Intervista di Vito Campanelli
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Intervista di Vito Campanelli
Internet Landscape by Vito Campanelli Boiler mag 2003 Date: Sunday, September 14 2003 @ 20:37:51 CEST Topic: topics Boiler ha incontrato Marco Cadioli in un’ aula dell’Accademia di Comunicazione di Milano, una di quelle stesse aule dove Cadioli forma aspiranti Web designer e pubblicitari. La passione per l’insegnamento convive in perfetta simbiosi mutualistica con l’istinto creativo che si manifesta sin dalle iniziali sperimentazioni con l’animazione 3D. Nella sua attività di artista utilizza differenti mezzi espressivi: pittura, fotografia, immagini digitali ed installazioni interattive. Recentemente ha dato vita al progetto “Internet Landscape” con il quale propone fotografie di personaggi, oggetti ed ambienti della Rete. B_Viviamo in un mondo costituito da interfacce. Tu sostieni che: l’ ”interfaccia è linguaggio. Ha una grammatica e una sintassi. Ha un insieme di segni, definisce un insieme di regole. E qui sta il punto. Un insieme di regole per ora arbitrario. Una grammatica che si sta strutturando, ma mai sarà una lingua”. Cosa manca ancora all’interfaccia per diventare lingua? M.C._ L’interazione sta definendo un suo linguaggio all’interno del processo di definizione globale del linguaggio dei new media. Si tratta di qualcosa simile al linguaggio del cinema: chiunque sa riconoscere un flash back o un controcampo, se così non fosse non capirebbe nulla del film che sta guardando. L’interfaccia dunque non può più essere solo strumento neutro di interazione tra uomo e macchina ma diviene elemento di comunicazione. Molti dei samples di sperimentazione dei web designer, quelli che si trovano nelle raccolte classiche tipo www.levitated.net, sono la grammatica di base di questo linguaggio. Li troviamo ricombinati in sequenze più strutturate al servizio della comunicazione anche in siti destinati ad un pubblico più ampio. E’ ancora in corso questa fase di ricerca per cui modalità di interazione sperimentali, forme d’arte autonome, divengono elementi di interfaccia accettati e usati da tutti. Gli scorrimenti di un piano infinito, ad esempio, usati per la prima volta dal gruppo Anti-rom alla fine degli anni 90 ed esposti allora nelle gallerie d’arte, sono oggi alla base di molti sliding menu. L’aggiunta di una dinamica agli elementi dell’interfaccia, seguendo le regole dell’animazione tradizionale o la simulazione di leggi fisiche, li rende espressivi. Morbidi o rigidi, fluidi o scattanti, formali e freddi o imprevedibili e divertenti. Gli oggetti stabiliscono nuove relazioni con il mouse al di là del classico paradigma del point and click. Ti seguono, si allontanano, si comportano in modo autonomo, e ne nasce un linguaggio dell’interazione che viene letto dall’utente prima ancora di entrare nei contenuti, come accade per la comunicazione non verbale tra esseri umani. In effetti prima di capire i contenuti di un sito che visitiamo per la prima volta siamo soliti “farci un giro”, aprire menu, osservarne le dinamiche, ecc…. B_ Matthew Fuller, figura di spicco della scena internazionale della net media art, sostiene che i designers hanno generalmente un’immagine idealizzata degli utenti. Creando software per questi utenti idealizzati, essi impongono quell’immagine sugli utenti reali e cioè su di una massa caotica di utenti non-aggregati. Secondo te la ricerca di standard e gli sforzi verso l’omologazione delle interfacce non rischiano di produrre “forme castranti” ? Vedo, e temo, il rischio implicito in forme in grado di imbrigliare la creatività che si libera in ognuno di noi se si interagisce con interfacce sempre differenti. M.C._ Il dibattito tra standardizzazione e creatività nelle interfacce sembra non finire mai. Sono d’accordo con te nel temere un’omologazione delle modalità di interazione che renda tutto indistinto. Che gusto ci sarebbe a navigare siti che si assomigliano tutti, che funzionano tutti nello stesso, prevedibile, modo anche se le modalità di navigazione sono estremamente efficienti? Paradossalmente assistiamo oggi ad una sorta di nemesi. Proprio i soggetti aziendali che tanto hanno spinto verso l’adozione di standard di usabilità in funzione di una presunta maggiore facilità di vendere i propri prodotti on line, ora si trovano di fronte all’esigenza di caratterizzare il proprio sito per distinguerlo dai concorrenti. Le