L`Albero dei Cieli

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L`Albero dei Cieli
Jack Roland
La Ballata del Levriero Rosso
L'Albero dei Cieli
Prologo
~ 1266 ~
B
èroul ebbe una visione alla vigilia della battaglia.
Non era la prima volta che capitava, da quando aveva
contemplato l'Albero dei Cieli.
Dopo il rito d'iniziazione alla Gilda, dormire non dava più ristoro.
L'arcivate Gano di Lonnach gli aveva parlato di quella sensazione ma
Bèroul, sul momento, non aveva compreso.
Al risveglio si sentiva sempre spossato, esaurito come un moccolo di
candela; la mente sovraffollata da immagini che prendevano vita nel
momento in cui era preda del sonno.
Quasi sempre bastavano pochi istanti perché tutto svanisse, come
nuvole disperse da un forte vento, tenebre ricacciate dall'aurora nei
recessi più profondi della sua coscienza.
Tuttavia, all'alba di quel giorno di luna nuova, nel mese di giugno
1266, qualcosa era rimasto: quei simboli erano scolpiti dietro ai suoi
occhi, come marchiati a fuoco, e poi... c'era il suono, sulla punta della
lingua, impronunciabile eppure concreto, nitido, definitivo. Era poco
più che un fruscio, un sibilo di vento che nessun alfabeto, norreno,
istevone o moro che fosse, avrebbe potuto imprimere su carta. Il
simbolo del Tredicesimo, Bèroul ne era sicuro.
L'arcivate Gano la chiamava "la Runa Bianca".
«Spero che tu sappia quello che fai, vate...» si lamentò in un rantolo
Yvain FitzRoy, lanciando un piglio nervoso al reliquiario d'argento
che Bèroul stringeva tra le braccia.
Ancora non si era abituato all'idea di portare quel titolo eppure,
nonostante la giovane età, era un vate a tutti gli effetti, membro della
Gilda dei Dodici, solo discepolo dell'Arcivate Gano e unico superstite
del rito d'iniziazione.
«Il re dava ascolto al mio mentore.» spiegò Bèroul senza distogliere
lo sguardo dagli alberi neri.
«Hai visto dov'è il re?» commentò secco Yvain, ripulendosi la bocca
dal vomito con un lembo di mantello «Questo non depone certo a
favore di voi oracoli.»
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Il cadavere orribilmente scuoiato di re Kynaston II penzolava davanti
ai loro occhi alla mercé dei corvi, appeso per i piedi a un ramo di
quercia annerita dal fumo. Nugoli di insetti brulicavano nella sua
bocca spalancata.
Bèroul non replicò.
«Anche i re fanno la fine dei maiali ogni tanto.» mormorò un arciere
«Siamo tutti uguali una buona volta, non li fanno mica i prigionieri
qui...»
Sire Yvain parve non sentirlo. Aggrappato alle briglie del proprio
destriero, cercava di restare dritto sulle staffe e inspirare
profondamente. La sua volontà stava cedendo. Tossì pesantemente,
affumicato dalle esalazioni sprigionate dal terreno grigio.
Le foreste dell'Æwielm avevano cessato di ardere alcuni giorni dopo
la battaglia dei Pantani di Fumo, eppure dalle ceneri si levava una
densa foschia che rendeva faticoso vedere e respirare.
Yvain, con un gesto di stizza, slacciò la fibbia dell'elmo ed espose i
capelli radi alla brezza arroventata dall'incendio, poi si voltò per
osservare il suo esercito, schierato in attesa al limitare della selva
bruciata.
Molti l'avevano seguito in quell'impresa, tanti dei signori un tempo
fedeli a Kynaston Stavelot, quel re che ora li osservava scorticato a
testa in giù, le orbite svuotate e il volto distorto dal dolore di chi
aveva incontrato una fine orribile.
I piccoli occhi verdi di Yvain scivolarono nervosamente sulle schiere
variopinte, radunate alle sue spalle sotto i vessilli più disparati: nobili
istevoni, cacciatori del Connacht, confederazioni di mercanti in armi,
persino Norreni. Ogni spada che era riuscito a raccogliere per fermare
il misterioso invasore calato da nord.
Il cavaliere soffermò lo sguardo sulle rune che ornavano gli scudi del
suo esercito. La tinta rossa luccicava come sangue sotto i pallidi raggi
del sole velato. Invero, la linfa di Gewerian pulsava in quel pigmento
vermiglio.
«Credi davvero che servirà?» le pupille inquiete di Yvain
rimbalzarono tra il reliquiario e il viso di Bèroul.
Il vate conosceva il potere contenuto in quelle spoglie, ma non aveva
la fede sufficiente per abbandonarsi alle proprie visioni.
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Era già stato abbastanza difficile convincere il cavaliere FitzRoy a far
dipingere quell'antica runa su tutti gli scudi: Algiz, l'alce, il simbolo
che gli era apparso in sogno.
«Abbiamo qualcosa da perdere?» controbatté, sincero.
«Tutto... e niente.» sussurrò Yvain in risposta «Sono molti i sacerdoti
e gli indovini che sono venuti a parlare con me, negli ultimi giorni.
Quasi tutti hanno profetizzato la fine dei tempi, l'ultimo atto
dell'eterna lotta tra le forze del bene e quelle del male, la distruzione
del mondo così come lo conosciamo. Ma io non gli ho dato ascolto e
ho riposto la mia fiducia nei tuoi consigli, vate.»
«Lo so...» annuì Bèroul abbassando gli occhi sul reliquiario,
schiacciato dal senso di responsabilità.
«E sai perché?»
«No, ditemelo voi.»
«Hai detto: "non credo nel bene nel male", ricordi? »
«Sì, è così.»
«Beh, nemmeno io.» sentenziò Yvain con il volto rigido «Ho visto
uomini buoni compiere orribili empietà nel nome di ciò in cui
credevano, e uomini considerati malvagi agire nel buio per aiutare gli
altri. Il bene e il male non esistono. Ci siamo noi, e i nostri nemici. Da
che parte sta il giusto?»
«Io non…»
«Esattamente duecento anni fa, re Alkerion I sbarcò su queste coste
con un grande esercito.» Yvain non lasciò al vate il tempo di ribattere
«Allora fu visto come un invasore straniero. Oggi è acclamato alla
stregua di un liberatore; il primo re di Esperon. Cosa rende diverso il
nemico che abbiamo di fronte oggi?»
Bèroul ipotizzò molte obiezioni nella sua mente, forse nessuna vera,
quindi decise di tacere.
«Tu sei venuto da me con una risposta, non una profezia, e sei stato
l'unico a farlo.» proseguì Yvain «Hai detto "tentiamo" mentre altri
rivelavano "così sarà". Gli Dei dell'Ese e i loro sacerdoti prospettano
solo morte... una morte gloriosa, certo, ma pur sempre morte, e io non
sono venuto fin qui per farmi ammazzare.»
Il cavaliere gettò una rapida occhiata alla runa Ansuz, il messaggero.
Oro massiccio incastonato nel reliquiario d'argento di Gewerian.
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«Non conosco il dio che servi, né a chi appartenevano le ossa che
tieni in quello scrigno, ma non conosco nemmeno il nemico che ci ha
invasi, che ha annientato l'esercito di Kynaston fino all'ultimo
scudiero.»
Dalla battaglia dei Pantani di Fumo erano tornati solo cavalli
impazziti e qualche cadavere gonfio, trascinato a valle dalla corrente
del fiume. Il resto dell'armata era semplicemente svanito.
«Da dove sono venuti?» la domanda di Yvain suonava più come una
riflessione ad alta voce «Nessuno ha mai valicato i Monti Impervi, e
nemmeno una nave è scampata alla grande tempesta. Non possono
semplicemente essere apparsi dal nulla, non credi?»
