Il senso del tempo e la memoria

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Il senso del tempo e la memoria
Il senso del tempo e la memoria
Giuseppe Berretta
(NPG 2002-07-64)
Il tempo e lo spazio sono le rotaie sulle quali corre il treno dell’esperienza quotidiana dell’uomo.
Sulle dimensioni spazio-temporali, fin dalla nascita, ciascuno di noi costruisce la propria
esistenza, e si può dire che non c’è nozione di esistenza che non sia tracciata sulla linea
progressiva del tempo e sul radicamento in un territorio. Lo smarrimento – anche temporaneo –
della coscienza del tempo e dello spazio, nel sospendere la memoria, annulla ogni possibilità di
essere presenti a se stessi impedendo la percezione del mondo e la raccolta dei ricordi.
Per gli antichi popoli era condizione stessa di sopravvivenza tramandare di generazione in
generazione la propria cultura. Le cose passate, le gesta audaci, i sogni dei padri venivano
narrati ai figli, e queste narrazioni costituivano l’inalienabile patrimonio di memoria consegnato
ai posteri e ai loro destini. In epoche remote, si trattava di racconti fantasiosi, di miti e leggende
sui quali si articolava l’intreccio suggestivo dell’epos del popolo. L’epos, a sua volta, era legato
alle vicende naturali: il nascere e il morire, il sorriso della primavera e il languore dell’autunno, le
sorti alterne della battaglia, rientravano in quel ciclo misterioso di eventi ricorrenti senza inizio e
senza fine di fronte a cui l’uomo piegava il capo obbediente.
In epoche più recenti, una nuova fiducia nelle possibilità dell’uomo di essere protagonista e
artefice degli accadimenti del mondo, determinava la nascita della storia. Ciò che gli storiografi
s’impegnavano a consegnare ai posteri, non era più il racconto evanescente degli avi, ma
l’accurata descrizione dei fatti, e perfino il tentativo di spiegarne il senso mediante una primitiva
rappresentazione dei rapporti di causa-effetto.
L’avvento della storia segna la trasformazione della percezione ciclica in percezione lineare del
tempo. Al tempo ciclico – fatale, monotono, eternamente ricorrente – si sostituisce il tempo
lineare, che non ruota su se stesso, ma la cui traiettoria appare orientata verso un orizzonte
sconosciuto e nuovo, un tempo a venire che non rispecchierà inesorabilmente il passato, un
tempo sul quale l’uomo potrà avere qualche potere di indirizzo.
Con il Cristianesimo la dimensione lineare del tempo si espande all’infinito: l’alfa tocca l’omega,
nel Cristo il divino sposa l’umano, e – come osserva Cullmann in Cristo e il tempo – la
resurrezione sancisce la vittoria della vita sulla morte e realizza il sogno di eternità dell’uomo.
Così il tempo lineare non ha più soltanto una direzione, ma anche un senso e una meta.
Nell’età moderna, i viaggi di esplorazione con la scoperta di nuovi mondi e le acquisizioni della
scienza, danno una forte spinta di accelerazione alla conoscenza. Spazio e tempo non sono
inafferrabili e la conquista del mondo non appare più impossibile. Il sogno di Faust è quello di
possedere l’attimo fuggente, distillando nel presente l’ideale e il reale, il passato e il futuro, tutto
il bene e tutto il male della storia.
Le trasformazioni culturali degli ultimi due secoli hanno profondamente ridimensionato,
riducendone l’ampiezza, la percezione psicologica dello spazio e del tempo. I mezzi di trasporto
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e le tecnologie della comunicazione, divenuti più sofisticati, consentono oggi di valicare confini
una volta insuperabili, di vivere le proprie esperienze “in tempo reale”, senza doverle ricostruire
in quadri di futuribilità. Ma questa caduta dell’esigenza progettuale porta con sé un grave
rischio: il progressivo disinteresse per il passato come punto di riferimento e di confronto. Nel
mondo del presente assoluto, l’economia dell’azione non lascia spazio a vuoti. La memoria
storica, perduta l’autorità di magistra, travolge nel suo silenzio tutte le forme di idealità e la
stessa capacità umana di pensare il domani.
Nel grande villaggio globale, una folla di giovani vive sospesa su un presente illusorio che non
tollera legami con il passato né con il futuro. Il tempo puntiforme è un’angusta prigione da cui
non si evade perché non c’è porta d’uscita. L’evasione è solo nel sogno, e in un vortice onirico,
la mente insegue viaggi allucinati, mondi virtuali, esperienze che consumano in un istante i
richiami della carne e dell’anima. Consumismo sfrenato, indifferenza, droga, sesso, violenza
sono i segni di un disorientamento radicale della coscienza, pericolosa deriva di una civiltà
destinata al naufragio.
Negli anni Sessanta, in Italia, la scuola si apre all’autocritica e alle riforme. Sono gli anni
dell’istituzione della scuola media unica, del primo ripensamento degli esami di maturità,
dell’apertura delle facoltà universitarie. Più tardi, negli anni 70, fioriscono le riforme delle
elementari, la legge 517, le sperimentazioni Brocca negli istituti superiori. Un grande travaglio di
idee da cui scaturiscono tentativi, spesso disordinati e disorganici, di riportare la scuola al passo
con i tempi. Si tratta, in diversi casi, di fare ardite azioni di svecchiamento e di pulizia.
