazione nel momento in cui l’anziano pittore lavorava sulla sua
superficie con le dita in uno stato di furor. Tutti i pittori e i poeti sanno che una
cosa può misteriosamente richiamarne un’altra completamente imprevista,
come suggerisce l’origine latina della parola. Il valore dell’improvvisazione è
stato riconosciuto nel XVIII secolo quando, ad esempio, presso l’Académie
Française si cominciò ad attribuire valore alla première pensée – il primo pensiero
– o allo schizzo spontaneo, e quando i pittori si stavano già consapevolmente
sforzando di sfuggire ai lacci della teoria, cioè, alle regole del gioco. Nel XIX
secolo la natura dell’improvvisazione veniva tenuta in grande considerazione
anche da Mallarmé a cui si era presentata la parola “ptyx” mentre lavorava a un
sonetto. Egli scrisse a un amico di essere compiaciuto di quella visita e di
sperare che la parola non esistesse in alcun dizionario. Anche gli altri prìncipi
che hanno un posto nel pantheon dei padri della poesia moderna, Rimbaud e
Lautrémont, si sono chiaramente e tenacemente aggrappati ai loro primi
pensieri, come hanno esplicitamente riconosciuto i surrealisti André Breton e
Louis Aragon.
Quando osserviamo l’importanza che l’improvvisazione ha avuto nel
modernismo americano, notiamo come risulti essere stata accettata con un po’
più di convinzione. Molti dei pittori e dei poeti che si sono dichiarati modernisti
hanno visto nell’improvvisazione una verità che era destinata a venire alla luce
e che a nessuna regola della retorica doveva essere concesso di offuscare. Si
doveva sempre consentire che i primi pensieri sopravvivessero nell’interesse
della verità. E poi c’era l’orgoglio statunitense dell’invenzione, l’invenzione
come questione pratica. Gli americani immaginavano di poter improvvisare
soluzioni per problemi pratici meglio di molti altri. Laddove l’inventore francese
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poteva essere trattato con un leggero disprezzo in quanto bricoleur, quello
statunitense era stimato per la sua ingegnosità e il mito del know-how americano
ha certamente influenzato anche i più grandi risultati artistici degli Stati Uniti.
Qui entra in gioco ciò che Stevens aveva definito come “l’influenza coercitiva
del tempo e del luogo”. La generazione dei pittori modernisti che si costituì
durante e dopo la seconda guerra mondiale portò con sé la tradizione di
ambivalenza della prima avanguardia. Da un lato, la grande eredità modernista
ricevuta dalla Francia; dall’altro, il tacito desiderio di distinguersi da essa. Il
modo in cui questi artisti assimilarono le correnti europee può essere
parzialmente illustrato facendo riferimento ai pensieri espressi dal giovane
Motherwell nella prefazione scritta nel 1949 per il testo di Marcel Raymond,
From Baudelaire to Surrealism (Da Baudelaire al Surrealismo).22
Egli incomincia muovendo una critica alla pittura modernista, dicendo che
una delle sue debolezze consiste nel fare proprie o nell’inventare forme “astratte
insufficientemente radicate nel concreto”. Secondo lui la poesia francese è
radicata nel concreto, ma questa preoccupazione per la concretezza deriva
certamente dalla sua affinità con i poeti statunitensi. In alcune affermazioni
successive, Motherwell allude al “linguaggio dell’arte”, alla “poesia delle
relazioni visive” e naturalmente al valore del soggettivismo. Eppure egli desidera
il concreto con la stessa passione che troviamo in Williams, in Marianne Moore
e in Stevens. E come loro, Motherwell stava sempre all’erta dalle insidie. Nei
suoi vari saggi troviamo lo stesso sospetto espresso dai poeti modernisti
americani verso tutto ciò che è irriflessivamente descritto come poetico. Come
Stevens, da cui aveva probabilmente derivato una buona dose di saggezza,
Motherwell, nel discorso tenuto al Museum of Modern Art nel 1951 – lo stesso
anno della conferenza di Stevens – in occasione dell’importante simposio “What
Modern Art Means to Me” (Che significato ha per me l’arte moderna), insiste
che
There is no such thing as the aesthetic, no more than there is any
such thing as ‘art’, that each period and place has its own art and
aesthetic – which are specific applications of a more general set of
human values, with emphases and rejections corresponding to the
basic needs and desires of a particular place and time.23
Qui ritroviamo “l’influenza coercitiva del tempo e del luogo” di Stevens
insieme alla considerazione a essa dovuta. Dobbiamo inchinarci – pur senza
esagerare – al tempo e al luogo propri del modernismo nell’emisfero occidentale.
