James Carol

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James Carol
James Carol
Anatomia
di un incubo
Traduzione di
Adria Tissoni
Titolo originale:
Broken Dolls
Copyright © James Carol, 2014
All rights reserved
http://narrativa.giunti.it
© 2014 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Via Borgogna 5 – 20122 Milano – Italia
ISBN 9788809750814
Prima edizione digitale: gennaio 2014
Per Karen, Niamh e Finn.
Vi voglio bene.
Prologo
L’ultima volta che ho visto mio padre vivo era legato al lettino di un carcere, le
braccia aperte come se dovesse essere crocifisso. Ogni richiesta di appello era stata
respinta e non avrebbero certo sospeso l’esecuzione in extremis. Aveva una flebo in
ogni braccio, le cannule già inserite. Per la procedura ne bastava una, l’altra era di
riserva. Un monitor scandiva i battiti del suo cuore: nonostante le circostanze la
frequenza era lenta, regolare, di settantacinque al minuto.
Nella stanza adiacente c’era una ventina di testimoni. Genitori delle vittime,
funzionari della prigione, un uomo dell’ufficio del Governatore della California in un
abito inappuntabile. Si sentivano movimenti e fruscii: si stavano mettendo comodi per
lo spettacolo, ma io ne ero solo in parte consapevole. Mio padre guardò attraverso la
spessa lastra di plexiglas e mi sentii trafiggere dalla sua occhiata intensa. In
quell’istante c’eravamo solo io e lui. Ricambiai lo sguardo, curioso di capire che cosa
stesse pensando. Avevo conosciuto e studiato un numero sufficiente di psicopatici per
sapere che non si era pentito di quanto aveva fatto, che era incapace di mostrare
rimorso per i suoi crimini.
In dieci anni aveva ucciso quindici giovani donne. Le aveva rapite, portate nelle
vaste e ondulate foreste dell’Oregon, liberate e dato loro la caccia con un fucile molto
potente. Non gli importava un bel niente di quelle ragazze. Per lui non erano altro che
giocattoli.
Sostenni il suo sguardo per un po’. Aveva gli occhi di un verde brillante con un
alone dorato attorno all’iride, proprio come i miei: erano uno dei molti tratti genetici
che ci accomunavano. Guardarlo era come osservare il lungo tunnel buio che
conduceva al mio futuro. Eravamo alti entrambi uno e settantacinque, snelli e
irritabili, con gli stessi capelli candidi dovuti a un’anomalia genetica comparsa chissà
quando tra i nostri antenati. A me erano diventati bianchi poco dopo i vent’anni, a mio
padre ancora prima.
Erano tre i motivi principali per cui aveva continuato a uccidere per tanti anni.
Primo, la sua intelligenza gli consentiva di stare sempre un passo avanti rispetto ai
suoi inseguitori. Secondo, aveva una di quelle facce che scordavi all’istante, che si
confondevano nella folla. Terzo, si tingeva i capelli. Non sarebbe bastato avere un
volto anonimo se i capelli balzavano subito all’occhio.
Il lieve sorriso che guizzò sulle sue labbra svanì in una frazione di secondo. Era un
sorriso crudele, arrogante. Muovendo solo la bocca pronunciò tre parole che mi
lasciarono senza fiato. Le aveva rivolte a una parte recondita di me stesso, che tenevo
ben nascosta. Doveva aver notato un cambiamento nella mia espressione perché
sfoderò un altro sorriso rapido, tagliente, dopodiché chiuse gli occhi per l’ultima
volta.
Il direttore del carcere gli chiese se volesse fare una dichiarazione, ma lui si limitò a
lanciargli un’occhiata inespressiva. Glielo chiese di nuovo, gli diede quasi un minuto
per rispondere e, dato che non reagiva, ordinò con un cenno che iniziasse
l’esecuzione.
Per primo fu iniettato il pentobarbital; l’anestetico agì in fretta e in pochi secondi
mio padre perse conoscenza. Poi fu la volta del bromuro di pancuronio, che gli
paralizzò i muscoli respiratori. Infine, il cloruro di potassio per arrestare il cuore. Sei
minuti e ventitré secondi dopo lo dichiararono morto.
Alle mie spalle la madre di una vittima singhiozzava confortata dal marito. Aveva lo
sguardo vitreo di chi è sotto farmaci, ma non era la sola: bastava un’occhiata nella
stanza per averne conferma. L’eredità che mio padre si era lasciato dietro era duratura,
pesante, segnata da un’infelicità che si sarebbe ripercossa a lungo. Il padre di un’altra
vittima mormorò che se n’era andato troppo rapidamente, un sentimento condiviso da
gran parte dei presenti. Avevo visto le fotografie delle scene del crimine e letto i
referti delle autopsie, perciò non avevo intenzione di obiettare. Tutte e quindici le
ragazze erano andate incontro a una morte lenta, atroce, l’esatto opposto della sua.
Uscii accodandomi agli altri e raggiunsi il parcheggio. Rimasi seduto per un po’
nell’auto a noleggio, con la chiave nel cruscotto, cercando di liberarmi la mente dalla
nebbia. Quelle tre parole continuavano a ronzarmi in testa. Sapevo che si sbagliava,
che cercava solo di fottermi il cervello, eppure non riuscivo a scrollarmi di dosso la
sensazione che contenessero un briciolo di verità. E in quel caso, chi ero veramente?
Costruiamo le fondamenta della nostra vita su terreni sismici e sabbie mobili: nei suoi
ultimi istanti mio padre era riuscito a scuotere le mie come uno spaventoso terremoto,
distruggendo tutto ciò che ritenevo giusto e vero.
Girai la chiave, inserii la marcia e mi diressi all’aeroporto. Il mio volo per
Washington sarebbe partito alle sei e trenta del mattino successivo, ma non lo presi
mai. Superai il bivio per l’aeroporto e proseguii fino in Virginia. A essere sincero non
avevo fretta. A Quantico non mi aspettavano che la settimana seguente, ma questo
non m’impediva di fuggire dalla California il più rapidamente possibile, di continuare
a spostarmi.
Il limbo immobile, angosciante della sala d’imbarco era una cosa di cui potevo fare
benissimo a meno. I minuti sarebbero diventati ore, le ore giorni, i giorni anni. Era
questo che mi ripetevo mentre la lancetta del tachimetro saliva sempre più, ed era
vero, malgrado fosse solo un frammento di una verità più ampia. In realtà stavo
cercando di eludere le parole di mio padre, ma per quanto lontano andassi o per
quanto veloce guidassi non ci sarei riuscito.
Ancora oggi, quasi diciotto mesi dopo, mi tormentano, riaffiorano quando meno me
lo aspetto. Il tempo e la memoria hanno alterato quella frase mormorata nella sua
cadenza californiana lenta, strascicata, la stessa che usava per ammaliare le vittime.
La sento chiaramente, come se mi fosse seduto accanto.
Noi… siamo… uguali.
1
La donna nel letto d’ospedale sembrava morta. Avrebbe dovuto esserlo, in effetti.
Sapevo che era viva solo grazie al bip continuo del monitor cardiaco e al movimento
impercettibile delle coperte. Aveva il volto flaccido, inespressivo. Non era il profondo
rilassamento del sonno, ricordava piuttosto quello della morte, come se tutti i muscoli
facciali si fossero irrigiditi per sempre. Avevo l’impressione di osservare un cadavere
sul tavolo dell’obitorio o un corpo scaricato in un bosco sperduto, ma non era così.
