Transfert sul setting e verso l`analista

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Transfert sul setting e verso l`analista
Transfert verso il setting e processo analitico
Andrea Gaddini; Giuseppe Riefolo*
“… io iniziai a dire qualcosa e lei mi fermò con un ordine
calmo, ma fermo: «stia zitto e guardiamo il panorama»”
(Searles, 1960, 292)
Premessa
La riflessione che proponiamo parte dall’esperienza clinica con pazienti psicotici seguiti sia nella
stanza di analisi che nel nostro lavoro nelle istituzioni territoriali. Vorremmo interrogarci sul piano
dinamico rispetto a situazioni cliniche nelle quali alcuni pazienti, nonostante visibili difficoltà ad
accettare la terapia, mantengono un loro singolare spazio di cura rispetto al quale si dimostrano
spesso persino particolarmente esigenti e “collaborativi”. La clinica della stanza di analisi ci
permette di affinare questi rilievi nei percorsi analitici di pazienti a volte anche non psicotici, i quali
riescono – in alcune fasi particolarmente difficili del percorso analitico – a mantenere la fiducia nel
processo affidandosi soprattutto alle funzioni del setting, mentre il transfert verso l’analista risulta
del tutto insostenibile.
In queste note proviamo ad indagare se il dispositivo del transfert debba essere assunto come unico
e riferito esclusivamente all’analista, o se il campo analitico non proponga differenti tipi e livelli di
transfert, ciascuno dei quali può risultare prevalente nelle varie fasi dell’analisi (persino della stessa
seduta…) e in base a quali dinamiche ciascuno di essi – magari in netto contrasto fra di loro – riesce
a sostenere positivamente il processo dell’analisi. Cercheremo di indagare l’area delle funzioni
dinamiche del setting (Winnicott, 1955; Bleger, 1966) ipotizzando l’esistenza di livelli di transfert
che il paziente immediatamente attiva verso il setting, e come tali livelli siano prevalenti rispetto al
transfert verso l’analista.
Infine una precisazione. Ci muoviamo in linea con alcuni concetti che in questi anni sono stati
proposti nella teorizzazione psicoanalitica di stati regrediti della organizzazione mentale. Ci
riferiamo ai concetti di simbiosi (Bleger), fusionalità (Neri et al.), di ambiente non umano (Searles)
e di setting come depositario della simbiosi (Pichon-Rivére; Bleger). Non ci soffermeremo sulle
differenze – spesso ampie – fra questi concetti.
*
Ringraziamo P. Boccara, M. D’Alema, R. De Sanctis, N. Faccenda, L. Ippedico e M. Monari per aver discusso con noi
questo lavoro e per alcune preziose indicazioni bibliografiche.
0
Uno spunto clinico
Oggi Guglielmo rimane in silenzio in seduta. Provo a pensare alle sensazioni che mi ha dato quando
è arrivato… era come altre volte, agile, teso e mi ha salutato con un sorriso un po’ forzato. Dopo un
lungo silenzio provo a fargli un lieve sollecito e gli chiedo cosa stia pensando. Mi risponde
prontamente “nulla di particolare…”. Rimango in silenzio ed in attesa. Guglielmo comincia a
muoversi sul lettino… con piccoli colpi di tosse, si schiarisce la gola… Mi coglie nettamente di
sorpresa quando, agitandosi sempre più sul lettino, mi dice: “Non ce la faccio a stare qui oggi…
sono venuto perché so che mia madre paga le sedute e non volevo che fossero perse… altrimenti
non sarei venuto… ho sbagliato… le chiedo scusa... vorrei chiederle se posso andare via… non è
per lei… ma oggi proprio non ce la faccio a stare qui!”. Si alza e indossa il giaccone. Io resto
seduto, e mi rendo conto che i miei tentativi per suggerirgli di riflettere su quello che sente non
vengono ascoltati. Mi saluta: “Mi scusi, dottore! Ci vediamo la prossima settimana!”. Resto a
riflettere soprattutto sulla mia meraviglia connessa alla sua comunicazione. La mia sollecitazione a
conoscere i suoi pensieri dev’essere stata sicuramente una operazione intrusiva, ma non so quanto e
in che modo sbagliata. Si tratta di un giovane paziente psicotico che seguo da circa due anni in una
psicoterapia analitica a due sedute settimanali. Abbiamo cominciato la terapia in una fase in cui, a
seguito di allucinazioni uditive ostili, si era isolato e rinchiuso nel suo appartamento di studente
universitario, alterando tutti i ritmi della vita quotidiana. Ripensando al frammento di seduta appena
trascorsa bisognava riflettere su che cosa era accaduto, questa volta, a seguito della mia
sollecitazione, tanto da costringere Guglielmo a liberarsi di me e della situazione della seduta.
