L`Analisi Transazionale con i bambini e gli adolescenti tra tecnica e

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L`Analisi Transazionale con i bambini e gli adolescenti tra tecnica e
Estratto da Neopsiche Rivista di Psicologia e Scienze Umane, n. 9, 2010.
La pubblicazione del presente articolo è stata gentilmente concessa dalla direzione della Rivista
(www. aiat.it)
L’Analisi Transazionale con i bambini e gli adolescenti tra tecnica e creatività
Stefano Morena *
“Dentro gli occhi cosa resta?”
(Cerri, 2004)
Abstract
Nella psicoterapia dei bambini e degli adolescenti, il sapiente ed equilibrato uso del pensiero
divergente e di quello convergente, da parte del terapeuta, costituisce una grande risorsa.
Nell’articolo vengono proposte alcune aree di attenzione relative a possibili posizioni
adultocentriche e genitorecentriche.
Queste considerazioni sono supportate dal concetto di “stadio dell’Io Bambino” proposto da Maria
Teresa Romanini.
Introduzione
Il viaggio clinico con un bambino o un adolescente mette alla prova le convinzioni che, come adulti,
ci danno sicurezza. E’ un tragitto che ci chiede di sostare sul confine tra passato e futuro, di
integrare lingue e saperi diversi. E’ un itinerario che sa di avventura, tra desiderio e realtà, che
attraversa territori di frontiera oltre le nostre idee calcificate o le rotte già segnate, e ci conduce su
terreni di cui non abbiamo mappe o navigatori satellitari preimpostati, ma indicazioni per
l’orientamento. E’ aprire l’armadio dei sogni.
“I nostri contesti d’azione sono sempre estremamente complessi, policentrici e generativi, che ce ne
rendiamo conto o meno. Il nostro quotidiano qui e ora è sempre più, secondo ogni evidenza, il
tempo dell’invenzione del futuro, della creazione di nuove conoscenze, e sempre meno il tempo
della mera esecuzione, e cioè dell’applicazione di conoscenze accumulate in precedenza.”(Lizzola,
2009)
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L’analista transazionale ha a sua disposizione, tra le altre risorse, la possibilità di lavorare
utilizzando due diversi tipi di pensiero: quello divergente e quello convergente. Due stili di
approccio e di comprensione della realtà diversi, ma complementari. Una sorta di bilinguismo che
permette al terapeuta, ad esempio, di cogliere all’interno di un racconto clinico, sia una grammatica
relazionale fatta di dettagli, che un’armonia narrativa, fatta di uno sguardo che vede dall’alto, più in
prospettiva.
Chiariamone il significato.
Riteniamo che il pensiero convergente sia caratterizzato da capacità elaborative, organizzative, di
analisi e astrazione. Si pianifica attraverso una sintassi comprensibile che può sedimentare in una
teoria e si concretizza in attività pratiche accompagnate da un senso, specifiche e strutturate. E’
originato dall’Adulto dell’individuo.
Il pensiero divergente empatico e intuitivo, presenta invece originalità ideativa, riorganizza gli
elementi di un problema, produce risposte diverse tra loro, apre alla sorpresa e al piacere della
scoperta. Si esprime attraverso metafore, afferra in modo intuitivo, coglie la globalità narrativa di
una storia. Da un punto di vista relazionale, sente il clima, percepisce l’unicità dell’incontro tra un
Io e un Tu. Da un punto di vista strutturale è strettamente collegato al Piccolo Professore.
“Il pensiero razionale, o convergente, [è] collegato alla capacità volitiva (cioè A2); il pensiero
intuitivo empatico, o divergente (cioè PP), [è] collegato alle altre capacità funzionali emotive
creative […] Entrambi sono espressioni dell’intelligenza umana in azione […] Ed appartengono a
due diversi sistemi psichici.” (Romanini, 1996).
Poco oltre Romanini aggiunge, un dato corroborato dalla ricerca neuroscientifica e dall’Infant
research (Trevarthen, 1997), che entrambi sono presenti nella persona umana, sin dai primordi,
seppure in forma diversamente consapevole (Romanini, 1996).
Il pensiero convergente e divergente del terapeuta nel lavoro clinico con Giulia e Luigi
L’incontro con Giulia, che ha nove anni, mi sembra un buon modo per proseguire, nella concretezza
clinica, la nostra riflessione.