Tuttavia, una parte di me avrebbe voluto che lo fosse.
L’ispettore Mark Hatcher guardò la figura addormentata e mormorò un sincero
«Gesù». La fissava come ipnotizzato, scuotendo ogni tanto la testa o emettendo un
sospiro: piccoli gesti, ma eloquenti. Lo avevo conosciuto a un corso di profiling che
avevo tenuto a Quantico per agenti di polizia stranieri. Si era fatto notare perché si
sedeva in prima fila a ogni lezione e non smetteva mai di fare domande. Mi era
piaciuto a quel tempo e mi piaceva ancora. Chiunque riesca a guardare per trent’anni
nell’abisso – come diceva Nietzsche - e provare ancora qualcosa, per me è un tipo in
gamba.
Quegli anni però non erano stati clementi: gli avevano tolto ogni colore dalle
guance, ogni gioia. Capelli, pelle, visione della vita, tutto in lui era grigio. Possedeva
quella particolare vena di cinismo che trovavi solo nei poliziotti in servizio da troppo
tempo, e gli occhi tristi da segugio raccontavano la sua penosa storia. Aveva visto più
di quanto un uomo dovrebbe mai vedere.
«Patricia Maynard è la quarta vittima, giusto?» Era una domanda retorica ma
necessaria per riportarlo in quella stanza.
«Esatto.» Fece un sospiro lungo, stanco, e scrollò la testa, poi si girò a guardarmi
negli occhi. «Inseguo questo bastardo da diciotto mesi e sai qual è la verità? Non so se
adesso siamo più vicini a prenderlo di quanto non fossimo all’inizio. È come il gioco
dell’oca, c’è sempre il rischio di tornare al via.» Un altro sospiro, un’altra scrollata di
testa. «Credevo d’aver visto di tutto, Winter, ma questo supera ogni cosa.»
Era un eufemismo. Non c’è limite agli orrori partoriti dalle menti dei serial killer;
eppure persino io dovevo ammettere che quel caso era diverso. E io avevo visto
davvero di tutto. C’erano cose peggiori della morte e Patricia Maynard ne era la prova
vivente.
La guardai distesa in quella stanza claustrofobica, collegata a una sfilza di
macchine, una flebo nel dorso della mano, e pensai di nuovo che sarebbe stato meglio
se fosse morta. Sapevo esattamente come fare. Bastava staccare la flebo e immettere
aria nella cannula con una siringa.
L’embolo avrebbe colpito prima il lato destro del cuore e di lì sarebbe arrivato ai
polmoni. I vasi sanguigni si sarebbero ristretti aumentando la pressione nella metà
cardiaca destra fino al punto di spingere l’embolo in quella sinistra, da cui avrebbe
avuto accesso al resto dell’organismo attraverso il sistema circolatorio. Se si fosse
localizzato in una coronaria, avrebbe provocato un infarto. Se avesse raggiunto il
cervello, un ictus.
Una soluzione semplice, pulita. A meno che qualcuno non indagasse con molto
scrupolo, il rischio di finire in prigione era minimo. E nessuno lo avrebbe fatto.
L’esperienza mi ha insegnato che la gente vede solo quello che vuol vedere. Negli
ultimi tre mesi e mezzo, Patricia Maynard era stata tenuta prigioniera e aveva sofferto
le pene dell’inferno. Se fosse morta ora? Be’, saremmo stati tutti indotti a credere che
il suo corpo alla fine avesse ceduto. Punto. Caso chiuso.
«Le analisi del DNA?» chiesi.
«Bastano a collegare il suo caso alle altre tre donne, ma dal database non è emerso
niente.» Hatcher sospirò. «Dobbiamo prenderlo prima che metta le mani su
qualcun’altra.»
«Non succederà, Hatcher. Scaricata la vittima numero uno, ha aspettato due mesi
prima di rapirne un’altra. Tra l’abbandono della terza e il sequestro di Patricia
Maynard, invece, sono trascorse solo quarantott’ore. Di solito c’è un periodo di stasi
in cui le fantasie del maniaco sono abbastanza vive da tenerlo a freno. Con questo
tizio le fantasie non bastano più. Sono un misero surrogato della realtà a cui si è fin
troppo abituato. Sta accelerando i tempi. Patricia Maynard è stata ritrovata ieri notte,
quindi presumo rapirà la prossima stanotte.»
«Proprio quello che mi serviva: un’altra brutta notizia.» Hatcher sospirò ancora e si
massaggiò il volto tirato. «Allora qual è quella buona, Winter? Perché sarà meglio che
tu ne abbia una. In fondo ti ho coinvolto per questo.»
«Quella buona è che più perde il controllo, più probabilità ci sono che commetta un
errore. Più errori commette, più facile sarà prenderlo.»
«La teoria non fa una piega. Il problema è che là fuori c’è una donna che sta per
vedere in faccia il suo peggiore incubo e non c’è assolutamente niente che io possa
fare per impedirlo. Il mio compito è proteggere le persone come lei.»
A quell’obiezione non seppi che rispondere. Mi ero trovato tante volte nei suoi
panni e sapevo esattamente che cosa provasse. Un senso d’impotenza, il bisogno di
fare qualcosa senza sapere cosa. La rabbia era tuttavia il sentimento più difficile da
gestire: rabbia nei confronti di te stesso perché non riesci a risolvere il rebus, rabbia
nei confronti del mondo che te lo pone.
Per un po’ restammo rispettosamente in silenzio a guardare Patricia che dormiva. Le
coperte si alzavano e si abbassavano al ritmo del monitor cardiaco, l’orologio a muro
segnava lo scorrere dei secondi.
Patricia aveva ventotto anni, occhi castani e capelli scuri. Il colore degli occhi in
realtà non era visibile perché erano gonfi e chiusi, e nemmeno quello dei capelli
perché il rapitore glieli aveva rasati. La pelle attorno agli occhi era bluastra per i lividi
e il cuoio capelluto brillava, roseo, sotto le luci intense dell’ospedale. Non c’era alcun
segno di ricrescita, il che significava che glieli aveva tagliati di recente, forse poche
ore prima di abbandonarla. Non era la prima volta che le faceva una cosa del genere.
Quel tizio si eccitava umiliando, torturando e infliggendo dolore al prossimo.
Avevo interrogato numerosi assassini per cercare di scoprire che cosa li spingesse a
uccidere. Capire perché un essere umano facesse del male a un altro per puro piacere
era diventato in sostanza il mio lavoro. Però faticavo a comprendere perché Patricia
Maynard fosse stata lobotomizzata.
Le funzioni cardiopolmonari sono controllate dal midollo allungato, una parte del
cervello che non era stata lesa dalla lobotomia. Finché Patricia fosse vissuta, il
midollo allungato avrebbe permesso ai suoi polmoni di respirare e al suo cuore di
pompare. Non aveva neanche trent’anni e sarebbe potuta vivere tranquillamente per
altri quaranta o cinquanta. Mezzo secolo da trascorrere imprigionata nel suo corpo,
totalmente dipendente dagli altri, incapace di nutrirsi e di andare in bagno, di
formulare un pensiero o una frase. Una prospettiva atroce.
«E non ci sono cicatrici sul cranio?» Un’altra domanda retorica, necessaria stavolta
per riportare me in quella stanza.
«Questo perché l’accesso al cervello è avvenuto attraverso le orbite.» Hatcher stava
ancora fissando Patricia. «Hai visto abbastanza, Winter?»