Con la nostra superiorità tecnica, all’inizio del secolo abbiamo usato il
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modernismo come capro espiatorio per le nostre carenze. I francesi hanno sempre
avuto la loro borghesia da provocare, proprio come noi avevamo la ‘booboisie’
di Mencken, ma le eccentricità del modernismo statunitense erano molto più
note ai filistei di quanto lo fossero le trasgressioni francesi ai loro filistei. Noi
possedevamo una migliore tecnologia per avere successo. Gli esponenti della
prima avanguardia erano in imbarazzo per i Babbitt che Sinclair Lewis aveva
descritto nel 1922, e per i solecismi dei membri dell’American Legion e dei
Lions Club, sostenitori della American way. La generazione successiva era ancora
in imbarazzo per gli stessi fenomeni. Ma c’era già una borghesia che, mentre
diffidava di ogni forma di sperimentalismo, era stata informata del suo specifico,
ciò che non credo accadesse in Europa. Ne posso parlare per esperienza. Mio
padre, figlio di immigranti, divenne medico nei tardi anni Venti. Egli conobbe
persino William Carlos Williams in qualità di dottore. Come la maggior parte
dei professionisti borghesi statunitensi, era diffidente nei confronti dell’arte
modernista, ma l’oggetto della sua presa in giro è abbastanza specifico. Egli
soleva parlare di “Martha Graham e dei suoi sei amici svitati”. Amava mettere
in ridicolo Gertrude Stein, recitando “pigeon on the grass, alas” (piccioni
sull’erba, ahimè) con ilarità. Il fatto è che aveva familiarità con l’idioma
modernista e, mentre si univa ai filistei nei loro sospetti, sapeva che i modernisti
stavano parlando, come diceva Williams, la lingua americana.
E tuttavia i nostri pittori e poeti erano punti sul vivo dall’indifferenza dei
connazionali per i loro sforzi e lamentavano il loro isolamento. Williams,
scrivendo nel 1936 a Marianne Moore, parlava tristemente della loro situazione:
If only – I keep saying year in year out – it were possible for ‘us’ to
have a place, a location, to which we could resort, singly or otherwise,
and to which others could follow us as dogs follow each other –
without formality but surely – where we could be known as poets
and our work seen – and we could see the work of others and buy it
and have it! why can’t such a thing come about? It seems so brainless
and spineless a thing for us to be ‘exiles’ in too literal and accepted
a sense.24
I pittori, molti dei quali si erano conosciuti al tempo della Works Progress
Administration25, si consideravano anche esuli, reietti di una società materialista
e grossolana. Nelle loro frequenti lamentele sull’indifferenza dei connazionali
per la loro esistenza si nascondeva ancora, tuttavia, un tono quasi evangelico,
una visione di se stessi come custodi del fuoco sacro.
Durante gli anni della guerra, diceva Adolph Gottlieb, “alcuni pittori stavano
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dipingendo con un senso di assoluta disperazione. La situazione era così negativa
che mi rendo conto di essermi sentito libero di provare qualunque cosa, non
importava quanto sembrasse assurda... Ciascuno faceva per sé”26. Dopo la guerra,
come è noto, ognuno restava ancora per conto proprio, ma, questa volta, insieme
ad altri. Gli artisti gravitavano intorno a New York per trovare una comunità,
e la trovarono, così come avvenne, al Club, o alla Cedar Tavern. La nascita della
Scuola di New York sembrava un avvenimento spettacolare e in qualche modo
pareva rivendicare il desiderio di un’identità statunitense. Ma l’antica nemesi,
la cultura pratica americana, era in agguato. Quei pittori che si erano sentiti
esuli per così tanto tempo vissero un breve momento di soddisfazione e forse
ebbero l’allettante visione di sentirsi riconosciuti dalla società statunitense,
ma ben presto furono rimpiazzati da artisti con cui gli americani potevano
identificarsi molto meglio: gli esponenti della pop art, quei positivisti senza
tormenti esistenziali. Respinti, i pittori si ritirarono nei loro atelier, di nuovo
soli e talvolta amareggiati, e là rimasero fino al giorno d’oggi, modernisti après
la lettre.