I suoi genitori esordiscono comunicando che la bimba è molto apprensiva e appare spaventata se
loro non si presentano puntuali per ritirarla al termine della scuola, o quando si trova dai nonni.
Entrambi elencano i suoi tremori, la paura del dolore, il non voler stare in casa da sola e concludono
con una considerazione: “Eppure è una bimba così solare”. Durante l’incontro noto che il papà si è
tatuato il nome della figlia sul braccio. Glielo faccio notare e lui commenta: “Le mogli sono di
passaggio, ma una figlia resta “.
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Il mio pensiero convergente si sofferma su alcune ipotesi: sindrome ansiosa da separazione
dell’infanzia, forse un’angoscia d’abbandono sottostante più grave. Ricordo in anamnesi, una
familiarità depressiva importante e un evento traumatico acuto. Mi chiedo se questa bimba abbia il
permesso di crescere e di sperimentarsi nel mondo o se resterà incatenata o al modello “bella e
reclusa”.
Al nostro primo incontro, Giulia arriva indossando il casco di Hello Kitty. Giunge in moto con il
papà, palestrato e vestito in tuta mimetica. Quasi una coppia. Lei entra e, mentre passeggiamo nello
studio e vado presentando i nostri spazi di lavoro, si sofferma sui peluche. Si blocca e li osserva.
Anche i miei pensieri si fermano e tutto quanto so di questa “bambina narrata” scivola sullo sfondo.
Il mio pensiero divergente si fa strada. La invito a scegliere un pupazzo che, se vuole, potrà
diventare il nostro compagno di viaggio. Nel lavoro con i bambini non è raro incontrare oggetti che
si fanno personaggi traghettatori, disegni che attraversano come compagni fedeli tutto il viaggio
d’analisi, stelle polari che orientano gli incontri e indicano la via. E’ il caso dell’orsetto da lei scelto.
Egli sarà protagonista dell’Urbild e della sua prima storia.
Apro un inciso ricordando quanto la letteratura dell’infanzia aiuti a pensare in modo divergente.
Come fare qualche passo indietro diviene l’inaspettata via che permette di trovare nuovi bivi ed
andare avanti , altrettanto la cosiddetta letteratura per bimbi può aprire la mente e aiutare a guardare
le cose da prospettive inaspettate. Ripenso allora ai tanti orsi che ho già incontrato: la mamma del
commovente e rassicurante “Non dormi piccolo orso” (Waddel-Firth,1988), il possente e protettivo
Iorek Byrnison de “La bussola d’oro”, gli inseparabili amici ed esploratori di “Oh come è bella
Panama” (Janosch, 1978). Una galleria di personaggi che ritornano e portano con sé emozioni e
pensieri: tenerezza e aggressività, la forza di un predatore e la paura di un piccolo o il calore
protettivo di una grotta-rifugio che sa di casa.
Giulia tratteggia il piccolo orso e mi chiede di non guardare. E’ un invito a fare altro. Lo comunica
con il pudore ricorrente dei bambini, che talvolta non vogliono mostrare il disegno nel suo farsi.
Sono loro stessi a chiamare il terapeuta poi, quando si sentono pronti. E’ come una gestazione. E’ la
richiesta di un tempo per far nascere il primo dono che suggella la relazione. E’ il silenzio gravido
da cui emerge un primo segno del legame. E’ il primo abbozzo di un contratto d’accoglienza e,
come tutti i momenti magici, non ha bisogno di parole.
Alcuni bambini ci chiedono di entrare a far parte dei loro disegni, al limite tra la fantasia e la
razionalità. Siamo un po’ dentro e un po’ fuori. Ci chiedono di diventare un po’ personaggi di
questo palcoscenico grafico, un po’ osservatori, un po’ destinatari.
Stare accanto a Giulia smuove dentro di me alcuni interrogativi, come una sorta di dialogo interno:
“Come vede il terapeuta ? Come io la percepisco ? Che orsacchiotto è lei per me? Che orso posso
essere io per lei? Un compagno di giochi? Mi vede come una fonte di paura o potrò essere un
possibile rifugio?”.
Si vedrà.
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Nel disegno l’orsetto ha uno sguardo dolce e diretto. E’ un disegno proporzionato e ben centrato su
un foglio che occupa nella quasi interezza. La postura è un po’ rigida, il tratto pulito e deciso. Mi
chiede di tenerlo qui, nella stanza d’analisi. E’ un modo per abitare questo luogo, per dire che per
un po’ potrà restare.