«Non so rispondere a questa domanda, sire. Mi dispiace. Nemmeno
Gano ha saputo rispondere al re, quando gliel'ha chiesto.» Bèroul
esitò «Vengono dal nord.»
«Il nord è un concetto ampio.» fece eco Yvain a denti stretti.
«Oltre i Monti Impervi.» proseguì Bèroul «Come ci sono arrivati... io
non lo so.»
«Però il tuo dio sa come sconfiggerli.»
«Possiamo scoprirlo insieme...» suggerì Bèroul aprendo il reliquiario.
Con dita tremanti, il giovane vate afferrò l'ampolla contenente il
sangue di Gewerian, lo stesso fluido che aveva lasciato gocciolare
nella tinta purpurea usata per dipingere gli scudi.
«Bene, fai quel che credi.» concluse Yvain calzando l'elmo.
Inspirando a pieni polmoni l'aria acre e ammorbata dal fumo, il
cavaliere della casata FitzRoy sguainò Áine, la splendente, un cubito1
e mezzo di buon acciaio del sud.
Bèroul, chino sull'ampolla come se cercasse di proteggerla col proprio
corpo, sbloccò la chiusura di metallo.
La boccetta di vetro spesso, catturata da un cinereo raggio di sole,
emanò un bagliore sanguigno che riverberò un'intricata tela di riflessi
cremisi sulla spada.
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Dal latino cubitum (gomito), unità di misura in uso fino all'epoca medievale. Il
cubito corrispondeva idealmente alla lunghezza dell'avambraccio, a partire dal
gomito fino alla punta del dito medio.
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Una densa goccia di plasma scuro colò nella scanalatura della lama.
Sfiorando il fluido con l'unghia, Bèroul disegnò nel sangue la runa
Eihwaz: il tasso, la difesa. Il simbolo dell'Albero dei Cieli.
Il vate alzò subito lo sguardo per catturare lo scintillio negli occhi di
Yvain, adombrati dal nasale di ferro.
«Tutto qui?» domandò il cavaliere, perplesso.
Il vate si limitò ad annuire. Non c'erano discorsi da fare, invocazioni o
preghiere. Era un rito naturale, d'azione e conseguenza. Non
esistevano formule da pronunciare, soltanto una parola che non
poteva essere scritta.
Bèroul ripensò alla sua visione notturna, al fruscio che echeggiava nel
suo sogno, alla runa bianca che solo la sua mente era in grado di
evocare.
Yvain voltò il capo a destra e a sinistra, lanciando un gesto d'intesa ai
suoi alfieri. La spada battezzata col sangue di Gewerian balenò sopra
gli elmi dell'esercito. I vessilli si sollevarono in alto, artigliati dalla
brezza carica di cenere.
Gli ordini si sparsero di voce in voce e l'armata si mise in moto come
un solo corpo, in un concerto di metallo tintinnante e scricchiolar di
cuoio.
Gli zoccoli dei cavalli e gli stivali dei fanti sciabordavano nel terreno
paludoso, ancora impregnato dalle acque alluvionali.
Dopo il disastro, l'Æwielm era diventato una palude annerita dal
fuoco.
«L'Æwielm è l'inferno.» aveva sussurrato qualcuno.
A mano a mano che gli schieramenti sfilavano sotto la quercia del
martire, soldati e cavalieri alzavano lo sguardo per contemplare lo
strazio dipinto sul volto di re Kynaston II, scarnificato dai corvi.
Il sovrano li fissava dalle orbite vuote con una vaga espressione di
risentimento.
Nessuno aveva avuto il coraggio di tirarlo giù.
La cortina di fumo inghiottì l'esercito in marcia, limitando la visibilità
a qualche iarda. La densa cappa di miasmi roventi pulsava come un
cielo stellato, inondata dal luccichio delle braci che sfrigolavano sotto
le cortecce degli alberi, annerite dal fuoco. L'alito di vento soffocante
era cosparso di cenere e scintille.
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Bèroul spronò la sua mula e si affrettò dietro al destriero bardato di
Yvain FitzRoy, che teneva lo sguardo immobile nel limbo grigio di
fronte a sé; aveva gli occhi spalancati, colmi di terrore, eppure la
calda foschia ottenebrava ogni cosa.
Bèroul si passò una mano tra i capelli corti, asciugandosi la fronte dal
sudore:
«Sire Yvain!» provò a chiamare, ma il frastuono dell'esercito in
marcia oscurò le sue parole.
Il cavaliere sembrava paralizzato, il capo appena scosso dai
movimenti del cavallo che montava.
Una folata di vento freddo fischiò tra i rami spogli degli alberi,
svelando l'argentea visione dei Monti Impervi, lontano, all'orizzonte.
La brezza avviluppò le esalazioni in bianchi vortici e allora Bèroul
vide la foresta in cui lo sguardo di Yvain si era perduto.
Tutti la videro.
Sull'esercito calò il silenzio più agghiacciante e attonito che Bèroul
avesse mai udito. Ogni cosa parve congelata, immobile, come la
macabra selva che si distendeva davanti ai loro occhi.
Là dove un tempo erano verdi ettari di bosco, il fuoco aveva lasciato
un deserto di polvere nera. L'invasore aveva piantato nuovi alberi in
quel terreno sterile: robusti pali dai quali penzolavano frutti funerei.
A perdita d'occhio, il mattatoio sembrava ricoprire ogni cosa fino alla
fine del mondo.
L'esercito di Kynaston.
Un fitto e immenso intrico di lance scarlatte dove gli uomini
giacevano infilzati, mutilati, dissanguati, straziati da stormi di corvi
tronfi e grassi che gracchiavano la loro vergognosa sazietà dalle cime
di quelle fronde di morte.
L'estremo orrore era scolpito per sempre sui volti, spenti da una lenta
e umiliante agonia. A centinaia erano conficcati nei pali e il loro
sangue era colato sul legno, tingendolo di rosso cupo. Erano stati
uomini valorosi. Avevano lottato e invocato per ore il nome di
divinità sorde alle loro suppliche. Avevano rivolto l'estremo pensiero
a madri, mogli e figli che non li avrebbero più rivisti tornare.
Martoriati nel corpo e nell'orgoglio, privati di dignità nel momento
della morte.
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Alcuni avevano agonizzato per giorni, altri forse erano ancora vivi,
ma nessuno poteva più fare niente per loro.
Nemmeno i paggi imberbi erano stati risparmiati.
Fortunati si potevano dire coloro che avevano trovato la fine in
combattimento, le cui teste giacevano accumulate nel fango in grandi
cataste.
Lo scempio provocò lacrime, bestemmie e conati di vomito tra le fila
dell'esercito. Qualcuno si gettò a terra in ginocchio, prostrato,
qualcuno urlò di terrore, altri si coprirono gli occhi come fanciulli
spauriti; ma non Yvain, non questa volta.
Il cavaliere stava dritto in sella, rimirando il sangue di Gewerian
rappreso sulla sua spada. Poi le sue iridi glauche si distesero di nuovo
verso nord.
«L'impalatore...» riuscì appena a sussurrare «Avevi ragione Bèroul.»
«Lui è qui.» replicò il vate, scosso da un brivido.
Dal fumo biancastro emersero pallidi vessilli che parevano fatti della
stessa foschia. Una lunga linea di figure immobili come statue copriva
l'orizzonte, accarezzata dai vapori esalati dalla cenere.
Non c'era vita in quell'attesa, non un respiro, non una voce. Era un
muro, una barriera composta da splendenti figure d'acciaio,
immacolate e intoccabili nelle loro nivee cotte d'arme. Le lame e gli
elmi aguzzi emergevano dal fumo come brandelli di un'illusione
pronta a dissolversi sotto la prima raffica di vento. Ma quell'esercito
non aveva intenzione di svanire. Era reale e terribile.
«Strigoi...» affermò il cavaliere a denti stretti, trattenendo un fremito
«È così che li hai chiamati.»
