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Document 2400206
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scheda tecnica
durata: 90 minuti
nazionalità: Ita
anno: 2003
regia: DAVIDE FERRARIO
soggetto e sceneggiatura: DAVIDE FERRARIO
produzione: DAVIDE FERRARIO PER ROSSOFUOCO, FILM COMMISSION TORINO
PIEMONTE, MULTIMEDIA PARK
distribuzione: MEDUSA FILM
fotografia: DANTE CECCHIN
montaggio: CLAUDIO CORMIO
scenografia: FRANCESCA BOCCA
costumi: PAOLA RONCO
musiche: BANDA IONICA, FABIO BAROVERO, DANIELE SEPE
interpreti: GIORGIO PASOTTI (MARTINO), FRANCESCA INAUDI (AMANDA), FABIO
TROIANO (L'ANGELO), FRANCESCA PICOZZA (BARBARA), SILVIO ORLANDO (IL
NARRATORE), ALBERTO BARBERA (DIRETTORE DEL MUSEO), GIANNA CAVALLA
(RICETTATRICE), FRANCESCO D'ALESSIO (MEMBRO BANDA DELLA FALCHERA), PIETRO
EANDI (NONNO), ANDREA MORETTI (MEMBRO BANDA DELLA FALCHERA), IVAN NEGRO
(IVAN), CLAUDIO PAGANO (GUARDIA DEL CORPO), GIANPIERO PERONE (BRUNO
METRONOTTE), ANDREA ROMERO (PADRONE FAST FOOD), LIDIA STREITO MISDIM
(RAGAZZA INDONESIANA), GIANNI TALIA (MEMBRO BANDA DELLA FALCHERA), MAURIZIO
VAIANA (CUGINO MAURIZIO), LADIS ZANINI (STRIZZAPALLE)
DAVIDE FERRARIO
Filmografia
LA FINE DELLA NOTTE - regia, sceneggiatura 1990
MANILA PALOMA BLANCA
- sceneggiatura
FIGLI DI ANNIBALE
- regia, sceneggiatura e
soggetto - 1998
PARTIGIANI
- regia - 1998
- 1992
GUARDAMI - regia, sceneggiatura e soggetto -
ANIME FIAMMEGGIANTI - regia, sceneggiatura
1999
e soggetto - 1994
IN PRINCIPIO ERANO LE MUTANDE sceneggiatura - 1999
ESTATE IN CITTA'
- regia, sceneggiatura –
1996
TUTTI GIU' PER TERRA
LA RABBIA - regia - 2000
- regia,
sceneggiatura - 1996
DOPO MEZZANOTTE
SUL QUARANTACINQUESIMO
PARALLELO - regia e soggetto - 1997
SE DEVO ESSERE SINCERA
COMUNISTI - regia, sceneggiatura e soggetto -
- regia, sceneggiatura e
soggetto - 2003
- regia -
2004
1998
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INTERVISTE A DAVIDE FERRARIO E GIORGIO PASOTTI
da www.cinema.lospettacolo.it - www.ilcinemadelcarbone.it - www.capital.it
Davide Ferrario
Il cinema e Torino, sono tra le tue passioni?
L'amore per il cinema e il fatto che viva a Torino mi hanno spinto a fare questo film.
Non sono delle passioni a priori. Sono le cose da cui sono partito per raccontare
questa storia. Che aveva delle esigenze narrative e di produzione, per una storia
affascinante e bella da vedere. La Mole Antonelliana ci ha fornito tutte le risposte
perché è un posto suggestivo, è Torino nella maniera più pregnante ed è il museo
del cinema.
Torino è sempre più cinematografica, secondo te è da legare allo lo sviluppo culturale che
la città ha avuto negli ultimi anni?
Io mi sono trasferito a Torino sette anni fa convinto che la città non fosse quella che
tutti pensavano dominata dalla Fiat ma un laboratorio sulle cose che stavano
succedendo, l'immigrazione dopo la vecchia ondata è arrivata la nuova
nordafricana e c'è stata un'integrazione del tutto particolare. Rappresenta il perfetto
incrocio tra una città di respiro internazionale e una città provinciale. Proprio il
provincialismo è una delle caratteristiche dell'Italia. Torino questo lo ha confermato
e lo sta tenendo come caratteristica per il futuro.
La storia della produzione del film Dopo mezzanotte: un basso budget e una produzione
indipendente che scelte comportano e che conseguenze nel mondo del mercato
cinematografico?