Avevo una serie di ipotesi ma, anche per rispetto dell’esperienza appena trascorsa, avrei atteso di
incontrare Guglielmo nella seduta successiva.
Rimane a lungo in silenzio. Dopo circa 20 minuti, si solleva dal lettino, si siede sul bordo, mi
guarda e mi dice: “Sono stato lasciato un’ennesima volta!”. Rimane in silenzio. Mi parla quindi di
Beatrice, che ha deciso di lasciarlo: “Il problema non è di essere lasciati – precisa – ma che non è
mai una separazione definitiva!”. Mi guarda intensamente negli occhi, si distende nuovamente sul
lettino e possiamo quindi continuare la seduta.
Considerazioni al caso
Nella prima seduta riportata, la netta impressione è che la sollecitazione attiva che l’analista orienta
verso Guglielmo rompa una sua relazione fusionale con il setting all’interno del quale – e proprio
grazie alla regressione garantita dalla fusionalità – lui si sentiva protetto: “la problematica è centrata
1
sulla fantasia che il pensiero “separi”, che le attività mentali e di fantasia facciano perdere il
contatto con l’altro e con se stessa e che venga a perdersi in uno spazio cosmico da cui non si torna
più indietro” (Tagliacozzo, 1990, 82). Il riconoscere la presenza dell’analista fa perdere al paziente
il contatto con un ambiente indifferenziato ed arcaico e gli impone persecutoriamente la necessità di
differenziarsi e di avere propri pensieri. La sensazione è di soffocamento, e la fuga permette di
ripristinare un ambiente regredito rassicurante: “sembra chiaro che l’abbandono del sistema
fusionale costituisca – in queste situazioni – l’ingresso in una spaventosa terra di nessuno” (id., 84).
Ci si potrebbe chiedere: perché altre volte Guglielmo era stato capace di usare le sollecitazioni
dell’analista, mentre in quella seduta non era stato possibile? Stiamo seguendo l’ipotesi di un
particolare funzionamento del campo analitico per cui, in questi casi “…non si tratta solitamente di
errori in senso tecnico, poiché lo stesso comportamento con un altro paziente non determina
necessariamente la stessa reazione” (Meares, 2000, 139).
Appariva sufficientemente chiaro che l’intervento dell’analista aveva significato per il campo
analitico e per Guglielmo l’insostenibile sottolineatura dei livelli di transfert verso l’analista
chiamato, invece, a rimanere sullo sfondo: “compresi, infine, che l’unica maniera di essergli di aiuto
era di fungere da soggetto inanimato, silenzioso e pressoché immobile […] non era conscio dei
confini fra se stesso e l’ambiente non umano, né del fatto che le persone attorno a lui fossero
qualcosa di diverso dagli oggetti inanimati circostanti” (Searles, 1960, 308)1.
Nella seconda seduta riportata, l’analista è in attesa che il paziente proponga le sue soluzioni, che si
delineano immediatamente come interventi agiti sul setting e riescono a rendere proprio un setting
che per Guglielmo, in quella fase, doveva risultare estremamente frustrante. Infatti, si siede sul
bordo del lettino e stabilisce un contatto visivo con l’analista. In tal modo introduce nel setting un
proprio bisogno che – questa volta – possa trovare un contenitore altre volte mai sperimentato
adeguato. Queste operazioni sul setting sono possibili, a nostro parere, a seguito di un transfert di
base che il paziente stabilisce col setting riproponendo uno stato affettivo di fondo che, nella sua
esperienza, ha sostenuto la sospensione evolutiva. Un transfert sufficientemente compatibile con il
setting permetterà all’analista di differenziarsi, poi, dalla sua appartenenza al setting verso una
progressiva discriminazione. L’analista è l’elemento specifico che può passarre dall’appartenere al
setting al poter essere discriminato come differenziato dal setting. Nella prima seduta il transfert
verso l’analista è prematuro e dirompente: il paziente, attraverso una massiva identificazione
1
Il non umano di cui parla Searles propone livelli di fusionalità simbiotica che il paziente stabilisce con il setting. Vi
sono altri livelli che non riguardano strettamente il setting, ma si riferiscono a particolari usi che il paziente può fare
dell’analista in una relazione che comunque è di transfert verso l’analista, in cui l’analista può essere usato come
metallo, legno, cane…. (cfr. pp 298 e segg.). E’ un tema di cui, peraltro, si è occupato a più riprese Zapparoli (1987;
1988).
