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GIORGIO MONTEFOSCHI
LA CASA DEL PADRE
Prefazione di Pietro Citati
I GRANDI TASCABILI
BOMPIANI
3
ISBN 978-88-452-8323-9
© 2016 Bompiani / Rizzoli Libri S.p.A., Milano
I edizione Bompiani 1994
I edizione Tascabili Bompiani novembre 2016
Parioli mondo immobile*
di Pietro Citati
Chiuso in una tranquilla ossessione, Giorgio Montefoschi scrive a intervalli regolari i suoi romanzi, ai
quali è venuto ad aggiungersi La casa del padre (Bompiani, 1994). Egli non pensa che lo scrittore debba
tentare, in ogni libro, una nuova ipotesi, teologia, o
concezione del mondo. Crede a una vocazione. Molti
anni fa, qualcuno gli ha imposto una voce; ed egli
deve restare fedelissimo a questa voce, conservando
il timbro, il tono, il tempo, la musica, i luoghi, i personaggi. A nessun costo, deve mutare. Sta al tavolino,
come costruisse un puzzle: i suoi pezzi sono sempre
gli stessi – c’è il cielo di Roma sopra villa Borghese,
il Giardino Zoologico, viale Liegi, la riva del mare
presso Anzio, una veste di donna, un paio di calze,
un interno borghese, una famiglia –: ma ogni volta
egli li compone e ricompone in modo diverso. Così
questi libri, tutti simili fra loro, riescono, alla fine,
profondamente diversi. Come per Flaubert, le cose
* Testo pubblicato per la Repubblica il 22 marzo 1994.
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sono per lui molto più importanti delle persone, che
in un certo senso sono emanazioni delle cose. Una tavola può decidere il nostro destino: possiamo amare
una strada, o un albero, più di una donna; un ponte
sul Tevere, più di nostro figlio. Ma descrivere la superficie delle cose non gli basta, sebbene lo faccia con
molta passione: non gli basta raccontare un salotto,
col sofà, le poltrone, le sedie, i libri, le carte da parati, le superfici lisce o rugose, le ombre o le macchie
o le piccole sgretolature sui muri. Vuole che le cose
siano riempite d’anima: l’anima sua, o quella dei suoi
personaggi, o quella che, vagabonda, aleggia sopra la
terra. Nulla dev’essere senz’anima: persino un chiodo
o un coltello o un pullover debbono essere intrisi di
quest’anima soffice, melanconica, soffocata, silenziosa, che ha accettato di esprimersi attraverso le cose.
Quindi egli cerca che le cose non si muovano. Del
resto, come sarebbe possibile spostare queste cose
immensamente pesanti, tanto grondano dei nostri
affetti? Tutto deve restare fermo, immobile, sclerotizzato, dove l’ha fissato la nostra nostalgia o il nostro
feticismo. Il quartiere di Roma è sempre lo stesso:
passando da un libro all’altro, Montefoschi può mutare da via dei Villini a piazza Ungheria, appena un
chilometro. Varcare il Tevere, attraversare il ponte
delle Belle Arti, penetrare nel quartiere Prati è più avventuroso (e doloroso) che un viaggio in Patagonia.
Questa volta, il libro ha la volontaria apparenza di
una carta topografica: conosciamo tutte le strade del
basso quartiere Parioli, da viale Liegi a piazza Ungheria fino a viale Romania e via Panama e viale Rossini
e via Adelaide Ristori, come se le percorressimo ogni
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giorno. Tutto il resto del mondo è cancellato. Così
potremmo supporre che Montefoschi abbia inventato un romanzesco di luoghi, invece di eventi: dove il
trasloco (questa suprema istituzione della borghesia)
da viale Liegi a via Panama contenga tutta la carica fantastica che Stevenson condensava nelle golette
lanciate alla scoperta dei mari del Sud. Ciò che cambia sono soprattutto i profumi: salgono dagli alberi, dalle macchine, dai parquet, dalla naftalina, dalla
pioggia, dalla polvere, dalle foglie marcite, dai caffè o
dai gelati del bar vicino; e il loro amalgama è diverso
secondo i luoghi e le stagioni. Nessuno è meno realista di Montefoschi: nessuno obbedisce, meno di lui,
a intenzioni sociologiche o documentarie. Finge di
raccontare quello che accade nel nostro tempo, ma la
realtà dei suoi libri non ha molti rapporti con l’oggi.
Le sue famiglie, per esempio, non esistono più. Sono
grandi famiglie patriarcali, dove le sottofamiglie dei
padri, dei figli, dei cugini, dei cognati vivono insieme
o quasi insieme, attraversando intatte, l’evoluzione
del tempo. Di queste famiglie immaginarie, Montefoschi ci racconta tutto: le persone, le voci, i mobili, i vestiti maschili e femminili, i vestiti d’inverno e
d’estate, i profumi, le colazioni, i pranzi e le cene,
i raggi di sole che attraversano le stanze, le ombre
che le incupiscono, gli odori che salgono dal giardino, i suoni che vengono dall’appartamento di sopra,
i rumori degli aerei che attraversano il cielo. Si ha
l’impressione di una rete onnicomprensiva e onniaccogliente. Mai quella di una realtà: perché con le sue
sensazioni reali, o semireali, o immaginarie Montefoschi ha composto una figura astratta come un cubo.