Si tratta di avere un’idea di quello che si fa: un basso budget era necessario perché
i soldi a disposizione erano pochi, la scelta di girare in digitale ci consentiva di avere
una qualità molto buona con una macchina molto leggera, di avere una troupe
molto piccola e di girare il film velocemente. Infatti abbiamo finito le riprese in 4
settimane.
Sostanzialmente questo significa arrivare in fondo ad un film con una grande libertà.
Per esempio il film è stato girato senza sceneggiatura e questa scelta con una
produzione e una distribuzione diverse sarebbe stato inattuabile. Tutti vogliono
leggere le sceneggiature, io invece avevo un’idea in testa e mi fidavo di quella.
Poi una volta terminato il film era pronto per essere mostrato alle case di
produzione: le prime lo consideravano bello ma di nicchia. Poi, quando il film è stato
presentato a Berlino e la gente in sala rideva, ha iniziato a essere venduto all’estero
e questo significava che non era più di nicchia.
Questo capita spesso in Italia: alcuni film, come per esempio Respiro (It. – Fr. 2002,
Emanuele Crialese), prima snobbati in casa, vengono venduti e apprezzati molto all’estero
e solo dopo considerati in Italia. Come si può spiegare questa tendenza?
Credo che in Italia ci sia un provincialismo di fondo, un problema di identità
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culturale degli italiani. Da almeno venti, trent’anni, cioè dal grande cambiamento
degli anni ’60 e ’70, noi non abbiamo più avuto una cultura vera e propria, siamo
una specie di paese colonizzato da tendenze e mode estere, non abbiamo idee
interne su quello che è importante rappresentare della nostra vita. Quindi ce ne
accorgiamo quando sono altri a farcelo notare ed è stato così per Nuovo cinema
paradiso (It. – Fr. 1988, Giuseppe Tornatore), che prima di vincere l’Oscar in Italia
era stato completamente snobbato, e Mediterraneo (It. 1991, Gabriele Salvatores)
che ha avuto la stessa storia.
In Italia si aspetta sempre un professore che spieghi bene la lezione. Mi colpisce
molto il fatto che negli ultimi anni tutti accorrono a vedere le mostre, mostre che poi
diventano veri e propri eventi. È sicuramente una cosa positiva, ma dubito di quello
che resta dopo la visita. La sensazione che ho è che la tendenza generale sia
quella di consumare un evento culturale, per cui si va, si compra il catalogo e si
torna a casa, ma senza un’elaborazione culturale reale di quello che si è visto.
Cosa è accaduto dopo Guardami (It. 1999, Davide Ferrario), per cui lei non riusciva più a
far passare le sue sceneggiature e le sue idee?
Sono passati quasi cinque anni dall'ultimo film, ma non sono stati anni d'inattività.
Ho cercato di fare film che non sono stati approvati, di pari passo quello che mi
hanno proposto non piaceva a me. È sfumata una grande produzione con la
Miramax dopo molto lavoro. Ho realizzato parecchi documentari e ho lavorato molto
con Marco Paolini. Mi sono reso conto che se avevo voglia di fare un film dovevo
farlo da solo, muovermi e rischiare. Ho ricominciato a fare cinema come se fossi un
esordiente e Dopo mezzanotte in effetti ne risente.
Evidentemente i film che volevo fare io non erano ritenuti interessanti, non erano
ritenuti di mercato, non erano ritenuti per bene. Volevo fare un film tratto da un libro
di Cesare Battisti(*), sulla lotta armata negli anni ’70, e questo mi è stato
ampiamente sconsigliato, perché non è un tema che si tratta.
Poi volevo fare altre due o tre cose, che non erano particolarmente cattive, ma non
ne ho avuto la possibilità. Io mi rendo conto di non poter fare tutti i film come
Guardami, perché finirei per mettermi in un angolo. Per esempio Ciprì e Maresco,
che io considero bravi, continuando a fare quel tipo di cinema vivranno sempre più
in un ghetto. Tra una cosa e l’altra, tra rifiuti e progetti che non mi interessavano
sono passati quattro anni.
Infatti ora è arrivato Dopo mezzanotte, che sembra proprio un ritorno all’infanzia, del
cinema e del fare cinema.
È un ripartire da zero sotto tanti punti di vista, intellettualmente come tipo di cinema
e anche produttivamente. Sei mesi prima di iniziare Dopo mezzanotte io ero a New
York con un progetto Miramax che poi non è partito, con le limousine, gli alberghi a
downtown. E il bello del cinema è questo, che passi dal tanto al poco, dalla
produzione ad alto budget al regista che in prima persona paga per fare il suo film.