2
proiettiva gli affida tutta l’angoscia dell’ “essere abbandonato”. Riteniamo che l’intervento
dell’analista, prima che essere un “errore”, rientri piuttosto in una posizione di “disfunzionamento”
dell’analista (Ferro, 2005), in qualche modo utile al processo terapeutico2: “…il paziente si serve
delle carenze dell’analista. Le carenze sono inevitabili…” (Winnicott, 1955, 241). Pensiamo infatti
che l’analista, anche attraverso questo tipo di “errore” stia comunque assolvendo una funzione
analitica. Questa gli viene permessa non dalla esclusiva capacità ad interpretare, ma dalla sua
capacità di usare una visione di “campo” (Baranger e Baranger, 1990; Neri, 2005) attraverso la
quale può permettersi di essere e funzionare per quello che il transfert del paziente in quel momento
impone: “…certamente un potente fattore che spinge il terapeuta, a sua insaputa, in questa direzione
è il transfert del malato” (Searles, 1960, 298)3.
Guglielmo può evolvere nel processo dell’analisi attraverso un’operazione di scissione verso la
situazione analitica: “… è proprio a partire dal momento agora o claustrofobico – cioè da quando la
realtà della separazione interrompe la fantasia fusionale per sostituirla con fantasie diverse – che
iniziano i processi schizo-paranoidei con i relativi vissuti di persecuzione, idealizzazione ecc…”
(Pallier, 1990, 89). La nostra proposta è che la dissociazione setting/analista – e quindi l’abbandono
della seduta - sia messa in atto per difendersi dalla “paura del crollo” (Winnicott, 1963). Nella
seconda seduta, il riconoscimento da parte di Guglielmo di poter “essere abbandonato” recupera poi
la centralità del transfert verso l’analista e ripristina sullo sfondo la funzione del setting4.
I transfert
Consideriamo il transfert un fenomeno affettivo naturale che si verifica automaticamente ogni qual
volta un soggetto incontra un oggetto. Il fenomeno del transfert dice della inevitabilità e della
potenza della “realtà interna” nell’intersecarsi e nel determinare la “realtà esterna”. Nella situazione
analitica esso è “prodotto dalla seduta” (Donnet, 2002, 120) ed è elettivamente l’oggetto
dell’interpretazione la quale, per definizione, può essere tale “..non prima che si sia instaurata nel
paziente una efficace traslazione” (Freud, 1913, 348). Il transfert si compone di elementi sospesi ed
insaturi, alla ricerca di un’altra mente che possa sperimentarli. L’obiettivo della catena associativa è
di rintracciare e riattivare il processo di simbolizzazione sospesa di elementi che il transfert coglie e
ripropone in una nuova scena e in un nuovo setting: “nove anni fa è successo qualcosa di
2
“…sono interessato ad approfondire i momenti di disfunzionamento che ci sono in seduta come via regia per avere
accesso al peso della vita mentale dell'analista nell'incontro analitico” (Ferro, 2003, 2)
3
Searles in questo passo si sta riferendo alle capacità di pazienti molto regrediti di riuscire a farsi trattare
“…ostinatamente in maniera non umana nella relazione col terapeuta” (id.).
4
Ribadiamo l’assunto di Bleger (1966) che il setting non è processuale, ma – custode delle parti psicotiche della
personalità – è potenzialmente disponibile a farsi usare nel processo analitico.
3
emotivamente molto importante, con il risultato che lei non è più stata la stessa. Ma proprio in quel
preciso istante con l’analista la paziente ha avuto paura che fosse successa di nuovo la stessa
cosa...” (Bion, 1987, 71). E’ lo scarto fra la nuova scena e il nuovo setting, rispetto a quella antica
del paziente, che rimette in moto un processo sospeso: transfert è il trasferimento nel qui ed ora,
nella nuova esperienza della situazione analitica di un processo sospeso che procederà fin dove il
nuovo contesto permetterà di evolvere.