esigenze di branding hanno trasformato l’interfaccia in uno dei principali elementi dell’immagine coordinata, sul quale intervenire per creare il look and feel desiderato. E’ necessario avere elementi che rendano comprensibile ed usabile un oggetto, funzionale, ma non per ciò anonimo e standardizzato. Penso alle interfacce in modo più ampio, non solo alle interfacce software per tools applicativi, omologate, come nota Fuller, dalle grandi corporation e mimate dai produttori indipendenti di software, ma a “cultural interfaces” per usare l’espressione di Lev Manovich, in grado di raccogliere e declinare le esperienze di altri linguaggi, del cinema ad esempio, ma anche del videogioco, del film d’animazione e della musica. B_ Lev Manovich ha scritto che la selezione (insieme con la composizione) è “l’operazione chiave della creatività postmoderna a base informatica”. Ormai tutti selezioniamo da un database. Queste operazioni, divenute estremamente facili, vengono ripetute in un continuum che incide sul nostro modo di pensare e creare. In quale direzione il continuum (cui fa riferimento Manovic) modificherà il nostro approccio alla creatività? M.C._ Secondo Lev Manovich il data base è la forma chiave dell’espressione culturale della nostra era, come lo è stata precedentemente la narrativa con il romanzo ed il cinema. La logica del database caratterizza molte forme espressive e creative, rompe la linearità dell’esposizione e propone piuttosto percorsi possibili. Già Pierre Lévy aveva annunciato: “Il nuovo artista non narra più una storia, è architetto dello spazio degli eventi, ingegnere di mondi per miliardi di storie future.” I mondi stessi nei quali ci muoviamo quando siamo in Rete, sono rappresentazioni grafiche di data base e, sotto questo aspetto, è facile rendersi conto di come sia in atto lo sviluppo di un’estetica specifica per questi spazi di dati. E’ possibile inoltre tracciare una linea evolutiva tra vecchi e nuovi media, perché l’esigenza di descrivere mondi immaginari è stata già affrontata da altri media. I progettisti di questi spazi navigabili possono far riferimento alla pittura che già si è misurata con la costruzione di mondi immaginari astratti o figurativi all’interno di una determinata finestra; oppure possono confrontarsi con le esperienze di quegli artisti che si sono cimentati con installazioni in grado di suscitare nell’utente la sensazione di essere immerso in un ambiente; oppure ancora con il cinema. L’operazione della selezione è alla base delle modalità di fruizione di tutti i contenuti digitali, ma può assumere infinite forme allontanandosi molto dall’esplicita scelta a menu. Nella realtà la creatività di quanti creano questi mondi, costruiti su data base, fa sì che l’operazione di selezione divenga sempre più trasparente, quasi invisibile per l’utente, al punto che può accadere che l’utente non si renda più conto di interagire con un data base. Inoltre, guardando la cosa da un punto di vista strettamente creativo, l’opportunità di poter ripartire dalla combinazione di materiali e forme preesistenti insieme con la possibilità pressoché infinita di ricombinare le scelte operate, non credo possa limitare la creatività ma, in alcuni casi, potrebbe anche ampliarla in quanto permette di utilizzare oggetti sempre più complessi. B_ Nella presentazione del tuo recente progetto “Internet Landscape” scrivi: “viaggio come un giapponese per l’Europa. Salto da un posto all’altro. Viaggio nella rete come un reporter, per raccontare un luogo per immagini”; e chiudi citando Susan Sontag: “…le fotografie dimostreranno in modo indiscutibile che il viaggio è stato fatto…”. Da che cosa nasce l’esigenza di fermare e fissare in un’immagine la realtà in continuo movimento della Rete? E’ un tema di grande interesse. La Rete come perpetuo movimento e l’esigenza di fissarla in qualche modo … M.C._ Nella prima parte della domanda fai riferimento al viaggio. Partiamo da lì perché ci sono molte figure di viaggiatori che mi affascinano. Cito ancora Manovich, che mi pare sia un nostro terreno comune condiviso: “If we accept this spatial metaphor, both the nineteenth-century European flaneur and the American explorer find their reincarnation in the figure of the net surfer.” Viaggio di volta in volta in uno di questi modi (come flaneur o come explorer): come un esploratore quando vado a cercare cose nuove nei territori di sperimentazione della Rete