La poetica della geometria e dell’organizzazione dell’universo nella teoria dei numeri di
Fibonacci è un suo personale modo di concepire la realizzazione di un film?
Non direi una concezione proprio nel fare i film. Io non sono religioso, però credo
che davvero il mondo abbia un suo senso matematico che noi non abbiamo ancora
capito. I numeri di Fibonacci sulla Mole di Torino sono stati una tentazione troppo
forte, se non ci fosse stata l’installazione di Mario Merz probabilmente non avrei
inserito questo discorso nel film. Psicologicamente noi sappiamo poco di Martino
[Giorgio Pasotti]. È un personaggio che si qualifica rispetto al posto in cui è, rispetto
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a Buster Keaton, ma è un personaggio un po’ misterioso. E mi piaceva che non
fosse solo semplicemente un tipo strambo che cade per terra, uno un po’ maldestro
e stupidotto, ma che avesse qualcosa di particolare nella sua mente e i numeri
erano un’occasione per rendere il personaggio completo. Fibonacci è un accenno a
qualcosa di profondo e importante ma non bisogna dimenticare che i suoi numeri
servono per vincere al Lotto e questo è un po’ lo spirito del film intero, mettere
subito in ironia anche l’organizzazione dell’universo.
I materiali d’archivio sono stati scelti con un’intenzione stilistica e di racconto o sono stati
una necessità di una produzione a basso budget come la vostra?
Di solito i materiali d’archivio sono coperti da diritti, ma quelli usati nel film ne erano
liberi. Tuttavia non sono stati inseriti solo per risparmiare dei soldi. La scelta è stata
fatta perché abbiamo lavorato senza sceneggiatura: il film, quindi, è stato costruito
mentre si girava. Il primo livello era la storia dei tre ragazzi e del custode della Mole.
Man mano che questa storia si completava, avevo bisogno di un’eco, e l’ho trovata
facendo rimbalzare la storia d’amore dei ragazzi in una storia d’amore di cinema. Il
terzo livello è poi quello della voce fuori campo, ideata come un narratore, un Silvio
Orlando accanto allo spettatore nella sala che ogni tanto commenta le vicende.
Il film è stato costruito così, perché io non credo che il cinema sia sceneggiatura, il
cinema è montaggio.
Io spesso sento dire frasi come “Quello era un brutto film, poi è stato salvato in
montaggio”, ma la profonda natura del cinema non è la ripresa, è il montaggio. Per
me girare è cercare delle immagini, raccoglierle e in un secondo tempo, in
montaggio, dare loro un senso.
Questa era anche la scommessa iniziale del film: io avevo bisogno di un produttore,
in questo caso me stesso, che si fidasse del regista e del suo modo di costruire una
storia. nessun altro produttore avrebbe accettato il mio modo di lavorare. Infatti i
produttori a cui avevo proposto l’idea del film all’inizio mi chiedevano di leggere la
sceneggiatura e io non potevo accontentarli. Poi, quando hanno visto il film mi
hanno detto che avrei potuto venire da loro, ma non solo con un’idea. Invece per
me c’era solo quell’idea, è il mio modo di lavorare.
C'è stato un passaggio musicale nei tuoi film, partendo dai Marlene Kuntz, ai Csi a cose
più etnico popolari come la Banda Ionica di Roy Paci.
Si, c'è stato un bel cambiamento di sonorità anche se la musica è sempre
fondamentale nei miei lavori, credo che qui non c'è quella ricerca su fotografia e
montaggio che si può notare in altri film come Tutti giù per terra Figli di Annibale
e Guardami. Ma il film è la prima esperienza di assenza di musica non elettrificata,
una Tabula Rasa Non Elettrificata direbbe Giovanni Lindo Ferretti. Mi è piaciuto
ripartire da capo con altre sonorità. Io ho sempre avuto una passione per le bande,
e già in anni non sospetti ('93-'94) in cui non si parlava di Bregovic ho usato in
"Anime Fiammeggianti" un pezzo di una banda balcanica. Le marce funebri del
film sono deliziosamente assurde perché nonostante la tristezza dei titoli hanno
dentro strutture liriche che rimandano a temi di Nino Rota, e costruiscono un tema
sonoro molto affascinante.