«Sì, sono loro: l'Ordine Bianco.» Bèroul strinse il reliquiario a sé, in
cerca di un appiglio che lo salvasse dal baratro.
Yvain annuì lentamente, un lampo verde balenò nei suoi occhi. Áine
la splendente scintillò in alto, fendendo i vortici di fumo con la sua
lucentezza, ma furono le parole del cavaliere a essere più taglienti
della sua spada:
«Sei pronto a morire?»
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Gordon
~ 1454 ~
M
olti inverni erano trascorsi da quando lo stendardo blu con
il levriero grigio era stato esposto sulla cima del torrione di
pietra. "Agisci bene e lasciali dire" era il nostro motto, e a
questo ogni membro del clan si atteneva dal giorno in cui il primo
Toghair aveva dato vita a una dinastia di guerrieri.
Si dice che il capostipite della casata, un balivo2 incaricato di
chiamare all'adunata i vessilli per la battaglia, avesse preso tale
appellativo dalla propria funzione militare.
Che sia vero o no, fu mio bisnonno Gordon il primo a indossare gli
speroni da cavaliere, inserendo il clan Toghair nelle maglie dell'ordine
feudale istevone.
Quando il re fanciullo riconquistò i Cinque Picchi, premiò l'attempato
capo clan con titolo e terre, nominandolo protettore del forte di
Adhmaid Tùr: la mia casa, la casa dei miei padri.
Il baluardo era composto da una palizzata di legno circolare che al suo
interno racchiudeva un torrione di pietra, cinto da un piccolo fossato
senz'acqua irto di pali acuminati. Una fortificazione povera ma
efficace, che ospitava un piccolo contingente di duecento uomini
incaricato di pattugliare il Forhtlond. La minaccia che gravava sui
quei confini era la medesima da secoli.
Nell'antico lemma del popolo irmione venivano chiamati Gwyddel
ma, da quando ho orecchi per ascoltare, hanno sempre avuto un solo
nome: predoni.
Gli anziani credevano che non fossero umani, non del tutto.
«Mille anni fa, il Principe Fosco marciò sui Cinque Picchi con una
grande orda.» raccontava nonna Glenys «Ma quando quell'esercito si
dissolse, i guerrieri rifugiarono nelle profondità del Passo dei Morti, e
rapirono le fanciulle più belle per legare il proprio sangue a quello
della terra.»
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Luogotenente del re. Dal latino baiulus: portatore.
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Così iniziava il racconto della principessa Ísönd, bellissima fanciulla
che aveva portato in grembo il primo Gwyddel; la storia preferita da
mia sorella.
Cronache antiche e leggende, nulla di più.
Avevo sei anni quando, per la prima volta, vidi un predone. Era stato
preso prigioniero durante una ricognizione oltre il guado. Fu messo ai
ceppi e malmenato dagli uomini che, a quel tempo, obbedivano a mio
nonno. Sanguinava, come tutti gli uomini, e il suo sangue non era
diverso dal mio.
Per quanto la sua mole fosse imponente e di fibra dura, l'ascia recise
la sua testa con un colpo solo. Sebbene possa sembrare crudele, il
bambino che ero rimase molto deluso da quel primo incontro con un
Gwyddel. Avevo visto un uomo spaventato e in trappola, mentre mi
aspettavo un colosso indomabile e dalle zanne ferine. Crebbi
ritenendo tutte le storie di mia nonna nient'altro che nenie per farmi
dormire, finché non vidi i predoni combattere per la prima volta.
Era il mese di dicembre dell'anno 1454, secondo il calendario di
Æðel-Tungol, la stella dal nome norreno che punta a settentrione.
Un inverno duro, freddo. La neve era caduta abbondante, lupi e altre
bestie feroci si aggiravano nei pressi dei centri abitati. Le bufere di
neve rendevano le strade impraticabili, motivo per cui i pattugliamenti
erano stati sospesi.
Era da qualche mese che i predoni si mantenevano tranquilli oltre la
frontiera, un tempo sufficiente affinché le sentinelle abbassassero la
guardia.
Io ero poco più che un bambino, ultimo di quattro figli, fratello
minore di due ragazze quasi in età da marito e sopravvissuto a un
primogenito maschio, morto infante per malattia quand'ero ancora in
fasce.
I miei genitori mi diedero allora il nome Ahyltan: "colui che
soppianta", l'usurpatore. Una tradizione antica tra le famiglie dei
Cinque Picchi, quando un secondogenito prende il posto dell'erede.
Da parte di mia madre, la famiglia Ederyon vantava molti Ahyltan tra
i suoi discendenti. Ahyltan il tisico, era stato l'ultimo sciagurato
portatore di quel nome poco lusinghiero. Io, al contrario, ero il primo
del clan Toghair ad avere un tale onore. Al compimento della
maggiore età, sarei diventato un Gordon, come tutti i capi clan dai
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tempi del mio bisnonno, ma fino a quel giorno avrei dovuto
sopportare un nome amaro che sapeva di morte, che evocava una
primogenitura rubata.
Era una mattinata pallida, il cielo bianco riverberava il candore della
neve caduta nottetempo.
Un vento sibilante batteva la valle ululando tra le rocce, sollevando
pennacchi di neve che ornavano le vette come glaciali vessilli.
Il monte Fiacail, la cima più alta dei Cinque Picchi, era ammantato di
nubi grigie, segno inequivocabile che una bufera avanzava da ovest.
«Forza, non abbiamo tutto il giorno!» esclamò mastro Déaglàn,
distogliendo lo sguardo dalla montagna innevata «Fra qualche ora
quella tempesta sarà qui, e allora non vedremo più in là del nostro
naso.»
«Dici sempre che potresti combattere anche da cieco!» lo contraddisse
il dodicenne che ero, con quel tocco d'arroganza tipico della pubertà.
«Infatti!» mi rimbeccò lui, sorridendo «Io posso. Tu non puoi. Avanti,
fammi vedere se hai capito.» mi incoraggiò cambiando la presa sulla
spada da allenamento.
Indossavo elmo a calotta e protezioni di cuoio sul corpo. Data la mia
età, potevo già maneggiare armi di metallo, senza filo né punta. Presto
sarei potuto diventare scudiero e cominciare ad addestrarmi con
l'armatura.
Sollevai la lama sopra la testa ma Déaglàn mi fermò prima che
attaccassi:
«Attento. Tieni dritta la spada, e piega di più il ginocchio. Ecco, così!
Avanti, colpisci!»
Mandritto, manverso, fendente.
«Uno, due, tre.» contò Déaglàn intercettando i miei colpi «Quattro!»
contrattaccò con un montante, costringendomi a chinare il busto e
parare la lama.
«Cinque!» disse quando ci distanziammo l'uno dall'altro, ritornando
alla posizione di guardia.
«Bene…» si congratulò «Ancora.»
Non riuscii nemmeno a sollevare la spada sopra la testa, ché il
lamento di un corno risuonò nella piazza d'arme del forte.
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Déaglàn sollevò il capo verso la cima del torrione di pietra, là dove
garriva lo stendardo bruno con il monte bianco dei Kilgour, i signori
del feudo, affiancato dal cane grigio dei Toghair.
Il ponte levatoio era abbassato sul fossato colmo di neve, da cui
sporgeva un istrice di pali acuminati rivestiti dal ghiaccio tagliente.
«Devo andare Ethan.» si congedò l'istruttore, usando quel
soprannome che aveva preso il sopravvento su Ahyltan nell'uso
quotidiano.
«Metti a posto l'armeria.» ordinò consegnandomi la sua spada
d'allenamento e il mezzo elmo di ferro.
A grandi falcate, Déaglàn attraversò il ponte incrostato di neve e sparì
all'interno dell'atro torrione.
