Le vacanze laboriose Giornate piene di emozioni

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Le vacanze laboriose Giornate piene di emozioni
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶17 agosto 2015¶N. 34
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶17 agosto 2015¶N. 34
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Società e Territorio
Inchiesta sui quotidiani ticinesi
Terza e ultima puntata della ricerca compiuta da Enrico
Morresi nel panorama editoriale del nostro cantone
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Partire per sorprendersi
Difficilmente oggi si va alla scoperta di una regione
senza un piano prestabilito: i viaggi moderni sembrano
meno avventurosi di quelli di un tempo
Giornate piene di emozioni
Alzheimer Visita a un centro di cura per persone affette da questa patologia:
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il responsabile dell’istituto ci spiega, in un’intervista, il tipo di approccio terapeutico scelto
Laura Di Corcia
Le vacanze
laboriose
Agriviva La formula originale che permette
esperienze a contatto con la natura ai giovani
tra i 14 e i 25 anni
Paola Bernasconi
Le alternative per le vacanze, non solo
estive, sono molteplici, per non annoiarsi, passare il tempo e, perché no,
guadagnare qualcosa. Agriviva offre ai
giovani dai 14 ai 25 anni la possibilità di
trascorrere un periodo di lavoro in una
fattoria, a stretto contatto con la famiglia contadina e la natura, e venendo
retribuiti a seconda dell’età.
Sono più di 800 le famiglie che
sono disponibili a ospitare i giovani e
come ci spiega Anita Tomaszewska,
collocatrice per le aziende in Ticino e
Moesano, quest’anno si sono iscritte
nove nuove aziende agricole ticinesi.
Per ospitare non serve nessuna caratteristica particolare: solo essere almeno
una coppia, se possibile con figli, e avere
spazio sufficiente. Il soggiorno può durare dalle due settimane (ma se il ragazzo non si trova bene lo si può interrompere prima) ai due mesi. Data la grande
richiesta proveniente dall’Italia, è stato
scelto come limite massimo la durata
del permesso che gli stranieri possono
ottenere.
Anna ha 20 anni, vive nel torinese e ad agosto parteciperà per la prima
volta. «Sarò ospite di una famiglia con
sei figli: hanno un alpeggio con mucche e capre, producono latte e formaggi e gestiscono anche un agriturismo.
Spero di trascorrere delle vacanze un
po’ diverse, staccando la mente dalla routine quotidiana e dallo studio,
immergendomi nella natura e in un
mondo nuovo, di fare un’esperienza
che contribuisca alla mia crescita ed
alla mia formazione come persona, e
di migliorare il francese». I suoi desideri sono comuni a quasi tutti i giovani
che si iscrivono, come conferma Anita
Tomaszewska. «È importante avvicinare anche chi non vive in campagna
al mondo contadino, alla produzione alimentare. Si impara di tutto, dal
semplice cucinare o apparecchiare una
tavola sino a cosa si fa in un caseificio,
a cosa mangiano gli animali, come si
svolgono le varie raccolte, i trattamenti
agricoli, come si svolge il periodo della
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino
Fondato nel 1938
Redazione
Peter Schiesser (redattore responsabile),
Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica
Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli,
Ivan Leoni
vendemmia, a volte persino a guidare
un trattore. Ci si adegua a un ritmo di
vita dettato dalla natura».
Anche Irene è italiana. 24enne,
resterà per due settimane ospite di
Kemal e Sara Moré, a Olivone. «Sono
arrivata solamente ieri, ma l’impatto
è più che positivo. Devo badare ai due
bambini della coppia, dare una mano
in fattoria con le pecore, e a fare il fieno. Questa mattina ho provato a mungere una pecora, e ho avuto qualche
difficoltà!». In mezzo alla natura cerca
«un’esperienza pratica, che mi faccia
provare stanchezza fisica, visto che
nella mia vita ho sempre studiato. Mi
voglio mettere in gioco, scoprire i miei
limiti. Credo che un ragazzino giovane
che sceglie questa avventura può tornare a casa con una grande carica!». È
felice dell’accoglienza, «spero possa
nascere con la famiglia un rapporto
duraturo di stima e fiducia, e mi permettono anche di far venire il mio ragazzo, che è ticinese, a trovarmi. Sono
fortunata con loro».