Hai acquistato i diritti per un libro di De Lillo, come concili il tuo lavoro tra cinema e
documentari?
Non è difficile, sono entrambi modi di raccontare storie. Anzi ritengo che il vero
modo di fare cinema sia attraverso il documentario e non attraverso la fiction. I miei
due prossimi progetti sono diversi, un film già realizzato che deve essere distribuito,
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Se devo essere sincera con Luciana Littizzetto che uscirà ad ottobre, e un
documentario per ripercorrere la strada fatta da Primo Levi e descritta ne La
tregua. Poi ho comprato appunto i diritti di un libro di Don De Lillo che si chiama
Body art, e dopo aver parlato con lo scrittore sarei felice di farne un film
internazionale, girato in America ma non con capitale americano, data la negativa
esperienza avuta con la Miramax.
* Il regista si riferisce allo scrittore Battisti, attivista degli anni ’70. Fuggito dall’Italia, ora
risiede in Francia e su di lui pende una domanda di estradizione presentata dal governo
italiano sulla base di una condanna pronunciata più di vent’anni fa.
Giorgio Pasotti
Dopo aver lavorato con Gabriele Cuccino in L’ultimo Bacio, sei tornato al cinema con
Dopo Mezzanotte di Davide Ferrario. Quali sono le differenze tra Ferrario e Muccino?
Sono due registi agli antipodi come direzione degli attori non come cinematografia.
Muccino richiede e richiede una recitazione d'istinto, di pancia, e soprattutto molto
parlata.
Davide mi ha diretto in modo da lasciare molto spazio a me, al mio pensiero, e alla
mia preparazione e creatività rispetto al personaggio. Lui è più pacato, una persona
serena ed introversa, e tocca a te cercare un dialogo, mentre Gabriele è totalmente
il contrario, euforico, vuole che la tua attenzione sia molto alta anche nei toni di
voce.
Quanto è stato difficile interpretare un personaggio che si esprime con il linguaggio del
corpo?
Ho sempre fatto ruolo molto parlati. Ho dovuto tradurre il parlato in gesti,
trasmettere e dialogare con il corpo. In questo ho una fortuna. Ho un passato legato
alle arti marziali, attraverso una lunga pratica e un'attività sportiva. Godo di una
capacità di conoscenza del mio corpo avanzata. Per 25 anni della mia vita ho fatto
questa cosa, che è stata un'espressione fisica che mi è servita molto.
Qual è stato il valore aggiunto alla tua carriera dopo aver interpretato questo personaggio?
Recitare è un lavoro come tanti altri. S'impara facendolo. Non mi reputo un artista di
talento, ma un buon artigiano che giornalmente affina la tecnica. E questo è stato
un ulteriore mattone che ho messo sulle fondamenta per riutilizzarlo in futuro.
Parliamo del tuo personaggio Martino, custode notturno della Mole Antonelliana, ovvero
Museo del cinema.
La storia gira tutta intorno a Martino, un ragazzo che ha scelto di isolarsi dai ragazzi
della sua generazione, facendo il custode notturno della Mole Antonelliana.
Non si tratta di una decisione intellettuale, Martino è spinto dalla curiosità,
dall’amore per la storia del cinema. Essendo il custode notturno prende possesso
della Mole a Mezzanotte, trasformandola in una specie di Babilonia: accende le luci
e i vari meccanismi. Crea uno spettacolo con giochi di luci, proiezioni di vecchi film
come quelli di Buster Keaton, i documentari degli anni Venti, Trenta, Quaranta su
Torino e sull’Italia del dopo guerra.
La sua è una vita più che tranquilla fino a che arriva una furia nella sua vita;
inseguita dalla polizia arriva una ragazza che Martino nasconde e con la quale
inizierà una storia d’amore che diventerà un po’ un triangolo alla ‘Jules e Jim’
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perché la ragazza è fidanzata.
Questo film è, secondo il regista, un omaggio al cinema. Tu al cinema ci sei arrivato
attraverso un percorso insolito.
Ci sono approdato nel modo più incredibile: studiavo all’Università di Pechino
quando venne una produttrice di Hong Kong alla ricerca di un volto occidentale per
un film. Mi chiese se volevo partecipare e io accettai come si può accettare di
provare un ristorante sotto casa, non si trattava né di un sogno, né di un progetto
ma solo di un’avventura. Mi hanno chiamato per fare altri tre film e ho capito che
era un mestiere che mi veniva abbastanza facilmente, ma soprattutto che mi
divertiva molto.