Dopo il disegno arriva la ninna nanna per il peluche. Questa è, in fondo, un rito ancestrale di
accompagnamento, l’augurio di una transizione senza pericoli, la melodia che come testimone, fa da
scorta ad un passaggio. In seduta è diventata la condivisione di un’intimità, il segnale di una genesi
relazionale.
In questo spazio ormai protetto nasce poi anche una favola che forse è sintesi copionale della sua
esistenza, prefigurazione del futuro percorso clinico, del possibile desiderato o fotografia regalata al
terapeuta per condividere il suo stare nel mondo.
“Un giorno mamma orsa fece quattro figli e uno lo chiamò Cucciolotto. E’ un orsetto che va sul
color giallino. Ha due occhi dolci, è ubbidiente e molto giocherellone. Un giorno voleva andare a
giocare e si perse in un bosco (Sospira) e incontrò un puma feroce. Lui corse per tutto il bosco. Ma
non aveva più scampo e a un tratto arrivò papà orso che lo salvò. Così Cucciolotto non andò mai
più a giocare nel bosco senza un grande orso che lo portava e lo proteggeva”.
Questi inizi aprono altre porte ed ecco che emerge il racconto della paura, di quando Giulia si è
persa al centro commerciale, poi la condivisione di un sogno, ed infine il desiderio di portare tutti i
suoi 34 peluche.
Con loro costruiamo strategie per vincere la paura, per sfuggire o affrontare i mostri del bosco.
“Cucciolotto” è la creazione di un ponte, di un punto d’accesso che mette in collegamento la storia
narrata e quella vissuta.
Al margine di questo frammento di seduta, ricordo quanto sia importante il connubio tra la
conoscenza di una “tecnica del primo colloquio” (Munari Poda, 2003) e la capacità di sorprendersi.
E’ fuorviante lasciarsi ammaliare da una parte dalle sirene di un tecnicismo del “si deve fare prima
questo e poi quest’altro” in modo meccanico e dall’altra dallo spontaneismo privo di riferimenti. Il
processo diagnostico, con successivo piano di trattamento, richiede di essere integrato in un
contesto di accoglienza e apertura creativa, mentre le ipotesi di lavoro rimangono sospese alle
nuove connessioni in un costante dialogo con la realtà.
Nella mente dell’analista, è una conversazione interna tra tecnica e inventiva, fuori, è l’Incontro con
un bambina o, come nella situazione che ora presenterò, con un adolescente.
Luigi ha 18 anni, è profondamente malinconico, con una dipendenza importante dal nucleo
familiare associata a ritiro sociale e tratti fobici. Nei nostri incontri alterna lunghissimi silenzi
verbali a una notevole capacità comunicativa grafica. Nel periodo a cui faccio riferimento, i nostri
colloqui sono veicolati più dalla scrittura e dal disegno che dalla voce. Egli, dopo pochi muniti
dall’inizio della nostra seduta, esordisce scrivendo la propria sofferenza. Nel susseguirsi dei nostri
scambi il suo dolore pare sovrastare la capacità di formulare frasi, al punto che “le parole per dirlo”
non si trovano più.
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Per cogliere quanto il suo Adulto sia sempre meno energizzato, basta osservare la qualità della sua
scrittura che va via via scivolando verso scarabocchi incomprensibili.
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(Come stai ?)
Male molto male
Cosa è successo?
Tutto. Non ho neanche più la voglia di arrabbiarmi
Deve essere qualcosa di grave allora …
Oooooh.
E’ qualcosa che riguarda sia l’università che a casa?
Sì. Io non ce la faccio più. Vorrei solo morire. E stop.
E’ un periodo molto difficile per te.
La nuova esperienza in università, i cambiamenti in famiglia
…
Quando smetti di scrivere spesso vuol dire che sei molto esasperato
….
Figura 1
Dopo questa prima fase, decido di cambiare il mio piano di lavoro. Scelgo una modalità che
attivi il Bambino del mio interlocutore e dia spazio a nuove forme di comunicazione,
pensieri ed attività divergenti. E’ importante sottolineare che questa strategia di lavoro è già
stata sperimentata come vicina alla sensibilità di Luigi. Una strada rassicurante, in cui per lui
è possibile dirsi senza esporsi troppo.
L’invito è a disegnare la sensazione che corrisponde al “Tutto va male … Molto male”.