Un interessante dibattito si sviluppa intorno alla didattica della memoria. L’esercizio
dell’acquisizione mnemonica – si sostiene da più parti – rappresenta quasi un oltraggio
all’intelligenza, che consiste invece in un continuo sforzo di adattamento creativo e di ricerca di
soluzioni a situazioni problematiche (problem solving). Si afferma l’idea che l’accumulo di
conoscenze crea soltanto ipertrofie mentali, e che la divergenza di pensiero dell’ultimo della
classe è di fatto un migliore strumento di successo nella vita. Si scopre l’inutilità di mandare a
memoria improbabili versi del Carducci o del Gozzano, o aride definizioni di matematica, o
elenchi di nomi e di date, ritenendo il sapere più importante del saper fare. Per molte anime
candide è un’illuminazione.
La luce investe in pieno la scuola e molti studenti e insegnanti, e perfino illustri pedagogisti, se
ne fanno una convinzione ardente. È così che alla routine dei percorsi predeterminati – i
famigerati programmi ministeriali! – si vanno sostituendo nuove impostazioni didattiche fondate
sui procedimenti induttivi e sulla ricerca.
Ma le strade della conoscenza non sono in discesa. Gli eroici furori non bastano a conquistare
la scienza. Poiché “non fa scienza – sanza lo ritenere, avere inteso” (Par. V, 41-42), è difficile
pensare di poter “sapere” senza impegnarsi per sapere. Di certo, una scuola ampiamente
rinunciataria dei modelli tradizionali, entusiasticamente rivolta ad esiliare i vecchi strumenti
mnemonici e tassonomici, ha finito col perdere la via della conoscenza scientifica, producendo
una pletora di studenti mediocri, spesso carenti anche nella formazione di base. Perché
l’ordinamento seriale degli accadimenti non è soltanto l’esercizio di composizione di un puzzle,
ma rappresenta il fondamento dell’abilità umana a tracciare le linee essenziali della storia.
È inquietante vedere le nebbie dell’oblio avvolgere la scuola. “Dimenticare” sembra oggi il verbo
più coniugato. Gli alunni dimenticano le consegne, non ricordano quale posto abbiano nella loro
giornata i doveri scolastici e le piccole responsabilità legate allo studio. Gli insegnanti,
trascurando i fondamenti epistemologici delle loro discipline, dimenticano di insegnare il
metodo, e si attardano all’infinito su questioni di attualità e di varia retorica, nella convinzione
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che tanto basti a tenere i giovani ancorati al loro presente. I dirigenti, rivestito il ruolo
manageriale, hanno ormai dimenticato la funzione essenzialmente pedagogica che
caratterizzava i magistri primi inter pares del passato.
Da dove riprendere il cammino? Come riguadagnare i nostri spazi vitali e il tempo perduto? In
una società ammalata di indifferenza, che ignora le ragioni della pace e vira verso
l’autodistruzione perché non ricorda quanto sangue e quanto dolore trasudi dalle pagine della
storia, in una cultura planetaria che crede naturali le discriminazioni tracciate dalla miseria e
dalla ricchezza sulla faccia della terra, e non sente vergogna né indignazione di fronte
all’umanità calpestata, la scuola deve svegliarsi. Insegnare ai ragazzi le nuove tecnologie,
familiarizzarli con i nuovi linguaggi, renderli criticamente partecipi dell’attualità: sì. Ma prima di
tutto aprirli alla coscienza. Aiutarli a muoversi nella vita reale, oltreché nel sogno. Guidarli a
costruire un pensiero che sappia dialogare con la realtà. Insegnar loro a ordinare, classificare,
seriare, numerare – secondo il lessico usato dal Piaget – perché possano riconoscere la propria
individualità nel flusso degli eventi e riescano a radicarla in territori sicuri.
Non si tratta di imprese epocali, ma di recuperare piccole semplici azioni didattiche. Se la
memoria storica è intessuta di frammenti temporali, bisognerà indurre gli alunni a ricostruire il
mosaico rimettendo insieme con pazienza l’infinita varietà dei frammenti; poi cercare il senso
del disegno, tentare ipotesi, chiedersi senza stancarsi quale uso poterne fare nel presente. E
carpire il mondo, le cose, le idee: carpirli attraverso i meccanismi mnemonici e assimilarli alla
propria intelligenza. Imparare parole, frasi, costrutti logici e verbali, accostarsi a idiomi diversi
dalla propria lingua madre, possedere sequenze significative, saper giocare con le parole,
inventare, scoprire, tentare nuovi percorsi. Questo è il genere di azioni che servono nella
scuola. Azioni elementari che richiedono costanza e fermezza, e che vanno modulate sulla
bontà fondamentale della relazione educativa insegnante-alunno.
A chi nella scuola ha dato l’energia del proprio lavoro e forse la carica affettiva dei propri ideali,
è appena il caso di ricordare che la formazione dei giovani che si affacciano alla vita è un affare
di cuore, e che il senso profondo di tutte le pedagogie sta nella fiducia incondizionata nella
perfettibilità dell’uomo e nella ferma speranza di poter costruire insieme ai ragazzi un mondo
migliore di quello attuale.
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