Io ero intenzionato a fare il medico sportivo, quindi di voltar pagina è stata una
decisione abbastanza sofferta.
Nell’ultima stagione c’è stata una vera esplosione di film sulle arti marziali. Tu che sei stato
la più giovane cintura nera di wushu, cosa ne pensi di Kill Bill e L’ultimo samurai?
Non so se mi sono piaciuti per il mio grande amore per l’Oriente e per le arti
marziali. Kill Bill in realtà parla della arti merziali a modo suo, ma è un film che mi ha
divertito molto, me lo sono proprio goduto.
Anche ‘L’ultimo samurai’, nonostante sia un polpettone americano, retorico e
iperscontato l’ho trovato affascinante nella ricostruzione dell’ambiente, nell’analisi
della filosofia samurai e nei duelli con la spada tra queste figure eroiche.
Sono molto contento comunque che ci sia una scoperta o riscoperta di questo
mondo, l’importante è farlo con lo spirito giusto senza secondi fini economici.
Anche se hai alle spalle diversi ruoli cinematografici e anche commedie di successo come
i film di Muccino, la riconoscibilità ti è arrivata con la televisione. E’ cambiata la tua carriera
e la tua vita dopo Distretto di polizia?
Indubbiamente a prescindere dal ruolo che fai è la televisione oggi a darti notorietà.
Non riesci a diventare famoso attraverso il cinema, se sei fortunato, come lo sono
stato io con L’ultimo bacio, diventi poco più che conosciuto. E' la televisione a farti
riconoscere per strada.
Ti è mai capitato di avere a che fare con i poliziotti dall’altra parte della barricata?
Sì mi è capitato qualche volta di avere a che fare con la polizia, io sono un tipo
piuttosto vivace, ero una specie di scugnizzo di Bergamo e quindi ne ho combinate
di cotte e di crude. Ho provato cosa significa stare dall’altra parte della polizia.
Adesso interpretando questo ruolo e entrando in contatto con i poliziotti ho una
versione completamente diversa.
Come ti senti ad essere indicato come il fidanzato ideale di tante donne italiane?
Mi sento un tipo più che normale, anzi se dovessi raccomandare un fidanzato ideale
certamente non raccomanderei me stesso. Mi rendo conto che un ragazzo come
Paolo Libero possa essere considerato un fidanzato ideale, è l’ultimo eroe
romantico rimasto sulla terra, un guerriero dell’amore, ma Giorgio Pasotti è molto
diverso.
Da Torino a Milano. Stai per iniziare un nuovo film Volevo solo dormirle addosso
ambientato nel rampantismo milanese.
Mi hanno sempre affascinato i non eroi, gli uomini umili che diventano eroi per
particolari virtù, un po’ come Paolo Libero. In questo film invece interpreto un ruolo
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completamente diverso: un tipo sfigato e cattivo, vittima della società.
Sono un ragazzo di venticinque anni, appena sfornato dall’Università che intraprende
la carriera del menager in questi ambiente triste e grigio delle aziende milanesi. Il suo
percorso per la scalata sociale inizia con la mission impossible di dover licenziare un
terzo del personale di un'azienda che da un anno va veramente male. Lui accetta
questa sfida e pur di raggiungere lo scopo metterà i piedi in testa a tutti, invecchiando
precocemente.
Recensioni
il Manifesto (17/4/2004) - Cristina Piccino
Dice Davide Ferrario che un campo di pallacanestro per "scoprire" gli attori funziona meglio che un
palcoscenico. Lui coi protagonisti del suo Dopo mezzanotte ci giocava spesso a pallacanestro e a
vedere il film ha ragione davvero. All'ultima Berlinale (era al Forum), Dopo mezzanotte ha
conquistato la critica - che lo ha premiato col Caligari - ma anche pubblico e distributori, e con
sorpresa dello stesso Ferrario è stato venduto ovunque - qui esce il 23. Un bel risultato per
un'opera indipendente, "non governativa" come leggiamo nei titoli di coda, girata in digitale (luce
folgorante di Dante Cecchin), di cui Ferrario è anche produttore. "A Berlino ho incontrato i
responsabili delle istituzioni cinematografiche che mi dicono: `bravo, così si fanno i film'. L'idea di
essere il campione del cinema berlusconiano mi ha lasciato perplesso, un film così non regge
un'industria. Sul finanziamento al cinema ci sono molte ambiguità. Se è vero che in Italia si fanno
troppi film, dobbiamo pure fare i conti col duopolio, per arrivare in sala ci sono o Medusa o la Rai e
questo vale anche per i distributori indipendenti. Non esiste varietà di soggetti, Dopo mezzanotte
non aveva sceneggiatura, le commissioni ministeriali me lo avrebbero tirato dietro. L'altro
malinteso è il mercato. Se sono arte finanziamo i film per le loro qualità artistiche e non per fare
soldi. Ciprì e Maresco dovrebbero avere un finanziamento all'anno. Ma non funziona così".