Per temperamento, la seconda ondata di modernisti non era adatta al clima
di celebrazione, persino di trionfalismo che li sorprese, come sorprese chiunque
altro negli anni Cinquanta. L’idea di temperamento funzionava ancora per i
pittori modernisti degli anni Quaranta e Cinquanta, come aveva funzionato
per Cézanne: “Con un poco di temperamento si può essere un grande pittore
[...] è sufficiente avere il senso dell’arte, e questo senso è indubbiamente l’orrore
del borghese” (lettera del 25 luglio 1904 a Émile Bernard). Persino Zola, il
realista, definì l’arte come il mondo visto attraverso un temperamento. La
volatilità del ‘temperamento’ e la sua necessità sono state spesso discusse da
Stevens, e da lui un buon numero di pittori ha ricevuto con gratitudine la
definizione del termine.
Stevens poneva l’accento su ciò che chiamava “il senso del mondo che un
uomo possiede” e specificava che “temperamento è una parola più esplicita di
quanto non sia personalità e senza dubbio sarebbe la parola adatta da usare, dal
momento che dà rilievo al modo di pensare e di sentire”.27 Egli insiste che il
soggetto del poeta “è il suo senso del mondo” e se egli se ne discosta “diviene
artificiale e forzato e sebbene il suo artificio possa essere abile e il suo sforzo
possa essere penetrante, nessuno sa meglio di lui che ciò che sta facendo, in tali
circostanze, non è essenziale per lui”. Il soggetto di una poesia è la cosa più
importante. Stevens aggiunge che ciò che è vero per i poeti “è ugualmente vero
per i pittori, come dimostra l’esistenza di scuole di pittori che fanno tutti più
o meno la stessa cosa nello stesso momento. Il leader della scuola ha un suo
105
DORE ASHTON
soggetto. Ma i suoi seguaci si limitano ad assumere il suo stesso soggetto”.
(Questo è stato ben esemplificato a New York verso la metà degli anni
Cinquanta, quando lo stile di de Kooning ha fatto scuola.) Ciò che mi pare
sorprendente in questo caso è il parallelo con quello che alcuni artisti stavano
proponendo in quel medesimo anno, il 1948, quando cercarono di fondare una
scuola d’arte che si doveva chiamare The Subjects of the Artist (I soggetti
dell’artista). Uno studente avrebbe tratto maggior beneficio, essi annunciavano
nella loro prima circolare, “se avesse saputo che cosa dipingevano gli artisti
moderni e conosciuto il modo in cui dipingevano”.28 Circa cinque anni prima,
Rothko e Gottlieb avevano dichiarato che “non esiste una buona pittura che si
occupi del nulla. Sosteniamo che il soggetto è cruciale”. L’ambientazione di
un soggetto preoccupava questi modernisti, tanto quanto li preoccupava il
soggetto stesso.
Ora, se parlo di un modernismo americano, dovrebbe essere chiaro che è
una questione di sfumature, e di sfumature delicate. L’angelo necessario
interpellava bruscamente questi artisti in un momento e in un luogo particolari.
Ciò che emergeva dall’ambivalenza che praticavano era una forma particolare
di serietà, una serietà statunitense che aveva una lunga storia. Dopotutto, molti
illustri europei ci avevano ammirato per questo. Baudelaire stimava Emerson.
I primi espressionisti tedeschi consideravano Whitman con rispetto proprio
per la serietà che mostrava nell’abbandonare le tracce dell’eleganza europea. In
un saggio sul poeta americano ottocentesco Longfellow, il quale ci diceva “la
vita è vera, la vita è seria”, Rochelle Gurstein osserva:
By the time Wilde wrote The Importance of Being Earnest in 1895,
earnestness had become a mockery and a derision [...]. But for the
Victorians such as Carlyle and Longfellow, to be in earnest meant
recognizing that life was more elevated and serious than moneymaking and sensual gratification.29
I modernisti statunitensi naturalmente disprezzavano Longfellow, ma anche
i più appassionati modernisti in fondo rimanevano seri. A volte nei commenti
sul modernismo americano la serietà è chiamata innocenza e partecipa sia del
significato peggiorativo, sia di quello positivo. La stessa chiamata dell’angelo
necessario implica una serietà. I poeti e i pittori della Scuola di New York
riconoscevano apertamente che i surrealisti francesi avevano rotto l’argine,
insieme a James Joyce, e che loro ne erano i beneficiari. Tuttavia non si sono
mai sentiti a loro agio con la spensieratezza degli europei. Il pittore Arshile
Gorky, una figura seminale nell’avventura dell’espressionismo astratto, fece
106
Questo angelo era necessario?