Il mastro armigero del forte svolgeva anche funzione di capo delle
guardie. Spettavano a lui l'assegnazione dei turni e l'organizzazione
della guarnigione. Obbedendo ai suoi ordini, attraversai la piazza
d'arme e mi recai nel baraccamento di legno adiacente alle stalle, sul
lato occidentale del forte. Riposi le spade nella rastrelliera senza
incontrare nessuno. Dimenticandomi di lasciare gli indumenti da
allenamento, mi recai di corsa al canile.
Era nata una nuova cucciolata e mio padre mi aveva affidato il
compito di addestrare un esemplare maschio. Un giorno non lontano,
quel cane mi avrebbe accompagnato a caccia e in battaglia, così
com'era stato per mio padre e mio nonno prima di lui.
La razza canina denominata "Cú Faoil" era stata introdotta dalla
dinastia mèradea, ultimi re del Connacht.
«Se dai retta alle voci, il primo esemplare è nato dall'incrocio tra un
levriero e un orso grigio!» raccontava mio nonno davanti al fuoco,
tracannando la sua fetida acquavite. «Quando il primo Mèraden venne
dal Tavoliere dei Profumi, prese l'abitudine di andare a caccia con
dieci segugi. Andava alla ricerca di prede grosse per addobbare la sua
sala e guadagnare la stima dei clan di qui. Un giorno, incappò nelle
orme dell'orso più grande che fosse mai esistito, ma non riuscì mai a
ucciderlo, perché quello gli ammazzò tutti i cani! Tutti, tranne una
femmina di levriero che era in calore...»
Non avevo mai sentito la fine di quella storia.
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Nonna Glenys interrompeva sempre il vecchio Gordon a quel punto,
rimproverandolo di bere troppo e di pronunciare oscenità di fronte ai
bambini.
Una sera, il nonno si era addormentato sulla sedia di fronte al
focolare, la fiaschetta vuota appoggiata in grembo, e non si era più
svegliato.
La verità dietro ai suoi racconti era che il Cú Faoil veniva impiegato
da migliaia di anni nella caccia alla selvaggina e in battaglia, come
difesa personale per i nobili guerrieri dei clan. Secondo la tradizione,
il guerriero e il suo cane componevano un binomio inscindibile. Il Cú
Faoil era l'incarnazione dello spirito ferino del combattente, un
animale guida, un compagno inseparabile.
Si narra che i nobili di Cinque Picchi fossero privi di scorta personale,
poiché nessun huscarlo3 avrebbe mai potuto essere fedele o
coraggioso quanto un levriero che loro stessi avevano addestrato.
Gli uomini tradivano, fuggivano. Il Cú Faoil si sarebbe sacrificato per
il proprio padrone e l'avrebbe protetto da qualsiasi nemico.
«Bestie forti come leoni e scattanti come volpi.» amava ripetere il mio
defunto nonno, che i leoni li aveva visti solo dipinti sulle insegne
araldiche «Certo, possono difendere i greggi dall'attacco dei lupi,
perché un solo esemplare è in grado di sconfiggere un intero branco,
ma ci sono voci ardite in giro, voci che raccontano di come il Cú
possa abbattere anche i cavalli da guerra!»
L'eccessivo orgoglio che mio nonno provava nei confronti del Cú
Faoil aveva anche una natura politica.
Il clan Toghair non aveva mai potuto scegliere un emblema araldico,
perché questo era esclusivo appannaggio delle famiglie nobili. Con il
cavalierato, però, suo padre aveva ottenuto un accordo matrimoniale
con l'antica famiglia degli Ederyon, ormai decaduta.
Il levriero grigio dei Toghair, altro non era che un'emulazione del loro
vessillo. Lo stemma di famiglia rivelava quindi il legame di
vassallaggio che aveva posto fine alla sovranità degli Ederyon
3
Campioni, guardie del corpo dei re. Dal norreno huskarl, letteralmente "uomo
di casa".
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all'avvento dei Mèradei, il che si adattava perfettamente al nostro
clan, di estrazione tutt'altro che altolocata. L'araldica del regno di
Esperon era composta da una sfilza di felini ringhianti, rapaci e altre
bestie indomabili che legavano il sangue delle alte casate con quello
dei conquistatori istevoni. Un cane, per quanto fiero, restava un cane.
Un animale che per sua indole è portato a servire e obbedire, e così
erano i Toghair: vassalli senza grandi possedimenti, asserragliati ai
confini del reame ad assicurare il passaggio sul fiume in nome del
sovrano.
Il Cú Faoil, tuttavia, apparteneva al folclore dei Cinque Picchi, era
ritenuto un animale sacro e a nessuno di noi interessava realmente che
la tradizione istevone lo ritenesse soltanto un segugio per acchiappare
le lepri.
«I cani grigi ci chiamano, e tutti ne andiamo orgogliosi!» berciava
mio nonno prima di sollevare la fiaschetta.
Iarann, il cane di mio padre, misurava quasi una iarda d'altezza al
garrese, pelo color fumo ispido e spesso come le setole del cinghiale.
Il maschio più forte della sua figliata spettava a me. Affascinato dagli
antichi racconti di mio nonno Gordon e di nonna Glenys, chiamai il
mio cucciolo Bran.
Assieme a Sceolang, Bran era il cane dell'eroe mitologico Fionn Mac
Cumhaill, che aveva ispirato molti dei miei giochi infantili.
Bran si trovava in un recinto di legno, riparato da una bassa tettoia e
scaldato da paglia. Nonostante la madre avesse finito di svezzare lui e
gli altri quattro cagnolini, il levriero femmina accudiva ancora, con
una certa insofferenza, l'esuberante cucciolata.
Iarann mi fissò con occhi vispi, attenti, di un castano dorato e
rassicurante. Lo salutai con una rispettosa pacca sulla testa e il
levriero mi consentì l'accesso alla cuccia, dove i cagnolini giacevano.
Bran emerse dall'ombra caracollando sulle zampe troppo grosse,
agitando il codino nero con entusiasmo. Il muso arruffato si infilò
nelle mie mani, andando alla ricerca di odori e leccando le dita come
fossero fatte di latte. Pigolava insistentemente, quasi volesse
comunicarmi pensieri che non poteva esprimere.
La giornata era fredda, il vento glaciale, ma finché le nubi non si
fossero abbassate sul forte, avrei potuto giocare con Bran e farlo
correre liberamente.
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Fischiettando, mi allontanai dal canile e il cucciolo mi seguì
smanioso, osservato con sospetto dal piglio serio di Iarann.
L'attività della piazzaforte era sonnolenta e dalla cima del torrione
non era più venuto alcun suono.
Corsi verso il ponte levatoio, con Bran che incespicava alle mie
spalle. Lo presi tra le braccia quando attraversai il fossato, perché
temevo quella trappola più di qualsiasi altra cosa. Mio padre mi aveva
messo all'erta sin dalla tenera età:
«Se cadi, i pali acuminati ti trafiggeranno. Devi sempre prestare
attenzione e non correre, mai!»
L'immagine mi aveva perseguitato per tutta l'infanzia, ma era stato
utile, perché la paura mi aveva sempre trattenuto dal compiere azioni
avventate in prossimità del fossato.
Una volta divenuto abbastanza grande da non avere più timore di
scivolare dal ponte, le mie preoccupazioni erano dedicate al cucciolo,
ancora incerto sulle zampe.
Varcata la saracinesca, lasciai che Bran scalasse i ripidi gradini del
torrione con le sue sole forze, e il cane mostrò d'essere divenuto più
forte rispetto soltanto alla settimana precedente. In breve, risalimmo
l'edificio fino alle stanze riservate alla mia famiglia. Aprii con foga il
pesante portone di legno che chiudeva i modesti appartamenti e fui
subito investito dalla vampata di calore emessa dal grande camino di
pietra addossato alla parete. Prima che potessi richiudere l'uscio alle
mie spalle, fui fulminato dal piglio di disappunto di mia madre,
Derwen, che non nascose una nota di fastidio nel vedere il cane
gironzolare per casa.