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Dopo averla rappresentata, propongo di ritagliarla in piccoli pezzi e di porli in una piccola
scatola. Cerchiamo insieme un contenitore ove raccogliere la sua sofferenza in modo
simbolico. Un gesto che rende visibile la possibilità di riportarla a una dimensione
accettabile e di trovarle una casa che la contenga. Questo passo permette a Luigi di guardare
e affrontare lo stare male con una capacità nuova.
Con lui avevamo realizzato, in un recente passato, piccoli mosaici con ritagli di carta. Molte
di queste tessere di puzzle colorate sono lì, nella stanza d’analisi, ancora a disposizione in
una cassetta. Sono memoria storica di esperienze condivise, segno tangibile di un’alleanza
terapeutica che conserva i suoi tanti pezzi. E’ attingendo da questo contenitore, cioè dalla
forza di questa storia relazionale che il mio interlocutore riprende energia per ricostruire una
flebile speranza. L’ indicazione è questa: “Eccoti la scatola con tutti i pezzi colorati che in
passato abbiamo tagliato insieme. Realizza con queste tessere colorate qualcosa di leggero
e di semplice”.
Luigi decide allora di realizzare una nuvola multicolore.
Un processo ridecisionale, tecnico e creativo, veicolato dalla relazione e rinforzato da un
riconoscimento attraverso parole e disegni che si conclude con questo manoscritto.
− Mi sorprende la tua capacità di realizzare cose che esprimono in modo efficace e bello la tua
fatica e la tua creatività
− Io vorrei essere come questa nuvola: leggera, soffice morbida, silenziosa, spensierata…
Voglio essere così
− E’ anche il mio augurio. Che tu lo possa diventare, che tu riesca a far crescere la piccola
nuvola colorata che hai già dentro.
Fig. 2
La parola, perduta ad inizio seduta, è ritrovata. Il suo ritorno diviene segno tangibile di un recupero
della propria componente Adulta che riconosco e rinforzo con l’augurio finale.
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L’alleanza tra il pensiero convergente e quello divergente nell’Analisi Transazionale
Arriviamo ora al nucleo centrale del nostro intervento. Razionalità e creatività possono convivere
nel lavoro clinico con un bambino o un adolescente? L’Analisi Transazionale può dirci qualcosa al
riguardo?
La risposta ad entrambe le domande è positiva. Ci aiuteranno inizialmente lo psicanalista Antonino
Ferro, a cui siamo debitori anche per il felice binomio presente nel titolo, e in seguito le riflessioni
di Maria Teresa Romanini.
Scrive Ferro che: “C'è in fondo una necessaria oscillazione tra creatività e tecnica C-T; sono una al
servizio dell'altra; ci sono momenti in cui è la tecnica che prevale con differenti opzioni possibili, e
altri in cui è la réverie, la fantasia, che prevale e questi sono momenti massivamente fecondi e consentono delle nuove e improvvise aperture di senso (A.Ferro, 2006).
Poco oltre aggiunge che:
“Una scelta interpretativa più tecnica è più sicura, ma spesso meno fertile. Un'opzione più creativa è
più a rischio di derive soggettive ma può aprire spazi prima impensabili. È chiaro che la soggettività
dell'analista ha un grosso peso, proprio rispetto alla sua possibilità di essere se stesso e creativo, o
alla necessità di essere “camaleontico” con una teoria che lo salvaguardi dal rischio di pensare in
modo originale.
Bion diceva che il “pensare” è una funzione nuova della materia vivente e per questo è complesso e
difficile. Nella storia della psicoanalisi troviamo in genere degli analisti molto creativi che hanno
fatto fare dei salti alle teorie e alla teoria della tecnica - basti pensare a Klein o Bion — che sono
stati contestati in vita e sono divenuti dei modelli da usare successivamente. È come se in pittura
fosse osteggiato ogni pittore con una sua tecnica e una sua poetica, salvo esser poi accettati dalle
accademie i lavori “alla maniera di”. In piccolo, questo accade non di rado nei centri di psicoanalisi
e ancora di più negli istituti di psicoanalisi ogni volta che prevale l'apprezzamento per un grigio
conformismo e l’allarme per l'originalità creativa.”