largo uso delle tecniche dei surrealisti, incluso ciò che essi chiamavano
automatismo psichico, ma concepiva profondi sospetti. Non gli piaceva la
loro spensieratezza. Obiettava contro i loro voli pindarici, i loro giochi da
salotto. Risultò evidente che negli ultimi anni aveva ascoltato la chiamata
dell’angelo necessario, e persino André Breton lo notò quando scrisse una
magnifica introduzione a una delle mostre di Gorky. E James Johnson Sweeney
aveva osservato nel 1943 che Gorky, come sosteneva, aveva “deciso di scrutare
nell’erba”. Questo rivolgersi alla terra per Gorky è espressione della sua
disaffezione per le stesse basi del surrealismo che, nondimeno, restava la sua
patria spirituale. La sua ambivalenza era pari a quella del suo compare, Willem
de Kooning, che nei primi anni disdegnava l’erba a favore della metropoli.
Egli celebrava New York nello stesso modo in cui Williams celebrava Paterson.
E tuttavia, il suo primo critico serio, Tom Hess, discusse i suoi dipinti nei
termini della loro astrazione, nel modo in cui de Kooning evocava un moderno
‘non luogo’. I dipinti di de Kooning verso la metà del secolo erano retti da ciò
che Stevens chiamava il suo senso del mondo, o temperamento, e non
riguardavano una città qualunque, ma proprio New York City.
Il suo amico, il critico di danza e poeta Edwin Denby, scrisse sul modo in
cui de Kooning saccheggiava New York in un sonetto dal sottotitolo “The
Designs on the Sidewalk Bill Pointed Out” (I disegni sul marciapiede che Bill
ha indicato):
The sidewalk cracks, gumspots, the water, the bits of refuse
They reach out and bloom under arclight, neonlight.37
“La realtà,” diceva Stevens, “non è la cosa, ma l’aspetto della cosa”.31 Quella
parola, che sono sicura Stevens abbia scelto con gran cura per la sua derivazione
dal latino ad-spicere, guardare verso, racchiude ciò che de Kooning celebrava
fedelmente: la pioggia sui marciapiedi cittadini, le loro crepe, le luci
intermittenti e l’insistenza quadrilineare della struttura a griglia di Manhattan.
Fino a tal punto de Kooning era tipicamente statunitense. La sua ricerca era
una ricerca di ciò che agli americani piace chiamare “la semplice verità”.
Sembra che questa ricerca accentuata vada di pari passo con una profonda
resistenza alla teoria. “Nessuna idea se non nelle cose”, diceva Williams, in
modo un po’ dogmatico, e Stevens più tardi avrebbe intitolato una poesia
ossessiva su un grido d’uccello: “Not Ideas About The Thing But The Thing
Itself” (Niente idee della cosa ma la cosa in sé). Diffidando del pensiero
istituzionale, la gran parte dei pittori newyorkesi pensava intensamente e allo
stesso tempo rinnegava il pensiero. Motherwell ebbe a dire:
107
DORE ASHTON
I have never had a thought about painting while painting, but only
afterwards. In this sense one can only think in painting while holding
a brush before a canvas, and this symbolization I trust more than the
thinking I do about painting all day long.32
Nella stessa conferenza del 1954 egli evidenziava una delle preoccupazioni
che interessavano i pittori statunitensi del suo ambiente, ed era ancora un altro
aspetto di quella serietà che costituiva il terreno ‘etico’ della pittura.
It is not commonly observed how painters tend to judge each other
– I think primarily ethically, and then aesthetically, the aesthetic
judgment flowing from the ethical background. I do not mean to
say that painters systematically think this way; it simply seems to
be what happens when painters look at other painters’ new work.
Kierkegaard, who was not interested in painting, was very aware of
the active role of the ethical.33
Benché la serietà della preoccupazione espressa dai pittori per l’aspetto etico
– e in quell’epoca Guston e Rothko stavano riflettendo anche sul messaggio
etico di Kierkegaard – sarebbe presto stata accolta con fragorose risate da parte
della generazione successiva, come accade ancora oggi, essa era un ulteriore
aspetto della serietà americana. L’ironia, così familiare agli europei, non era il
loro forte.