Senza staccare gli occhi dal foglio di carta sul quale tracciava lente e
morbide linee con una piuma d'oca, mi rimproverò:
«Quante volte ti devo dire che questo non è il posto per Bran? Se si
abitua al calore del focolare non vorrà più stare al freddo, e ti toccherà
condividere con lui il letto!»
«Io lo terrei nel mio letto!» proruppe Véibhinn, strofinando il naso sul
muso del cucciolo.
«E prenderesti le pulci...» la rimbeccò nostra madre, accennando un
sorriso.
Aveva capelli d'oro rosso Derwen, lunghi fino alla vita, e occhi verdi.
Un tenue verde opalescente trapuntato di schegge di ghiaccio.
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«Non mi importa delle pulci.» insistette Véibhinn, tredici anni, il
sorriso più contagioso del mondo.
«Importa a me, invece, visto che dividiamo la stessa camera!» la
rimbeccò Ailìs, che si trovava di fianco al camino, immersa nella
lettura di un voluminoso tomo.
Non si trovavano molti libri nei monti dei Cinque Picchi ma nostro
zio Tomàs ce ne portava sempre in dono da Lonnach e Ailìs li leggeva
tutti, anche due volte.
Lei era la primogenita, quindici anni e già pronta per avere figli. Il
ritratto sputato di nostra madre. Bionda e altera, paziente e sognatrice.
Presto sarebbe andata in sposa a un cavaliere della valle, un certo Fern
che aveva qualche anno più di me.
«Fra poco andrai a vivere a casa del tuo sposino e non dovremo più
dividere un bel niente!» tenne duro Véibhinn, sbattendo le ciglia e
lasciando sporgere le labbra nell'imitazione di un bacio voluttuoso.
«Almeno io mi trasferirò in un bel maniero nella Bassa dei Tre Rivi.
Non passerò il resto della mia vita su queste rocce gelide ad aspettare
che mio marito torni dal bordello!» chiuse la discussione Ailìs con un
ghigno meschino.
Mia sorella Véibhinn era vincolata da un antico patto matrimoniale
stipulato ancor prima che lei nascesse. Avrebbe dovuto sposare il
figlio di Nathan Kilgour, conte del feudo di Cinque Picchi. Un
sodalizio annoso legava le nostre due famiglie, ma i Kilgour
godevano di una pessima nomea. Nathan aveva già seppellito una
moglie, era assiduo frequentatore di postriboli e stava per prendere in
sposa una fanciulla giovane quanto i suoi figli, per i quali non si
prospettava un avvenire diverso.
Derwen non tollerò oltre il battibecco:
«Ailìs!» tuonò con gli occhi accesi dai riflessi del fuoco.
Mia sorella maggiore si azzittì e tornò a leggere il libro.
Véibhinn incassò in silenzio, ma era chiaro come quell'insulto l'avesse
ferita profondamente. Era spaventata dal suo destino, un'imposizione
che non poteva cambiare. Temeva il giorno in cui il suo grembo
sarebbe stato pronto per accogliere la prole, perché i Kilgour
avrebbero preteso l'adempimento di quell'antico voto. Nostra madre
non lasciò correre:
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«Non osare parlare in questo modo dei tuoi signori!» rimproverò
«Nioclàs Kilgour non è ancora uomo, e non è detto che diverrà come
suo padre. Véibhinn potrà essere la dama di Cinque Picchi un giorno,
e i suoi figli saranno i signori del Connacht.»
«Il Connacht non esiste più.» la contraddisse Ailìs con saccenza «Si è
estinto con i Mèradei. I suoi figli al massimo diventeranno vassalli
degli Wace.»
«Il Connacht non si estinguerà finché gli abitanti di questa terra ne
conservano il ricordo e, in ogni caso, nessuno del clan Toghair è mai
arrivato a tanto.» sentenziò Derwen senza ammettere repliche.
I suoi occhi scorsero in fretta lo scritto che aveva composto. La cera
sfrigolò sul candelabro e l'anello che portava all'indice impresse
l'emblema della famiglia Ederyon sul sigillo.
Dopo alcuni attimi di silenzio, nostra madre impartì la sua punizione:
«Ailìs, per favore, porta questo documento al messo di tuo padre.
Deve essere consegnato il prima possibile. Lui sa a chi.»
Mia sorella sbuffò.
«Non discutere.» si fece inflessibile Derwen «Vai.»
Ailìs lasciò cadere il tomo rilegato in pelle sulla sedia di legno.
Avvolse una cappa orlata di pelliccia attorno alle spalle e, dopo aver
lanciato un'occhiata risentita a Véibhinn, prese l'uscio e ridiscese
lentamente il mastio.
Derwen richiuse metodicamente la cartella di cuoio che usava per
redigere documenti e lettere. Mio padre non sapeva scrivere bene,
motivo per cui incombevano su di lei gli affari amministrativi del
forte e le relazioni politiche.
Anche io preferivo la spada di legno alla piuma d'oca, ma nostra
madre aveva imposto a tutti l'insegnamento della scrittura e del
calcolo numerico.
Un tempo non lontano da quel giorno, avrei voluto ringraziarla per
quella sua caparbietà.
Bran era riverso sul pavimento di legno, beandosi delle capaci dita di
Véibhinn che lo grattavano sul ventre, facendolo scalciare.
Mia madre si sollevò dallo scanno e si avvicinò all'infisso piombato,
una stretta apertura che dava sull'esterno, sigillata da una lastra di
spesso e costosissimo vetro opaco. I suoi occhi attenti seguirono i
passi di Ailìs nella piazza d'arme:
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«Non dare retta a tua sorella.» disse dolcemente, continuando a
guardare fuori «La tua vita sarà lucente. Non sarai un oggetto in balia
del tuo signore, ma la donna che terrà in piedi la sua casa. Tuo padre
non era l'uomo che è oggi, quando lo conobbi.» raccontò.
Véibhinn sorrise, senza dire niente. Mia madre le si avvicinò e
cominciò a lisciarle i capelli.
La sua seconda figlia somigliava tanto al marito: capelli castani,
corposi e ondulati come i rami di quercia, iridi di un verde profondo,
orlato di grigio.
Gli occhi di mia madre si spostarono su di me:
«Ethan, non dovresti essere con Déaglàn?»
«Lo ero.» replicai stringendomi nelle spalle «Ma è corso sulla cima
della torre quando è risuonato il corno.».
«L'abbiamo sentito. Forse hanno avvistato altri branchi di lupi...»
ipotizzò lei, dubbiosa.
Una seconda levata di spalle dimostrò il mio disinteresse alla
questione. Mi inginocchiai di fronte a mia sorella per coccolare il
cucciolo, quando il corno suonò di nuovo. Questa volta più a lungo e
ripetutamente.
Era un segnale di allarme.
La torre cominciò a tremare, scossa dal transito degli uomini che
ridiscendevano le scale e uscivano dagli alloggiamenti. Passi pesanti
rimbombarono fuori dalla porta.
Mia madre aprì l'infisso per osservare quanto accadeva all'esterno. A
palpebre spalancate la udii sussurrare:
«Ailìs...».
«Che succede?» domandai allarmato.
«Tua sorella.» rispose lei senza staccare gli occhi dalla finestra «Tua
sorella è ancora fuori.».
Véibhinn si sollevò in piedi, stringendo il cucciolo al petto.
«Cosa succede mamma?» la voce animata da un fremito di
eccitazione mista a paura.
«Tu stai qui e non muoverti.»
«Ma...»
«Non muoverti ho detto!»
Fissandomi dritta negli occhi, Derwen mi prese per le spalle:
«Ahyltan.»
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Mi chiamava con quel nome solo quando il momento era solenne,
quando doveva spronarmi al dovere.
«Ora devi fare una cosa per me. Vai giù e riporta dentro il torrione tua
sorella maggiore. Non ti attardare nel cortile, non avvicinarti alle
mura. Prendi Ailìs e portala qui.»