All'origine di Dopo mezzanotte ci sono una ventina di pagine buttate giù seguendo desideri
personalissimi. A cominciare da quello di girare un film dopo il tempo passato a lavorare per la
Miramax su un progetto svanito nel nulla. C'è poi la passione cinefila molto particolare di Ferrario,
che è stato critico e da regista ha sempre cercato di spiazzare con lavori su generi, luoghi,
immaginari diversi. Spiega: "il cinema italiano è storicamente imprigionato nel neorealismo e nel
fellinismo. Non mi riconosco in entrambi. Qui mi sono fidato dell'intuito e della voglia di raccontare
una storia". Dopo mezzanotte insomma è una scommessa con un'idea però del fare-cinema forte,
che è indipendenza, rischio, voglia di scoprire. Gli attori intanto: laddove si passa da un film all'altro
con le stesse facce, qui Francesca Inaudi, Fabio Troiano, Francesca Picozza tutti al primo film,
sono bravissimi. L'unico noto è Giorgio Pasotti, spogliato dell'aura mucciniana per calarsi nei panni
di Martino, ragazzo timido con la goffaggine dei sognatori, ispirato a Buster Keaton - voce narrante
fuori campo di Silvio Orlando. Perché Keaton e Jules e Jim sono le sole citazioni esplicite in un film
pieno di cinema, a cui dichiara amore con sguardo libero e senza dogmi su quel set magico che è
il Museo del cinema di Torino, dove si svolge, di cui Martino è il custode notturno. Vita solitaria di
fantasie finché non incrocia Amanda (Inaudi) e l'Angelo (Troiano), il suo fidanzato: lei lavora in un
fast food, lui ruba auto con stile. Amore a tre o a quattro - c'è pure Barbara (Picozza), abita con
Amanda e è pazza dell'Angelo - anima doppia, centro e periferia di Falchera, finale aguzzo sul
pericolo delle "sirene" berlusconiane, dolcezza ineffabile dell'amore che, parola dell'Angelo "la
coppia è come la benzina, fa male ma non hanno inventato un'altra cosa". Dice Ferrario: "non mi
piacciono i giochi di citazioni per pochi, il cinema è una forma di comunicazione. Si dà sempre
troppa importanza agli autori e poca ai film. Diranno che è un film sui giovani? Per me non
esistono categorie generazionali, c'è l'umanità coi suoi problemi".
la Repubblica (24/4/2004) - Paolo D'agostini
Un piccolo film squisito, che valorizza tutto quello che tocca. La città di Torino, l'idea di cinema
come consolazione della vita, i giovani attori. Appassionatamente autoprodotto dal regista Davide
Ferrario, ma impreziosito dalla tecnologia dell'alta definizione che ne raccomanda la visione su
schermo grande. Lieve come una piuma una voce narrante e un po' filosofa (Silvio Orlando) ci
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accompagna nella conoscenza delle circostanze e dei personaggi. Martino (Giorgio Pasotti) è il
guardiano notturno del Museo del cinema. E' un solitario, ma sogna molto e sotto le volte
vertiginose della Mole Antonelliana ogni notte frequenta le ombre semplici ma eternamente
suggestive dei film antichi con una speciale predilezione per Buster Keaton, taciturno e maldestro
come lui; e custodisce il suo segreto, dedicando al suo amore inespresso un film girato con la
cinepresa a manovella. L'amore si chiama Amanda (Francesca Inaudi) che una notte diversa dalle
altre gli piomba dentro al Museo dopo aver rovesciato una padella d'olio bollente sugli attributi
sessuali dell'odioso padrone del fast food dove lavora. Ma la scintilla che nasce è in conflitto con il
fidanzamento di Amanda con l'Angelo (Fabio Troiano), ladro di auto che risparmia per comprare
una Jaguar. Un triangolo, dove la disperazione di una gioventù senza futuro sbatacchiata tra
lavoretti precari e quartieracci dormitorio viene riscattata dalla magia senza retorica del cinema.