Non è difficile stabilire un parallelo tra la diffidenza dei pittori nei confronti
della teoria standardizzata e dell’intellettualizzazione e la presenza di un
puritanesimo residuale nella cultura statunitense. Riconosco un fondamento
di fonti culturali americane nell’accento leggermente démodé e persino antiquato
con cui, nel 1943, Stevens dice in “The Figure of the Youth as Virile Poet” (La
figura del giovane come poeta virile): “e desiderando con tutto il potere del
nostro desiderio di non scrivere falsamente”; o ancora, come in “Esthétique du
Mal”, mesi più tardi,
In the yes of the realist spoken because he must
Say yes, spoken because under no
Lay a passion for yes that had never been broken.34
Il Puritanesimo che Stevens e tutti gli altri cercavano di cancellare non era
certo la minore tra quelle fonti culturali. Stevens, fino all’ultimo, parlò della
nostra ostinata adesione agli inveterati ideali americani. In uno dei suoi ultimi
componimenti, “An Ordinary Evening in New Haven” (Una sera qualunque a
108
Questo angelo era necessario?
New Haven), aveva detto precisamente quello che avrebbe fatto in seguito:
Here my interest is to try to get as close to the ordinary, the
commonplace and the ugly as it is possible for a poet to get. It is not
a question of grim reality but of plain reality. The object is of course
to purge oneself of anything false.35
Il modernismo negli Stati Uniti, pertanto, ebbe sfumature proprie. I migliori
poeti e pittori americani decisero di essere fedeli alla loro esperienza. Sebbene
il modernismo possa essere visto anche negli Stati Uniti come una regione
composta da numerose enclaves, esso possiede caratteristiche etichettabili come
made in America. Ma ciò che è necessario affermare, e che temo la maggior parte
dei critici contemporanei voglia evitare, è che restando fedeli alla loro esperienza,
alcuni peculiari poeti e pittori statunitensi hanno compiuto quello che Yeats
avrebbe potuto chiamare un “great gyre”, una grande spirale e poi, per via
dell’imperativo etico di mantenersi fedeli alla loro esperienza, siano ritornati
alle verità che avevano inizialmente riconosciuto nel clima culturale del primo
modernismo.
Non è stato un caso che nei suoi ultimi anni Philip Guston abbia
riconsiderato T. S. Eliot, il cui stile precoce, nella Waste Land, aveva ossessionato
la sua generazione. Cosa poteva essere più appropriato a descrivere le ultime
opere di Guston se non lo “heap of broken images”,36 il mucchio di frante
immagini dell’iniziale poemetto eliotiano, e gli ancor più vasti mucchi di frante
immagini dei più tardi Four Quartets? Era stato Eliot a realizzare, ben prima,
collage di pensieri disparati, a prendere pezzetti e frammenti della realtà
quotidiana per innalzare la sua meditazione. L’immagine di Mrs. Porter e sua
figlia che si lavano i piedi in acqua di seltz37 si sposa molto bene con le raccolte
di oggetti quotidiani delle ultime opere di Guston e, in aggiunta, possiede
una qualità comica non assente da alcune opere del pittore. In Eliot, Pound e
Marianne Moore troviamo un accatastarsi di dettagli; liste di oggetti e di fatti,
come nel passo della Waste Land:
On the divan are piled (at night her bed)
Stockings, slippers, camisoles and stays.38
E questi, naturalmente, ci riportano ai cataloghi di oggetti, o dettagli
oggettivi, di Whitman ed Emerson.