«Più che abbastanza.» Anch’io la stavo fissando, non potevo farne a meno. «Bene,
la prossima tappa è St Albans. Devo parlare con Graham Johnson.»
«È necessario? I miei lo hanno già sentito.»
Staccai a fatica gli occhi da Patricia Maynard e lo guardai. «E sono sicuro che
abbiano fatto un ottimo lavoro, ma è stato Johnson a trovarla, il che significa che lui e
il colpevole sono molto vicini. E dato che le nostre vittime non parlano molto, in
questo momento è l’unico modo che ho per avvicinarmi di più al sospettato. Perciò sì,
voglio parlargli.»
«D’accordo. Faccio una telefonata. Troverò qualcuno che ti accompagni.»
«Così quanto tempo perdiamo? Sarebbe meglio che mi accompagnassi tu.»
«Impossibile. Mi aspettano in ufficio.»
«Sei tu il capo. Puoi fare quello che vuoi.» Sorrisi. «Dai, Hatcher, sarà uno spasso.»
«Uno spasso! Sai, Winter, hai un’idea piuttosto distorta del divertimento. Uno
spasso è quando sei in compagnia di una bionda di vent’anni, o quando festeggi tutta
la notte sullo yacht di un miliardario. Il nostro lavoro non è uno spasso.»
«Sai qual è il tuo problema, Hatcher? Hai passato troppo tempo a una scrivania.
Quand’è stata l’ultima volta che hai svolto un vero lavoro di polizia?» Sorrisi di
nuovo. «Pensaci, quand’è stata l’ultima volta che ti sei fatto una bionda di vent’anni?»
Hatcher fece un altro sospiro stanco. «Devo andare.»
«E io ho appena attraversato l’Atlantico per salvarti il culo. A proposito, sai che non
vedo un letto da trentasei ore?»
«Questo è un ricatto psicologico.»
«E con ciò?»
Lui sospirò ancora. «D’accordo, ti accompagno io.»
2
Hatcher aveva una guida attenta e veloce, il tachimetro segnava quasi sempre
centoquaranta e scendeva di rado sotto i centoventi. Eravamo diretti a nord sullaM1,
l’arteria urbana che attraversava la periferia di Londra, costeggiata da edifici tetri, resi
ancor più lugubri dalla luce cupa di dicembre.
Tra meno di una settimana sarebbe stato Natale, ma neppure le luci colorate degli
addobbi dietro le finestre riuscivano a rallegrare la giornata. Mancava poco al
tramonto, e il cielo grigio ardesia era pieno di nubi temporalesche. Secondo i bollettini
sarebbe arrivata la neve e c’era già chi scommetteva che sarebbe caduta a Natale.
Capivo l’attrattiva della scommessa, non quella della neve. Era fredda, bagnata,
deprimente. Nel profondo del cuore sarei sempre stato un californiano. Bramavo il
sole come un tossico il crack.
«Apprezzo davvero molto che tu abbia accettato il caso» disse Hatcher. «So quanto
sei occupato.»
«Mi fa piacere essere qui» risposi. No, non lo sai, pensai, ed era la verità. In
quell’istante avrei potuto essere a Singapore, a Sidney o a Miami, in un posto caldo e
soleggiato. Invece mi trovavo a Londra in un giorno gelido di dicembre, a combattere
l’assideramento e l’ipotermia e a chiedermi quando sarebbe arrivata la bufera.
La colpa era solo mia. Il principale vantaggio d’essere il capo di te stesso era poter
decidere autonomamente. Avevo scelto di venire a Londra per la semplice ragione che
quel caso era insolito e quindi interessante, e solo per qualcosa di interessante avrei
rinunciato al sole.
Da quando avevo lasciato l’FBI viaggiavo per il mondo dando la caccia ai serial
killer. Ricevevo ogni giorno richieste d’aiuto, a volte anche due o tre. Non era facile
decidere quali casi accettare: rinunciare poteva significare condannare a morte una
persona, spesso anche più d’una, visto che gli assassini seriali continuano a uccidere
finché qualcuno non li ferma. Questo dilemma mi aveva fatto passare molte notti
insonni quando ero all’FBI. Adesso dormivo meglio, grazie tuttavia all’effetto
combinato dei sonniferi, del whisky e del jet lag.
Purtroppo, i mostri da braccare non sono mai mancati. Esistono fin dai tempi di
Caino e Abele, e sempre esisteranno. I serial killer sono come le piante infestanti: ne
estirpi una e al suo posto ne spuntano altre dieci. Solo negli Stati Uniti pare che
attualmente ce ne siano un centinaio, e questa cifra comprende soltanto i killer, non gli
incendiari, gli stupratori e tutti gli altri maniaci che hanno come unico scopo arrecare
dolore al prossimo.
All’FBI ero il classico agente: vestito impeccabile, scarpe lucidate a specchio, capelli
corti. A quel tempo erano neri, tinti, per non farmi notare. In fila con altri cento
colleghi, sarei stato indistinguibile.
Oggi mi preoccupo meno del mio aspetto. Le camicie bianche inamidate e gli abiti
formali sono scomparsi, sostituiti da jeans, magliette con le immagini di rockstar
morte e felpe con cappuccio. Le scarpe lucide hanno ceduto il posto agli scarponcini
da lavoro, comodi e pieni di graffi. E i capelli non sono più tinti. Non sono elegante
come un tempo, ma accidenti se mi sento molto più a mio agio. Quella divisa da
agente federale era una vera e propria camicia di forza.
«Prime impressioni?» Hatcher mi guardò tenendo una mano sul volante mentre la
lancetta del tachimetro toccava i centosessanta.
«Ci sono solo due modi perché quell’uomo si fermi: o lo prendete o muore, per
cause naturali o no. Gli piace troppo quello che fa per smettere di sua volontà.»
«Dai, Winter, non stai parlando con un pivello. È una descrizione che si applica al
novantanove per cento dei serial killer.»
Scoppiai a ridere. Hatcher mi aveva sgamato. «D’accordo, allora che mi dici di
questo: quando lo prenderete, non cederà facilmente. È il classico tipo che cercherà di
farsi ammazzare dalla polizia.»
«Cosa te lo fa pensare?»
«Il carcere sarebbe la sua morte.»
«Perché?»
«È ossessionato dal controllo. Gestisce ogni aspetto della vita delle sue vittime:
come si vestono, cosa mangiano, tutto. Non sopporterebbe di perdere questo potere.
La prospettiva di farsi ammazzare dalla polizia è allettante, perché sarebbe lui a
scegliere l’ora e il luogo della sua morte. In questo modo manterrebbe il controllo.»
«Spero che ti sbagli.»
«Non mi sbaglio.»
Mentre guidava, ripensai ai particolari del rapimento di Patricia Maynard. Tanto per
cambiare avrei voluto avere maggiori informazioni: in effetti, per quante ne avessi,
non erano mai abbastanza.
In base ai rapporti della polizia, Martin Maynard aveva denunciato la scomparsa
della moglie il 23 agosto, diventando così il principale sospettato. La maggior parte
degli omicidi è commessa da persone che conoscono la vittima: il coniuge, un parente
o un amico. In quella fase tuttavia non era ancora un caso di omicidio e la polizia
stava vagliando tutte le possibilità.
Martin Maynard aveva avuto numerose relazioni e la coppia andava da un terapeuta
nel disperato tentativo di salvare un matrimonio finito da tempo. Se a questo
aggiungevi una cospicua assicurazione sulla vita, il movente pareva più che fondato.