Questi riferimenti psicanalitici rafforzano la nostra ipotesi iniziale e ci introducono al pensiero di
M.T. Romanini. Un pensiero, il suo, che ci permette di collocare quanto siamo andati sinora
dicendo con profondità e sistematicità, in un linguaggio di senso che si avvicina all’Analisi
Transazionale, poiché di lei apprezziamo tanto la creatività quanto il rigore teorico.
La bibliografia di Romanini è vasta, impegnativa e affascinante. In particolare crediamo che la
lettura di “La nascita psicologica” (Romanini, 1985) e “Io reale” (Romanini,1991), permettano
all’analista che lavora con i bambini di avere una cornice concettuale di base, di trovare uno sfondo
che dà senso al proprio operare: come un atto fondativo o un certificato di nascita professionale. I
due contributi danno, infatti, le coordinate ed un nome a tante cose che nel nostro quotidiano lavoro
ci sono indispensabili. Non a caso sono tra i più complessi e ricchi anche da un punto di vista
euristico. Colti nella loro globalità questi costituiscono la possibilità teorica di un lavoro analitico
transazionale nell’età evolutiva. L’opportunità, parafrasando un famoso titolo, di “Costruirsi
Analisti transazionali con i bambini e gli adolescenti” (Munari Poda, 1999). I successivi “Il setting
analitico transazionale nella psicoterapia dei bambini” (Romanini, 1997) e “Analisi transazionale
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con i bambini” (Romanini, 1997) sono invece un valido strumento per capire come uno
psicoterapeuta lavora concretamente con loro.
Noi faremo riferimento all’articolo “Bambino stadio dell’Io e stato dell’Io” (Romanini,1996), testo
che consideriamo fedele alla tradizione berniana e contemporaneamente una sua evoluzione.
Da questo riprendiamo tre concetti necessari allo sviluppo del nostro pensiero. Per ogni ulteriore
approfondimento vi rimandiamo all’opera citata in bibliografia.
Il primo è che tutti e tre gli Stati dell’Io si sviluppano lungo l’arco della vita.
Il secondo è la nozione di Io Reale, che definisce la persona a partire dallo stato dell’Io più coerente
all’età cronologica del soggetto. Un bambino si vive come tale e agisce come tale e, pertanto, lo
stato dell’Io B è, solitamente, quello maggiormente carico di energia psichica (autoriconoscimento).
Normalmente è rispecchiato come bambino anche dall’ambiente in cui vive (etero riconoscimento)
e pertanto valutazione esterna ed interna coincidono.
L’Io reale permette, ed è il terzo punto, di suddividere la vita umana in due grandi periodi o stadi
dell’Io differenti.
Sino a circa 10/15 anni la persona vive nello stadio dell’Io Reale in B e, dopo l’adolescenza, vive
nello stadio dell’Io reale in A. L’adolescenza è prevista come passaggio oscillante tra l’uno e l’altro.
I due stadi sono essere così raffigurati:
Fig. 3 (Romanini, 1996)
Il senso di questa rappresentazione (fig. 3) è che essa pone in risalto con immediatezza la centralità
Bambino o Adulto dei due differenti stadi.
Lo schema successivo (fig.4) evidenzia che, per un bambino, la contaminazione patologica proviene
da A e da G su B e non viceversa come accade nello stadio dell’Io Adulto e può essere riprodotta
nel seguente modo.
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Fig. 4 (Romanini, 1996)
Come dicevo poco sopra, il bambino si autodefinisce in base allo stato dell’Io congruo alla sua età
ed al suo aspetto. E’ di fondamentale importanza che il suo ambiente confermi questa definizione,
la quale diverrà il bersaglio privilegiato delle transazioni a livello sociale, con il conseguente
rinforzo dell’autodefinizione. Nella nostra pratica clinica questo pensiero ha tutta una serie di
conseguenze pratiche coinvolgenti il nostro setting di lavoro. Vi sono molte aree che vanno
presidiate per favorire in modo fenomenologico (l’autoriconoscimento), ed in modo fenomenico (il
mio riconoscimento di Grande, inteso come coppia genitoriale, terapeuta o come adulto di
riferimento nei confronti di un piccolo, che potremmo chiamare ambiente di vita) il permesso
centrale di ogni intervento clinico o evolutivo, quello di essere bambino o adolescente.
“In età evolutiva l'intervento terapeutico si può riassumere nel «permesso di essere bambino» e
quindi di avere in sé il potenziale per crescere e diventare adulto e, come futuro adulto, di «essere se
stesso» e quindi di poter sperare, di poter amare ed essere riamati, di poter pensare e agire senza
doverlo fare per forza, secondo leggi prefissate”. (Romanini,1997)
Questo purtroppo talvolta non accade.