Verso la fine, Guston ritornò esplicitamente nell’inferno eliotiano quando
dipinse il ritratto di Eliot agonizzante intitolandolo, in segno di tributo a uno
109
DORE ASHTON
dei Quartets, “East Coker”39. E tutte quelle pietre e rocce sparse nelle sue ultime
opere sono come il coro della roccia nei Four Quartets. Anche Wallace Stevens
nella sua vecchiaia continuava a scrivere di rocce, cercando sempre di raggiungere
le fondamenta. Guston non era solo nella sua circolarità. Motherwell, anch’egli
alla fine della sua vita, tornò a Eliot e riconsiderò la poesia “The Hollow Men”
(Gli uomini cavi). Questi due artisti dicevano la verità riguardo al loro senso
del mondo, e quello era un mondo del XX secolo, un mondo da incubo, privo
di ogni conforto. Anche questo è modernismo. I loro paesaggi erano cosparsi
di pietre e rocce, e la loro ricerca era la ricerca delle fondamenta.40
Il modernismo, allora, e in particolare quello statunitense, restava sempre
un luogo accogliente a cui i suoi ultimi figli ritornavano dopo una considerevole
odissea. I suoi interrogativi sono ancora con noi. Essi si manifestano
precocemente con Dostoevskij, il quale immagina che il personaggio più
vigoroso di Vasin chieda al giovane maldestro de L’adolescente: “Allora sei
d’accordo con Puskin quando dice che preferisce ‘l’illusione nobilitante’ alla
‘verità squallida e degradante’?”.
Penso che la fertile ambivalenza che caratterizza così tanti modernisti
americani si sia realizzata perché essi lottavano per aggrapparsi sia all’illusione
nobilitante che alla verità squallida, intessendole per formare disegni che fossero
fedeli alla vita.
(traduzione di Francesca Guidotti)
NOTE
Wallace Stevens, The Necessary Angel, New York 1951 (“Sono l’angelo necessario della
terra, / perché la terra nel mio sguardo rivedete”; trad. di Gino Scatasta per l’edizione italiana
Milano, Coliseum, 1988, a cura di Massimo Bacigalupo).
2
Ivi, pp. 170-71.
3
Ivi, p. 171.
4
In The Collected Writing of Robert Motherwell, Berkeley, 1999, p. 95.
5
Ivi, p. 44.
6
The Selected Letters of William Carlos Williams, New York, 1957, p. 139 (“Caro Ezra, per
amor di Dio liberati da quell’idea! Non sono più sentimentale verso l’America di quanto Li
Po lo fosse verso la Cina o Shakespeare verso l’Inghilterra o qualsiasi dannato frog verso Parigi.
So bene quanto te che non vi è nulla di sacro in nessun territorio. Ma so anche (come lo sai tu)
che non esiste nessun tabù che sia efficace contro alcuna terra, e il luogo dove vivo non è più
‘provinciale’ di quanto sia io a renderlo. Va’ all’inferno. Non sto cercando di essere una figura
internazionale”). Frog, letteralmente ‘rana’, termine dispregiativo utilizzato nel linguaggio
colloquiale per definire i francesi. Qui e altrove, quando non espressamente segnalato, la
versione italiana è della traduttrice (N.d.T.).
1
110
Questo angelo era necessario?
7
Marsden Hartley, On the Subject of Nativeness – A Tribute to Maine, maggio 1937, cit. in
Herschel B. Chipp, Theories of Modern Art, Berkeley, 1968, p. 530 (“L’appartenenza alla nostra
terra d’origine è costituita da aspetti così primitivi e qualunque cosa essa sia, la conserviamo
e non la perdiamo mai, non importa quanto il nostro viaggio ci porti lontano”).
8
Wallace Stevens, Poems, edited by Samuel French Morse, New York, 1959, p. 86 (“Sono
nativo di questo mondo / E penso in esso come pensa un nativo / Nativo, nativo nel mondo /
E come un nativo ci penso dentro”; trad. di Massimo Bacigalupo “L’Uomo Con la Chitarra
Blu”, in W. Stevens, Harmonium: Poesie 1915-1955, Einaudi: Torino, 1994).
9
L’espressione arte indigena, utilizzata per tradurre il termine inglese nativism con
riferimento all’attenzione del modernismo statunitense per i temi e soggetti ‘americani’, è
stata mutuata dall’edizione italiana del volume John I. H. Baur, Lloyd Goodrich, Doroty C.
Miller, James Thrall Soby, Frederick S. Wright, Arte Moderna Americana, Silvana Editoriale
d’Arte: Milano, 1957 (N.d.T.).
