racconto concorso Corbetta - Istituto d`Istruzione Secondaria G.Torno

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racconto concorso Corbetta - Istituto d`Istruzione Secondaria G.Torno
Inforcò la bicicletta al volo, con una delle spericolate acrobazie in cui era
maestro, e pedalò a tutta birra. Il sole non aveva mai brillato così
splendente, James ne era profondamente convinto. Mentre strizzava gli
occhi per difendersi dai suoi raggi d’oro, poteva vedere tra le sue ciglia
riverberi di luce che creavano scintille di arcobaleno. Danzavano silenziose,
sparendo poi d’improvviso nel momento in cui schiudeva le palpebre.
Non avrebbe mai pensato che tornare a casa sarebbe stato così surreale,
come se fosse approdato su un pianeta sconosciuto, e non appena sceso
da un treno che, sferragliando come un vecchio cavallo stanco, lo aveva
portato nel suo paese natio. Trovata una bicicletta abbandonata a un muro
della stazione, l’aveva presa coinvolto dal desiderio di volare il più veloce
possibile alla sua vecchia casa, ma ben presto aveva rallentato sino a
scendere e a procedere a passo d’uomo, mantenendo il diroccato mezzo di
trasporto con le mani. La cittadina era addobbata a festa: striscioni bianchi,
blu e rossi la avvolgevano come un pacco regalo. Stelle e strisce ovunque,
festa per i patrioti tornati illesi dalle terre occupate dai nazisti, che avevano
liberato con coraggio e dedizione.
Quasi illesi, pensò James, mentre guardava davanti a sé un sergente che
avanzava dando calibrati colpi alle ruote della sua sedia rotelle con le mani.
L’unica ferita di guerra che lui portava sul corpo era un taglio sulla guancia,
guadagnatosi in uno scontro corpo a corpo; ricordava ancora perfettamente
gli occhi del soldato tedesco, nero di pece da cui sbocciava iride di ghiaccio.
La vita li aveva lasciati come un lenzuolo che vola via dallo stendi panni in
giardino. Aveva pianto per una buona ora, cercando di pulirsi dalle mani il
sangue del suo peccato, prima di convincersi di aver agito per legittima
difesa. Si era rialzato, aveva issato l’M1 in spalla ed aveva lasciato ciò che
rimaneva di quella che doveva essere stata una casa, prima dei
bombardamenti. Era andato a cercare Pince, suo compagno di sventura e
amico, solo per ritrovarlo dissanguato dal colpo dell’uomo che aveva ucciso.
Aveva pianto anche per lui.
Erano passati forse due mesi da quel terribile scontro, ma esso sembrava
essere rimasto sospeso anni luce dietro a quel giorno di riconciliazione con
la sua terra. Come lo sembrava la sua vita passata. Non era passato un
anno da quando aveva detto addio a sua madre, ne erano passati cento, e
pesavano tutti sulla sua coscienza.
Jefferson Street. Ci giocava da bambino, con i suoi fratelli. La loro mamma
li seguiva a braccetto con il parroco, confessandosi tra la spesa e il lavoro
da segretaria. Se l’era portata via un infarto dopo la notizia della morte di
Charles, il maggiore. Nella lettera che aveva ricevuto in Francia, contenente
la notizia della sua morte, si parlava di “troppo dolore”, “angoscia per i figli
in guerra” e, ancora, “crepacuore per il figlio caduto”. I suoi nipotini
sarebbero cresciuti orfani di padre come era cresciuto lui, ora anche senza
madre. Desiderava tanto vederli. Michael, il maggiore, era brillante e
affettuoso. E lui era il suo zio preferito.
Quasi senza accorgersene, le sue labbra si incresparono in un sorriso
accennato, allietato per un momento dal ricordo del viso pulito del bambino
che gli si aggrappava alla giacca il giorno di Natale, impaziente di vedere il
suo regalo. Gli aveva regalato un aereo, un modellino simile a quelli che
guidava nell’aviazione Charlie. Gli aveva spiegato di come il suo papà, in
guerra ormai da un anno, prima che lui stesso partisse, volasse nel cielo
come un falco, fendendo l’aria e sganciando bombe che aiutavano i suoi
compagni ad avanzare sul territorio nemico. Michael ne era rimasto così
affascinato che non aveva tolto gli occhi da quel modellino così fedelmente
rifinito per tutto il resto della serata.
Quell’ultimo Natale trascorso in famiglia, nel vano tentativo di dimenticarsi
che nel giro di pochi giorni avrebbe raggiunto il fratello da qualche parte in
Europa, si era immerso nell’immagine dell’unione felice di più persone che
si volevano bene. Si era seduto al tavolo, aveva mangiato sino a sentirsi
pieno, ed aveva giocato con i nipotini e la sorella, di poco più giovane di lui,
che sarebbe andata a prestare servizio come crocerossina negli ospedali di
campo tra le montagne tedesche nel giro di qualche mese. Si era
aggrappato a quel ricordo disperatamente durante le notti fredde, tra il
fango, con il fucile in mano. Lentamente aveva perso la sensazione del
sapore del tacchino ripieno sulla punta della lingua, il profumo degli incensi
che danzavano nell’aria con note sinuose, il calore del fuoco del camino che
scoppiettava invitante. Era come se, troppo usato, il ricordo si fosse
sciupato. Gli occhi di sua madre non brillavano più come prima nei meandri
della sua mente. Si erano affievoliti, rientrando nel volto benevolo di lei,
sparendo con la sua anima il giorno della sua morte.
