RICETTE DEL MADE IN ITALY AGROALIMENTARE: PICCOLO È
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RICETTE DEL MADE IN ITALY AGROALIMENTARE: PICCOLO È
5 maggio 2006 RICETTE DEL MADE IN ITALY AGROALIMENTARE: PICCOLO È BUONO, MA IL GRANDE VINCE di Davide Paolini AAA dimensione cercasi: un appello che si ripropone ogni volta che l'agroalimentare è di scena. Prima al Vinitaly, il richiamo è stato al vino; ora al Cibus tocca all'alimentare. La diagnosi, preoccupata, è la medesima: il nanismo aziendale impedisce l'internazionalizzazione. Non abbiamo imprese o gruppi in grado di stare al passo con i vari Unilever, Nestlé, Kraft, Constellation, Southcorp. Disponiamo di 68mila imprese nel settore, delle quali solo 6.500 superano i nove dipendenti. A dire il vero, è la scoperta dell'acqua calda. Viene infatti da chiedersi quando mai le nostre aziende alimentari o vinicole siano comparse nelle hit parade internazionali per fatturato. Siamo "nani" da sempre. Da quando molti erano fieri di pronunciare "piccolo è bello", così come venivano portati come fiore all'occhiello del made in Italy Parmalat e Cirio. Certo, non possiamo dimenticare aziende quali Barilla, Ferrero, Lavazza o Campari, assai votate ai mercati esteri. Ma una rondine non fa primavera. I tempi però sono cambiati, il mercato è diventato globale, la concorrenza si è fatta più serrata perché nuovi Paesi e nuove realtà sono entrate nell'agorà dell'alimentazione. Sono cambiati anche gli stili di vita: il Kebab, il cous-cous, il sushi hanno giocato un ruolo nella nascita di catene mondiali dove la realtà italiana, da sempre orfana delle pizza come business internazionale, è rimasta tagliata fuori. Una grave lacuna che non permette ai prodotti o ai marchi made in Italy di internazionalizzarsi. Non disponiamo di un gigante alimentare né di una catena di ristorazione o fast food, di importanti punti di vendita. Insomma, «dimensione vo' cercando» verrebbe di titolare in questo momento sull'agroalimentare nostrano, per riuscire ad essere competitivi con le aziende alimentari francesi, tedesche, americane, olandesi e anche spagnole, quest'ultime sempre più forti nel settore oleario dove ormai detengono la leadership, visto che noi ormai abbiamo perso i marchi commerciali più conosciuti. Perché diventa così strategica la dimensione delle aziende. Può sembrare una tautologia, ma purtroppo il peso italiano manca pure alla distribuzione. Siamo nani anche in questa realtà: Metro, Carrefour, Auchan e Wal-Mart ci guardano dall'alto in basso, prima di tutto in Europa e nel mondo, poi perfino in Italia. Il settore cosìddetto "a valle" è super-concentrato. Una barriera insormontabile per le nanoaziende che non dispongono della portata per servire i tanti punti vendita di un Paese o di più Paesi in modo adeguato. Non solo. È importante, anzi determinante, possedere una forza contrattuale per mantenere la marginalità necessaria per investire in innovazione e sviluppo. Le dimensioni internazionali servono soprattutto per sviluppare attività commerciale e promozionale nei mercati esteri; le ridotte strutture rispetto alla concorrenza diventano un handicap davvero difficile da superare. Dunque è scontato sostenere che nei prossimi anni la dimensione sarà un fattore strategico di sopravvivenza. Ma non si può certo costruire con la creatività, tipica del made in Italy, in un settore dove l'alimentazione verrà giustamente sottoposta a maggiori controlli per la salute e la sicurezza alimentare sarà sempre più protagonista della domanda dei consumatori. L'Italia deve fare i conti con l'esistente, cioè a dire con il nanismo dell'industria alimentare, dove non si vedono all'orizzonte fusioni tali da poter far crescere il peso di alcuni gruppi. Una realtà comunque dotata di un grande numero di piccole aziende in grado di mettere sul mercato prodotti inimitabili capaci conquistare i consumatori più esigenti. Vien da chiedersi se ci sia un modello di business in grado di dar voce a questi profumi e a questi sapori che non riescono ad arrivare ai mercati. Su questa direzione sembra far capolino il concept di "holding federale", fondato su una o più aziende che giocano il ruolo di player, e attorno alle quali possono aggregarsi imprese minori. Da questa aggregazione nasce una holding che acquista le aziende, i cui imprenditori possono reinvestire tutto o in parte nella holding stessa, allo stesso tempo ricevono in gestione parti del business che sono in grado di gestire. Il ruolo della capogruppo sarà poi quello di gestire la guida strategica, la finanza, gli acquisti, il personale, la distribuzione. Con una raggiunta dimensione maggiore, rispetto ai singoli pesi, si può competere meglio, sfruttando le economie di scala, nonché disponendo di risorse più importanti per conquistare fette di mercato all'estero.