Io annuii senza capire, mentre fuori risuonavano ordini e regnava la
confusione.
Senza pensarci due volte, mosso da sbigottita curiosità, mi lanciai giù
per le ripide gradinate, saltando gli scalini due alla volta. Gli occhi di
Véibhinn mi seguirono finché non sparii dalla sua vista.
Quando misi piede sul ponte levatoio, vidi un muro di nebbia bianca
oltre la palizzata. La bufera era quasi giunta.
Tutti gli uomini della guarnigione correvano nella piazza d'arme, chi
trasportando frecce, lance, spade, chi allacciando le fibbie della
maglia di ferro.
Il corno risuonava senza posa.
Ailìs entrò nel mio campo visivo. Correva avvolta nel mantello di
pelliccia. Le andai incontro e urlai per sovrastare il baccano che
scuoteva il forte.
«Torna da nostra madre!»
«I predoni!» urlò lei di rimando «Sono qui!»
Sentii come un pugno allo stomaco, non doloroso, ma da togliere il
terreno sotto i piedi. La mia prima battaglia.
Mia sorella maggiore afferrò il mio braccio, ma io mi divincolai.
«Devo cercare Déaglàn!» le spiegai, buttando fuori la prima cosa che
affiorò nella mia mente, confusa ed esaltata.
Ailìs, gli occhi ridotti a fessure per il forte vento, sparì nell'androne
della torre, sommersa dal buio.
Sfilai accanto ai miliziani che si radunavano nella piazza d'arme e
avanzai verso le mura meridionali, dove i camminamenti erano già
affollati di armigeri e arcieri.
Un pugno di uomini era chino dietro le merlature lignee, ognuno
intento a ricaricare la propria balestra ad argano. Quelle pesanti e
costose armi erano state offerte in dono dalla corona per la difesa del
confine: dieci balestre contro un intero popolo dedito al saccheggio.
19
«Ai tromboni di Aldron non manca certo il senso dell'umorismo.»
aveva commentato Déaglàn, quando si era trovato a dover arruolare
dieci coscritti del luogo per formare un reparto di balestrieri.
Il manipolo si posizionò in prima fila sul fianco est della palizzata,
quadrelle incoccate e armi spianate verso la bianca foschia.
Distinsi mio padre Gordon sul presidio a difesa dell'entrata. Capelli
castani al vento e Skriger, la spada del clan, assicurata al fianco.
Déaglàn si trovava a pochi passi da lui, intento a gridare ordini a un
gruppo di armigeri, accorsi alle difese senza usbergo4 né elmo.
Passai del tutto inosservato nel trambusto di uomini e armi, mentre il
vento fischiava tra le fessure della palizzata ghiacciata. Il corno lanciò
la sua ultima e dolente nota, che si disperse nella bufera mischiandosi
con l'urlo della brezza pungente.
Preso dal desiderio di raggiungere mio padre, afferrai i pioli di una
scala di legno che conduceva al camminamento. Quando raggiunsi la
cima, i miei occhi attoniti si riempirono di stupore e il mio cuore fu
preda di un panico raggelante che non avevo mai provato prima. Il
respiro parve fermarsi nella mia gola e le budella attorcigliarsi in uno
stretto nodo all'altezza dello stomaco.
Oltre il parapetto di legno scheggiato, là dove la foschia lasciava
intravedere i contorni di un'altura rocciosa, si trovava una folla.
Scomposta e indisciplinata com'era, non poteva trattarsi di un'orda,
perché il numero dei combattenti non ricordava affatto le moltitudini
di cui parlavano i canti. Eppure era spaventosa nella sua semplicità,
nella furia elementare e primitiva.
Non seppi stimare il numero di predoni urlanti che ridiscendeva il
pendio roccioso di buon passo a ranghi disordinati, brandendo lance,
mazze e fiaccole. Una folla.
Il guado risuonava delle grida di una folla inferocita.
La voce di Déaglàn tuonò nella piazza d'arme, mentre gli arcieri
prendevano posto sul parapetto, tutt'attorno a me.
«Arcieri, frecce incendiarie!» ordinò il mastro armigero.
4
Armatura di maglia metallica ad anelli.
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I tiratori obbedirono, estraendo alcuni strali con la punta foderata da
un tampone di stoffa grezza. Gli aiutanti di campo sfilarono tra le
schiere con fiaccole sfrigolanti, affinché gli arcieri potessero
accendere i dardi al momento opportuno. Qualcuno di loro mi lanciò
un'occhiata sorpresa, altri mi esortarono ad andarmene.
Uno degli uomini che andava sempre a caccia con mio padre mi
rivolse la parola, allarmato:
«Tuo padre sa che sei qui?»
Completamente ipnotizzato dalla massa di predoni in marcia e dallo
spettacolo di lumi fatui danzanti nella bufera, non gli risposi. Spostai
gli occhi su mio padre, quando lo udii richiamare a gran voce un
nutrito gruppo di miliziani armati di lancia, affinché si disponesse
davanti all'ingresso del forte. Sire Gordon era a circa trenta iarde da
me, la cappa sbattuta da violente raffiche di vento, l'imponente Iarann
seduto al fianco.
I suoi baffoni a spiovente si arcuarono sulle labbra sottili, mentre la
bocca si spalancava per gridare un comando che si condensò in una
fitta nube di vapore. La formazione da battaglia era schierata.
Gli armigeri in maglia di ferro, brandendo lunghe spade e asce, si
posizionarono sui parapetti a difesa degli arcieri, o di fianco al portale
di legno rinforzato, a supporto dei lancieri. L'intera guarnigione era
svuotata e la palizzata del forte scintillava d'acciaio.
L'arciere che mi aveva parlato mi afferrò per la spalla, e incontrai il
cuoio duro della sua brigantina5.
«Vattene di qui, subito!» mi intimò senza staccare gli occhi dal
nemico avanzante.
Seguendo il suo piglio sbalordito, i miei occhi si posarono sulle furie
che emergevano dalla tempesta di neve. Sagome nere fatte di ferro e
pelli.
Un nutrito gruppo era accalcato attorno a un tronco di larice. Il
robusto fusto d'albero, probabilmente abbattuto da un fulmine, era
5
Armatura leggera e flessibile, costituita da placche metalliche rivettate
all'esterno di un'anima in pelle.
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stato affilato con le accette e veniva trasportato a braccia verso il forte
per essere utilizzato come ariete.
L'arciere, a quel punto, perse la pazienza. Mi afferrò bruscamente per
la collottola e mi spinse in direzione della scala.
«Se devi proprio assistere a questo, fallo altrove, con tuo padre. Non
voglio averti sulla coscienza.» disse.
Obbedii, senza riuscire a trattenere un tremito alle mani.
Restai alla base della palizzata per alcuni istanti, finché arcieri e
balestrieri non cominciarono a tirare.
Gli ordini volavano alti sopra le teste dei guerrieri, mentre le frecce
saettavano in cielo come scintille lasciando al loro passaggio una scia
brillante che si spegneva nella bufera. Déaglàn ordinò ben tre salve
incendiarie ma, a giudicare dalla reazione degli uomini impegnati
nella difesa, non sortirono l'effetto sperato. I predoni non si lasciarono
scompaginare e continuarono il loro attacco disperato.
Un tonfo sordo, pesante, accompagnato da uno scricchiolio tremendo,
fece tremare il portone corazzato, riverberando la possente
oscillazione su tutto il circuito di mura lignee.
Mio padre sfoderò Skriger, la stridente. La lunga lama balenò nei
turbini di nevischio.
«Prepararsi al corpo a corpo!» tuonò sire Gordon con timbro
minaccioso.
«Tirare a volontà!» gli fece eco Déaglàn, scuotendo il braccio sinistro.
Gli armigeri strinsero i ranghi dietro agli scudi. L'entrata al forte
venne battuta una seconda, una terza, una quarta volta, sempre con
maggior violenza. Le urla che provenivano da oltre la palizzata erano
agghiaccianti.
