tesi di laurea lavoro femminile e pari opportunità

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tesi di laurea lavoro femminile e pari opportunità
Tesi di laurea triennale
Università degli Studi di Macerata
Corso di laurea di servizio sociale
Titolo della tesi: Lavoro femminile e pari opportunità
Anno accademico 2012-2013
Studentessa: Michela Santarelli
LAVORO FEMMINILE E PARI OPPORTUNITA’
La disciplina del diritto del lavoro permette di prendere in esame una tematica da sempre
significativa, che ancora oggi fa discutere l’intera comunità, politici e cittadini: quella delle pari
opportunità tra uomo e donna, con speciale riguardo alla donna lavoratrice, nonché madre. Essa è
un soggetto che lavora e che vuole lavorare, che va tutelato nella sua libertà, sempre tenendo in
considerazione la presenza di differenze. Differenze che però non devono corrispondere a
discriminazioni, anzi; il diritto del lavoro deve vietare le discriminazioni in base alle differenze. Il
principio di parità uomo-donna diventa dunque fondamentale e va applicato in quanto tale, perché
non riguarda solo l’ambito lavorativo, ma ogni discriminazione basata sul sesso.
In questa sede verrà maggiormente analizzata la discriminazione nei confronti della donna, un
fenomeno che la riguarda ancora ma che la colpita soprattutto in passato. Per restringere il campo
verrà presa in esame la figura della donna in Italia e la sua posizione conseguente alle due guerre
mondiali. Il ruolo socio-economico della donna italiana è stato riconosciuto solo negli ultimi
decenni, cioè dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando molte lavoratrici, che erano state
inserite nell’industria bellica per sostituire figli e mariti impegnati nel combattimento, si ritrovarono
improvvisamente disoccupate, prive di diritti e assistenza. Il problema era quello di impiegare
lavorativamente queste donne; una parte di loro trovò lavoro nell’industria tessile e agricola ma
un’altra rimase a casa a badare ai figli, ritornando al solo ruolo di madre-moglie. Un primo passo
positivo avvenne nel’46, quando per la prima volta anche alle donne fu esteso il diritto di voto nel
Referendum. Seguì poi la legge n. 66/63 che ammise le donne a tutte le cariche, professionali ed
impieghi pubblici, fino ad allora riservati agli uomini.
Altra tappa per il riconoscimento dei diritti femminili avvenne nel ’68, anno di contestazioni a
favore dell’istruzione e del riconoscimento dei diritti femminili: milioni di donne di estrazione
sociale ed età differente, scesero nelle piazze di tutta Italia per promuovere i loro diritti lavorativi,
sindacali, morali e fisici.
La Costituzione successivamente si è occupata della questione femminile, cercando di tutelare le
lavoratrici, riconoscendone la parità con l’uomo e salvaguardandone la funzione familiare.
Nell’ambito dell’ordinamento comunitario, la principale disposizione normativa in tema di parità tra
uomo e donna è l’art. 141 del Trattato CE. Qui però il principio aveva una valenza restrittiva, in
quanto il diritto comunitario si occupava indirettamente di suddetta parità. Il Trattato infatti
stabiliva soltanto un divieto di discriminazione basato sulla nazionalità, ponendosi dunque in una
visione prettamente ‘economica’ di questo principio. Il Trattato quindi eliminando gli ostacoli alla
circolazione dei lavoratori tra gli Stati membri, pensava di poter risolvere i problemi occupazionali
ma soprattutto retributivi ( parità retributiva del Trattato).
La giurisprudenza, tuttavia, ha voluto estendere il principio di parità previsto dall’art 141,
ampliando la nozione di retribuzione e poi quella riguardante le discriminazioni indirette, definite
dall’art 2 della Direttiva 2006/54. Quest’ultima applica il principio di parità ad ogni settore e la
parità di trattamento a tutta l’attività lavorativa.