Scanzonato ma toccante finale chapliniano.
la Stampa (24/4/2004) - Lietta Tornabuoni
La scelta degli interpreti Giorgio Pasotti, Francesca Inaudi, Fabio Troiano, non è certo un merito
minore di "Dopo mezzanotte" di Davide Ferrario, torinese, 48 anni, già autore di "La fine della
notte", "Anime fiammeggianti", "Tutti giù per terra". È invece una sorpresa e un piacere poter
vedere facce così belle e integre, immuni da ogni contagio della volgarità banale, delinquenziale o
bordellesca dell'estetica televisiva, senza manierismi nè artifici superflui, perfette per i personaggi
d'un film geloso, misterioso, elegante. Il luogo della storia è la Mole progettata dall'architetto
Antonelli nel 1863 a Torino bellissima, emblema delle geometrie e magìe della città, oggi sede del
Museo del cinema. Il ragazzo protagonista è il custode della Mole, che è pure la sua casa
organizzata in un locale abbandonato. Lì si rifugia una notte una ragazza della Falchera, cameriera
di fast food, che in un momento di esasperazione per le minime ma continue angherie ha
rovesciato olio bollente sui genitali del padrone, è scappata, deve nascondersi. La Mole diventa
così condensazione di tre amori: l'amore per l'architettura vertiginosa di uno degli edifici in
muratura più alti d'Europa, per il suo deserto notturno, per il suo silenzio; l'amore per il cinema del
passato che il giovane custode proietta per sé; l'amore laconico e complicato tra i due ragazzi. Lei
sta con unn ladro d'automobili della Falchera, seducente e sardonico, che vuol riportarla a casa
ma che poi per incidente muore fissando un manifesto con Berlusconi, "Città più sicure": "Guarda
se dev'essere questa l'ultima cosa che mi tocca vedere". Appare il direttore del Museo Alberto
Barbera, caro e intelligente come sempre. Nella danza dei numeri, Torino vista dall'alto della Mole
toglie il respiro. Alla fine gli innamorati s'allontanano: come Charlot e Paulette Goddard, escono
dalla narrazione condotta dalla voce rauca di Silvio Orlando, dal film molto bello
l'Unità (6/5/2004) - Alberto Crespi
Davide Ferrario doveva risalire in sella dopo lesito, quanto meno, controverso di Guardami. L'ha
fatto giocando in casa, ma l'ha fatto con classe. La "casa" è la Mole Antonelliana: non solo perché
il bergamasco Ferrario da qualche tempo vive e lavora a Torino, ma anche perché il
monumento/simbolo della città piemontese è la sede del Museo del Cinema (il cui direttore,
nonché ex direttore di Venezia, Alberto Barbera compare nel film nei panni di se stesso). Ferrario è
uno dei rarissimi registi italiani che ha cominciato come critico (altri sono Maurizio Ponzi e il nostro
vecchio amico David Grieco, autore di Evilenko): Dopo mezzanotte è il suo omaggio al cinema, e
alla memoria del cinema, che non vive solo negli occhi degli spettatori ma anche nel duro lavoro di
chi la conserva. Nel film, Giorgio Pasotti (viso "mucciniano" e corpo hongkonghese: è un vero
campione di arti marziali, oltre che un attore) è il custode del Museo, che ogni notte, di nascosto
dalla città e dal mondo, fa rivivere i reperti e i film conservati trasformando la Mole nel set segreto
della sua fantasia. Francesca Inaudi è la ragazza che gli piomba fra capo e collo, rifugiandosi nella
Mole dopo essere fuggita - in modo, diciamo così, rocambolesco - dal fast-food in cui lavora. Fabio
Troiano è il fidanzato di lei, un dongiovanni rubagalline (anzi, rubaautomobili) che inutilmente cerca
di rintracciarla. In realtà la fanciulla, visto il Museo e visto Pasotti, si innamora di entrambi. La loro
è una love-story tenerissima e quasi senza parole, visto che il custode - un po' per solitudine un po'
per scelta - non proferisce quasi verbo: la corteggia con i gesti, imitando il suo mito Buster Keaton,
memore forse di come lo stesso Buster si ispirava ai divi del cinema per impalmare la sua bella in
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Sherlock Jr... Avrete capito che Dopo mezzanotte è un film esile e delizioso: Ferrario avrà
sicuramente in serbo altre storie, più forti, per il futuro, ma questa è una storia d'amore in tutti i
sensi: soprattutto, di amore per il cinema.