I lancieri si avvicinarono al portone, un istrice di picche pronto ad
accogliere i nemici.
Se fossero entrati, ci avrebbero uccisi tutti. Avrebbero rapito le mie
sorelle e mia madre, così come tutte le donne del forte. Le avrebbero
rese schiave. Il pensiero sostenuto dalla paura mi mosse all'azione
insensata.
Corsi senza pensare verso l'armeria dove afferrai un arco,
fortunatamente già incordato, e una faretra. Non ero ancora
abbastanza robusto per usare con scioltezza un'arma lunga di tasso,
ma anni di tiro mi avevano irrobustito il torace quel tanto che bastava
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per tendere e scoccare con un arco di quella durezza. Evitando di
risalire il camminamento, affollato da arcieri e armigeri, mi inerpicai
sul tetto dei baraccamenti addossati alla palizzata. Nel momento in cui
sporsi la testa oltre la barriera di pali affilati, il terrore mi paralizzò.
Una catasta di cadaveri giaceva ai piedi della porta, mentre le belve
prendevano la rincorsa con l'ariete, noncuranti delle frecce che
piovevano impietose sulle loro teste.
Un'indistinta massa di predoni si manteneva a distanza. Alcuni
imbracciavano archi e bersagliavano gli uomini posizionati sui
parapetti, dove già si contavano morti e feriti. Le urla sovrastavano
qualsiasi altro suono. Nemici armati di fiaccole avevano cercato di
appiccare il fuoco alla palizzata, ma il gelo e il vento avevano reso
l'azione infruttuosa e ora i loro cadaveri giacevano scomposti ai piedi
del forte.
Un ultimo violento impatto sull'entrata provocò uno scricchiolio
prolungato e terrificante, simile al suono di un vecchio albero che
cede sulle radici malferme.
Il portone era sfondato.
Fu allora che mi ricredetti: i racconti dicevano il vero, quei guerrieri
non erano uomini.
Come bestie si lanciarono ringhiando contro il muro di picche, a fiotti,
spinti in avanti da un impulso irrefrenabile.
Sete di sangue arroventava i loro occhi vitrei, bocche nere spalancate
in un grido raggelante.
I loro capelli erano spessi e duri come ramoscelli di quercia, la pelle
talmente slavata da apparire bluastra.
Indossavano monili d'osso e brune pelli di montone sulle spalle
massicce, lamine di ferro nero a protezione del torace, mostruose
spade dentellate incrostate dalla ruggine, e poi falci, asce, forconi,
rostri ricavati dalle corna di cervo.
In molti morirono infilzati sulle punte delle lance durante il primo
assalto, ma quelli che vennero dopo continuarono a caricare senza
timore della morte, finché la linea di lancieri non cedette terreno.
Allora il resto della folla furibonda si gettò nel varco, accalcandosi
all'inverosimile, spingendo, calpestando i feriti e i moribondi.
A quel punto scoppiò la mischia.
23
Gli armigeri del forte attaccarono ai fianchi la calca di predoni
penetrata dalla breccia, mentre gli arcieri continuavano a scoccare
frecce dall'alto. Mio padre ridiscese le scale accompagnato da
Déaglàn e altri guerrieri. Il suo fedele cane grigio al fianco. Con le
spade sguainate si lanciarono nella lotta.
Vedere mio padre così vicino al pericolo mi riscosse dallo
sbigottimento. Incoccai una freccia, puntai l'arco nella ressa e lanciai.
Non seppi dire se colpii qualcosa, ma in quell'ammasso di corpi
pressati era difficile mancare il bersaglio. Preso da un'eccitazione
vibrante e senza nome, afferrai un altro dardo e scoccai. Questa volta
seguii il tragitto della freccia, osservandola conficcarsi nel collo di un
predone con il volto deturpato da una mostruosa cicatrice violacea.
Emise uno strillo roco, spalancando fauci marce. L'ascia gli scivolò di
mano e il corpo inerte venne inghiottito dalla folla brulicante.
Tirai altre frecce con le dita tremanti dalla tensione e il cuore che
palpitava senza controllo. Non indossavo guanti di protezione e la
dura corda dell'arco scavò dei solchi sanguinanti nelle falangi della
mia destra. Non sentii dolore. Riuscivo solo a distinguere il palpitare
del mio petto, profondo e violento come la corsa di un cavallo da
guerra.
I nemici venivano massacrati, le lame scintillanti delle spade si
abbattevano su di loro. Le asce recidevano arti e il sangue scorreva
copioso, tanto che la tormenta si fece rossa.
No, non a causa del sangue.
Qualcosa pulsò alla mia destra, un bagliore ardente, un fuoco di un
colore sanguigno che mai avevo veduto prima.
Alcune ombre si mossero nei turbini della tempesta e lumi palpitanti
scolpirono le loro sagome sulla neve arrossata.
Gli arcieri cominciarono a tirare nella loro direzione, ma troppo tardi.
Un manipolo di predoni emerse dalla foschia vorticante, stringendo in
pugno delle sfere folgoranti.
Con un ampio gesto del braccio, lanciarono in sequenza le munizioni
contro la palizzata. Le sfere si sbriciolarono all'impatto, sprigionando
una paurosa fiammata che si sollevò fin sopra i camminamenti,
costringendo gli arcieri ad arretrare. Furono cinque le esplosioni che
avvamparono sul circuito. Il calore proveniente dalle fiamme era
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insopportabile, il fumo nero esalato dall'incendio era corrosivo e
accecante.
In pochi istanti fui piegato in due dagli spasmi della tosse, gli occhi
ottenebrati dalle lacrime.
Le fiamme si arrampicarono sulle palizzate, sciogliendo il ghiaccio e
mangiando il legno, noncuranti della neve e della bufera. Era un fuoco
fatto di lingue striscianti, serpi viscose che corrodevano ogni cosa al
loro passaggio. Déaglàn aveva fatto preparare dei secchi sui
camminamenti, avendo visto i nemici armati di fiaccole, ma quando
gli arcieri gettarono l'acqua irrigidita dal gelo sull'incendio, questa
evaporò ancor prima di toccare le fiamme. Sudavo, col fiato corto e
ansimante. Fui costretto a rotolare lontano dalla palizzata per
sottrarmi al calore ustionante.
La mischia non cessava di mietere il suo raccolto di sangue. Altri
predoni emersero dalla bufera, protetti dal fumo e dal fuoco, e il
combattimento infuriò più violento di prima.
I nemici gridavano in maniera atroce, oscurando persino il clangore
delle lame. La linea frontale di lancieri si era assottigliata fino
all'estremo e i miliziani perdevano terreno. Allora Skriger balenò
sopra le teste dei predoni. Mio padre guidò una carica furiosa sul
fianco sinistro del nemico.
Io restai immobile con la testa tra le mani, mentre il combattimento
verteva in uno stato di equilibrio angosciante.
«Cùig Mullach! Per i Cinque Picchi!» gridò sire Gordon, e il suo
canto di battaglia spronò gli uomini ad attaccare con più violenza. I
predoni caddero sotto i colpi di spada, il fianco sinistro sembrò
cedere.
Poi, nella tempesta di acciaio, una cuspide nera s'insinuò tra i
combattenti. Vidi distintamente quella lama dai bordi corrosi colpire
mio padre all'anca destra.
La spada vorticò un'ultima volta, precipitando mortifera sul capo
scoperto di un predone. Il levriero grigio balzò in avanti atterrando un
nemico e dilaniandogli la giugulare, dopodiché Gordon si accasciò.
«Siamo perduti!» strillò qualcuno.
Il mio respiro si fermò. Mi sollevai in piedi, esponendomi al tiro degli
arcieri nemici, la bocca spalancata. Tutti i miei sensi parvero svanire,
25
ovattarsi, tranne che la vista: gli occhi piantati sul punto in cui avevo
visto mio padre cadere.