Se si vuole allora fare un’analisi generale dei cambiamenti avvenuti a livello comunitario
sicuramente si può dire che, il principio di parità uomo-donna a livello comunitario non è solo
principio di parità retributiva, ma è un principio di parità vero e proprio, un obbligo a carico
degli Stati membri di rimuovere le discriminazioni.
Oggi quindi si ha una nozione molto ampia del principio di parità, che difatti comprende il divieto
di discriminazione, la parità retributiva fino ad ogni discriminazione basata sul sesso.
Ancora, analizzando il diritto comunitario si può notare che l’intero diritto ruota attorno al concetto
di parità di trattamento; il termine parità è quello più usato, mentre quello di uguaglianza compare
più tardi. Ma la questione è: parità di trattamento = uguaglianza?
La risposta dipende dal tipo di nozione di uguaglianza che si approva;
Il concetto di uguaglianza, in Italia, è espresso dall’art 3 Cost. commi 1,2, rispettivamente
descriventi l’uguaglianza formale e sostanziale. Ma nella nostra Cost. permane anche una certa
tensione tra tutela e parità, evidente già nell’art. 37: il primo comma dichiara la parità della donna
lavoratrice, che ha gli stessi diritti e la stessa retribuzione, a parità di lavoro, che spettano ai
lavoratori. Successivamente però lo stesso comma 1 ribadisce che le condizioni di lavoro devono
permettere alla lavoratrice l’adempimento della sua funzione familiare, assicurando a lei e al suo
bambino una speciale e adeguata protezione. Questo riferimento al bambino ha fatto si che la Corte
Costituzionale determinasse una serie di diritti a favore della madre e del padre per la tutela del
figlio, a partire da quelli sanciti dalla legge 903/77 fino agli attuali congedi parentali.
Per quanto concerne invece il diritto interno in materia di lavoro, maternità e genere, si tratta di
un’esperienza solo italiana, diversa da quella del diritto comunitario, che da inizio ad una serie di
fasi.
La prima è quella della tutela: qui va citata la vecchia legge 1204/71 a tutela della maternità, una tra
le migliori in Europa, la quale sanciva il divieto di licenziamento durante il periodo protetto, in
un’ottica anti-discriminatoria. Questo divieto di licenziamento era uno strumento di tutela, in quanto
facilitava la maternità e rasserenava la lavoratrice.
La seconda fase è quella della parità formale: quest’ultima in Italia è riconducibile alla L. n. 903 del
1977, sulla parità di trattamento fra uomo e donna in materia di lavoro.
Essa prevedeva e confermava con forza, sia nell’assunzione che negli altri momenti del rapporto
lavorativo, il divieto di discriminazione, specialmente nelle retribuzioni, nella classificazione
professionale, nell’attribuzione di qualifiche e mansioni.
Vietava inoltre alle donna il lavoro notturno (art.5) , data la necessità della stessa di essere presente
in famiglia negli orari serali, ma dato anche il pericolo che essa poteva incorrere in disagi che si
potevano venire a creare nel tragitto casa lavoro, lavoro casa sempre nel periodo notturno.
La legge 903/77 inoltre mirava anche a rendere uguali le posizioni dei lavoratori e delle lavoratrici
nel trattamento previdenziale.
Tale legge comunque ha posto dei problemi: innanzitutto pur vietando la discriminazione, non da
una definizione legale di cosa essa sia, poi è chiara la difficoltà da parte della vittima di rendere la
prova della discriminazione e ancora emerge l’assenza di strumenti di sostegno per la lavoratrice
che le consentano di agire in giudizio contro il datore di lavoro. E’ stato dunque a causa di questi
limiti che si è imposta la necessità di giungere verso strade nuove, maggiormente in grado di
garantire le pari opportunità, strade confluite poi nella legge 125/91.
La legge 125/91 apre allora la terza fase di questa esperienza tipicamente italiana sulle pari
opportunità, quella dell’uguaglianza sostanziale ( obiettivo dell’intera legge).
Prima di tutto tale legge introduce finalmente una definizione di discriminazione e discriminazione
indiretta.