Ripenso a Mattia, di nove anni, che arriva al nostro primo incontro con una ventiquattrore e mi dice
che vuole giocare al ragioniere. Uno straordinario modo di presentarsi, penso tra me e me, mentre
mi chiede di fare il contabile. Io devo scrivere delle fatture per un ipotetico cantiere così lui le
inserisce nei suoi fantasiosi registri. Ben presto però tocco con mano cosa significhi incontrare un B
contaminato da A, poiché scopro che questa sua recita non è un piacevole divertimento ma metafora
di un piano di vita caratterizzato da pesantezza e da uno sforzo immani, dove il piacere di
sperimentare un’ intimità giocosa lascia spazio ad una vita già dedicata ad un lavoro in cui “i conti
tornano sempre”. La qual cosa non dà soddisfazione, ma almeno garantisce sicurezza.
Il pensiero unico e convergente, nella sua forma esasperata e tecnicistica, se rigidamente univoco
(G: Il mondo è così) o aridamente razionale (A: Il mondo funziona così), rischia di connotarsi come
“adultocentrico e genitorecentrico”.
Con Giulia e Luigi abbiamo visto come si possa passare, con armonia, dalla tecnica alla
riattivazione di quella spinta motivazionale creativa che Fanita English chiama anche Espressiva
“responsabile di elementi importanti quali il gioco, l’immaginazione, il desiderio di libertà, il
bisogno di sperimentare idee e sogni” (English, 1992).
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Non va dimenticato che il contesto storico in cui viviamo, e che Galimberti chiama “Era
tecnologica” non ci aiuta. E’ un’epoca sociale in cui la tecnica non è uno strumento a disposizione
dell'uomo, ma “è diventata il vero soggetto della storia, rispetto al quale l'uomo è ridotto a
funzionario dei suoi apparati. Al loro interno, infatti, egli deve compiere quelle azioni descritte e
prescritte che compongono il suo “mansionario”, mentre la sua persona è messa tra parentesi a
favore della sua funzionalità” e, aggiunge, che “forse addirittura nell'età della tecnica la nostra
identità è già stata riassorbita dalla nostra funzione, così come la nostra libertà è forse solo una
forma dissimulata di schiavitù, la nostra individualità un'illusione sommersa da quella cultura di
massa al cui interno l'unico racconto che circola è il monologo collettivo dei media, dove ognuno
dice quello che ha sentito da tutti e ascolta quello che tranquillamente potrebbe dire da sé. In questa
afasia dell'anima individuale, si fanno strada quei rimedi tecnologici che si chiamano psicofarmaci,
dove la psiche tace”. (U. Galimberti, 2009)
Dato questo contesto, i rischi a cui a nostro parere è bene prestare attenzione nella nostra attività
con i bambini e gli adolescenti possono essere raggruppati nelle due grandi aree seguenti.
Genitorecentrismo ovvero il pensiero contaminante G in cui domina una regola unica.
Ne è un esempio (Fig.4) un G culturale psichiatrico o neuropsichiatrico e monolitico che talvolta
contamina e sminuisce altri approcci possibili. Basti pensare a quanto, in taluni casi, la
categorizzazione in sindromi possa svilire l’unicità dell’individuo, alla falsa opposizione tra parole
e pillole o, se preferiamo, tra relazione e chimica, ovviamente a vantaggio di quest’ultima.
Quanto i soggetti in età evolutiva siano diventati territorio di colonizzazione medicalizzante è un
dato facilmente osservabile. Basti pensare a quanto alcuni “saperi forti” della salute mentale
prevalgano sulla delicatezza del contatto clinico o educativo nascondendosi dietro parole distraenti
quali efficacia, efficienza, rapidità, sicurezza, novità. E’ il risultato di un capillare e insistente
lavoro realizzato da lobby medico-farmaceutiche, socialmente ed economicamente più affermate,
che svalutano altri approcci alla cura, e al prendersi cura, invadendone campi e competenze.