Il ticinese Riccardo, che ha partecipato qualche anno fa andando
nell’Oberland bernese, sottolinea la
solitudine. «Ero presso una coppia un
po’ anziana, e mi mancava compagnia
della mia età. Ho fatto di tutto, però mi
risparmiavano i lavori più pesanti».
Un’esperienza arricchente non
solo per i ragazzi, ma pure per le famiglie. «Abbiamo ospitato delle giovani ragazze che ci davano una mano
soprattutto in casa», è il racconto di
Laurance Bassin, che ha un’azienda
a Machissy, nel canton Vaud. «Erano
svizzero tedesche, per cui da loro abbiamo imparato a apprezzare le differenze culturali».
Secondo Luca Chiappa, contadino a Certara, è una scuola di vita. «Chi
viene capisce come si vive, nel mio caso,
in montagna. Spesso scelgono Certara perché è bucolica, e non pensano a
quando invece è freddo o piove e si devono mungere lo stesso le mucche. Un
anziano mi disse che in montagna chi
non ne porta non ne ha, e io lo ripeto ai
ragazzi. Si comincia presto a lavorare e
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Un’estate piena di scoperte e di incontri inattesi. (www.agriviva.ch)
si finisce tardi. Imparano che il divertimento non è solo quello offerto dal centro città, ma che può essere bello anche
mettere i piedi nel lago, correre con le
mucche, raccogliere i mirtilli». Chiappa a chi è ospite presso di lui fa fare «un
po’di tutto, dal pulire la stalla all’occuparsi delle mucche sino al fieno».
Anita Tomaszewska ci aveva detto
come i più giovani ticinesi di solito optino per rimanere nel cantone. È il caso
di Tara, 16enne della Val Maggia, che
lavora presso la fattoria di Sara e Luca
Prestinari ad Arogno. «Sono qui per divertirmi, per fare in vacanza qualcosa
di diverso dal solito. La parte più bella è
trascorrere del tempo con la famiglia, e
fare i formaggini. Sapevo già mungere,
ed ora ho imparato meglio». Pensa di
ripetere l’esperienza anche il prossimo
anno. Nei giorni scorsi, il cellulare le è
caduto in acqua, diventando inutilizzabile. «Sembra di essere tornata a quando avevo 10 anni e non l’avevo! Però si
vive anche senza. A casa lo userò meno
di prima? Non lo so».
Luca Chiappa ci parla anche di ragazzi difficili: adolescenti che i genitori
non volevano con sé, sino al caso di un
diciassettenne iperattivo, abbandonato in un foyer a 11 anni. «Si è aperto
con me. Poi ha scelto di fare dell’agricoltura la sua vita, e ha fatto l’apprendista a Campo Blenio». È eccessivo dire
che l’esperienza a Certara lo ha salvato? «Sì, però lo ha aiutato. A volte è una
terapia, anche solo stare lontano dalla
famiglia».
Un’estate in fattoria, dunque, è
davvero un aiuto per casi complicati?
Per Tomaszewska, «può essere positiva. Il 20-30% di coloro che si iscrivono
vivono disagi familiari, che non conosciamo prima e che poi il contadino
scopre. Il guaio è quando cerca di interagire nelle dinamiche familiari, i genitori sovente lo respingono». Soprattutto, però, a suo avviso, è un’idea per chi
soffre di eccessiva timidezza.
La vita nei campi, in fondo, offre
un altro punto di vista. Tutti gli interpellati sono d’accordo, la natura aiuta
ad affrontare le difficoltà. «Fa guardare
le stelle, e dentro se stessi», dice Luca
Chiappa. E allora, con Agriviva si può
trovare non solo un lavoro estivo, ma se
si è fortunati, anche un pezzetto di sé.
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Renzo non parla. Cammina. Cammina lungo il corridoio alle cui pareti c’è
il mare – polipi, stelle marine, onde – e
lo fa novanta, anche cento volte al giorno. E anche di notte. Renzo qualche
volta è felice, spesso arrabbiato. Allora,
visto che non riesce a esprimere tutto il
malcontento, sulla cui origine forse sa
poco, macina chilometri. Avanti e indietro, avanti e indietro.