Il comma 2 dell'art. 4 definisce la discriminazione indiretta come <ogni trattamento pregiudizievole
che svantaggi in modo maggiore i lavoratori dell`uno e dell`altro sesso>.
In secondo luogo la legge introduce una parziale inversione dell’onere della prova, sancendo che,
chi agisce in giudizio, può addurre elementi sufficienti per fondare la ragionevole probabilità che vi
sia stata una discriminazione.
Ma ciò che più va messo in evidenza è l’intento della legge di favorire il lavoro femminile e
rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena attuazione delle parità uomo-donna nel rapporto di
lavoro. L’articolo 1 propone allora di utilizzare quale misura per la rimozione degli ostacoli di
vario genere per la parità sostanziale fra i sessi, le azioni positive.
Le azioni positive di fatto discriminano positivamente;
Come tali intervengono nel campo della formazione scolastica e professionale e dell'accesso al
lavoro, incentivando una migliore ripartizione tra i due sessi delle responsabilità familiari e
professionali.
Le azioni positive si specificano in misure che:
- favoriscono l'occupazione autonoma delle donne;
- valorizzano il lavoro femminile, specie nei settori in cui sono sottorappresentate,
- correggano le disparità che colpiscono le donne nell'accesso e nella partecipazione al mondo del
lavoro.;
- concretizzano la parità tra uomini e donne.
Pertanto sono azioni positive tutti i programmi che consentono alle donne di godere effettivamente
di pari opportunità rispetto agli uomini nel campo del lavoro, anche autonomo. Possono essere
adottate da soggetti sia pubblici che privati, su base volontaristica o mediante progetti e piani.
In ultimo le azioni positive si distinguono in: azioni di tipo promozionali, che eliminano posizioni
di svantaggio delle donne nel mondo del lavoro, e di tipo risarcitorie che invece risolvono le
discriminazioni femminili.
In Italia le azioni positive hanno avuto poco successo, limitato solo a corsi di formazione o
iniziative culturali.
Sempre al fine della pari opportunità di lavoro tra i sessi, alle azioni positive si coniuga l’intervento
di organismi ad hoc quali:
i Consiglieri di parità regionali e provinciali e il Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di
parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici.
Ora, calando più nello specifico a proposito delle azioni positive è possibile fare un’osservazione ;
l’introduzione di queste misure ha evidenziato la problematicità della parità di trattamento. In altre
parole l’istituzione di una legislazione preferenziale a favore delle donne potrebbe in realtà essere
contraria al principio di parità di trattamento, proprio perché la donna lavoratrice verrebbe
privilegiata solo perché donna. Invece il principio di uguaglianza, in quanto tale, deve operare allo
stesso modo a favore di entrambe i sessi, senza privilegiare la donna e penalizzare il lavoratore
maschio, creando dunque discriminazioni a rovescio.
Nonostante questa analisi comunque, la questione del lavoro femminile non è solo un problema di
differenze e discriminazioni. E’ anche un problema di famiglia e figli.
Oggi vige infatti una visione nuova, secondo la quale l’uomo e la donna non solo si trovano nella
stessa posizione nella società, ma hanno anche gli stessi obblighi in famiglia.
Per questo motivo il legislatore ha disposto un Testo Unico in materia di tutela e sostegno della
maternità e paternità (contenuto nel d.lgs. n. 151 del 2001 ), che rappresenta un passo avanti verso
la promozione e protezione della famiglia. Il TU inoltre porta una ventata nuova in materia di
lavoro femminile e redistribuzione di ruoli e responsabilità in famiglia, con attenzione rivolta ai
figli, specie se minori.
Un Testo Unico insomma sulla famiglia e sulle possibilità della madre e del padre lavoratori,
assolutamente parificate, di adempiere al proprio ruolo famigliare, che prevede assenze
obbligatorie, astensioni facoltative ( <congedi parentali per entrambe>) e assenze per malattia del
figlio.