“La prevalenza sempre più marcata dell’atteggiamento obbiettivante, nosografizzante,
semplificante, è evidente anche negli insegnamenti universitari. Non si tratta solo della prevalenza
del riduzionismo del DSM-IV, ma riguarda la lenta e progressiva prevalenza del fatto che la mente
dell’uomo non altro sia che mente neuronale. La mente è sicuramente neuronale, ma non è solo
neuronale”. (Callieri B., 2009)
E’ ciò che accade quando alcuni testi divengono “sacri” ed il canone neurochimico prevale sul testo
narrativo che a due voci viene realizzato nel lavoro clinico tra il paziente ed il suo terapeuta.
Succede allora che classificazioni, diagnosi, strategie e strumenti, la cui importanza ovviamente non
disconosciamo, occupino gran parte delle energie dello “specialista”, che è così preso dall’ansia di
controllare la situazione, che non ne ha più di disponibili per l’accesso all’altro. E’ il prontuario
delle cose da fare che occupa la nostra mente in modo esasperato. Una tendenza esasperata che
ritroviamo soprattutto agli inizi della nostra attività, quando l’insicurezza ci fa aggrappare a
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protocolli semplificati di intervento che limitano la possibilità di co-costruire un percorso
terapeutico con il nostro interlocutore.
Adultocentrismo, ovvero la contaminazione dall’A che degenera in un Pensiero unico
E’ lo stile di un certo tipo di logica semplificante, che svaluta la complessità poiché non le è di
supporto. Come quando ci focalizziamo su una funzione o una disfunzione, caratteristiche che
assumono maggiore rilevanza del bambino o dell’adolescente nella sua globalità. Siamo alla
parcellizzazione dell’individuo in un insieme di sintomi. Questo permette un accesso al problema
più “razionale”, secondo un pensiero quasi lineare di causa-effetto. Nascono allora i bambini
aggettivati o addirittura sostantivati: il dislessico, l’anoressica, l’iperattivo.
“Nelle ultime pubblicazioni sta imperando il riduzionismo più radicale e suadente, che è quello
della genomica e del molecolarismo, che invade qualunque impostazione . […] Viviamo il timore di
essere sommersi da una marea progressiva di radicale riduzionismo dell’uomo, ad una sola
dimensione.” (Callieri B., 2009).
Un approccio in cui prima conta la certificazione e poi si vedrà il bambino. Come quando un
genitore ci consegna la cartella clinica del proprio figlio e lascia che sia una diagnosi a descriverlo,
delegittimando il proprio sguardo di padre o di madre. Accade quando l’abuso frettoloso dei test
cancella l’ascolto maieutico perché spesso la velocità è prioritaria. In questi casi è fondamentale
recuperare “l’attesa del disvelamento”. Tutti noi sappiamo quanto la cura non possa prescindere dal
dare tempo al bambino o all’adolescente. Il tempo per crescere, trascendere, dare e darsi forma non
è fatto solo di attività, ma anche di intervalli ricreativi.
In merito al pensiero contaminato dall’Adulto (Fig. 4) ripenso anche alle occasioni in cui lo spazio
dato alla parola parlata viene erroneamente vissuto come qualitativamente più importante di un
tratto grafico, di una rappresentazione con pupazzi, di uno scarabocchio, di una costruzione di legno
o dell’ascolto attento di una canzone proposta da un adolescente come comunicazione di sé.
Persino i linguaggi tipici dei bambini possono essere abusati in modo adultocentrico. Talvolta capita
che un disegno venga trasformato in semplice fotogramma psicodiagnostico e non sia colto o
partecipato come evento relazionale, o è il caso di quelle fiabe lette solo per giungere alla loro
morale finale che il bambino dovrà apprendere ed immagazzinare.
E allora come recuperare e coniugare l’asimmetria di un rapporto grande-piccolo con il rispetto
dell’unicità di entrambi?
Romanini ci aiuta in questo senso, poiché nei suoi contributi, quando ci parla di tecnica lo fa sempre
bilanciandola e contestualizzandola con l’attenzione alle specifiche caratteristiche del bambino.
Cito come elemento di attenzione:
“Nell'analizzare un bambino con la tecnica analitico transazionale, […], è utile ricordare che il
bambino si riconosce fisiologicamente nello stato dell'Io Bambino, per cui è possibile che siano la
razionalità e la volontà (cioè funzionalmente lo stato dell'Io Adulto) a contaminare la creatività e
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affettività naturale del soggetto (cioè funzionalmente il Bambino) piuttosto che il contrario.”.
(Romanini, 1997).