Quando si mette piede nel Centro Riabilitazione Alzheimer (presso
la Casa dei ciechi di Lugano), l’unico
vocabolo ammesso, l’unico che non
turbi quel mondo intatto, diviso dal
(eppure così unito al) resto, è la parola
«forse». Lo dice Sara, la caporeparto:
«mi piacciono perché sono veri, non
fingono mai, vivono di emozioni». Ma
cosa sta vivendo Renzo (nome di fantasia, come tutti quelli dei pazienti che
appaiono in questo articolo, tranne
un’eccezione), perché cammina e cammina tutto il giorno? Perché invece Luigi ride e imita Alberto Sordi? Quando
balla e si muove, chi crede di essere?
Dove pensa di passare la sua giornata? Si ricorda che anche ieri era qui, e
il giorno prima pure? Alberto invece è
convinto che il soggiorno finirà presto.
«Sto qui ancora un attimo – dice – poi
basta. Ormai ho finito, sono diventato». Non conclude la frase, e intuiamo
che, forse, pensa di essere in una sorta
di scuola dove si passa qualche anno, si
apprendono delle nozioni, poi si chiude il capitolo. «Alla fine», dice. Alla fine
di cosa? «Del periodo».
Il tempo. È questo uno dei problemi principali della malattia, uno sfasamento nella percezione del tempo.
Nessuno si ricorda quando è arrivato,
dicono un anno e invece si tratta di un
mese, ma i ricordi del passato sono lucidissimi. Lucia, per esempio, mentre
piega fazzoletti, imbandisce la tavola e
sparecchia (un lavoro che sono chiamati a fare tutti, se hanno voglia, a parte
i casi più difficili – e lo fanno, e bene),
cita spesso frasi di sua figlia. «“Mamma, ho pagura”. Mi diceva. E io le rispondevo: “si dice ho paura, amore”».
Lucia pulisce da mattina a sera. Lo fa
con l’espressione in volto di chi ha una
missione, un compito assegnatole dal
Padreterno. Come se fosse ancora una
casalinga dal cui impegno dipende il
buon funzionamento della casa. «A
volte piego tutti i fazzoletti da sola»,
dice orgogliosa. «Beata te che riesci»
interviene Francesca, «a me il dottore
ha detto che non posso, che devo riposarmi».
Francesca, fra i dieci ospiti, è la più
lucida. Le hanno detto che avrebbe trascorso solo pochi mesi in istituto, giusto il tempo di riposarsi. Ma lei qualcosa ha intuito e sembra non amare gli
altri anziani. «Ma Sara è brava» dice,
«se non avessi lei cosa farei?». Anche
Ruth è guardinga verso gli altri. Non si
siede subito a tavola, preferisce «lasciare il posto a chi ha paura di non trovarlo». Però ha legato con Lisa, una delle
ospiti più difficili. Lisa non parla, fa uno
strano suono e cammina spesso, insieme a Ruth o a qualche operatore. In
totale sono otto: Sara, la caporeparto, e
altri sette operatori.
«Si svegliano verso le sette» mi racconta Sara. «Alcuni invece rimangono
di più a letto. La giornata è scandita da
alcuni riti. Quello del pranzo e della
cena è molto importante». Poi, i ricordi.
Adesso è estate, le giornate sono afose e
La vita di gruppo è stimolante e permette di ritardare la perdita delle capacità. (Ti-Press)
nel giardino ci si può stare solo di mattina – c’è anche chi si occupa dell’orto.
Nel pomeriggio chi vuole gioca a palla, ascolta la musica, aiuta a decorare il
corridoio a tema marino. Ci sono cartoline appiccicate sul muro, c’è Malta,
c’è la Romagna patria natale di uno degli ospiti, c’è la Sardegna.
«Lavorare sui ricordi è molto importante» mi dice Sara, mentre mi mostra il corridoio che sembra quasi profumare di mare. «Da questa malattia
non si guarisce, ma possiamo tenerli
allenati in modo che progredisca il più
lentamente possibile». Sara cammina
fiera. È nel team da pochi mesi, ma non
lo si direbbe mai: pare essere sempre
stata qui e ha la felicità dipinta in volto.