L’omicidio era stato dunque la logica conclusione.
Dopo quarantotto ore di interrogatorio il marito era stato rilasciato. La polizia lo
aveva tenuto d’occhio nei mesi successivi, sempre per vagliare tutte le possibilità e
coprirsi il culo. Avevano ricostruito gli ultimi movimenti di Patricia e stabilito che era
scomparsa la sera del 22 agosto.
Martin aveva un alibi solido per quella sera, ovvero la sua segretaria, malgrado
avesse giurato alla moglie che non si vedessero più. La sera in cui era scomparsa lui
avrebbe dovuto trovarsi a Cardiff per lavoro, ma in realtà era rimasto a Londra con
l’amante. I registri dell’albergo e alcuni testimoni oculari avevano confermato la sua
versione.
Nei tre mesi e mezzo successivi non era emerso nulla. Niente richieste di riscatto,
niente telefonate, niente cadaveri. Patricia Maynard era svanita dalla faccia della terra.
Tutti ormai ritenevano che fosse morta, poi due notti fa era stata ritrovata in un parco
di St Albans, una cittadina a nord di Londra famosa per la sua cattedrale. Era
disorientata e incapace di comunicare, persino di rispondere alle domande più banali.
Graham Johnson stava portando a spasso il cane e l’aveva vista vagare da sola. Aveva
chiamato la polizia locale, che l’aveva prontamente identificata come Patricia
Maynard. La donna era stata quindi trasferita al St Barts Hospital di Londra e Hatcher
si era visto assegnare il caso.
Nei tre mesi e mezzo di prigionia Patricia era stata ripetutamente torturata. Aveva il
corpo coperto di lividi e cicatrici, più o meno recenti. Il maniaco amava usare i coltelli
e dall’esame tossicologico era emerso che le aveva somministrato dei farmaci per
tenerla sveglia e aumentarne la sensibilità mentre infieriva su di lei. Le aveva mozzato
tutte le dita, una alla volta, tranne l’anulare della mano sinistra, e cauterizzato con
cura i moncherini. Stranamente non le aveva deturpato il viso e, elemento ancora più
singolare, questo presentava tracce di trucco. Un altro particolare interessante era che,
al di là delle lesioni, Patricia era in buone condizioni fisiche: aveva il peso giusto per
la sua altezza e la sua costituzione, e non mostrava segni di disidratazione.
Raggiunto il bivio per St Albans, Hatcher girò a sinistra imboccando lo svincolo.
Cinque minuti dopo stavamo attraversando St Michael, una zona di fatiscenti casette a
schiera, villette da cartolina e proprietà più estese che dovevano costare una fortuna.
Superammo quattro bar, troppi per il numero di case, tutte contraddistinte da una
peculiarità demografica: quel luogo era ormai diventato il regno dei turisti.
Il freddo m’investì non appena scesi dall’auto. Fu come sbattere con la testa contro
un muro di ghiaccio. Indossavo il giaccone pesante, foderato di pelle di pecora e
impermeabilizzato contro l’umidità e il vento, ma era come se fossi in pantaloncini e
maglietta. Mi accesi una sigaretta e Hatcher mi lanciò un’occhiataccia.
«Siamo all’aperto» dissi. «Non infrango nessuna legge.»
«Quella roba ti ucciderà.»
«Come molte altre. Domani potrei finire sotto un autobus.»
«O ammalarti di cancro ai polmoni e morire di una morte lenta, dolorosa e
terribile.»
Gli rivolsi un sorriso a denti stretti. «Oppure no. Il mio bisnonno fumava due
pacchetti al giorno ed è arrivato a centotré anni. Potrei aver preso da lui, no?»
La casa di Graham Johnson era di fronte al Six Bells. Come tutte le abitazioni della
via, aveva la porta che dava direttamente sul marciapiede. Uno degli uomini di
Hatcher lo aveva avvertito per telefono, perciò ci stava aspettando. La tenda del
soggiorno si scostò quando ci avvicinammo alla casa e la porta si spalancò prima
ancora che Hatcher suonasse il campanello. Johnson era in piedi sulla soglia con un
Jack Russell che abbaiava e gli saltellava tutt’intorno come un matto. Era di altezza e
di corporatura medie.
Dai rapporti della polizia sapevo che aveva settantacinque anni: con quel volto
stanco, segnato dalle rughe e dalle preoccupazioni, li dimostrava tutti. I pochi capelli
che gli restavano erano bianchi come i miei e aveva due grosse borse sotto gli occhi
azzurri acquosi. Per la sua età, però, era agile e sciolto nonostante la temperatura
gelida. Erano i benefici di fare un po’ d’esercizio anziché prendere vitamine e
integratori per le articolazioni. Non sembrava un cultore delle pillole.
«Accomodatevi.»
Si scostò per farci passare in soggiorno. Il cane era fuori di sé, abbaiava e girava in
cerchio inseguendosi la coda. «Buono, Barnaby!» esclamò l’anziano. L’animale smise
all’istante e balzò, mogio, su una sedia. Spensi la sigaretta fumata a metà sul
marciapiede ed entrai dopo Hatcher. Il cane seguì ogni nostro movimento con lo
sguardo. Il piccolo fuoco che ardeva nel caminetto scaldava la stanza e la illuminava
con il suo piacevole bagliore arancione.
«Posso offrirvi qualcosa?» domandò. «Un tè? Un caffè?»
«Un caffè sarebbe graditissimo» risposi. «Nero, con due cucchiaini di zucchero,
grazie.»
Hatcher non prese niente e l’anziano sparì in cucina. Mi sistemai sul divano e
osservai il soggiorno. Sembrava la sala di un museo. Avevo notato, quand’era venuto
ad aprirci, che Johnson portava la fede e per me era evidente che quella stanza era
stata arredata da una donna. Però non avevo visto la moglie. Ogni superficie era
coperta di soprammobili, poltrone e divano erano abbelliti da cuscini floreali e alle
finestre c’erano tendine con gli stessi motivi. Sulla mensola del caminetto spiccava,
fiera, una vecchia foto del loro matrimonio e in ogni angolo c’erano fotografie di
famiglia, raffiguranti una marea di figli e nipotini sorridenti. Dagli abiti e dalle
acconciature si capiva quando fossero state scattate: le più recenti risalivano
all’incirca a quattro anni prima, probabilmente all’epoca in cui sua moglie era morta.
Johnson tornò con due tazze fumanti di caffè, me ne porse una e si sedette sulla
poltrona accanto al caminetto. Il caffè era forte, ad alto tasso di caffeina, proprio come
piaceva a me.
«Ci può raccontare come ha trovato Patricia Maynard?» domandò Hatcher.
«Ah, si chiama così» osservò. «Da lunedì sera avrò parlato con una decina di
poliziotti e nessuno si è preoccupato di dirmi il suo nome. Io d’altronde, non l’ho
chiesto, quindi penso sia anche colpa mia. Però non mi sembrava giusto. Non sapere
come si chiamasse.»
«Signor Johnson» incalzò Hatcher.
Il vecchio sussultò e tornò al presente. «Scusatemi.»
Hatcher gli fece cenno di non preoccuparsi. «Ci può raccontare che cos’è
accaduto?»
«Avevo portato fuori Barnaby per la passeggiata serale. Saranno state più o meno le
dieci. Lo porto fuori ogni sera alla stessa ora. A dire il vero, lo porto al parco due o tre
volte al giorno: se non lo facessi, mi distruggerebbe la casa.»