10
“Prendiamo un uomo come Picasso, ad esempio, e supponiamo che da una parte ci sia
Picasso e dall’altra ci sia la sua opera. Questo non ha senso. Dove c’è l’uno, c’è l’altra. Può
darsi che questo figlio di un intellettuale e antiquario, con i suoi precoci periodi immaginativi,
com’è inevitabile nel caso della pubertà, sieda nel suo atelier mentre mezza dozzina di uomini
conversano insieme. Essi raggiungono una conclusione e poi tutti ritornano all’interno di uno
di loro, il quale si siede e incomincia a dipingere. Uno di loro al suo interno che predomina e
fa il disegno, o piuttosto potrebbe mai essere così? Picasso può scegliere? Il libero arbitrio
non si spinge fino a quel punto”.
11
William Carlos Williams, The Selected Letters of William Carlos Williams, cit., pp 155-56.
12
Octavio Paz, Children of the Mire, Cambridge, 1974, pp. 124, 137.
13
La traduzione del titolo non è letterale, ma corrisponde all’edizione italiana del volume
pubblicato da Adelphi: Milano, 1985 (N.d.T.)
14
William Carlos Williams, In the American Grain, New York, 1925, p. 220.
15
W. C. Williams a Horace Gregory, 5 maggio 1944, in Id., Selected Letters, cit., p. 224
(“Ci deve essere il riconoscimento, da parte degli intellettuali di spicco (tra cui Eliot),
dell’ordinaria cultura locale degli Stati Uniti. Infatti, non vi può essere alcuna cultura generale
a meno che essa sia ancorata in una dimensione locale, è qualcosa che continuo a sostenere da
una generazione: il fatto che non c’è nessun universale fuorché nel locale. Io a mia volta l’ho
attinto da Dewey, perciò non è un concetto nuovo”).
16
The Collected Writings of Robert Motherwell, cit., p. 280.
17
Wallace Stevens, Collected Poems, New York, 1954, p. 406 (“Sì, è questo: la distorsione
più che razionale, / la finzione che risulta dal sentimento. Sì, questo. / Lo capiranno prima o
poi alla Sorbona / Torneremo dalla lezione al tramonto / compiaciuti di sapere che l’irrazionale
è razionale”; Note Verso la Finzione Suprema, a cura di Nadia Fusini, Arsenale Editrice: Venezia,
1987).
18
William Carlos Williams, The Embodiment of Knowledge, edited by Ron Loewisohn, New
York, 1974, p. 24 (“L’albero non esiste letteralmente, figurativamente, o in qualunque modo
lo si voglia. Ciò che esiste, e per l’artista esiste con la più alta intensità, è l’impressione creata
dalla forma e dal colore di un oggetto davanti a lui nel suo essere sensorio. Il suo corpo intero
(non i suoi occhi), il suo corpo, la sua mente, la sua memoria, il suo posto: lui stesso, cioè
quello che vede. E in America – egli non può evitarlo – l’albero è un albero americano”).
19
W. C. Williams a Kenneth Burke, 26 gennaio 1933, in Id., Selected Letters, cit., p. 137.
111
DORE ASHTON
20
Wallace Stevens, Poems, cit., p.117 (“il genio / della mente, nostro essere, che sbaglia e
sbaglia / il genio del corpo, nostro mondo, / consumato nei falsi scontri della mente”; trad. di
Massimo Bacigalupo, Estetica del Male, in W. Stevens, Harmonium: Poesie 1915-1955, cit.).
21
“Una cattiva poesia è una poesia che svanisce nel significato”.
22
Robert Motherwell, Introduction to Marcel Raymond, From Baudelaire to Surrealism, preface
by Harold Rosenberg, New York, 1950.
23
The Collected Writings of Robert Motherwell, cit., p. 85 (“Non esiste una cosa come il senso
estetico, non più di quanto esista una cosa come ‘l’arte’, dato che ogni periodo e ogni luogo
possiedono la propria arte e il proprio senso estetico, i quali sono applicazioni specifiche di un
insieme più generale di valori umani, con enfasi e rigetti corrispondenti ai bisogni e ai desideri
che stanno alla base di un particolare luogo e tempo”).
24
W. C. Williams a Marianne Moore, 23 dicembre 1936, in Id., Selected Letters, cit., p. 165
(“Se solo – continuo a dire un anno dopo l’altro – fosse possibile per ‘noi’ trovare un posto, un
luogo in cui potessimo recarci, da soli o in gruppo, e nel quale altri ci potessero seguire come
i cani si seguono l’un l’altro – senza formalità ma con sicurezza – dove potessimo essere
conosciuti come poeti e dove il nostro lavoro fosse visto, e noi potessimo vedere il lavoro degli
altri e comprarlo e possederlo! Perché una situazione del genere non può realizzarsi? Ci sembra
proprio una cosa senza criterio e senza nerbo essere ‘esuli’ in un senso troppo letterale e
accettato”).