«Trasferirmi in questo Istituto è stata la scelta professionale più felice che
potessi fare» dice, guardandomi negli
occhi. «Certo – aggiunge – per lavorare qui devi lasciare da parte tutti i tuoi
schemi mentali. Non puoi pensare che
fai le docce al mattino e la chiudi lì. Ma
loro ti ripagano con un affetto indescrivibile».
Mentre camminiamo, ci imbattiamo in una stanza la cui porta è ancora
più decorata delle altre. Cuori, «ti amo»,
fotografie. Chi ci dorme? «Giancarlo,
l’ospite più giovane» mi spiega Sara. In
seguito, parlando con sua moglie Claudia, scopro tutta la storia: Giancarlo
Fara (nome vero) ha sessantacinque
anni e ha iniziato a dare le prime avvisaglie della malattia cinque anni fa. «Operando nel campo della ristorazione, sia
io, che mia madre, e anche le sue due
figlie, ci siamo accorte che faceva con-
fusione con le ordinazioni – esordisce
Claudia, che mi racconta per filo e per
segno tutto l’iter, dalle prime perdite di
memoria alle allucinazioni.
«All’inizio non ci ho fatto tanto
caso. Sbagliava le strade, anche quelle
che facevamo tutti i giorni, passava col
rosso, ma io ho attribuito queste sviste
a una leggera depressione legata al fatto che ci eravamo trasferiti in Italia, a
Porto Ceresio, posto dove lui non si è
trovato bene». Ma una volta rientrati in
Svizzera, Giancarlo non ha dato segni
di miglioramento; anzi. «Guardando
la tv, diceva di conoscere di persona
attori famosi, che erano arrivati al ristorante. Poi ha iniziato con alcune fisse: voleva partire, voleva andare a San
Moritz, dove da giovane in effetti aveva
lavorato. “Conosco la padrona dell’al-
bergo – diceva – ho già un contratto
con lei”».
Un trasloco continuo: spesso e volentieri Claudia, tornando a casa, trovava tutte le cose riposte negli scatoloni
fuori dalla porta. «Non sapevo come
gestire la situazione: chiamavo spesso
il geriatra chiedendogli come dovessi
comportarmi. Mi consigliava di lasciarlo fare e di chiamare l’ambulanza e
la polizia nel caso in cui si fosse messo
veramente in viaggio». Poi sono arrivate le allucinazioni, vedeva uomini in
casa, presunti amanti di Claudia; altre
volte non la riconosceva come moglie
e le chiedeva di togliere il suo cognome
dalla carta di identità. «Era diventato
aggressivo. A un certo punto sono intervenute mia madre e mia figlia, che
già da tempo mi pregavano di farmi
aiutare; il mio medico di famiglia mi ha
proposto un ricovero. All’inizio pensavo che si sarebbe trattato di qualche
settimana, per stabilizzare la situazione: ma vista la sua aggressività, il medico mi ha un po’ costretta a spostarlo a
Mendrisio».
Il peggioramento cognitivo è stato
molto rapido, nell’arco di pochi mesi
Giancarlo è crollato. «Non potevo più
lasciarlo da solo a casa, nemmeno per
un quarto d’ora. Ho capito che andava
inserito in una struttura idonea e per
fortuna ho trovato questa». Claudia
ci ha messo un po’ ad accettare la malattia e la sua rapida progressione. «Mi
sono ritrovata accanto un marito che
non sapeva più rispondere al telefono e
accendere la tv. Una persona che faceva
programmazione informatica. Ci ho
messo un po’ ad abituarmi all’idea di
non averlo in casa, mi sentivo in colpa,
mi sembrava di averlo abbandonato».
La camera di Giancarlo è piena delle cose che hanno scandito la sua vita: il
pc, le foto delle figlie, i ricordi del passato. Quando lei, che va nel centro tutti i
giorni, gli chiede, mi ami? Lui risponde:
certo. Come se su questo punto, nessuna malattia al mondo, nonostante i
momenti nebulosi, possa fare nulla. Rimane un nucleo puro, incontaminato.
Intorno a questo, il regno del forse.