«Parliamo del Verulamium Park, giusto?»
«Esatto, del Verulamium. Venendo qui, sarete probabilmente passati davanti
all’ingresso. Ad ogni modo, arrivo in fondo al lago e la vedo. L’ho notata perché ho
pensato che volesse entrare in acqua.» Tacque per sorseggiare il caffè. «Sentite, non
voglio essere sgarbato, ma ho già detto tutto alla polizia. Ripetervelo non è un
problema, ma temo di farvi perdere tempo.»
«Non ci fa perdere tempo.» Guardai il Jack Russell. «Vorrei fare un esperimento, se
è d’accordo. Pensa che a Barnaby andrebbe di fare una passeggiata?» Udendo la
parola «passeggiata» il cane drizzò le orecchie. Saltò giù dalla sedia abbaiando e prese
a girare su se stesso come un animale da circo.
Johnson scoppiò a ridere. «Credo che lo possa prendere come un sì» rispose.
3
Impiegammo cinque minuti a raggiungere il Verulamium Park, abbastanza perché
potessi fumarmi una sigaretta intera. Barnaby continuò a saltellare e a tirare il
guinzaglio, rischiando quasi di strozzarsi, come se andare a passeggio fosse la cosa
più eccitante del mondo.
Il buio stava calando rapidamente e i lampioni fendevano l’oscurità con la loro
sgradevole luce giallognola. Si sentiva la neve in arrivo e l’aria era umida, soffocante.
Mi strinsi di più nel giaccone per ripararmi dal freddo, ma invano. Neanche una tuta
termica sarebbe servita contro il gelo di una giornata invernale britannica.
«Fa la stessa passeggiata ogni volta?» chiesi a Graham Johnson.
L’anziano scosse la testa. «Abbiamo diversi itinerari. Dipende dal tempo, e da
quanto possiamo stare fuori. È un parco piuttosto grande.»
Lo era, in effetti. Alla nostra destra si estendevano prati a perdita d’occhio su cui
spiccavano, delimitati in bianco in mezzo al grigiore, i campi da calcio deserti. La
cattedrale si stagliava in lontananza a sinistra, appollaiata su una collina. Davanti a noi
c’era un laghetto collegato a un altro, più grande, da un ponticello. Anatre e cigni
galleggiavano sull’acqua, ignari del freddo.
Un luogo buio e desolato, ideale per scaricare Patricia Maynard.
«La sera in cui ha trovato Patricia Maynard, da che parte era andato?»
Indicò la sponda del lago verso la cattedrale. «Abbiamo fatto un rapido giro in senso
antiorario.»
«E dove l’ha vista?»
Il vecchio indicò l’estremità del lago.
«Bene, andiamo.»
Impiegammo altri cinque minuti a raggiungere il punto. Lo feci sedere su una
panchina e mi misi accanto a lui. Barnaby tirava il guinzaglio, abbaiando e grattando
l’asfalto con le unghie, ansioso di liberarsi per dare la caccia alle anatre. Guardai
Hatcher, che colse subito il messaggio. Perché l’esperimento funzionasse, meno
distrazioni aveva Johnson, meglio era. Hatcher prese il guinzaglio e si allontanò con il
cane.
Un interrogatorio basato sull’approccio cognitivo differiva da quelli consueti perché
inducevi il soggetto a ricostruire la scena e a rivivere le sensazioni che aveva provato.
In sostanza, anziché affrontare i fatti direttamente, ci giravi attorno, li valutavi
attraverso la percezione dei sensi. I ricordi evocati in tal modo, a quanto dimostrato,
erano molto più affidabili di quelli ottenuti dalle normali tecniche di interrogatorio. A
rigor di logica, non avrei avuto bisogno di portare Johnson fin lì, ma dato che il parco
era dietro l’angolo non vidi perché non farlo.
«Voglio che chiuda gli occhi, signor Johnson, poi le farò alcune domande. Non
censuri le risposte. Non importa se le sembrano assurde, dica semplicemente quello
che le passa per la testa.»
Lui mi guardò, scettico.
«Andrà tutto bene, l’ho già fatto.»
Mi lanciò un’altra occhiata incredula e infine chiuse gli occhi.
«Voglio che ripensi a lunedì sera. Lei porta Barnaby a fare una passeggiata, come al
solito. Che ora è?»
«Circa le dieci. Lo porto sempre fuori più o meno a quell’ora.»
«Esce prima delle dieci o dopo?»
L’anziano corrugò la fronte per concentrarsi, poi si rilassò. «Dopo. Ho appena
terminato di vedere un programma in TV. Sta per iniziare il telegiornale.»
«Com’è il tempo?»
«Piove.»
«Mi descriva la pioggia. È forte? Leggera?»
«È una di quelle pioggerelle lievi, sottili, sa cosa intendo. Non sembra forte, ma
finisce per bagnarti.»
«C’è gente al parco?»
«Con questo tempo e a quest’ora?» Johnson scosse la testa. «No, ci siamo solo io e
Barnaby. E Patricia, naturalmente.»
Ignorai il riferimento alla donna perché non ero ancora pronto ad affrontare
l’argomento. «Qual è il suo stato d’animo?»
«A dire il vero, sono un po’ seccato. Ho portato la macchina dal meccanico e mi
sono visto presentare un conto da seicento sterline. E ora sono a spasso con il cane
sotto la pioggia. Diciamo che ho avuto giornate migliori.»
«Che odori sente?»
«Odore di terra bagnata. E di fumo di legna, i miei abiti ne sono impregnati.»
«Cosa vede?»
«Le crepe del terreno sul sentiero. Tengo la testa bassa per evitare che la pioggia mi
arrivi in faccia.»
«Cammina lento o veloce?»
«Veloce. Non vedo l’ora di arrivare a casa, di ripararmi dalla pioggia.»
«Cosa fa Barnaby?»
Sorrise. «Tira, come sempre. Se non fosse al guinzaglio si sarebbe già buttato nel
lago.»
«Come si accorge di Patricia?»
«Qualcosa attira la mia attenzione. Un movimento sul sentiero in fondo al lago,
quello che arriva dal pub, il Fighting Cocks.»
Fece un cenno quasi impercettibile con il capo e io guardai nella direzione indicata.
Anche nella luce fioca del tardo pomeriggio, quel sentiero buio e stretto non appariva
invitante.
«Come si muove?»
«Incerta. Barcolla come se fosse ubriaca. Il mio primo pensiero è che abbia alzato
troppo il gomito al Fighting Cocks. Non voglio fissarla, ma è come quando vedi
un’ambulanza ferma in strada: è impossibile non guardare, no? Comunque, la vedo
uscire dagli alberi e mi stupisce il fatto che sia sola. Niente fidanzato né amiche. È
tardi ed è buio. Non è un posto adatto a una donna sola. Guardo con più attenzione
perché comincio a preoccuparmi ed è allora che noto che sta andando dritto verso il
lago. Mi precipito verso di lei, riesco ad afferrarla in tempo e la faccio girare. Se fosse
entrata in acqua in questo periodo dell’anno, sarebbe morta d’ipotermia.»
Il resto della storia era contenuto nel rapporto della polizia. Johnson aveva cercato
di parlarle e, dato che non aveva ottenuto risposte, l’aveva portata al Fighting Cocks
per chiedere al proprietario di chiamare la polizia. Graham Johnson era la prima
persona senza cellulare in cui m’imbattevo dopo anni, una specie di sopravvissuto di
un’altra era.