Definendo controtransfert il transfert dell’analista nella situazione analitica, si sottolineano i nessi
del transfert dell’analista al transfert del paziente, ipotizzando una sostanziale estraneità del
controtransfert da livelli di vero e proprio transfert dell’analista. Per quanto sappiamo bene che il
processo dell’analisi si compia al massimo grado utilizzando solo il transfert del paziente e che esso
è conoscibile anche attraverso il controtransfert dell’analista, è difficile che un analista possa
pretendere l’assenza totale di propri livelli transferali nel processo analitico. I livelli di transfert
dell’analista (ovvero quella quota del controtransfert che non riguarda il transfert del paziente)
attengono o al campo intersoggettivo, o all’ambito inevitabile degli errori, e “per quanto riguarda le
manchevolezze dell’analista non si può fare altro che tenerne conto” (Bion, 1987, 32). Ci riferiamo
ad una categoria precisa di “errori” i quali, in modo fertile, riguardano l’analista: “la parola ‘errore’
riconosce che ciò che sta accadendo nel presente non è esclusivamente una questione di patologia
individuale, una ‘colpa’ del paziente. Kohut era convinto del fatto che il riconoscimento e
l’elaborazione di questi momenti di errore fossero la parte più importante del processo terapeutico”
(Meares, 2000, 139). Tali particolari “errori” accadono soprattutto con pazienti molto gravi e si
configurano come enacment da parte dell’analista rispetto ad una dissociazione di fondo che il
paziente – a livelli molto regrediti – compie sul campo analitico dissociando nettamente setting e
analista: il paziente struttura una relazione privilegiata con il setting escludendo l’analista,
sostanzialmente collocandolo come oggetto non umano nel setting. In queste configurazioni,
l’errore dell’analista corrisponde al tentativo “agito” di ricomposizione di questa dissociazione,
individuabile, da parte dell’analista attraverso la visione di campo della seduta in atto. Il linguaggio
“agito” è il codice di quella situazione regredita a cui la visione di campo fornisce spessore.
Transfert verso il setting.
La teoria psicoanalitica distingue una serie di elementi che compongono la “situazione analitica”
(Winnicott, 1955; Bleger 1966; Donnet, 2001) e permettono il processo trasformativo dell’analisi.
4
In sostanza la situazione analitica si compone di un paziente, di un analista e di un setting. Il setting5
è dato dall’analista al fine che il paziente lo usi perché, attraverso il transfert, il processo analitico si
collochi laddove si sono verificate delle sospensioni. Implicitamente, quindi, la teoria
psicoanalitica, riconoscendo la situazione analitica come composta da vari elementi, riconosce la
possibilità di altrettanti livelli di transfert. Sul piano delle evidenze cliniche alcuni analisti (Bion,
Winnicott, Donnet) hanno suggerito una prima distinzione fra i livelli dei transfert in gioco nella
situazione analitica e sono state più volte rilevate situazioni cliniche in cui il paziente veniva a
strutturare legami significativi con le differenti componenti della situazione analitica: “La mia
esperienza di consulente e supervisore mi ha reso particolarmente sensibile all’attaccamento che gli
stessi pazienti – anche i più difficili – manifestano verso la situazione analitica nella sua specificità,
nella sua logica funzionale, la sua etica; attaccamento distinto da – e talvolta in conflitto con – ciò
che essi portano all’analista” (Donnet, 2001, 118). Freud considerava il transfert solo come transfert
verso l’analista (1913-14), ed è Winnicott a suggerire la possibilità di prevalenza della funzione del
setting rispetto alla funzione dell’interpretazione: “nel lavoro che qui sto descrivendo
[strutturazione di un falso Sé a protezione del vero Sé] il setting diventa invece più importante
dell’interpretazione: l’accento passa dall’una all’altro” (1955, 239). Winnicott (id., 240) propone la
prevalenza dell’attualizzazione del setting rispetto al processo transferale sull’analista, il quale
accetta il livello di transfert che il paziente organizza con il setting: “… se mi spostavo sulla sedia
mostrava un’angoscia e una collera intensissime […] mi ero oramai fermamente convinto che egli
aveva solo bisogno che io stessi lì e che non lo minacciassi facendogli sentire la mia presenza come
un’entità separata…” (Searles, 1960, 323-324).
Il transfert non introduce solo elementi della scena “traumatica” che è all’origine della sospensione
del processo evolutivo, ma ripristina esattamente il setting che ha dato spazio alla scena traumatica.