Fabrizio Greco: «Ci interessa la qualità di vita dei pazienti»
Scriveva che i bambini non dovevano
vivere in un ambiente plasmato sui
bisogni fisici degli adulti, ma sui loro,
riconoscendo nello spazio l’elemento
per valorizzarli come esseri unici e
irripetibili: il metodo di Maria Montessori, basato sull’importanza degli
stimoli esterni e sulla loro influenza
a livello del comportamento dei più
piccoli, può essere adattato anche alla
persona anziana. Questo, in pratica, il
percorso adottato nel Centro Riabilitazione Alzheimer di Lugano.
I bambini, crescendo, acquisiscono delle abilità, gli anziani affetti
da Alzheimer le perdono. Come
è possibile applicare lo stesso
modello?
Direttore Fabrizio Greco, com’è
nato questo istituto?
Ho visto con i miei occhi che
proponete agli anziani una serie di
attività, dal piegare gli strofinacci al
preparare il pesto fresco. Lo scopo
è quello di preservare le loro capacità residue?
Siamo partiti già molti anni fa perché
ci siamo accorti che gli altri modelli di
cura avevano delle lacune. Montessori
si occupava di bambini piccoli, quindi
il suo modello può essere applicato
anche a persone molto debilitate.
Abbiamo iniziato così, poi ci siamo
accorti che in campo internazionale
anche il Professor Cameron Camp si
era indirizzato in questo senso, con
modelli operativi che abbiamo preso
in prestito.
Semplicemente al contrario. Utilizziamo anche la teoria degli sviluppi di
Piaget, ma mettendola a testa in giù. Il
modello serve a utilizzare le capacità
residue. Un principio fondamentale
di Montessori, che noi applichiamo
praticamente tutti i giorni, è riassumibile nel motto «aiutami a fare da
solo».
In generale noi non imponiamo nessuna attività, perché non riteniamo che
sia rispettoso. Sono gli operatori che
partono con un’attività e se la persona
è interessata, si avvicina spontaneamente. Entrando nel nostro centro,
è possibile vedere due operatori che
giocano a carte. Non lo fanno certo per
passare il tempo, ma per stuzzicare gli
ospiti, perché magari ad alcuni di loro
lo scopone scientifico o la briscola son
sempre piaciuti molto.
Come fate a sapere quali sono le
loro preferenze?
È molto importante la ricerca della
biografia dei nostri ospiti. Chi è questa
persona? E soprattutto: chi pensa di
essere? Se la persona che abbiamo di
fronte ha novant’anni, ma è convinto
di averne quaranta, ci interessa sapere
cosa faceva a quell’età, quali erano
le sue passioni, i suoi amori. Lavorava in posta? Benissimo. Faremo in
modo di trovare dei timbri postali,
delle lettere, delle cartoline. Questi
elementi vengono lasciati nell’ambiente e sono gli anziani che vanno
eventualmente a prenderli. Si tratta di
stimoli, opportunità che non distruggono il loro immaginario. Per quello
il mobilio non è moderno, ma retrò.
Molti pazienti hanno il pc, anche se
non lo usano. Perché? Non è importante l’utilizzo dell’oggetto, ma il suo
riconoscimento. Ciò che conosciamo
ci tranquillizza.
Perché lo scopo è quello di farli
vivere serenamente…
Non c’è possibilità di guarigione da
questa malattia. Anzi, il peggioramento è garantito. Per questo a noi
interessa la qualità di vita; vogliamo
che la persona sia serena, si diverta, stia
bene. L’ambiente è carino e conviviale. Poi ci sono i momenti di tensione,
come dappertutto. Lasciamo le porte
aperte in modo che loro possano girare ovunque. Non li obblighiamo a
fare nulla. L’ospite non vuole togliersi il
pigiama? Va bene. Ci sarà il momento
opportuno per vestirlo. Non imponiamo niente, perché ogni volta che lui
o lei non capisce quello che vogliamo fare, si creano delle tensioni che
magari sfociano in rabbia. Non è vera
aggressività, è che il malato non riesce
a decodificare la situazione. Scommetto che anche noi, se non capissimo
perché qualcuno ci tocca o strattona,
diventeremmo aggressivi. E non è
nemmeno vero che scappano: hanno
semplicemente l’intenzione di andare
da qualche parte. Dove? È quello che
cerchiamo di capire.