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Flaubert raccontava le cose che si ripetevano: le consuetudini e le abitudini: la vita sempre eguale, in cui
tutte le mattine Emma Bovary si svegliava, si alzava,
mangiava, andava, veniva, consumava la stessa serie
di atti; la vita nella quale ogni giorno il maestro di
scuola, il parrucchiere, i cavalli di posta comparivano
alla stessa ora; la vita nella quale l’acqua della Rieule colava sempre con lo stesso ritmo, senza rumore,
con le grandi erbe sottili che si piegavano come capigliature verdi, mentre i salici guardavano nell’acqua le loro scorze grigie: tutto era così, per sempre,
senza fine e il tempo era “uno stagno dormiente, così
tranquillo che il minimo avvenimento che vi cadeva
causava dei cerchi innumerevoli”. Anche in Montefoschi, il tempo della vita è la ripetizione: ogni giorno è
simile al seguente e al passato: gli eventi insignificanti si susseguono lentamente, uno dopo l’altro, senza
che ci si possa liberare mai da questo carcere. Nessuno, del resto, desidera liberarsene; e niente muta
nemmeno col passare delle generazioni. Il mondo è
fermo come questa natura morta: “Avevano steso una
tovaglia pulita, celeste pallido; su questa, alla medesima distanza l’uno dall’altro, i cinque piatti di tutti
i giorni col bordino azzurro scuro, le scodelle, il bicchiere dell’acqua, quello del vino”. L’altra costante
dei libri di Montefoschi è l’omissione. Mentre tutto
si ripete, i personaggi non parlano: o i loro discorsi
sfiorano sempre le cose essenziali, o si interrompono
a metà, o non dicono niente. Anche il narratore tace e
omette: non racconta gli eventi più importanti, lascia
indefinite le psicologie. Così si forma un vuoto; e si
ha l’impressione che tutte le cose non dette incom8
bano sulla narrazione come una minaccia che non si
scaricherà mai. Per colmare questo vuoto, c’è un solo
mezzo: il passo e il peso del tempo: il susseguirsi delle
stagioni, del freddo e del caldo, delle piogge e delle
giornate di sole, il cammino delle nuvole, l’alternanza
dei profumi. Questo tempo si ammucchia, si addensa, si accumula, e riempie fino all’orlo l’immenso vuoto dell’omissione. Presto ci accorgiamo che il tempo
governa tutto: il passo narrativo che non muta mai,
lento come un mare in bonaccia, la monotona, melodica voce narrativa, che alterna la prima e la terza
persona non sono che la parola del tempo. Il tema del
nuovo romanzo di Montefoschi, o per meglio dire la
nuova variazione che egli tenta sulle cose, le abitazioni, gli alberi, le famiglie, è il rapporto del figlio col
padre. Tra padre e figlio, c’è distanza, fascino, timore,
rancore: un profondo amore non detto, un dialogo
silenzioso che per due volte viene troncato dalla morte. Nel corso di tre generazioni, tutto si ripete come
lo sguardo di Montefoschi desidera. Ma, alla fine, la
tensione si placa; e qualcosa si scioglie e si libera in
questo mondo opaco e senza parole.
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parte prima
Pietro Bellelli
1.
Ogni volta che ripenso a quel periodo della vita, ho
il cuore in subbuglio. Avevo vent’anni: ero apprensivo, nostalgico, disponibile a credere in un evento che,
presto, sarebbe accaduto. Così, quando decidemmo
di tornare nel nostro vecchio quartiere – le strade tra
piazza delle Muse e piazza Ungheria – coltivai una
speranza. Lasciavamo, infatti, luoghi che avevo amato, e dove molte cose erano successe: via Tacito, il
Tevere, piazza della Libertà; ma tornavamo in altri
che avevo amato ancor di più: per giunta, nella casa
in cui avevo trascorso l’infanzia. Non era sufficiente?
Questo – il lettore lo avrà intuito – almeno per ora,
è un racconto confuso. Conservavo, dell’infanzia, molti ricordi limpidi; altri sbiaditi. Però, di un fatto ero
sicuro: aprendo la piccola dispensa, prospiciente la
cucina, nella quale tenevamo il pane, le marmellate,
il caffè da macinare e le caffettiere, avrei raccolto lo
stesso profumo, inimitabile, che, sempre, pur essendo
in città, ci dava l’illusione di vivere in campagna; al
crepuscolo, l’ombra sarebbe calata ov’erano le orten13