Film TV (20/7/2004) - Bruno Fornara
Davide Ferrario viaggia da sempre tra fiction e documentario. Stavolta sceglie la fiction senza
dimenticarsi di catturare l’incanto di una città misteriosa come Torino e di un posto straordinario
come la Mole Antonelliana con dentro il Museo del Cinema più fantastico del mondo. Tre
personaggi: il solitario Martino, custode notturno del Museo, che rivede di notte i vecchi film;
l’Angelo che fa il ladro d’auto e il "tombeur de femmes" nella periferia più malfamata; l’Amanda,
sua donna "ufficiale", che non ne può più di lavorare in un fast-food, si ribella al capo e, per
sfuggire alla polizia, si rifuge nella Mole. "Dopo Mezzanotte" è tante cose: è soprattutto una storia
d’amore, è un po’ melodramma, un po’ noir, un po’ commedia, un po’ Truffaut, molto Buster
Keaton, un po’ testimonianza di un cinema che non c’è più. E’ un film sincero e leggero, danzante
e amorevole, semplice e magico. Alta definizione, produzione in proprio, premi su premi all’estero,
vendite in tutto il mondo, attori all’altezza, musiche singolari (Banda Ionica, Daniele Sepe), voce
narrante di Silvio Orlando e in più Keaton nume tutelare e antisentimentale. Risultato: un film
davvero indipendente, giusto, tenero, bello.
www.hideout.it - Fabia Abati
Martino è il custode della Mole Antonelliana. Passa le notti a vedere vecchi film muti, conosce ogni
segreto del magico edificio che ospita il Museo del Cinema. Amanda viene dal quartiere della
Falchera, lavora in un fast-food. Una sera si ritrova a dover scappare dalla polizia dopo aver
aggredito il proprio capo al lavoro, e finisce per rifugiarsi proprio nella Mole…Martino non parla
molto, anzi, dice solo le parole che sono strettamente necessarie. Quando Amanda capita nella
Mole Antonelliana non le chiede spiegazioni e l’unico suo commento è un semplice “Va bene”.
Dopo mezzanotte intrattiene un particolare rapporto di senso con le immagini e con le parole.
Martino ribadisce continuamente che il senso sta nelle immagini, e il film stesso è il corpo
dimostrativo di questa tesi: Ferrario, oltre a citare esplicitamente in più passaggi i film di Buster
Keaton, ricorre al linguaggio cinematografico tipico del cinema muto: così basta un’iris che si
chiude su l’Angelo e Barbara per lasciar intendere che i due passeranno una notte di intimità.
Martino ama il cinema dei Lumières, quello che fa vedere “le cose così come sono”; in molti punti
lo stesso Ferrario compone delle vere e proprie vedute lasciando che la vita scorra, o stia
semplicemente ferma, davanti alla camera fissa, come quando Martino va a trovare il nonno (e
anche lì non è che si spendano molte parole). Il vero gioiello di Dopo mezzanotte è il film che
Martino mostra ad Amanda: ancora una volta il senso è affidato alle immagini, ma le vedute del
cinema primitivo sono affiancate a delle immagini moderne. Nel film di Martino il montaggio è
origine di senso, ma con un messaggio in più per noi spettatori: il cinema muto è universale,
trascende il tempo ed è capace – forse è addirittura essenziale – di interpretare la realtà di oggi. Il
cinema si nutre della realtà per raccontare storie, e contemporaneamente racconta tutte le storie
che potranno accadere: il triangolo Martino-Amanda-l’Angelo è informato del triangolo truffautiano,
e lo spettatore può chiaramente prevedere che avrà una fine non molto diversa. Il senso sta nelle
immagini, eppure Dopo mezzanotte non può fare a meno della parola. La voce off ci racconta chi
sono Martino, Amanda e l’Angelo, ci rivela aspetti che in altro modo non potremmo conoscere.
Soprattutto si diverte a indugiare su che cosa sono il cinema, i personaggi, le storie, gli spettatori.
Quasi ci impedisce di abbandonarci completamente al flusso delle immagini, ricordandoci che
siamo in quel mondo sospeso che è il cinema. Aggiunge insomma un ulteriore livello di senso al
film, ne ispessisce i significati. L’immagine è gravida di senso, la parola riflette sul senso
dell’immagine.
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