Ore 8.00 am Sono stanco. Mi guardo allo specchio

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Ore 8.00 am Sono stanco. Mi guardo allo specchio
Ore 8.00 a.m.
Sono stanco. Mi guardo allo specchio e non posso fare a meno di osservare quelle borse sotto gli occhi.
Qualche solco segna il mio viso e mi dice chiaramente che gli anni sono passati. Ne ho cinquanta. Compiuti da due mesi. Troppi. Sono entrato in quella fascia
d’età in cui il futuro è già scritto e il passato è un unico
rimpianto per quello che è stato e invece poteva essere.
Nel mio caso, poi, gli anni sono trascorsi per niente, buttati in un cesso di vita alla quale ormai non posso più
porre rimedio. È andata. Fine. La partita non si può più
rigiocare.
Meglio che mi lavi il viso e rinfreschi le idee. Pensare al passato non serve a niente. Quante volte mi dico
che dovrei vivere alla giornata e invece non ci riesco.
Eppure sarebbe il solo modo per poter sopravvivere a
me stesso.
Un giovane mi osserva un po’ perplesso. Ho la faccia
che gronda acqua e forse ho l’espressione stravolta. Probabilmente pensa che io stia male. Sorrido per un istante per fargli capire che tutto va bene e poi con una salvietta di carta mi asciugo il viso. Mi tocca usare uno dei
miei fazzoletti, perché qui, ai bagni dell’aeroporto, la carta è esaurita.
Il ragazzo non smette di guardarmi e allora gli pianto gli occhi addosso per metterlo in imbarazzo. Si volta.
Capisce che non è il caso di continuare e inizia a lavarsi le mani. Oramai m’ignora. Meglio così. Non sopporto
di essere osservato.
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Fulvio Barluzzi
Esco dal bagno e mi addentro in uno degli infiniti
corridoi dell’aeroporto. Mi confondo in mezzo alla
gente che numerosa si dirige nella mia stessa direzione.
Mi sento investito da una mandria. Sono costretto ad accelerare il passo per non essere travolto.
Il mio aereo parte tra un’ora e mezzo. Devo fare il
check-in. Raggiungo la mia fila e mi accodo. Non amo
attendere, quindi, dopo una decina di minuti comincio a
spazientirmi. Davanti a me c’è una famiglia con due bambini. Uno dei due, dall’età apparente di quattro anni, prende a guardarmi e a farmi delle smorfie. Sorrido nervosamente, più che altro per compiacere i genitori che mi osservano. In realtà avrei voglia di prenderlo a schiaffi. Io
non ho avuto bambini. Il mio matrimonio non mi ha neppure dato questo. C’è stato un tempo in cui almeno un
figlio lo desideravo. Ora non avrebbe più senso. Se ci ripenso credo che sia stato meglio così. Il tonfo, altrimenti,
sarebbe stato ancor più eclatante.
Il bambino comincia a toccarmi e a ridere. Il padre si
rende conto che sta cominciando a infastidirmi e lo richiama a sé. Il piccolo sbuffa, ma ubbidisce. Io spero
che abbia finito di importunarmi. Ho solo voglia di stare
per i fatti miei. Non mi sento allegro. Forse non sono
mai allegro. Mia moglie, scherzando, dice che avrei dovuto fare il becchino. Sarebbe stato l’unico mestiere
adatto a me. Io sorrido amaro. A che varrebbe replicare
che con una vita di merda non si può essere certo di
buon umore...
Mi accorgo che è arrivato anche il mio turno al checkin. Presento il biglietto e sporgo la valigia.
– Ha solo questa? – mi chiede l’operatrice.
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Quando una vita finisce
Annuisco.
– Sì, sto via solo pochi giorni.
Perché mi giustifico, poi? Ho solo una valigia, ma
questo è un fatto che riguarda solo me. Non devo dare
spiegazioni. Lei fa cenno di aver capito, ma forse non mi
ha neppure ascoltato. È una bella ragazza. I capelli neri
le scendono lungo le spalle. Gli occhi sono azzurri, glaciali. Manca cordialità nella sua espressione, ed è un
peccato perché le conferirebbe maggior fascino. Pesa la
valigia e poi mi passa i biglietti.
– Deve presentarsi al gate numero 4, alle 9.00 –
m’informa con il suo modo sempre un po’ distaccato.
Bene, penso. Ho tempo di andare al bar a prendermi
un whiskey. Ho giusto bisogno di tirarmi su.
Il bar è affollato e mi risulta difficile farmi largo per
riuscire a ordinare. La ragazza che serve appare stressata da tante richieste e, un po’ spiccia, mi chiede cosa
prendo.
– Un whiskey – rispondo.
– A quest’ora?
La sua osservazione m’imbarazza e m’indispettisce.
Lei deve pensare a servire i clienti, non altro. Che s’impicci degli affari suoi. Comunque non rispondo, e neppure lei si attende che io lo faccia. La ragazza si gira per
prendere un bicchierino, quando io ho un ripensamento.
– Lo voglio doppio – aggiungo.
Lei mi guarda, non dice niente, ma la sua espressione mi fa capire che è seccata.
Attendo il servizio in un angolo un po’ appartato, per
non intralciare le ordinazioni degli altri, quando noto un
uomo grande e grosso sorridermi. Per un attimo guardo
dietro di me per vedere se quel sorriso è indirizzato a
un’altra persona, poi capisco che sono io il suo destinatario. L’omone mi si avvicina e dice:
– Troppa gente.