«Voglio che faccia un passo indietro, signor Johnson. Ripensi a quando ha notato
per la prima volta Patricia. Non voglio che dica niente. Voglio solo che riveda la
scena nella sua mente. La riveda nel modo più chiaro possibile, con tutti i dettagli,
anche piccoli e insignificanti. Cosa vede? Cosa sente? Che odori avverte? Che
sensazioni prova?»
Gli lasciai qualche istante e poi lo invitai a riaprire gli occhi. L’anziano aveva una
strana espressione sul volto.
«Che c’è?» chiesi.
«Mi crederà paranoico.»
«Paranoico o pazzo, non m’importa. Voglio sapere che cos’ha da dirmi.» Gli sorrisi
con aria rassicurante, aspettando che ricambiasse. «Allora cos’è successo? È stato
rapito dagli alieni e trasportato sull’astronave madre?»
Il suo sorriso tuttavia non durò a lungo. L’anziano si fece serio e sembrò un po’
spaventato. Indicò un gruppetto di alberi e cespugli in ombra alla sua destra. Quando
parlò, lo fece con tono assolutamente sicuro. Era convinto di ogni parola che diceva.
«Qualcuno ci stava osservando da laggiù.»
4
tesla: c6
ladyjade: sì
tesla: presa
ladyjade: nn sai qto
tesla: sempre ok x stas
ladyjade: sì
tesla: nn vedo l’ora di conoscerti
ladyjade: idem
tesla: vado anche qui c’è da impazzire
ladyjade: ok cved h 18 smak
tesla: smak
Rachel Morris chiuse la chat e il sorriso le svanì dal volto, sostituito dalla
preoccupazione. A che gioco stava giocando? Aveva trent’anni, perché diavolo si
stava comportando come un’adolescente infatuata? Era una follia. Guardò dal vetro
della sua postazione, convinta di avere tutti gli sguardi addosso, ma i colleghi erano a
testa bassa sul lavoro. Sentiva il vocio e il rimbombo del call center al di là del vetro,
il trillo dei telefoni, il borbottio di decine di conversazioni.
Fissò lo schermo e cercò di dare un senso alle parole, ma invano. Riusciva solo a
pensare a quella sera. Aveva detto a Jamie che andava a bere qualcosa con le amiche
dopo il lavoro, per festeggiare un compleanno. Non che gli importasse. Avrebbe
potuto dirgli che emigrava in Australia, ricevendo in risposta lo stesso grugnito
disinteressato. Non era sempre stato così. All’inizio passavano le serate a parlare, a
condividere sogni e segreti, ma quei giorni erano ormai andati, spazzati via dal tran
tran di sei anni e mezzo di matrimonio.
Sotto il tavolo c’era la borsa, e dentro la borsa c’erano il suo profumo più costoso, il
completo intimo migliore e il vestitino rosso preferito. Era un abito che metteva in
risalto i suoi punti forti, nascondeva quelli deboli e la rendeva sexy ma non volgare, il
che era importante. Non pensava che Tesla amasse la volgarità. Sembrava in un certo
qual modo all’antica: un signore, un gentiluomo. Ad affascinarla era stata soprattutto
la sua sensibilità. Era piacevole avere qualcuno che l’ascoltasse, che desse importanza
a ciò che diceva e pensava, che l’apprezzasse per quello che era.
Rachel fissò l’accozzaglia di parole sullo schermo e si disse che poteva ancora
tirarsi indietro, poi pensò a Jamie, a tutto il male che le aveva fatto e capì che non
sarebbe successo. Chattava con Tesla da un paio di mesi, e più lo conosceva, più le
piaceva. Non lo aveva incontrato di persona, non conosceva nemmeno il suo vero
nome, ma la capiva come nessun altro sapeva fare. Le aveva toccato il cuore, davvero.
Jamie non l’aveva mai compresa del tutto, neanche ai bei tempi.
Guardò l’orologio sullo schermo e vide che erano solo le tre e mezzo. Mancavano
ancora quattro ore e mezzo all’appuntamento e sarebbero state estenuanti come
l’ultimo giorno di scuola.
5
Restai con Hatcher al lago e guardai Barnaby trascinare Graham Johnson verso casa.
Aveva cominciato a nevicare. I grossi fiocchi sembravano sospesi nella luce dei
lampioni, intrappolati nell’alone. Erano solo il preludio di quanto stava per accadere. I
meteorologi avevano preannunciato una bufera e i mezzibusti erano sicuri che si
sarebbe scatenato il caos, e io non avevo motivo di dissentire. Johnson era già a metà
lago. Voleva chiaramente arrivare a casa prima che cominciasse a nevicare di brutto.
Restare bloccati lì sotto una bufera non sarebbe stato divertente per nessuno. Presi
una sigaretta e l’accesi con lo Zippo d’ottone tutto ammaccato, ignorando l’aria di
disapprovazione di Hatcher.
«Il colpevole era qui» dissi.
«È quello che ha detto Johnson?» chiese.
«Non a parole.»
«Allora che ha detto?»
«Non è importante quello che ha detto, ma quello che ha sentito. E ha sentito che
qualcuno li stava osservando.» Indicai con un cenno il gruppetto d’alberi.
«Esattamente da lì.»
«Quello che ha sentito» mi fece eco Hatcher «non so se reggerà in tribunale,
Winter.»
«Questo è il problema di fare il poliziotto oggi. Passi troppo tempo a pensare come
un avvocato e troppo poco a pensare come un detective.»
Mi avvicinai agli alberi e scrutai nel buio. Le ombre scure si muovevano insieme ai
rami e nell’aria si udiva il sibilo sinistro del vento. Prima che Hatcher mi facesse la
predica sul pericolo che contaminassi la scena del crimine, mi addentrai nel
sottobosco e fui inghiottito dagli alberi. I rami mi sferzarono la faccia e il corpo, e ben
presto mi ritrovai scarpe e jeans sporchi di fango. Hatcher era pochi passi più indietro,
imprecava e protestava cercando di capire che diavolo stessi combinando.
Smisi di ascoltarlo e rimasi per un po’ in mezzo al boschetto, incurante dei fiocchi
gelidi che mi pungevano il viso. Ebbi l’assoluta certezza che due sere prima il
sequestratore fosse stato lì e percepii l’eccitazione della caccia.
Quand’ero piccolo, mio padre mi portava a campeggiare nelle foreste dell’Oregon,
le stesse in cui conduceva le sue vittime. Mi aveva insegnato a sparare, a seguire le
tracce e a maneggiare gli animali uccisi. Mi aveva spiegato che i forti sopravvivono e
i deboli soccombono, così andava il mondo. Non so quante volte glielo abbia sentito
ripetere. È una filosofia cinica, che ha acquisito un significato molto più pregnante
dopo il suo arresto.
Mi accovacciai e mi spostai in cerca del punto d’osservazione migliore. Da quel
luogo il criminale aveva avuto una visuale perfetta del lago e del sentiero che
conduceva al Fighting Cocks. La cattedrale si stagliava imponente alla mia destra e
distinguevo ancora Johnson e Barnaby, due sagome scure in lontananza. Le domande
che mi urlava dietro Hatcher si confusero sempre più con il rumore di sottofondo
mentre mi inoltravo nella vegetazione e venivo trasportato indietro nel tempo, a quella
sera. Vedevo chiaramente la scena, come se fossi stato lì.