e mi stupisco delle scoperte; come un flaneur quando navigo “allo stesso modo di una persona che esce di casa per andare in giro, nel mezzo del pomeriggio, con il sole sopra la testa: perso e fuso” come ti ha detto Manetas. (leggi intervista a Manetas su Boiler) Ho iniziato a pensare di scattare delle foto perché incontravo posti che mi colpivano. Puoi costruire reportage strutturati per raccontare un luogo, e nel far questo lo guardi da diversi punti di vista, cerchi i dettagli e gli elementi caratterizzanti, sei costretto ad osservarlo con attenzione, capirlo. E poi vuoi raccontare ad altri di quel posto perché ne hai compreso la bellezza e cerchi di riportare le emozioni che hai provato. La necessità di scattare un’immagine nasce quindi dalla voglia di fermare la memoria personale di un’esperienza vissuta, ma diventa anche documentazione. Indico la data e il momento dello scatto su ogni foto e inserisco queste immagini nel fluire del tempo. Possono invecchiare, ma rimangono, testimonianza di ciò che è stato mentre i siti spesso scompaiono e non troviamo nemmeno le macerie. Questa continua trasformazione, il fatto che nulla sia mai finito e definitivo, è propria del digitale: “The business of the computer is always unfinished. In fact, ‘unfinish’ defines the aesthetic of digital media” afferma Peter Lunenfeld in The Digital Dialectic. Il mio progetto si muove in direzione contraria, fissa un attimo irripetibile nel fluire liquido del cyberspazio e lo ricolloca nel mondo fisico con la fisicità di una fotografia, immutabile. Mi chiedo cosa diranno queste immagini tra vent’anni. B_ Nel tuo viaggio quali sono stati i luoghi (le forme) che ti hanno maggiormente colpito? M.C._ Mi affascinano i luoghi della Rete dove le esperienze di design, arte e programmazione si fondono e sperimentano nuove forme di interazione e di costruzione dello spazio. Pensa a Visual Thesaurus (http://www.visualthesaurus.com/online/index.html), che costruisce oggetti tridimensionali manipolabili a partire dalle relazioni di senso tra le parole del linguaggio umano; allo spazio raffinato e monocromo di Soulbath (http://www.soulbath.com); all’esperienza di aprire i videomessaggi lasciati da sconosciuti nelle stanze di Dreamdomain (http://www.randommedia.co.uk). Bagno dell’anima, dominio del sogno, anche i nomi sono evocativi. Fa freddo in Dream Domain, c’è un’atmosfera particolare, ci si perde e il suono non è affatto tranquillizzante. Al contrario i filmati flash di az2lab (http://www.az2lab.com) sono rilassanti loop di immagini e musica che devi solo guardare. Mi colpiscono i siti che abbandonano la metafora della pagina e ti permettono di vivere una tua esperienza. Le opere che trovi esposte nel progetto di Miltos Manetas (http://www.whitneybiennial.com) escono dal muro e ti invadono lo schermo coinvolgendoti in performance interattive. Ci sono molti altri luoghi che mi affascinano in Rete, e sto proseguendo con altri reportage che inserirò in Internet Landscape. E’ un viaggio che continua. B_ E’ possibile individuare le linee di tendenza che caratterizzeranno, nei prossimi anni, l’evoluzione del Web design M.C._ E’ difficile. Sul web c’è una comunità di sviluppatori che si muove in sincronia, seppur disaggregata, perché quando qualcosa va on line è immediatamente visibile a tutti e tutti possono ispirarsi alle tendenze del momento. Ci sono le comunità di designer che nei loro siti ti possono dare l’indicazione di ciò che sta accadendo, ma molto a breve termine, perché il salto da sperimentazione ad applicazione reale è rapido. Penso che ci sarà una forte specificità nel web design, dettata dalla definizione degli utilizzi diversi che già si fanno della Rete. Inoltre mi piace pensare che in prospettiva futura, ci sarà sempre meno bisogno di ricorrere a metafore per costruire interfacce, perché i nuovi oggetti mediali saranno accettati come tali, autonomi, senza farli assomigliare a qualcos’altro e questo ci porterà ad interagire con entità veramente nuove, imprevedibili oggi perché nasceranno dalla fantasia e dal software, svincolati da referenti reali. B_ Secondo te, che cosa contribuisce maggiormente allo sviluppo dell’estetica dei nuovi media: le infinite possibilità di montaggio individuale o la casualità propria delle modalità random? M.C._ Penso che la possibilità di creare montaggi individuali dei materiali contenuti in un data base sia più feconda come idea, e