25
La Works Progress Administration (W.P.A.) venne creata nel 1935 per fornire aiuti
economici ai cittadini degli Stati Uniti, colpiti dalla Grande Depressione. Il presidente
Roosevelt concepì varie iniziative che consentissero di offrire un’occupazione agli artisti
statunitensi e di produrre opere d’arte, il cui valore risultava simbolicamente accresciuto
proprio dalle avverse circostanze. Fondamentale in tal senso è il Federal Art Project (F.A.P.),
una delle divisioni del W.P.A. (N.d.T.).
26
Cit. in Dore Ashton, The New York School: A Cultural Reckoning, New York, 1973, p.
118.
27
Wallace Stevens, The Necessary Angel, cit., p. 120.
28
Cit. in Dore Ashton, The New York School, cit., p. 128.
29
Rochelle Gurstein, “The Importance of Being Earnest”, The New Republic, 12 marzo
2001, p. 42 (‘All’epoca in cui Wilde scrisse L’importanza di essere serio [il titolo contiene un
gioco di parole basato sulla pronuncia di earnest e potrebbe anche tradursi ‘L’importanza di
chiamarsi Ernesto’, N.d.T.], nel 1895, la serietà era divenuta una beffa e un oggetto di
derisione... Ma per i vittoriani come Carlyle e Longfellow, fare sul serio significava riconoscere
che la vita era più elevata e importante del guadagno e della gratificazione dei sensi”).
30
“Le crepe del marciapiede, le macchie di gomma da masticare, l’acqua, i pezzi di rifiuti
/ essi si estendono e sbocciano sotto la luce delle lampade ad arco, la luce al neon”.
31
Wallace Stevens, The Necessary Angel, cit., p. 95.
32
The Collected Writings of Robert Motherwell, cit., p. 98 (“Non ho mai concepito un pensiero
sulla pittura mentre dipingevo, ma solo dopo. In questo senso si può solo pensare alla pittura
mentre si impugna un pennello davanti a una tela, e io confido maggiormente in questa
simbolizzazione piuttosto che nel mio riflettere tutto il giorno sulla pittura”).
33
Ivi, p. 103 (“In genere non viene osservato come i pittori tendano a giudicarsi l’un
l’altro, penso in primo luogo dal punto di vista etico, e poi da quello estetico, dato che il
giudizio estetico deriva da basi etiche. Non intendo dire che i pittori pensino sistematicamente
112
Questo angelo era necessario?
in questo modo; sembra semplicemente che succeda così quando i pittori osservano la nuova
opera di altri pittori. Kierkegaard, che non era interessato alla pittura, era assai consapevole
del ruolo attivo dell’etica”).
34
Wallace Stevens, The Necessary Angel, cit., p. 59 (“Nel sì del realista detto perché egli
deve dire sì, detto perché ogni no era sotteso da una passione del sì non mai venuta meno”;
trad. di Massimo Bacigalupo, Estetica del Male, in W. Stevens, Harmonium: Poesie 1915-1955,
cit.).
35
Ivi, p. 120 (“In questa poesia mi interessa cercare di avvicinarmi a ciò che è ordinario,
banale, abietto tanto quanto è possibile a un poeta. Non si tratta di una verità fosca, ma di
pura verità. Lo scopo è naturalmente quello di purgarsi da ogni falsità”).
36
T. S. Eliot, The Waste Land, 1922, v. 22 (N.d.T.).
37
Ivi, vv. 199-201 (“O the moon shone bright on Mrs. Porter / And on her daughter /
They wash their feet in soda water”; N.d.T.).
38
Ivi (“Sul divano (di notte il suo letto) sono ammucchiate / calze, pantofole, camiciole e
corsetti”; trad. di Alessandro Serpieri, Milano: Rizzoli, 1982, vv. 226-227).
39
East Coker, che dà il titolo al secondo poemetto dei Four Quartets, è il villaggio del
Somersetshire da cui gli antenati del poeta emigrarono negli Stati Uniti (N.d.T.).
40
Letters of Wallace Stevens, edited by Holly Stevens, New York 1966, p. 636.
113