Ecco Graham Johnson, trascinato da Barnaby lungo la riva del lago. Cammina sotto la
pioggia con la testa china e alza di tanto in tanto lo sguardo per vedere dove va. Nota
un movimento sul sentiero alla sua sinistra e si ferma di colpo. Si tranquillizza un po’
quando vede che si tratta di Patricia Maynard e che è sola. Che pericolo può mai
rappresentare una donna sola?
Però non si rasserena del tutto. Quella parte del cervello che ha permesso ai nostri
avi di sopravvivere gli invia segnali d’allarme, e anche se abbiamo smesso di
ascoltarla tanto tempo fa, riesce ancora a metterci in guardia, seppur a livello
inconscio. Graham guarda prima Patricia, poi il punto in cui sono nascosto. Non mi
vede, ma avverte la mia presenza. Sono solo una delle tante ombre. Patricia avanza
incespicando come un’ubriaca verso il lago e lui l’afferra prima che cada nell’acqua
gelida e scura, compiendo un gesto che lo trasforma nell’eroe del momento.
Uscii a fatica dalla boscaglia, mi scrollai i jeans e mi accesi una sigaretta. Nevicava
più intensamente, i fiocchi erano grossi e fitti. Il vento gelido che arrivava dall’Artico
mi penetrò nelle ossa. Mi misi il cappuccio e mi strinsi di più nel giaccone, ma servì a
poco. Hatcher aveva smesso di assillarmi e stava parlando al cellulare con qualcuno
della Scientifica.
«Bene, ecco la domanda» feci. «Tu sei il maniaco. Perché rischiare di venire qui?
Perché non scaricare semplicemente la vittima e tagliare la corda?»
Lui chiuse la telefonata e mise via il cellulare. «Non è per questo che ti paghiamo
lautamente? Perché tu risponda a domande del genere?»
«E perché scaricarla in un luogo pubblico?» proseguii, ignorandolo. «Ha fatto lo
stesso con le altre. Tutte e tre sono state lasciate in un parco pubblico. Perché correre
il rischio? Perché non mollarle in un luogo sperduto?»
Feci un altro tiro e pensai al criminale nascosto tra quei cespugli in una serata
piovosa, a osservare e attendere. Ma cosa? Un istante dopo capii. «Vuole che vengano
trovate» affermai sorridendo.
«Presumendo che tu abbia ragione, questo risponde alla seconda domanda»
commentò Hatcher. «Ma che mi dici della prima? Perché si ferma?»
«Perché vuole essere certo che le trovino.»
«D’accordo, mi sta bene. Immagino che la prossima domanda sia: perché per lui è
tanto importante?»
Mi guardava come se attendesse una risposta, un’intuizione cruciale in grado di far
piena luce sul caso. Purtroppo, non avevo la risposta che cercava, non ancora.
Erano quasi le quattro. Quarantotto ore prima ero nel Maine con un giubbotto di
kevlar addosso, a osservare una squadra SWAT assaltare un fienile coperto di neve in
cui si era rifugiato un assassino di bambini. Il killer era stato ucciso da un cecchino, il
che era stato un bene. Era sempre un assassino di bambini in meno al mondo.
Avevo già archiviato il caso. Il cattivo era morto e bisognava andare avanti. Per me
conta solo il caso a cui lavoro, tutto il resto è storia, e per la storia non ho tempo.
Rivivere i successi passati non ha mai salvato la vita a nessuno e rivangare gli
insuccessi è raramente costruttivo. Avevo lasciato il Maine prima che avessero il
tempo di complimentarsi e preso il primo volo dal Logan International a Heathrow
senza alcun ripensamento. Cinquemila chilometri e cinque fusi orari più in là non era
cambiato molto: nevicava sempre e avevo un altro mostro a cui dare la caccia.
«Che ne dici di andare al Fighting Cocks a berci qualcosa?» proposi.
6
Stavolta Hatcher non ebbe da ridire, il che non mi stupì. Un altro particolare che
ricordavo del suo soggiorno a Quantico: era sempre il primo ad arrivare al bar.
Seguimmo lo stesso sentiero che Patricia Maynard aveva percorso in senso contrario
lunedì sera. A metà attraversammo un ruscello gonfio d’acqua il cui scroscio mi
riempì le orecchie.
Il sentiero sboccava in Abbey Mill Lane, una strada stretta concepita in origine per
carri e cavalli. Dalle cartine sapevo che era l’unica via d’accesso e d’uscita dalla zona.
Alla mia sinistra correva Abbey Mill End, una via a fondo cieco. Diedi una rapida
occhiata attorno e cercai di immaginare la scena con gli occhi del delinquente. Il fatto
che fosse un’area tranquilla era un elemento a favore; altrettanto non poteva dirsi del
parcheggio, piuttosto piccolo.
Dall’altra parte della strada si trovava il Fighting Cocks. Era un edificio davvero
molto vecchio. Con la sua sagoma singolare e le travi nere in stile Tudor sembrava
arrivare dritto da un set hollywoodiano. Entrammo e, passando accanto ai vari articoli
incorniciati che lo proclamavano il pub più vecchio della Gran Bretagna, ci facemmo
strada nel dedalo di sale fino al banco.
Gli unici clienti erano una coppia di anziani, seduti al tavolo più vicino al fuoco. Il
minuscolo albero di Natale finto sul banco aveva i rami argentei, un paio di tristi
palline rosse e una stella storta in cima. A uno spago in alto erano appesi vari biglietti
d’auguri. Le decorazioni finivano lì e davano un’impressione di squallore anziché
d’allegria. Sembrava quasi che il Natale fosse un evento da dimenticare, non da
festeggiare.
L’uomo dietro il banco era secco e calvo, con un bel sorriso. Teneva le mani
appoggiate sul ripiano con un atteggiamento da proprietario e visto dove si trovava,
era probabile che lo fosse. Portava abiti firmati e un Rolex Submariner al polso.
Hatcher ordinò una pinta di London Pride, io un whisky. Quando ci servì, ne buttai
giù metà lasciando che l’alcol scacciasse il gelo che mi era penetrato nelle ossa.
«Lei è Joe Slattery, giusto? Il proprietario del locale» chiesi dopo aver posato il
bicchiere.
«Dipende da chi lo vuole sapere. Se è a caccia di soldi o è stato mandato dalla mia
ex moglie, allora non l’ho mai sentito nominare.» Aveva un accento irlandese e una
risata contagiosa.
«Ha chiamato la polizia lunedì sera.»
Slattery incrociò il mio sguardo e si fece serio. «Siete giornalisti? In questo caso vi
chiedo cortesemente di finire il drink e di andarvene. Ne ho abbastanza di voi.»
A quel punto Hatcher intervenne e gli mostrò il distintivo. «Sono l’ispettore Mark
Hatcher e questo è il mio collega Jefferson Winter.»
«Perché non me l’avete detto?» Il sorriso gli ricomparve sul volto tanto in fretta che
sembrò quasi non fosse mai svanito. «La casa vi avrebbe offerto da bere.»
Ne dubitai. Il suo sorriso era ampio, ma non tanto da arrivargli alle tasche. Aveva
l’aria di un uomo molto attento al bilancio e interessato ai profitti. Per questo poteva
permettersi un Rolex. «In base a quanto ha dichiarato, non ha notato niente di
insolito.»
«Era un lunedì sera come tanti» confermò Slattery. «Finché Graham non è entrato
con la ragazza, intendo. Poi è cambiato tutto. La polizia, i paramedici, i giornalisti, un
vero circo, ve lo assicuro. E quello che hanno fatto a quella povera ragazza» aggiunse
scuotendo la testa. «Gesù, Maria e Giuseppe» mormorò sottovoce. «Dicono che
l’hanno lobotomizzata. È una cosa da malati.»