Non mossi un solo muscolo finché non individuai la sua figura
emergere dalla mischia. Un braccio ancorato al collo di Déaglàn.
Mi lanciai da lui, saltando dal tetto del baraccamento con un balzo
solo.
Incespicai nella fanghiglia rossastra che si allargava sulla neve come
una macchia d'olio. L'acre olezzo di fumo si mescolò a un rivoltante
puzzo di sangue e urina.
Gli occhi di mio padre mi trovarono ancor prima che mi
inginocchiassi al suo fianco. Era seduto a terra, la mano sulla ferita,
ansimante ma solido.
In un istante avevo perso tutto il mio vigore bellicoso, ed ero tornato a
essere un bambino spaventato.
«Va tutto bene Ethan.» mi tranquillizzò, i suoi baffi di rame non
trattennero un sorriso.
Déaglàn ci lasciò soli e, spada in pugno, tornò a guidare gli uomini,
fremente di rabbia:
«Hanno colpito sire Gordon, uccideteli tutti!» strillò il mastro
armigero, sovrastando il fragore della mischia.
Dalle gole dei miliziani si levò un boato cupo, mentre il contrattacco
riprendeva corpo.
Iarann sbucò lesto da sotto le gambe di un armigero, il muso
macchiato di rosso. Con la solerzia di un guardiano ben istruito, si
arrestò al fianco del suo padrone, zampe tese e pronte a scattare. Sire
Gordon gli rifilò un buffetto sulla testa, poi le iridi grigie incontrarono
le mie.
Credevo che mi avrebbe rimproverato per essermi esposto al pericolo,
invece parve felice di avermi lì.
Scoprii ben presto che le mie azioni gli erano tutt'altro che estranee:
«Ottima posizione per tirare.» disse indicando il baraccamento in
fiamme con il mento spigoloso «Hai ucciso il tuo primo nemico...»
sentenziò «Hai visto? Non è epico come nei racconti, è solo un
mattatoio di maiali nel fango.»
Io annuii senza dire nulla, gli occhi fissi sulla maglia di ferro lacerata
e impregnata di rosso.
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Tutta la sua cotta d'arme era macchiata, per lo più di sangue altrui. La
lama di Skriger era istoriata da un'incrostazione purpurea, brandelli di
carne erano rappresi sulla scanalatura centrale.
«Avanti, aiutami ad alzarmi.» mi ordinò «Non posso guidare gli
uomini da qui.»
Issandosi sulla mia spalla e sulla spada, mio padre fu in piedi. Un
grugnito di dolore gli sfuggì dalle labbra.
Il fuoco sembrava essersi affievolito, tuttavia, le fiamme
continuavano a nutrirsi del legno.
La mischia aveva perso slancio. Il nemico decimato perdeva terreno,
martoriato dalle frecce degli arcieri che, scesi dai camminamenti,
tiravano sulla calca a distanza ravvicinata. Déaglàn incitava gli
uomini senza posa e, quando i soldati videro Gordon in piedi, le lame
cantarono vittoriose.
Il nemico batté in ritirata, incalzato da un manipolo di temerari che si
lanciò urlante oltre il varco.
Gli arcieri continuarono a tirare, alzando gli archi lunghi verso il cielo
e facendo piovere frecce sui predoni che risalivano stremati il pendio
candido.
«Che nessuno li segua dentro la tormenta!» ordinò mio padre ancora
col fiatone, mentre Déaglàn tentava di ricomporre i ranghi.
«Non appena il maltempo si placa voglio una pattuglia in
esplorazione. Dobbiamo capire perché ci hanno attaccati!» aggiunse
non riuscendo più a nascondere il dolore «Fai venire il cerusico e la
guaritrice nei miei alloggi.» dispose infine.
Il peso gravava sempre di più sulla mia spalla, mio padre si
indeboliva, ma il bravo Déaglàn non mancò di notarlo.
«Portate sire Gordon nelle sue stanze!» ordinò a due aiutanti di
campo, poi il suo viso macchiato di sangue si volse allo scudiero di
mio padre:
«Chiama il cerusico e la vecchia Bríd, corri!»
Due giovani robusti afferrarono mio padre sotto le braccia per
condurlo rapidamente verso il mastio di pietra.
Gordon, prima di essere trasportato via, mi lanciò un piglio fiero. La
sua mano guantata depose l'elsa di Skriger tra le mie dita.
«Falla tornare lucente.» mi disse, poi fu trascinato nella torre in fretta
e furia.
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Déaglàn era al mio fianco, il respiro affannoso che si condensava
nell'aria fredda, la maglia di metallo incrostata di sangue e accesa dai
bagliori dell'incendio:
«Se la caverà, vedrai. La sua è una buona armatura.» mi confortò,
lasciando vagare lo sguardo in quella bolgia di corpi straziati che
tappezzava tutta l'area circostante l'ingresso della cinta. Il suolo era
tramutato in un denso fango rossastro.
Gli abitanti del forte già si stavano occupando dei feriti. Un guaito
lancinante attirò il nostro sguardo verso una donna che stringeva tra le
braccia un cadavere.
«Il giovane Callen.» Déaglàn scosse il capo sputando per terra
«Dannazione, aveva solo sedici anni.»
Conoscevo Callen, un giovanotto che aveva una lentiggine per ogni
ragazzino che aveva pestato. Sopraffatto dalla pena, spostai gli occhi
sui nemici uccisi, cercando una valida motivazione per il dolore di
quella madre.
«Piscio, merda, lacrime e sangue. Dov'è la Gloria? Meglio capirlo
adesso Ethan, è tutto un orrendo pasticcio, dai retta a me. È un
inverno duro, la fame li avrà spinti a questo...»
Predoni in agonia ancora si contorcevano nella poltiglia. Deboli
gemiti si sollevarono nel crepitare delle fiamme, ma nessuno si curò
di loro. L'incendio teneva impegnate tutte le braccia disponibili.
«Quale razza di trucco hanno usato?» si domandò Déaglàn incredulo,
osservando uomini e donne formare una lunga fila per portare l'acqua
presso la palizzata.
«È un fuoco appiccicoso che non si spegne... troppo caldo anche per il
ghiaccio. Senti che puzza fa!»
Aveva ragione. L'aria era densa di fumo, pervasa da un odore
dolciastro, pungente.
«Sembrava lava.» esclamai con innocenza puerile «Hanno lanciato
dei vasi pieni di lava.» raccontai con semplicità ciò che avevo visto.
«Lava?» chiese Déaglàn confuso.
«Quella che esce dai vulcani, sai? I monti di fuoco.» spiegai.
Déaglàn sembrava non capire:
«Non ho mai visto un monte di fuoco.»
«Nemmeno io.»
«Allora come sai cos'è la lava?»
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«I libri di zio Tomàs sono pieni di miniature.» spiegai.
«Nemmeno tuo zio l'ha mai visto, che cosa può saperne lui per
scriverci dei libri?» obiettò contrariato.
«Non è stato mio zio a scriverli.» replicai nascondendo un sorriso di
scherno «Lui li copia soltanto. Alcuni sono molto antichi.»
«E com'è fatta la lava su questi disegni?» Déaglàn ringhiò, irritato dal
fatto che un ragazzino la sapesse più lunga di lui.
Il mastro armigero non sapeva leggere.
«È come... un fuoco liquido.» asserii.
«Fuoco liquido...» Déaglàn soppesò le mie parole «Quando ho visto
quelle fiamme, mi è venuta in mente una vecchia storia.»
«Quale storia?» domandai, stringendo la spada di mio padre con
maggior forza.
«Sui tuoi libri ci sono i racconti del Principe Fosco?» mi rispose con
un ulteriore quesito.
«Certo, mia sorella Ailìs li legge sempre.»
«Bene...» costatò il mastro armigero, assorto «Allora dovrà leggerli
anche a me.»
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