già sta definendo nuovi generi. Pensa alla possibilità di rimontare ogni tipo di segnale, giocando con campioni audio, video, immagini, testi. La modalità random tende invece ad essere ripetitiva nella sua apparente casualità perché è comunque controllata da un algoritmo definito. B_ Il tema delle sinestesie era importante già dalla metà dell’Ottocento. Basti pensare a Baudelaire, Rilke o Egon Schiele. Dalle “corrispondenze di Baudelaire” ad alcune liriche di Rilke, i sensi sono visti come le cinque dita di una mano, separate e sempre connesse … Rilke, per esempio, parla di “suoni (che) raggiano” e della musica come “paesaggio udibile”. Anche un pittore come Schiele, ai primi del Novecento, afferma di “sentire l’odore del sole” mentre “tutti i profumi (gli) danzavano intorno”. Questi pochi esempi sono sufficienti per ritenere fondata la tesi che la ricerca sulla sinestesia non nasce da un’esigenza propria dell’epoca del multimedia, ma affonda piuttosto le proprie radici nel tempo. Quale è dunque, secondo te, l’esigenza che è alla base di tale ricerca? E’ una ricerca che ripropone, oggi, un’antica esigenza, o prevale piuttosto, nel nostro tempo, la specificità di esigenze nuove ? Esigenze che sembrano – possono solo sembrare – simili a quelle che sono state avvertite e proposte tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento … M.C._ Si tratta di un’esigenza che l’uomo ha sempre avvertito e ha cercato di esprimerla anche in epoche precedenti rispetto a quelle da te citate. La presenza di più elementi sensoriali correlati tra loro arricchisce l’esperienza, così si cerca di dare suono alle forme e colore ai suoni, si cerca di catturare la gestualità del fruitore e trasformarla in segno, in suono, in traccia, in spazi 2D o 3D. Ci sono molte ricerche in questa direzione in Rete. L’artista Golan Levin lavora molto su questi temi, e dichiara di essersi ispirato in partenza al linguaggio visivo del cinema astratto degli anni trenta. Ci sono esperienze di creazione di ambienti sonori, di arte generativa di suoni e forme combinate. Penso che il computer possa rendere concrete una serie di intuizioni che erano già presenti nell’arte. Il lettering in movimento ad esempio, permette di enfatizzare il rapporto tra parola e forma, che già era presente nella grafica, con l’aggiunta di elementi di interazione. Riguardando i calligrammi di Apollinaire del 1918 si rimane stupefatti dalla loro somiglianza a certe forme di poesia visiva ed utilizzo del testo presenti oggi nel Web. Il calligramma della pioggia o quello della fontana sembrano un fotogramma fermato da una sequenza di testo animato. In particolare si sviluppano forme di interazione tra parte visiva e audio, mentre gli altri sensi restano esclusi, ad eccezione forse del tatto perché si riesce a trasmettere all’utente, tramite l’interazione di sensazioni come il peso e la solidità, la percezione di morbido o rigido che sono sensazioni tattili. Alla base di tali ricerche credo ci sia la volontà di coinvolgere l’utente in esperienze emotive oltre che di pura fruizione, e questo sta diventando un obiettivo molto definito nel web design più avanzato. B_ I cortocircuiti sensoriali cui siamo esposti di fronte a fenomeni d’interazione sinestetica sono in grado di allargare le capacità percettive dell’uomo medio? Oppure è necessaria una specifica educazione, o quantomeno un allenamento all’interazione sensoriale? Una specifica educazione che non sia quella proposta da Aldous Huxley nel suo libro Le porte della percezione … o perché no, proprio quella. M.C._ Io credo che l’uomo medio non sia in grado di accettare i cortocircuiti sensoriali, in quanto, purtroppo, è intorpidito nella sua capacità di utilizzare i sensi. Si è modellato sul tipo di uomo ideale disegnato dall’insieme della comunicazione che ha assorbito nel corso della propria vita e dunque si spaventa rispetto all’apertura delle porte della percezione. Per vivere con piacere e per calarsi profondamente in una qualsiasi esperienza sensoriale coinvolgente, non solo quelle sinestetiche dunque, è necessario avere una predisposizione che permetta all’individuo di entrare fortemente a contatto con i propri stati emotivi, senza alcun timore o paura. Per destarci dall’intorpidimento dal quale siamo sopraffatti e per riconquistare la confidenza con i propri sensi, con i propri stati emotivi più profondi, è necessario un percorso, qualunque esso sia …