«Vorrei sapere del parcheggio qui vicino» dissi.
Scosse di nuovo la testa, incredulo. «Quel bastardo fa a pezzi il cervello della gente
e a lei interessa un parcheggio?»
«Avanti, mi accontenti.»
Mi scrutò, sospettoso, quasi cercasse di capire se facevo sul serio. Ricambiai lo
sguardo, sostenendolo finché non concluse che era così.
«Quel parcheggio è un dannato incubo» affermò. «Soprattutto d’estate. I turisti
occupano sempre il mio posto, poi usano la stradina. Come ho detto, è un dannato
incubo.»
«Ed è per questo che ha fatto installare una telecamera di sicurezza.»
«Ci sono anche altre ragioni ma questa è la principale» confermò. «Come già
sapete, l’hanno rotta lunedì sera. All’inizio ho pensato fosse stato un ragazzo del
posto, ma ovviamente ora so che è andata in un altro modo.»
Secondo la polizia era stato il sequestratore a manomettere la telecamera: era
arrivato lunedì sera e l’aveva spaccata per poter usare il parcheggio del pub e
abbandonare Patricia Maynard. Ringraziai Slattery per il tempo che ci aveva dedicato,
buttai giù il resto del whisky e invitai Hatcher a finire la birra. Ripercorremmo i
corridoi stretti con il soffitto basso e uscimmo fuori al freddo.
«Concordo con la polizia che sia stato lui a rompere la telecamera» affermai. «Ma è
escluso che abbia parcheggiato qui lunedì sera. È troppo facile, troppo ovvio. Quel
tizio è acuto, non fa mosse scontate.»
«Quindi cosa pensi?» domandò Hatcher.
Guardai Abbey Mill Lane. Ormai era calato il buio e la via era illuminata dalla luce
arancione dei lampioni. La neve cadeva fitta e il vento gelido la faceva mulinare.
Iniziava già ad attaccare sulla strada e sul marciapiede.
«Mai e poi mai sarebbe venuto qui in macchina lunedì sera» dissi. «Troppo
rischioso. È l’unica via d’accesso e di uscita.»
«Allora come ha portato qui la ragazza? Col teletrasporto?»
Ignorai la domanda e il sarcasmo, feci dietrofront e mi avviai per la strada. Mi
fermai in fondo e cercai di immaginare il maniaco che accompagnava Patricia
Maynard, guidandola con un braccio sulla spalla, esortandola a proseguire. Mi
sembrava plausibile. Ben più dell’idea che fosse arrivato in macchina e avesse
parcheggiato davanti al Fighting Cocks. Di fronte a me si apriva un vicolo e lo
imboccai. Hatcher mi seguì a qualche passo di distanza brontolando per la neve, per il
freddo e per il fatto che saremmo dovuti andare nella direzione opposta, verso l’auto,
perché non voleva restare bloccato a St Albans. Smisi di ascoltarlo e proseguii.
Il vicolo conduceva a Pondwicks Close; anche questo senza uscita. Alla mia sinistra
c’era un edificio scolastico, un asilo, a giudicare dai giochi colorati. Pondwicks Close
dava su Grove Road, e una strada dopo c’era la A5183, una delle arterie principali di
accesso e di uscita dalla cittadina. Dal rumore del traffico sembrava piuttosto vicina.
Restai fermo per un istante in mezzo a Grove Road mentre la neve mi si posava sulla
testa e sulle spalle. Mi punzecchiava il viso e si appiccicava sulle palpebre, ma la
ignorai. Annuii tra me e mi voltai verso di lui.
«Ha parcheggiato qui» dissi.
7
Rachel era eccitata come al primo appuntamento, o quasi. Non era più un’adolescente,
perciò l’eccitazione si mescolava a un pizzico d’ansia. Sapeva che cosa significasse
restare delusi, che la realtà era di rado all’altezza del sogno e che la speranza
prevaleva sempre. Conosceva lo strazio di avere il cuore a pezzi. Il vestito rosso la
fasciava nei punti giusti, ed era una bella sensazione. Il suo profumo preferito le
arrivava ogni tanto alle narici, e anche questa era una bella sensazione.
Lasciò la stazione della metropolitana uscendo nel freddo della sera. La neve cadeva
più rada e i fiocchi scendevano pigri, mulinando e volteggiando, spinti dal vento.
Rachel si era innamorata della neve da bambina e quel sentimento non era mai
cambiato. La neve trasformava il mondo in un luogo magico e romantico. Il giorno
dopo sarebbe diventata fanghiglia, ma per il momento era tutto perfetto. Si strinse di
più nel cappotto e si affrettò. La borsa le batteva sul fianco al ritmo dei passi.
Il bar in cui avevano stabilito di incontrarsi era grande e anonimo. Sgabelli alti di
legno al banco, sedie e tavoli nel centro della sala, comodi divani di pelle con tavolini
ai margini. Rachel scrutò i clienti. Erano sparpagliati qua e là, perlopiù in gruppi di tre
o quattro. C’erano solo due bevitori solitari. Spostò rapida lo sguardo dall’uno
all’altro. Tesla aveva circa trentacinque anni e i capelli castani corti. Aveva detto che
avrebbe indossato un trench lungo nero di lana. L’unica persona che gli assomigliava
un po’ era seduta su uno sgabello al banco. Il trench corrispondeva alla descrizione,
ma l’uomo aveva almeno vent’anni di più.
Rachel ordinò una limonata. Aveva intenzione di non bere alcolici almeno all’inizio,
e poi di alternare i drink: una limonata per ogni bicchiere di vino. Voleva fare una
buona impressione e doveva quindi restare lucida. Se la serata fosse andata bene, forse
Tesla avrebbe voluto rivederla. Sperava davvero che fosse l’inizio di qualcosa. Un
nuovo inizio, un nuovo capitolo.
Bevve un sorso e guardò l’orologio. Era in anticipo di dieci minuti. Trovò un tavolo
da cui si vedeva bene la porta e si sedette ad aspettare sul divano di pelle. Era
appartato, intimo e accogliente.
Le otto arrivarono e passarono. Arrivarono anche le otto e venti. Alle otto e mezzo
aveva i nervi a fior di pelle. Andò al banco e ordinò un bicchiere di vino rosso. Anche
le nove arrivarono e passarono. Da uno, i bicchieri di vino divennero due. Rachel
guardò l’uomo con il trench nero. Poteva essere lui? Tesla aveva mentito sull’età? Il
cliente non le prestò alcuna attenzione, non si era nemmeno accorto della sua
presenza, concentrato com’era sul bicchiere che aveva davanti.
Guardò di nuovo l’orologio e controllò il cellulare. Forse era dovuto rimanere in
ufficio o forse la neve l’aveva bloccato, oppure era stato coinvolto in un incidente ed
era in terapia intensiva, collegato a qualche macchina salvavita.
Alle nove e un quarto non c’erano più scusanti, e Rachel si sentiva arrabbiata e
stupida. Era il primo appuntamento dopo tanto e le avevano dato buca. Prese il
telefono e verificò di nuovo i messaggi. Niente SMS, niente telefonate perse. Non che
se le aspettasse. Aveva creduto che Tesla fosse diverso, invece non era così. Ci aveva
ripensato e non si era neanche preoccupato di avvertirla.
Fine dell'estratto Kindle.
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