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– Come? – chiedo, perché in mezzo a quel vocìo non
sono riuscito a comprendere esattamente le parole.
– Troppa gente – ripete. – Neppure un caffè si riesce
a prendere in pace. Senza considerare che chi ci serve
non ne può più e si comporta maleducatamente.
Annuisco e mi rendo conto che lui sta sorseggiando
il suo caffè in una situazione davvero precaria, visto che
è attorniato da tanti clienti agitati che reclamano la loro
bevanda.
– È l’assalto alla diligenza – osservo.
– Bravo, l’ha detta giusta.
Sorrido e lui mi ricambia con un sorriso che più gioviale non potrebbe essere.
– Sam. – Si presenta, cercando di allungare la mano
senza infilarla nell’occhio di qualche altro.
La stringo debolmente, un po’ imbarazzato, e mi
sembra di stringere un blocco d’acciaio.
– George – mi presento a mia volta.
– Cosa ci fa qui? – mi chiede e l’atteggiamento è quello di un amico che ti rivede dopo tanto tempo.
– Prendo l’aereo – rispondo semplicemente.
Lui ride.
– Certo, siamo in un aeroporto! Seriamente, dove va?
Non ho voglia di dirglielo, non vedo come lo riguardi.
– Ritorno dalle mie parti – dico soltanto.
Ride ancora.
– Ah, non vuole sbottonarsi, vero? Ha ragione. Chi è
questo grosso pachiderma che le fa tutte queste domande? Non l’ha mai visto, lo conosce solo adesso e già vuole entrare nella sua vita.
Io sono imbarazzato e non so cosa rispondere. Per
fortuna arriva la ragazza del bar a portarmi il whiskey e
quindi riesco a distrarre l’attenzione. Sorseggio e per un
attimo mi brucia la gola. È così da un po’ di tempo. No12
Quando una vita finisce
nostante la mia abitudine agli alcolici, negli ultimi tempi
mi procurano fastidio in gola e allo stomaco. L’omone
vede la mia reazione e non riesce a trattenere il riso.
– Non si dovrebbe bere quella roba di mattino presto –
dice, ma subito cambia argomento, perché vede la mia
espressione contrariata. Si schiarisce la voce per superare il momento di disagio che si è creato e m’informa del
suo viaggio.
– Io vado ad Atlanta – dice. – Ma non per vacanza.
Per lavoro.
– Il suo ufficio è ad Atlanta? – chiedo fingendo interesse.
– Oh, no. Io giro per tutti gli States. Sono ispettore
di una multinazionale. È un lavoraccio. Non si sta mai
fermi. Per non parlare dello stomaco. Mangiare sempre
fuori ti rovina. Poi gli orari diversi, le abitudini diverse...
– Eh già, il fuso – osservo, cominciando a essere insofferente alla conversazione.
Scuote la testa.
– Non solo, amico. Non solo, mi creda.
Tace per qualche secondo e io non so come continuare a chiacchierare, quindi gli faccio la prima domanda idiota che mi sorge spontanea.
– E sua moglie cosa dice?
Ride.
– Della mia pancia? Se ne avessi una mi direbbe di
mangiare di meno, ecco cosa direbbe. Ma non ce l’ho,
per fortuna. Amico mio, io sono libero come l’aria.
– Buon per lei.
– Vede che è perspicace? Capisce subito. Io non mi
faccio mettere le manette da nessuna, può giurarlo. Io
giro il mondo e nessuno può impedirmelo. E me lo
godo, perché non faccio come questi quattro disgraziati,
– indica con l’indice la gente attorno – che viaggiano
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con moglie e figli al seguito e magari hanno pure un
capo comitiva che gli dice dove devono andare, cosa devono fare.
Io taccio, annuisco solo con la testa. Lui mi osserva
per qualche secondo poi mi sgrana un sorriso a trentadue
denti.
– Lei è sposato, vero? – mi chiede.
Non mi va di parlare delle mie faccende private, quindi mi mantengo sul vago.
– Diciamo che ho una moglie.
Lui ride, riuscendo nell’intento di irritarmi ancora di
più.
– Bella risposta – esclama. – Vuol dire che non ne è
molto contento.
Il mio livello di sopportazione è giunto al limite,
quindi depongo la tazza, pago il conto e lo saluto.
– Beh, devo andare. Le auguro buon viaggio – dico un
po’ spiccio.
L’omone rimane sorpreso e sembra dispiaciuto mentre mi chiede:
– Se l’è presa?
– No, no – gli dico mentendo. – È solo che il mio
aereo parte.
Lui non rinuncia a ficcare il naso.
– E non vuol proprio dirmi dove va? – insiste.
– Gliel’ho detto. Ritorno dalle mie parti – dico, mostrandogli un sorriso ironico.
Lui rimane perplesso per qualche istante, poi se ne fa
una ragione e mi allunga una mano.
– Arrivederci. Chissà che c’incontriamo da qualche
parte – mi saluta calorosamente.
– Lasciamo fare al destino – è il mio commento.
Gli volto le spalle e comincio ad allontanarmi.
– Ehi! – mi sento chiamare dalla sua voce. Mi giro a
guardarlo e, con un sorriso smagliante, mi dice:
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Quando una vita finisce
– Non sia così depresso. La vita è bella.
Ottimo, penso, ci mancava solo la filosofia spicciola.
Gli faccio un cenno con la mano che neppure io so cosa
voglia dire, poi mi allontano. Definitivamente.
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