Il capo I è incentrato sulla famiglia: maternità, paternità, figli ( naturali e adottivi);
L’art. 2 definisce il congedo di maternità, corrispondete alla vecchia astensione obbligatoria, il
congedo di paternità, il congedo parentale, cioè l’astensione facoltativa di uno dei genitori, e i
congedi per malattia del figlio;
L’art. 3 ribadisce il divieto di discriminazione fra lavoratori e lavoratrici;
Nel capo II del TU si tutela la salute della gestante e dal III al VI vengono disciplinati i congedi.
Va prima di tutto analizzato il congedo di maternità, che consiste in un’astensione obbligatoria,a
cinque mesi di interdizione dal lavoro sfruttabili in modo flessibile. Inoltre viene ribadito il diritto
della donna-madre di percepire durante tale periodo un’indennità di maternità pari all’80% della
retribuzione. Tale indennità è finalizzata a tutelare una condizione personale prevista dalla
Costituzione, in modo da evitare un’inferiorità economica della donna lavoratrice a causa del suo
stato.
Il mancato pagamento dell’indennità equivale ad ipotesi di danno esistenziale, per il peggioramento
della vita della madre lavoratrice.
Anche la Corte di Giustizia è intervenuta sull’indennità di maternità, stabilendo che la lavoratrice
deve godere anche delle ferie annuali in un periodo diverso da quello del congedo.
Segue poi il congedo di paternità: la sua durata equivale a quella del congedo di maternità ma il
padre ne può beneficiare in alternativa alla madre, quando cioè essa sia morta, malata o abbia
abbandonato il figlio. Anche in questo caso il padre ha diritto ad un’indennità pari all’80% della
retribuzione.
Infine il TU disciplina il congedo parentale: corrisponde all’astensione facoltativa del padre o della
madre richiedente, anche quando uno dei due non ne ha diritto e fino al compimento degli otto anni
da parte del bambino. Ne usufruiscono la madre, dopo il congedo di maternità, per sei mesi
continuativi o frazionati.; il padre per sei mesi (più uno eventuale); o quando vi è un solo genitore,
per dieci mesi continuativi o frazionati. Qui l’indennità è pari al 30% della retribuzione.
Ma il TU interviene anche in altri aspetti lavorativi: vieta il lavoro notturno alla madre, dall’inizio
della gravidanza fino ad un anno del bambino e dichiara la nullità del licenziamento intimato per le
lavoratrici fino ad un anno di età del bambino e per il lavoratore in congedo di paternità.
Infine, il TU sostiene economicamente la maternità e la paternità mediante la concessione di un
assegno di maternità di base, solo però in base al criterio reddituale.
Si è visto dunque come la famiglia sia centrale nelle recenti normative, specie in relazione al tema
dell’attività lavorativa. Entrambe i coniugi, in quanto anche genitori, possono svolgere gli impegni
familiari conciliandoli con quelli occupazionali. D’altra parte va però anche ribadita, come afferma
la Direttiva n. 2006/54, una maggiore sensibilità alla discriminazione.
Va a questo punto affrontata la questione della parità di trattamento in materia previdenziale. La
normativa italiana in tal caso è rappresentata dal D. lgs. n 198/06, noto come ‘Codice delle pari
opportunità tra uomo e donna’. Con questo provvedimento trova formale riconoscimento il paritario
contributo della donna allo sviluppo sociale e politico dello Stato e vengono definiti i concetti di
discriminazione diretta e indiretta, discriminazione retributiva e molestie sessuali.
L’art 30 del Codice riprende quanto contenuto nell’art. 4 della legge 903/77, il quale stabilisce che
le lavoratrici, anche se hanno diritto alla pensione di vecchiaia, possono continuare a lavorare fino
agli stessi limiti di età previsti per l’uomo. In questo modo si garantisce alla donna tutela in materia
di licenziamenti individuali.
La corte Costituzione tuttavia ha dichiarato questa disposizione costituzionalmente illegittima.