Il transfert sul setting, a nostro parere, è importante perché è ciò che decide il registro (le modalità)
a partenza da cui e attraverso il quale si organizzerà l’incontro. La parte che l’analista si troverà a
“rappresentare” nell’incontro e durante il processo col paziente sarà decisa “autonomamente” dal
transfert sul setting, e non dal paziente o dall’analista. Ciò contribuisce a connotare come specifico
il tipo di setting per ciascun processo analitico. Nei contesti istituzionali – soprattutto nelle terapie
di pazienti affetti da patologie gravi – il transfert verso il setting precede e spesso è prevalente
rispetto al transfert verso il terapeuta, chiamandolo ad una funzione di “raccolta di pezzi” che il
5
Semplificando, consideriamo il setting composto dalle regole e dal metodo psicoanalitico oltre che dagli elementi
concreti della scena e del contratto stabiliti tra analista e paziente. Per una più approfondita presentazione di ciò che
intendiamo per “setting” cfr. Boccara, De Sanctis, Riefolo, 2005.
5
paziente dissemina nel “campo istituzionale”(Correale, 1991)6: “ho l’impressione che la bambina
utilizzi la stanza di analisi più che l’analista” (Bion, 1987, 55).
Segnaliamo, infine, un'altra caratteristica specifica. L’analista, quando il paziente stabilisce un
transfert soprattutto verso il setting, può essere pervaso da “risentimenti narcisistici” che nel
controtransfert sollecitano alla segnalazione della propria presenza “umana”. Durante il silenzio di
Guglielmo l’analista si era scoperto a ripensare a una corsa fatta quel pomeriggio e, per 30 secondi,
aveva contato le proprie pulsazioni cardiache!: “non posso però comportarmi come un oggetto quasi
inanimato, e non solo perché questo escluderebbe ogni possibilità di evoluzione, ma perché è
intollerabile per me” (Micati 1993, 156).
Pensiamo che il transfert verso il setting si segnali attraverso la caratteristica ovvia di escludere7
l’analista dal campo analitico8. L’analista avrà mille modi – agiti o meditati – per proporre la
propria presenza e tale proposta avrà immediatamente i toni della persecutorietà perché si tratta del
passaggio da una situazione fusionale ad una più discriminata (Bleger, 1966; Neri et al., 1990). Il
paziente opera una precisa dissociazione (Ferro, Riefolo, 2006) del campo analitico: da un lato il
setting sarà oggetto di funzioni vitali, mentre l’analista sarà oggetto di persecutorietà e sarà il
dispositivo aspecifico della “relazione terapeutica positiva” verso l’analista a permettere tale
dissociazione che, in sostanza, permette che il processo di cura evolva.
Alcune considerazioni conclusive.
A che serve parlare di transfert sul setting? Pensiamo sia utile per rinviare il comportamento della
coppia analitica ad una cornice che è più a monte e più esclusa dalle loro possibilità di controllo. Il
livello del transfert verso il setting si impone senza coinvolgere direttamente la soggettività della
coppia analista/paziente, per il potere dell’ambiente non umano e per la necessità che strutture
psicologiche molto regredite hanno di sostenersi sulla fusionalità/simbiosi con oggetti che ancora
non possono essere tollerati/discriminati. Il transfert verso il setting rimanda la coppia analitica ad
un registro sovrarelazionale che contiene quell’evento. I pazienti più gravi possono usare il registro
immediato e protettivo del transfert sul setting all’interno di un’esperienza di sufficiente
contenimento, rintracciando tale configurazione laddove “l’ambiente ha fallito” (Winnicott) e
6
Il concetto di “transfert istituzionale” è antico (Rider, 1953; Martin, 1989) e concerne, ovviamente “l’investimento
affettivo di un’istituzione al posto di un singolo terapeuta” (Pulido, Monari, Rossi, 2006). Le dinamiche di cui ci stiamo
occupando sono molto evidenti nelle istituzioni, ma in questa sede vogliamo rintracciarle nella stanza di analisi
cogliendole come continuamente attive a vari livelli di prevalenza nel processo analitico.
7
Per il paziente si tratta semplicemente di non tener conto, mentre dal vertice dell’analista si tratta di esclusione.
8
“gli enacment è più facile si realizzino quando anche l’analista trova difficile tollerare le costrizioni del setting e
specialmente se la pressione del paziente coincide con un’area della sua stessa frustrazione…” (Steiner, 2006, 318).
6
operando trasformazioni proprio attraverso il livello di transfert verso il setting: “il setting stesso
contiene un altro livello di transfert e viene nel medesimo tempo trasformato” (Modell, 1990, 53)9.