Sempre bilanciando la razionalità di transazioni A-A con la creatività di transazioni B-B. Nella
stanza della terapia “il B è stimolato con le transazioni B-B del gioco in comune e
contemporaneamente l’A è stimolato dal fluire del colloquio tenuto principalmente in transazioni AA secondo i noti interventi berniani. L'uso di transazioni semplici di volta in volta B-B e A-A è
volto a permettere al bambino di riconoscere come naturali modi di essere e di rapportarsi da
persona adulta e di indurlo a interiorizzarle come permessi di attaccamento in G, fino a che inizi a
viversi in un nuovo, più congruo palinsesto identificatorio nel doppio okness.” (Romanini, 1997).
Solo in questo modo possiamo trasmettere al nostro interlocutore quell'«essere principi e principesse», collegato alla speranza che le persone possano, “lungo tutta la vita, crescere in creatività e
affetti, pensiero e volontà, sapere e amare” (Romanini, 1997) e non svalutare lo stato dell’Io B che
da un punto di vista funzionale è “la parte intuitiva, creativa, emotiva della persona “ (Berne, 1961).
In sintesi credo che nell’attimo dell’incontro terapeutico esista un pensiero convergente e tecnico
che ci guida e ci aiuta. Il terapeuta ed i suoi interlocutori appartengono a diversi stadi dell’Io. Ciò
richiede un’apertura mentale, garantita dal pensiero divergente, che veicoli, anche in un processo
giocoso e creativo, il permesso di essere un bambino o un adolescente.
Una testimonianza esemplare in questo senso, per chiarezza e raffinata competenza, rimane l’ormai
classico “Il bambino Curzio” (Munari Poda, 2003), a cui rimandiamo, per ritrovare la trama
preziosa, fatta di delicatezza ed intelligenza relazionale, tra un’analista ed un bambino, dal primo
colloquio alla separazione.
Scopriamo naturalmente con piacere i sempre più numerosi spunti provenienti da quanti lavorano
prioritariamente con i piccoli. Basti pensare ad alcune raccolte di saggi in volumi, ai numeri
monotematici di riviste italiane o internazionali, alle giornate di studio dedicate all’età evolutiva, ai
master, alle associazioni nate con l’obiettivo di fare rete e dare voce a quanti utilizzano l’Analisi
Transazionale con bambini e adolescenti in tutte le aree d’intervento, anche in ambito educativo e
nel counselling.
Ci piace in particolare ricordare il dialogo con altre scuole di pensiero che lavorano su terreni a noi
affini. Penso alla tradizione clinica psicodinamica e alla riflessione sul protocollo di copione
rispetto alla teoria dell’attaccamento. Di grande rilevanza ci paiono le connessioni tra lo studio dei
traumi infantili o adolescenziali da migrazione e l’etnopsichiatria. Aree in cui è necessario
muoversi con delicatezza, poiché esposte a facili sovrapposizioni e confusioni epistemologiche, ma
anche fonte di grande ricchezza. Per ulteriori indicazioni rimandiamo alla recente ed efficace sintesi
di Fornaro (Fornaro, 2009) o al testo “Rispondere al trauma” (Ligabue a cura di, 2008).
Il buon equilibrio tra pensiero convergente e divergente è favorito anche dall’allenamento del nostro
sguardo di adulti con occhi di bambino e l’iniziativa della Mostra internazionale d’illustrazione per
l’infanzia che parte da Sàrmede (TV) “Le immagini della fantasia”, che ogni anno attraversa
diverse città italiane, ci sembra un buon modo per esercitarlo (www.sarmedemostra.it).
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Lascio alle parole di un vecchio, e al contempo giovane, saggio il compito di un lieve augurio
conclusivo. E’ Eugenio Borgna, autore che ha il coraggio di parlarci di una clinica e di un modo di
fare psichiatria altro, rigoroso e al contempo divergente, ma soprattutto gentile:
“E’ il principio della gentilezza interpretativa che dovrebbe ispirare ogni modo di fare psichiatria;
di questa rinuncia alla violenza del potere illuminante delle nostre teorie; di come mutino le cose
quando si assume un’altra prospettiva, passando dal giorno iperchiaro di un pensiero
neurofisiologico alla luce opalescente e lunare dei fenomeni soggettivi.” (Borgna, 2003).
Questo, in fondo, è ciò che resta.
*
Psicologo – psicoterapeuta, PTSTA, docente I.T.A.T.
[email protected]
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