Solo due occhi brillavano nella sua mente come l’ultimo giorno in cui li aveva
visti, umidi e splendenti, grandi e azzurri come il cielo terso in primavera.
Il mio cuore aveva mai amato? Occhi rinnegatelo, perché non ha mai
conosciuto la bellezza fino ad ora. I versi di Shakespeare gli erano sorti
normali, sulle labbra, mentre la guardava. Non aveva osato recitarli ad alta
voce, ma li pensava fortemente mentre lei gli dava il suo addio. La loro
corrispondenza era stata assidua, densa di particolari e sensazioni. Lui le
raccontava di come il loro avanzamento fosse efficace, tra i campi francesi,
e di come talvolta gli abitanti li aiutassero a nascondersi; lei scriveva della
sua occupazione di insegnante, descriveva i bambini, i doni che le
porgevano. Due mondi diversi, opposti, che sembravano non poter
coesistere nello stesso luogo ma che tra le lettere gelosamente custodite
dai loro cuori sembravano prendere vita per poter rendere partecipe l’uno
e l’altra.
Quando giunse nella vecchia piazza, il nome di lei, Evelyn, risuonava ancora
come una dolce melodia nella sua testa. Gli uomini che incontrava si
toglievano il cappello per rendergli omaggio, le donne stringevano i figli
ancora piccoli indicandolo come eroe. James non si sentiva un eroe, non si
era sentito tale nemmeno un solo momento. Avrebbe usato più volentieri
la parola “fortunato”, come lo aveva appellato il capitano del suo
reggimento il giorno in cui un proiettile gli aveva sibilato di fianco
all’orecchio senza colpirlo.
Camminava ormai per inerzia, per le strade della città, con quella bici non
sua che procedeva placida guidata dalle sue mani, e si accorse di non essere
diretto a casa sua solo nel momento in cui di fronte a lui si delineò il profilo
della casa di Evelyn: lo steccato bianco e i fiori del giardino, il tetto dalle
tegole rosse e i vasi alle finestre. James percepì un moto di tristezza fuso a
pura gioia muoversi nel suo cuore. Lentamente, tutto il peso dei momenti
vissuti iniziò a premere sull’impalcatura di impassibilità che aveva eretto su
di sé per evitare di cedere come aveva visto molti compagni fare. Era come
se potesse sentire il rumore delle crepe che si insinuavano in quella
struttura mano a mano che si avvicinava alla casa. Abbandonò la bici allo
steccato e posò la mano sul cancelletto bianco per aprirlo, chiudendolo
dietro di sé come a voler lasciar fuori il mondo e potersi prendere quegli
attimi solo per lui. Quando giunse di fronte alla porta, alzò una mano per
bussare sul legno, ma Evelyn lo precedette apparendo sull’uscio con occhi
stupefatti dall’immagine che le appariva di fronte.
I lunghi capelli neri erano raccolti in parte in due elaborate trecce, che dai
lati opposti del suo capo si congiungevano sul retro della sua testa, per
lasciare che una cascata corvina si riversasse sulla sua schiena. Il viso pulito
era una candida luna, il vestito blu un mare in cui desiderava perdersi. Gli
gettò le braccia al collo, ancora troppo meravigliata per dire una sola parola.
James lasciò cadere la sacca, lasciando che lei, dopo essersi sottratta dal
loro idilliaco abbraccio per poterlo ben guardare, gli esplorasse il viso con
le dita, sfiorandogli gli zigomi e la mandibola pronunciata, il taglio
cicatrizzato sulla guancia e i capelli castani. Prese a riempirlo di baci per il
volto, incredula di poterlo ancora toccare e di poterlo rivedere dopo tutto
quel tempo a pregare per la sua salvezza. Infine rimase a guardarlo
tenendogli le delicate mani sulle gote, mentre lui le carezzava la vita,
percependo i polpastrelli formicolare sulle sue forme morbide. Nei momenti
di solitudine aveva così desiderato stringerla che stentava a credere fosse
vero il calore che sentiva sotto le mani incallite dalla guerra. Poi incontrò gli
occhi di lei: l’impalcatura di distacco crollò con un tonfo sordo, riempiendo
i suoi occhi di lacrime e il suo cuore di sentimenti tanto contrastanti da non
riuscire a darvi un nome. Tentò di parlare, ma Evelyn gli sorrise commossa,
scuotendo la testa e scostandogli una piccola ciocca di capelli dalla fronte
mentre lo scrutava come lo vedesse per la prima volta. Si elevò in punta di
piedi e fece scivolare le braccia sulle sue possenti spalle, stringendosi a lui
e avvicinando il viso al suo per lasciare che le loro labbra si congiungessero.
In quel momento James capì che parlare sarebbe stato superfluo, perché
l’amore che i due giovani provavano l’uno per l’altra avrebbe sovrastato
ogni altro pensiero, parola o sparo.