Pensiamo che il setting sia oggetto di due diversi livelli di transfert che si intersecano
continuamente. Il primo livello di transfert è ciò che determina il tono e il tema delle associazioni,
ovvero si presta a dare scenografia alle urgenze affettive del paziente: l’aspetto e lo stile di
accoglienza dell’analista nel momento dell’incontro; le contingenze connesse all’evento della
seduta, ecc.. Il paziente coglie questi elementi concreti e li usa – a vario livello – come elementi da
cui far nascere associazioni. Si tratta di elementi che Libermann (1972) chiamerebbe di
“metasetting” e che, semplicemente si prestano ad accogliere e far progredire le trasformazioni
affettive che il paziente riporta poi nel transfert verso l’analista. Il secondo livello di transfert verso
il setting è quello di cui ci stiamo particolarmente occupando in questa nota. Esso si compie a
livello regredito della relazione del paziente verso un oggetto arcaico indifferenziato a cui il
paziente è legato in modo fusionale. Dalla rottura di questa fusione deriva una processualità in cui il
setting risalta come oggetto di proiezioni e di scissioni. Dal transfert verso il setting potrà poi
emergere il transfert verso l’analista: “il setting psicoanalitico, quando funziona come
desidereremmo che funzionasse, crea e contiene ciò che ora chiamerò transfert iconico/proiettivo”.
(Modell. 1990, 56). Nel caso di Gugliemo esso permette la verifica di un Sé capace di usare
l’oggetto (Winnicott, 1968) ovvero di attaccarlo separandosene e di ritrovarlo per poterlo riparare.
Nella prima sequenza l’oggetto di Guglielmo è soprattutto il setting e solo nella seconda seduta si
intravede una prevalenza di investimento verso l’analista.
Chiamiamo transfert verso l’analista sia i livelli di relazione diretti fra paziente ed analista, sia la
capacità dell’analista di saper fare uso del transfert verso il setting per cogliere ed entrare in contatto
col paziente. L’analista è il silenzioso gestore del setting. Egli viene chiamato a far parte del setting
e dell’ambiente non umano e la peculiarità della richiesta sta nell’accettare la posizione
indifferenziata di fondo e sospendere – fino a nuove sollecitazioni del campo analitico – la propria
funzione discriminata di analista10.
Parliamo di “transfert verso il setting” perché riteniamo che, in questi casi, il setting non sia
semplicemente presente e cristallizzato, ma che, in parte si presti ad una processualità che permette
la trasformazione evolutiva del campo analitico verso la pensabilità la quale rappresenta “…la meta
del processo analitico intesa come la capacità di separarsi da un sistema concreto di relazione inteso
come indispensabile” (Tagliacozzo, 1990, 85). Il transfert verso il setting è il dispositivo che spesso
9
Modell (1990, 53 e segg.) differenzia il transfert “dipendente/in funzione del contenimento” che deriva dal setting,
dalla nevrosi di transfert definita come “transfert iconico/proiettivo”.
10
“la buona fusionalità (base di continuità) è quella che consente e contiene la discontinuità di essere anche se stessi
rispetto all’altro…” (Tagliacozzo, 1990, 87).
7
permette alla persecutorietà di non essere distruttiva e a pazienti regrediti (o in particolari fasi
dell’analisi, per pazienti meno regrediti) di poter tollerare il processo trasformativo della terapia.
Riassunto
Il tema del transfert concerne per definizione il campo di incontro fra analista e paziente e il setting
è elemento centrale del processo analitico che permette l’instaurarsi del transfert. Da tempo si
riconosce che a livelli molto regrediti della relazione, la situazione analitica e il setting possono
prevalere alla relazione e al transfert verso l’analista. In queste note si tenta di delineare alcune
caratteristiche di una particolare forma di transfert che il paziente può orientare verso il setting. In
questo caso l’analista è chiamato – sebbene transitoriamente - ad una posizione in cui non è
differenziabile dal setting ed eventuali interventi che segnalino la propria presenza discriminata dal
setting producono insostenibile persecutorietà nel paziente. In tale situazione l’analista può essere
colto da risentimenti narcisistici che lo spingono a particolari enacment finalizzati a segnalare la
propria presenza umana. Il transfert verso il setting permette, in casi, o fasi, di particolare gravità,
che il paziente possa mantenere l’investimento verso il processo terapeutico evacuando la
persecutorietà verso la figura dell’analista proprio quando questa prova a segnalarsi nel campo
analitico.
8
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